Giannotti, Donato

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Giannotti, Donato

Sergio Marconi

Primogenito di Lionardo, orafo, e di Alamanna Gherardini, nacque a Firenze il 27 novembre 1492.

Ebbe come primo maestro Marcello Virgilio Adriani e quindi il filosofo Francesco Cattani da Diacceto, discepolo di Marsilio Ficino e figura di spicco nell’ambiente culturale cittadino. L’apporto specifico di Cattani al platonismo rinascimentale mirò ad armonizzare Aristotele con Platone (e i neoplatonici), e proprio l’aristotelismo esercitò un’influenza durevole su Giannotti. Alla scuola di Cattani egli rimase in contatto con i giovani aristocratici già conosciuti presso Adriani: Alessandro Pazzi, Filippo e Lorenzo Strozzi, Pietro Vettori (suo corrispondente per più di quarant’anni), Luigi Alamanni e Antonio Brucioli. Momento decisivo nella sua formazione fu la partecipazione al secondo periodo (1512-22) dei celebri incontri negli Orti Oricellari, dominato dalla figura di Machiavelli. La presenza di G. a questi raduni dell’élite culturale della Firenze postrepubblicana (vi si trovavano poeti, storici e politici, quali Zanobi Buondelmonti, Pietro Martelli, Giovanni Corsi, Palla, Giovanni e Cosimo Rucellai, Antonfrancesco degli Albizzi, Iacopo Nardi, Filippo Nerli) non è comprovata da documenti, ma si può inferire dal fatto che i partecipanti fossero i suoi stessi compagni di studi. Per le medesime ragioni si può ipotizzare che egli facesse parte, nello stesso periodo, della Sacra Accademia Medicea, attiva tra il 1515 e il 1519, alla quale appartennero sia Cattani sia numerosi tra i personaggi ora indicati.

Il primo frutto di tale formazione fu un epigramma latino in onore di Lorenzo de’ Medici, pubblicato nel Lauretum (→) (1516); di qualche anno più tardi (1520) è invece la commedia in terzine Milesia, i cui modelli sono l’Eunuchus di Terenzio e i Menaechmi di Plauto. Queste prime prove letterarie si intrecciano con forti interessi politici. Il primo orientamento politico di G. fu influenzato da un lato dal contatto e dall’iniziale consonanza con gli ottimati moderati, dall’altro dalla personalità di M., con il quale egli fu in dimestichezza nel 1520-21, mentre attendeva alle Istorie fiorentine, il cui manoscritto fu nelle mani di Giannotti. Intanto questi continuava a usufruire di importanti appoggi e del favore mediceo: la sua prima epistola latina conosciuta (la XXXII in Starn 1968, pp. 156-57 ), scritta a nome di un amico nel novembre-dicembre 1523 e diretta al neoeletto papa Clemente VII, unisce la competenza retorica di un abile segretario con i toni di un’accorta adulazione.

Grazie a tali amicizie e ai meriti di letterato, G. fu nominato (13 giugno 1521) insegnante di retorica, poetica e lettere greche all’Università di Pisa. Ricoprì tale incarico, con un salario annuo di 90 fiorini, almeno fino al 1525, quando ottenne un congedo temporaneo dall’insegnamento e raggiunse a Padova il genero di Niccolò Capponi, Giovanni Borgherini.

Durante questo primo soggiorno veneto, che durò dal giugno 1525 al novembre 1526, G. raccolse informazioni precise sul funzionamento dello Stato veneziano. Il mito del governo veneziano (come esemplare costituzione mista: monarchia-oligarchia-democrazia) si era formato in ambiente umanistico già nel 15° sec.: tuttavia, indipendentemente dal modello ideale, di Venezia si apprezzavano la libertà e la stabilità interna. Gli ottimati moderati antimedicei avrebbero voluto adattare a Firenze un simile modello, e G. in quel momento era assai vicino a tale prospettiva politica, come provano anche le sue frequentazioni.

