Domesticazione

Enciclopedia delle scienze sociali (1993)

Domesticazione

Robert Delort

L'uomo e gli esseri viventi

Inizialmente l'uomo ha proceduto allo sfruttamento della natura attraverso la raccolta, la caccia e la pesca; è soltanto durante il breve e abbastanza recente periodo neolitico che, in diverse aree, spesso del tutto indipendenti tra loro, tra il X e il III millennio prima della nostra era, è stata realizzata la domesticazione della maggior parte degli animali e delle piante che sono arrivati fino ai nostri giorni ed è sempre in tale periodo che si precisano scopi, criteri, condizioni e tecniche delle diverse forme di domesticazione. Anche se la raccolta o la caccia hanno potuto contribuire alla sistemazione degli habitat (ramaglia, stuoie, pali, pelli, ossa, pietre, ecc.), all'abbigliamento o all'ornamento del corpo, il loro scopo primario era quello di assicurare il nutrimento di quel mammifero onnivoro che è appunto l'uomo.

La raccolta è stata sempre presente, sia nelle società cosiddette 'primitive' che nella nostra società dei consumi, avida della cellulosa del legno, del tanno, delle scorze, delle alghe, del profumo delle piante aromatiche, delle piante medicinali, per la tintura e da foraggio, della vegetazione adatta a nutrire gli animali 'utili' come anche di quella adatta a ornare le nostre case. Ancora oggi si raccolgono i frutti selvatici e non, il miele o la cera, conchiglie, spugne, coralli, lumache e, con la rete, pesci e altre creature marine.

Anche la caccia continua nel tempo, per ricavare prodotti dagli animali morti (carne, pelli, pellicce, setole, piume, grassi per usi alimentari, per illuminazione e adatti a lubrificare, corni, zanne, zoccoli, denti, ossa, tendini, budelli). Occorre anche difendere se stessi, i propri figli, i propri beni dai predatori (lupi, orsi, aquile, ecc.) o dai pericoli (bestie velenose, ecc.); è forse in qualche modo anche una scuola di coraggio, di sport, di autorealizzazione, di vittoria prestigiosa, d'attrazione nei confronti dell'animale cacciato di cui si ammira la difesa e, allo stesso tempo, di comunione con le bestie che aiutano l'uomo nella caccia (cani e cavalli, ma anche ghepardi, falchi, elefanti), più spesso che il soddisfacimento dei peggiori istinti di uccidere. Sono spesso gli eccessi della caccia, la scomparsa di alcune specie (uro, dodo, epiornite, ecc.) o la drastica riduzione del numero di esemplari esistenti (tigre, ozelot, pantera, elefante, balena, lontra marina, gipeto barbuto, ecc.) che hanno attirato l'attenzione sulla perdita irreparabile per l'umanità di tante specie animali, ma anche vegetali (ebano, ginkgo, ecc.), scomparse prima di essere state descritte e classificate. Da qui deriva la tardiva (ma ormai operante) protezione della natura attraverso la creazione di riserve e di parchi nazionali, preceduti, nel lontano passato, dalla conservazione e dall'esposizione degli animali più rari e più prestigiosi, riuniti nei parchi dei faraoni, di Babilonia, dell'impero cinese, di Carlo Magno; nei giardini reali e negli zoo dell'epoca medievale e moderna. Da tutto questo derivano anche le tendenze che hanno potuto facilitare e anche determinare il complesso fenomeno della 'domesticazione'.

Il periodo precedente alla domesticazione

L'uomo non è l'unico animale a tenere alle proprie dipendenze altri esseri viventi: alcuni insetti che vivono in società (formiche, termiti) sembrano tenere a loro disposizione funghi saprofiti, afidi dei quali vengono prelevate le secrezioni, e altre forme simili; certe puzzole conservano in vita delle rane azzoppate, che non sono in condizioni di scappare, come carne di riserva. Scoiattoli, o piuttosto economi criceti, possono creare enormi stock di grano che, una volta scoperti dagli uomini, hanno potuto rafforzare l'idea di pensare al nutrimento futuro. I cinghiali scavano il terreno per portare alla luce rizomi e tubercoli; la scimmia può servirsi di un bastone che infila in un appetitoso formicaio. Non si possono certo escludere per l''animale uomo', già assai evoluto durante il Paleolitico (Cro Magnon è già l'Homo sapiens sapiens), determinati comportamenti riscontrabili anche presso altre specie (che vivano o meno in società). Possiamo anche aggiungere che, a partire dal Pitecantropo, l'uomo è stato padrone del fuoco; che la caccia agli ungulati è stata facilitata dall'incendio delle savane, la qual cosa consentiva di concentrare la selvaggina in spazi umidi o scoperti nei quali era più facile scoprirla, abbatterla, consumarla o tenerla temporaneamente prigioniera. Allo stesso tempo, le ceneri vanno a costituire un concime scelto per le piante resistenti, che ne trarranno vantaggio per svilupparsi sui terreni bruciati: le leguminose, in particolare, le cui radici, grazie ai batteri presenti nei loro noduli, fissano l'azoto, ma per la cui rapida crescita sono necessarie ceneri basiche (così per lenticchie, piselli, fave, fagioli, vecce, ecc.). La vegetazione bruciata dal fuoco consente anche una più facile estrazione dei tuberi (addirittura cotti sotto la cenere), il ritrovamento di selvaggina soffocata dal fumo, o addirittura arrostita. La foresta devastata può anche lasciare il posto alla savana (la prateria), dove possono moltiplicarsi gli ungulati.