Dal soggiorno a Padova e a Venezia nacque la prima stesura del Libro della Republica de’ Vinitiani. Ritornato in patria all’inizio del novembre 1526, G. sollecitò l’ambasciatore filomediceo Alessandro Pazzi a condurlo nuovamente con sé a Venezia, e così, nel febbraio 1527, ripartì alla volta della Serenissima. Durante la legazione le sue mansioni dovettero essere quelle di cancelliere dell’ambasciatore e ciò spiegherebbe la sua perfetta conoscenza dei carteggi segreti. Acquisì ulteriori informazioni sul governo veneziano e ciò portò a una revisione della prima stesura dell’opera sulla costituzione, che assunse in tal modo la sua forma pressoché definitiva. Questa rielaborazione si concluse nell’estate del 1527; dopo il 1530 furono apportate altre correzioni, ma non di rilievo: l’opera – l’unica pubblicata vivente G. – vide però la luce solo nel 1540 a Roma (per i tipi di Antonio Blado), con dedica a Francesco Nasi, uno dei capi della rivolta antimedicea. La Republica de’ Vinitiani si presenta nella forma tradizionale del dialogo umanistico: l’opera non va letta solo come risposta a determinati problemi pratici, ma costituisce il primo frutto maturo della riflessione politico-istituzionale di Giannotti. In essa, con un significativo rovesciamento del punto di vista machiavelliano, è sanzionata la superiorità di Venezia su Roma.

Il 16 maggio 1527 scoppiò la rivolta a Firenze: i Medici furono cacciati per la seconda volta e Niccolò Capponi venne eletto gonfaloniere. Questi scrisse a G. perché gli inviasse un «resunto» della costituzione veneziana, cosa che probabilmente G. fece, ma la richiesta lo indusse a partire subito e a metà luglio arrivò a Firenze. Qui, il 23 settembre, divenne segretario dei Dieci, occupando, per interessamento di Capponi e della sua cerchia, quel posto che era stato di M. (e che M., poco prima di morire, aveva inutilmente sperato di riottenere). Poco dopo il suo rientro a Firenze, G. aveva anche cominciato a comporre il Discorso sopra il formare il governo di Firenze, che fu presentato a Capponi e completato alla fine del 1528. Prima del 6 novembre 1528 lesse alla Signoria anche il Discorso di armare la città di Firenze.

Nel primo dei due scritti l’individuazione dei massimi poteri (Consiglio grande, senato, gonfaloniere a vita, Dodici procuratori) è vicina alle tesi di Francesco Guicciardini del Dialogo del reggimento di Firenze e in linea con gli orientamenti della discussione politico-teorica fiorentina dal 1494 in avanti. L’idea della ‘quarantia’, inoltre, rimanda direttamente al modello veneziano. Il discorso di materia militare è un caldo appello a formare una milizia cittadina per rafforzare la difesa della città contro l’armata imperiale. Malgrado le diffidenze dei moderati, la proposta di G. passò e furono riprese anche molte sue indicazioni specifiche. I due discorsi, uniti alla Republica de’ Vinitiani, formano nell’insieme un programma politico unitario, il cui apparato concettuale e modello costituzionale viene illustrato nell’opera maggiore.

Nelle vicende drammatiche dell’ultima Repubblica fiorentina G. seppe tenere una condotta retta, anche dopo che, il 17 aprile 1529, fu allontanato dal potere il moderato Capponi (G. disapprovò la sua esautorazione e seguitò a rimanergli legato). Rimase segretario dei Dieci, pur non condividendo la politica radicale dei gonfalonieri successivi (Francesco Carducci e Raffaello Girolami), e si adoperò con estrema energia nella difesa di Firenze contro gli assedianti. Mise Francesco Ferrucci a capo del corpo di spedizione che quasi riuscì a spezzare l’assedio e lavorò a stretto contatto con uno dei più abili capitani, Stefano Colonna. Sempre in questa occasione strinse amicizia con Michelangelo, che faceva parte dei Nove della milizia. Dopo la capitolazione di Firenze, nell’agosto 1530, i Dieci furono allontanati e sostituiti con gli Otto di pratica. Anche G. fu estromesso e non ebbe alcun posto nella nuova cancelleria. Alla fine del settembre 1530 presentò a Iacopo Salviati, molto influente alla corte pontificia, una lettera di raccomandazione di Girolamo Benivieni, ma fu tutto inutile e il 17 ottobre fu imprigionato durante l’epurazione condotta con la segreta approvazione di papa Clemente VII. Non se la cavò senza tortura e, secondo la testimonianza di Benedetto Varchi, a stento ebbe salva la vita. Il 17 dicembre fu condannato a tre anni di esilio, da scontare entro un raggio di 20 miglia da Firenze dietro cauzione di 500 fiorini, che fu pagata per lui da Niccolò Ardinghelli. Il 31 dicembre fu rilasciato e subito annunciò al cugino Gherardo Gherardini che si sarebbe diretto verso Prato in osservanza della sentenza. Tra «speranza e paura» arrivò alla sua villa di Le Poggiora vicino a Comeano, proprietà che aveva in comune con il fratello Giannotto, orafo come il padre. Lì, raggiunto dalla madre e dalla sorella, cominciò a condurre una vita precaria (anche per l’esiguità del suo patrimonio), consolandosi con gli studi.

Le epistole I-XV (in Starn 1968, pp. 1-106), scritte tra gennaio e maggio 1531, descrivono ansie e aspettative dei primi tempi dell’esilio ad amici e protettori, sia a Roma sia a Firenze. Tra i primi vi erano i cardinali Benedetto Accolti e Andrea Della Valle, Antonio Suriano (ambasciatore veneziano a Roma), Giovanni di Alessandro Pazzi (governatore papale), Braccio Martelli (vescovo di Fiesole). Tra i secondi vanno ricordati: Gherardini (che lo teneva informato delle intenzioni del nuovo regime), Borgherini e Ardinghelli. Quest’ultimo sondava gli umori di alcuni aristocratici (Alessandro e Matteo Strozzi) che, già favorevoli a Capponi, si erano poi estraniati dalla Repubblica durante la sua fase più ‘radicale’ e si erano quindi riavvicinati ai Medici. Attese deluse furono pure quelle riposte nel papa, a cui scrisse tre volte.

Intanto, fra il gennaio e il marzo 1531, G. compose i primi due atti della commedia Il vecchio amoroso, con l’intenzione di dedicarla ad Alessandro de’ Medici. Scritta in prosa, e finita solo nel 1536, fu invece dedicata a Lorenzo Strozzi.

Gli interessi letterari di G. si esplicarono, in questo periodo, negli studi dedicati alle Categorie e alla Topica di Aristotele, nella traduzione del Quadripartitum di Tolomeo (la passione per l’astrologia lo portò a interessarsi in seguito anche all’Almagesto) e dei Memorabilia di Senofonte, nei progetti di tragedie su Bruto e sulla Passione di Cristo e negli studi danteschi. Ma egli non dimenticava i suoi interessi teorico-politici. Il 14 novembre 1531 completò la prima stesura del grande trattato in quattro libri Della Repubblica Fiorentina, pensando di dedicarlo a papa Clemente VII (il lavoro ebbe in realtà tre stesure e, compiuto nel 1538, fu dedicato al cardinale Niccolò Ridolfi).

L’opera comincia con lo stabilire, sulla scorta di Aristotele, i fondamenti teorici del governo ‘misto’. Le città più adatte ad applicare tale tipo di costituzione sono quelle «nelle quali sono pochi grandi, pochi poveri, assai mediocri» e Firenze è tra queste. Vi sarebbero dunque tutte le condizioni per un buon governo, a patto di correggere i difetti delle magistrature repubblicane precedenti, oscillanti tra «tirannia» e inefficienza. Solamente il Consiglio grande e il gonfalonierato a vita si erano mostrati, secondo G., all’altezza della situazione, e andavano quindi conservati anche nella costituzione della nuova repubblica da lui auspicata. Il lungo lavorio di correzione (gran parte del primo libro e il capitolo finale del quarto sono aggiunte posteriori) testimonia, da un lato, una sempre maggiore presa di distanza dagli ottimati e, dall’altro, la coscienza più o meno oscuramente avvertita dell’esaurirsi della mediazione politica dinanzi all’acutizzarsi dei conflitti sociali. È interessante notare che egli prevedesse una estensione del Consiglio grande oltre la limitazione tradizionale ai soli cittadini «beneficiati» (a cui apparteneva lui stesso). Tuttavia, l’evoluzione irreversibile di Firenze verso il principato, il cristallizzarsi della situazione economica (dipendenza dei gruppi aristocratici da rendite parassitarie) e il quadro internazionale (preponderanza assoluta in Italia di Francia e Spagna) rendono utopici molti aspetti del trattato.

Nel 1533 G., insieme ad altri esuli, si vide inasprire il confino e si ridusse a Bibbiena. Al 30 giugno 1533 risale l’epistola a Marc’Antonio Micheli, in cui G. invia al corrispondente una pianta ragionata della villa medicea di Poggio a Caiano, esprime il proprio apprezzamento per lo scritto geografico dedicato da Micheli al contado di Bergamo e avanza ipotesi intorno al proprio futuro di confinato, proponendosi di «pigli[are] uno ordine di studio non tumultuario» e perfezionare il trattato sulla Repubblica veneta. In tale contesto, nell’epilogo della lunga missiva, G. si sofferma sulle Istorie fiorentine di Machiavelli. Evidentemente Micheli doveva aver sospettato che l’opera machiavelliana potesse aver subito qualche censura editoriale: G. assicura al corrispondente che lo stampatore operò «fidelmente», avendo proprio G. letto l’autografo commentandolo con l’autore. M. avrebbe confessato a G.:

Circa alla sincerità, io non posso scrivere questa istoria da che Cosimo prese lo Stato per insino alla morte di Lorenzo come io la scriverei se io fossi libero da tutti i rispetti; le azioni saranno vere, et non pretermetterò cosa alcuna, solamente lascerò indrieto il discorrere le cause universali delle cose.