Conviene anche sottolineare l'attrazione che alcune piante o alcuni animali provano nei confronti dell'uomo e delle società umane: sono appunto le piante antropocore che si moltiplicano nei pressi degli insediamenti: per esempio carote e altre ombrellifere; le piante nitrofile prosperano nei pressi dei mucchi di rifiuti o dei letamai: lino, canapa, papavero, colza, rafano; le leguminose sono attirate dalle ceneri dei fuochi all'aperto; piante da cui si ricavano spezie si sviluppano spontaneamente sui terreni occupati dall'uomo: peperoncino, basilico, chenopodi, molte cucurbitacee. Infine, la preferenza accordata dall'uomo ad alcune specie, per esempio il grano o il lino, attira delle piante parassite, che assumono il ruolo di piante 'imitatrici', caratterizzate da un identico ciclo vegetativo e che finiscono per entrare in competizione con il modello o addirittura per sostituirlo: avena o segale (per il grano), navone o senape (per il lino).

L'antropofilia di alcuni animali si manifesta in molte forme: gli onnivori, come lo sciacallo, il cane, il cinghiale sono attirati dai rifiuti lasciati dagli uomini; l'uro, la capra, il montone dalle graminacee spontanee (e in seguito coltivate) vicino alle quali si sono installati gli esseri umani che le raccolgono; la renna predilige l'urina umana e i suoi insostituibili sali che l'abituano all'odore dell'uomo e la spingono a seguirne le migrazioni; l'alce o il cavallo sono estremamente curiosi e si avvicinano agli uomini, rispetto ai quali, in questa fase, essi non hanno motivo di timore, tanto sono forti (e veloci nella fuga).

Raccolta o caccia contribuiscono egualmente a far conoscere meglio le piante oggetto di ricerca, i posti nei quali è possibile trovarle, le stagioni più favorevoli; le abitudini individuali o i comportamenti sociali dei bovini, che hanno la tendenza a raggrupparsi in mandrie, più facili, per l'uomo, da individuare e controllare; o dei cervidi, che fuggono disperdendosi; o dei cani che cacciano in branco, seguono la selvaggina, rispettano una scrupolosa gerarchia e difendono i beni del clan, mentre invece i felini cacciano appostati, soli o in gruppi molto ristretti, più individualisti e indipendenti per natura; inoltre, attaccando i serpenti, cacciando i topi divoratori di riserve alimentari (uccisi più per gioco che per fame) dei gatti non feroci saranno favoriti nelle grandi civiltà caratterizzate da 'vita sedentaria' (l'Egitto del Nilo o l'India dell'Indo).

La caccia e la cattura di animali selvatici tenuti prigionieri e sorvegliati per un'utilizzazione successiva, facilitano la ben nota Prägung (imprinting, impronta) sul piccolo privato della madre (uccisa o scomparsa), che si attacca al primo venuto; può trattarsi delle oche di Lorenz, di cuccioli allevati con il biberon, di giovani esemplari al momento del risveglio sessuale. D'altra parte, non c'è motivo di negare ai piccoli dell'uomo l'attaccamento affettivo (che sarà ricambiato) nei confronti del cane, ma anche dell'orsacchiotto o del lupacchiotto rimasti orfani, con i quali essi giocano; e alle femmine il comportamento materno che anche le scimmie o i lupi hanno spesso nei confronti dei vari 'cuccioli' d'uomo ('Romolo e Remo' o 'Mowgli'). In molte civiltà (Papuasia, Ainou) è ancora frequente vedere dei porcellini o degli orsetti alimentati al seno o bocca a bocca da donne madri, con il conseguente vivo attaccamento tra la nutrice e il piccolo.In breve, ogni civiltà, in ogni epoca e in ogni luogo, è stata indotta a frequentare più intensamente, a conoscere meglio e a cercare di sfruttare nel modo migliore (e non soltanto dal punto di vista economico) una pianta piuttosto che un'altra (grano, riso, mais, miglio, igname, manioca, meli, castagni, faggi, querce) o un animale piuttosto che un altro (camoscio, piccione, ostrica, ape, cocciniglia) con i quali ha intrecciato rapporti 'privilegiati'.