Assai significativa la scelta di riferire le «parole formali» di M., ribadendo che «queste parole me le disse egli più volte». G. conclude accennando a ricerche machiavelliane intese a proseguire le Istorie oltre il 1492, quasi sottintendendo il proposito di misurarsi egli stesso in un tal seguito.

Solo tre anni dopo poté ritornare a Comeano, grazie all’interessamento dei cardinali Della Valle, Federico Cesi e Ridolfi. Nel 1535 i fuorusciti fiorentini e i cardinali di parte antimedicea Ridolfi e Salviati si appellarono a Carlo V a Napoli per allontanare dal governo di Firenze il duca Alessandro, reo di vessazioni e condotta scandalosa. Il proposito non andò a effetto, ma nel marzo 1536 fu concessa un’amnistia per i condannati al confino. Tra i frutti del periodo di esilio bisogna ancora annoverare il Discorso delle cose d’Italia al santissimo padre e nostro signore papa Paolo III, del 1535.

Fra il novembre 1536 (partenza per Roma) e il gennaio 1537 G. rinsaldò l’amicizia con il cardinale Ridolfi e il fratello di questi, Lorenzo. Dopo l’uccisione del duca Alessandro (7 genn. 1537), G. seguì a Firenze l’amico cardinale per contestare l’elezione di Cosimo de’ Medici e favorire il ritorno della Repubblica. Tale iniziativa non ebbe esito, anche per i dissensi tra gli esuli, e G. passò a Bologna (marzo 1537), ormai unitosi apertamente ai fuorusciti. Agli anni del fuoruscitismo militante, e comunque prima del 1540, sembra doversi datare il Discorso intorno alla forma della Repubblica di Firenze.

Il 31 maggio 1537 G. compì una missione ufficiale presso Cosimo per trovare un compromesso, ma anche questo tentativo fallì. Dopo la sconfitta della spedizione degli antimedicei a Montemurlo (1° ag. 1537) espresse la sua delusione nelle lettere a Varchi e si ritirò in Italia settentrionale, passando da un centro di fuorusciti all’altro. In seguito, e per tutto il resto della sua vita, rimase coerente con le proprie idee repubblicane e non si piegò mai al principato mediceo, come fecero Varchi e, soprattutto, Alamanni. Nel 1538 accettò l’invito di Salviati a Venezia e vi rimase fino a metà del 1539. Infine, rifiutato il posto di precettore alla corte di Ferrara procuratogli da Pietro Bembo, nell’autunno del 1539 passò a Roma al servizio del cardinal Ridolfi, nel quale ormai riponeva le sue speranze sia per il proprio avvenire sia per quello repubblicano di Firenze.

Impegnato nel lavoro di segreteria, negli oltre dieci anni che fu al servizio di Ridolfi, G. risiedette in generale a Roma, ma lo seguì spesso in diversi viaggi. Consigliere politico del cardinale, che cercava di mettere Cosimo «in sospetto dell’imperatore», G. poteva contemporaneamente giovarsi della sua ricchissima biblioteca e frequentare letterati e studiosi (Giovanni Maria Molza e Giovanni Della Casa tra gli altri, mentre i rapporti con Paolo Giovio erano freddi); anche la sua attività prevalente diventò quella letteraria.

Nel 1541 compose un’opera di erudizione storica, l’Epitome historiae ecclesiasticae, che dedicò a Ridolfi; seguitò a lavorarci fino al 1547 e la completò nel 1549, ma continuò a rimaneggiarla in seguito. A Roma nel 1542 aveva rinnovato l’amicizia con Michelangelo, che gli sottopose i suoi versi per una revisione. Nel 1546 scrisse i Dialogi de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, nei quali, appunto, Michelangelo compare tra i personaggi.

Dopo la morte di Ridolfi, nel 1550, entrò al servizio del cardinale François de Tournon e vi rimase fino al 1562. Tournon, che rappresentava gli interessi della Francia presso la curia romana, fomentò la ribellione di Siena alla Spagna nel 1552. La guerra di Siena durò due anni concludendosi con la sconfitta dei senesi e dei loro sostenitori francesi. Per l’occasione G. scrisse il Discorso sopra il riordinare la Repubblica di Siena (1552), delineando un governo libero di tipo ‘misto’. Al seguito di Tournon si recò due volte in Francia, successivamente a Venezia, quindi a Roma, dove seguì il conclave del 1559 da cui uscì eletto papa Pio IV.