Le scelte iniziali

In linea generale, le piante sono state scelte direttamente in rapporto alla raccolta che ne veniva fatta, a scopo alimentare, in prossimità delle varietà selvatiche affini a quelle ricercate (che costituivano preziosi indicatori della natura favorevole dell'ambiente); ma la loro utilizzazione principale è stata diversa da un posto all'altro: il melone, per esempio, è stato inizialmente selezionato per i suoi semi oleaginosi, e la stessa cosa è avvenuta per il navone o per il rafano, e ancora di più per il lino e la canapa, la cui utilizzazione in campo tessile è avvenuta soltanto in un secondo tempo; il contrario è avvenuto invece per il banano, caratterizzato da un rizoma con proprietà nutritive, che non ha offerto subito la sua fibra e soltanto un'ibridazione casuale ha dato vita alla forma sterile che oggi conosciamo, con frutti commestibili e saporiti.Il caffè, per esempio, non è stato sempre e dovunque utilizzato per i suoi semi (tostati): si conosce anche la sua utilizzazione per i suoi frutti, bolliti e schiacciati nel burro!Altre oleaginose, come il cartamo, sono divenute piante utilizzate per tingere, prima per il giallo pallido, poi per il rosso sgargiante. Fiori come il crisantemo vengono mangiati in Cina, mentre sono utilizzati come piante ornamentali in Occidente. Quanto ai cereali, soltanto in via subordinata hanno fornito piante foraggere o bevande alcoliche.

Questo fenomeno è ancor più macroscopico nel mondo animale: si può ipotizzare che le bestie utilizzate per la domesticazione siano state scelte soprattutto, attraverso la caccia, tra quelle in grado di offrire la maggiore quantità di prodotti ricavabili dall'animale ucciso: ma, oltre al primo interrogativo che si pone immediatamente (perché allevare con fatica animali i cui fratelli selvatici, se cacciati, avrebbero continuato a fornire gli stessi prodotti?), emergono anche altri problemi rimasti insoluti: non si potevano scegliere dei buoi per tirare un carro che non esisteva ancora, delle pecore per una lana che ancora non si sapeva utilizzare, dei lama per portare un basto, dei cani per fare la guardia alle gregge, dei cavalli pressocché indomabili per sopportare una sella o un cavaliere, o dei cacciatori di serpenti e topi (i gatti) per farne delle bestie coccolate e affettuose acciambellate sulle nostre ginocchia ospitali. Il piccione, per esempio, di cui in Turchia o in Iran non si utilizzano né le carni né le uova, fornisce soprattutto quell'eccellente concime che è appunto la colombina e l'ameno spettacolo, per il contadino che torna al fresco della propria casa dopo un lavoro assai pesante, che riserva il volo sempre diverso di questi uccelli giocosi e teneri, le cui evoluzioni in Cina vengono rese più gradevoli legando alla loro coda campanellini o fischietti. Forme di utilizzazione successiva, diffuse prevalentemente in Occidente, sono fornite dal piccione viaggiatore (di origine iraniana), dal pavoncello e dal piccione per uso culinario.

In breve, prima di ogni forma di domesticazione, è possibile rilevare una qualche forma d'interesse da parte delle società umane nei confronti della pianta o dell'animale selvatico in questione. A questo periodo iniziale ne è seguito un altro di sfruttamento ancora elastico, ma già sufficientemente preciso rispetto alle conseguenze successive.

È il caso, per esempio, della Tierhaltung (possesso d'animali) ben studiata, per il periodo neolitico, da S. Bökönyi: vengono fatti prigionieri degli animali selvatici, in genere degli ungulati, che vengono lasciati pascolare e dei quali si conservano in particolare i capi: arieti particolarmente aggressivi, verri enormi, stalloni o tori validi, a cui l'uomo viene in aiuto contro eventuali predatori (orsi, lupi, uomini). L'allevamento sembra cominciare con il controllo del nutrimento e soprattutto della procreazione, controllo che non rappresenta ancora, tuttavia, come vedremo più avanti, la vera e propria domesticazione.

La stessa cosa avviene per le piante: nella foresta decidua sono preferiti gli alberi da frutta; non solo querce o faggi, specie dominanti, ma anche castagni, meli, peri, susini, noci; in altre zone si tratta invece dell'olivo, del mandorlo, della vite. In breve: protetti in quanto ricercati, questi alberi hanno progressivamente respinto gli altri, diventando caratteristici di alcune foreste o steppe arboree. La scelta di alcune graminacee ha contribuito anch'essa alla loro diffusione a spese di altre piante.

Caccia e raccolta possono quindi produrre risultati inizialmente contraddittori: il supersfruttamento di un certo tipo di selvaggina o di alcuni vegetali avrebbe potuto determinare una loro rarefazione. Per i vegetali si è prodotto esattamente il contrario, in quanto la loro protezione a spese di altri è risultata preponderante rispetto alla modestia dei prelevamenti effettuati. Quanto alla caccia, essa si è rivelata a volte estremamente distruttiva: ecatombi di animali impazziti di paura, uccisi in numero troppo elevato, come per esempio i mammut, decimati altresì dai cambiamenti del clima. Ma la caccia effettuata senza eccessi e soprattutto nei confronti degli esemplari più deboli e più giovani consentiva anche di vivere e procreare ai migliori riproduttori: i terribili cinghiali, i grandi uro, i più selvaggi e forti stalloni. Insomma, caccia e raccolta determinavano già profonde modificazioni degli ecosistemi dei quali l'uomo era parte essenziale, pur non costituendo ancora il principale fattore biotico.

Verso la domesticazione

Una definizione, soprattutto socioeconomica, del fenomeno della domesticazione ne mette in evidenza alcuni tratti essenziali: la domesticazione rappresenta un complesso di modificazioni nei rapporti tra i gruppi umani e le specie vegetali e animali, modificazioni che hanno come effetto di sostituire a uno sfruttamento senza contropartita (di tipo predatorio) una relazione simbiotica dalla quale queste specie ricavano anch'esse un qualche profitto. Le risorse disponibili risultano quindi notevolmente accresciute e si entra in un'economia di produzione. Diversi punti di questa definizione meritano di essere precisati o completati. Anzitutto lo stesso termine 'domestico' deriva, evidentemente, da domus, casa, ma non potrebbe certo interessare il topo o la mosca 'domestici', e neppure piante come l'edera o la sassifraga, che s'infila contro la volontà degli uomini nelle pietre della casa, e nemmeno le rondini sui pali della luce o le cicogne sui comignoli, anche se tollerate, desiderate, protette o sfruttate (sentimentalmente o socialmente). Tutte queste specie conservano un carattere selvatico, in quanto nascono e si sviluppano senza le cure (e anche contro la volontà) degli uomini.

Questo concetto di 'selvatico' può essere messo a fuoco in modo più preciso. Come dobbiamo giudicare, per esempio, piante e animali che vivono comunque nell'intimità della casa (giacinti, filodendri, gerani e piante d'appartamento)? I pesci rossi nei loro vasi, i criceti, i canarini, i pappagallini nella loro gabbia, un pitone affettuoso, un ghepardo fedele, un falco da caccia, elefanti utilizzati per trasportare tronchi, ecc.? Alcuni sono effettivamente di origine selvatica, addomesticati o addestrati a volte dopo anni di vita completamente libera (15 anni, per esempio, nel caso dell'elefante). Altri sono stati 'formati' per la compagnia dell'uomo, ma soltanto di recente e a partire da specie naturali che si sono conservate estremamente simili a quelle 'realizzate'. Insomma, tutti vivono in familiarità con l'uomo, sono anche domestici, ma non 'domesticati'.