Morto Tournon nel 1562, G. si stabilì a Venezia in una casa di sua proprietà, acquistata grazie alle rendite lasciategli da Ridolfi e da Tournon. In questi anni scrisse la Vita di Girolamo Savorniano, contributo alla biografia militare, plutarchiana, già sperimentata con il Sulla vita e sulle azioni di Francesco Ferrucci, del 1547, e rimaneggiò l’Epitome historiae ecclesiasticae. Nel 1566 si trovava a Padova, in contatto con gli studiosi di quella università (tra gli altri Giovan Vincenzo Pinelli). Le lettere degli ultimi anni abbondano di osservazioni erudite e filologiche sugli autori classici.

Nell’agosto del 1571 decise di trasferirsi, malgrado la tarda età, a Roma, pensando di ottenere un incarico grazie all’interessamento di importanti personaggi della curia come Ippolito Aldobrandini e Marcantonio Maffei. Giunto a Roma, nell’ottobre fu nominato da Pio V segretario ai brevi, ma a causa della salute malferma non poté esercitare l’ufficio, di cui fu privato. Dopo la morte del papa (1° maggio 1572) dedicò l’Epitome, ormai compiuta e ricopiata, al successore Gregorio XIII, ma di lì a poco, il 27 dicembre 1573, morì.

Bibliografia: Fonti: Opere politiche e letterarie, a cura di F.L. Polidori, 2 voll., Firenze 1850; Lettere a Piero Vettori pubblicate sopra gli autografi del British Museum, a cura di R. Ridolfi, C. Roth, Firenze 1932; Dialogi de’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e ’l Purgatorio, a cura di D. Redig de Campos, Firenze 1939; Opere politiche, a cura di F. Diaz, 2 voll., Milano 1974 (il 2° vol. contiene le Lettere italiane); Repubblica Fiorentina, a cura di G. Silvano, Genève 1990; B. Segni, Storie fiorentine dall’anno 1527 al 1555, Augusta 1723, pp. 6, 92; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, 2° vol., Firenze 1842, pp. 245, 380-83; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di G. Milanesi, 1° vol., Firenze 1857, pp. 241-43, 396 e segg.; 2° vol., Firenze 1858, pp. 437, 513; 3° vol., Firenze 1858, pp. 277 e segg.; G.B. Busini, Lettere a Benedetto Varchi sopra l’assedio di Firenze, a cura di G. Milanesi, Firenze 1860, pp. 1, 5, 30, 51, 84 e segg., 90, 184, 186, 190, 194, 217, 235, 275; P. Giovio, Historiae sui temporis, a cura di T. Visconti, Roma 1964, p. 200.

Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Sommario della vita di Donato Giannotti, in Id., Opuscoli di storia letteraria e di erudizione, Firenze 1942, pp. 55-164; D. Cantimori, Storiografi e viaggiatori, in Storia della letteratura italiana, 5° vol., Milano 1967, pp. 61-64; F. Gilbert, The date of the composition of Contarini’s and Giannotti’s books on Venice, «Studies in the Renaissance», 1967, 14, pp. 172-84; F. Gilbert, The Venetian constitution in Florentine political thought, in Florentine Studies, a cura di N. Rubinstein, London 1968, pp. 463-500; R. Starn, Donato Giannotti and his Epistolae, Genève 1968; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al principato, Torino 1970, pp. 145-64; R. Starn, ‘Ante Machiavel’: Machiavelli and Giannotti, in Studies on Machiavelli, a cura di M.P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 285-93; E. Scarano Lugnani, Storiografia e pubblicistica minore, in La letteratura italiana. Storia e testi, 4° vol., parte 2, Il Cinquecento, Roma-Bari 1973, pp. 329-40; D. Radcliff, Conflit des générations et structure comique dans Il vecchio amoroso de Donato Giannotti, «Revue des études italiennes», 1974, 20, pp. 219-37; G. Bisaccia, La Repubblica Fiorentina di Donato Giannotti, Firenze 1978; G. Cadoni, L’utopia repubblicana di Donato Giannotti, Milano 1978; J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 1° vol., Bologna 1980, pp. 491-577; G. Cadoni, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali. N. Machiavelli, F. Guicciardini e Donato Giannotti di fronte al tramonto della ‘Florentina libertas’, Roma 1994, pp. 237-60.

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