Si tratta d'individui che hanno assorbito le nostre cure: sia la pianta seminata e curata, con fiori particolarmente scelti, che il coccodrillo cresciuto nella nostra vasca, la lontra giocherellona e affettuosa, il pesce muto ma con colori attraenti, il canarino con la sua voce musicale. Nessuno di questi potrebbe essere liberato dal suo vaso o dalla sua gabbia senza rischiare di liberarsi altresì della sua domesticità coatta, salvo, eventualmente, i selvatici addomesticati che hanno instaurato un legame affettivo durevole con il loro 'padrone'. Tutti sfuggono quindi, più o meno, al taming (addomesticamento), con lo sfruttamento (economico, sociale, sentimentale) che comporta; ma alcuni sfuggono anche all'allevamento (herding) e alla riproduzione controllata e dominata (breeding), che comporta, nel lungo periodo, la creazione di razze nuove e di linee stabili destinate ad alimentare, aiutare o distrarre gli uomini. La creazione (recente e accelerata) di specie o di razze per finalità ben determinate e immediate (orchidee particolari, olmi olandesi e non, cereali adatti a questo o a quell'ambiente, visoni 'tormalina', animali nani, come il coniglio ermellinato o il cane Yorkshire, topolini bianchi da laboratorio, ecc.) e quella di organismi geneticamente modificati (OGM), sempre più numerosi in seguito ai progressi della biologia cellulare e molecolare, rendono problematica o preoccupante la loro sopravvivenza in natura.

Al contrario, la maggior parte dei vegetali o degli animali domesticati sul lungo periodo, che rappresentano specie o razze nuove ma stabili, spesso ancora vicine a quelle selvatiche dalle quali derivano e con le quali possono continuare ad accoppiarsi in modo fecondo, sono in condizioni di riprendere rapidamente una vita selvatica: gatti selvatici, molti cani abbandonati dai loro padroni in vacanza, manguste delle Antille, cavalli selvaggi o dingo, vigne o gelsi su terreni tornati incolti, rappresentano altrettanti esempi di ritorno alla vita selvatica; mentre continuano a vivere fianco a fianco, se non bue o cavallo con uro o tarpan, recentemente scomparsi, porco e cinghiale, cane, lupo e sciacallo; montone e muflone, gatto selvatico e gatto domestico; ma anche piante amilacee, spelta, grano duro e tenero, acetosa e licnide, cerfoglio e ombrellifere, tabacco silvestre e l'ibrido Nicotinia tabacum. Spesso il loro stato di domesticità ha costituito soltanto una tappa, il che implica che la loro domesticazione rappresenta sempre un fenomeno in fieri, mai concluso.

Si potrebbero prendere come esempio anche gli animali tornati allo stato brado, branchi tenuti allo stato semiselvatico in vasti spazi dove cercano autonomamente nutrimento, partners per l'accoppiamento e avversari; così in Australia o nelle pampas o anche nell'Europa medievale (come accade ancora oggi in Corsica), con quei numerosissimi branchi di maiali neri, irsuti, scheletrici, che si muovevano nelle foreste di latifoglie sotto la sorveglianza da lontano del porcaio. Alcune domesticazioni sono fallite e gli animali in questione sono tornati allo stato selvatico (cervi, daini, gru in Europa), altri sono fuggiti dai loro allevamenti (topi muschiati o procioni in Germania); o ancora passano dallo stato selvatico nel loro biotopo originale alla domesticazione e viceversa. Sono sempre attuali i casi della sciamatura delle api o della migrazione delle renne, paragonabile a quella dell'alce siberiano uscito dalle riserve di Kostroma, addirittura castrato e utilizzato nei lavori, o anche del bue muschiato in Norvegia, Russia, Québec o Alaska; dei cervi o dei daini nuovamente immessi in allevamenti (in Nuova Zelanda); in Africa dell'orice, dell'impala e soprattutto dell'antilope alcina, dei facoceri o dei potamocheri; e ancora di zebre, elefanti, struzzi e canguri.

Le condizioni della domesticazione

Merita di essere sottolineato il fatto che piante e animali sono stati domesticati pressappoco contemporaneamente, nel corso di alcuni millenni, in regioni nelle quali le specie autoctone erano numerose senza però essere esuberanti, dove cominciava a manifestarsi una pressione demografica e dove l'ambiente era per lo più caldo e umido, con stagioni nettamente differenziate, influenzate dall'altitudine o dalle inondazioni: foreste di latifoglie fruttificanti (faggine, ghiande, nespole, castagne, mele, ecc.), steppe a graminacee, delta di zone temperate o mediterranee; là dove, nel decimo millennio, regnava un clima che, successivamente, con la progressiva fusione dei ghiacciai, si era 'spostato' di una quindicina di gradi di latitudine: Balcani, Vicino e Medio Oriente, India, Insulindia, Cina, altopiano etiopico e, nel Nuovo Mondo, altopiano del Messico o delle Ande, America Centrale. L'espansione spontanea delle piante o degli animali, avvenuta in seguito al ritiro dei ghiacciai in Europa, non ha potuto svilupparsi normalmente a causa delle barriere esistenti sulla direttrice ovest-est, dai Pirenei al Caucaso e dal Mediterraneo al Mar Nero; soltanto la tundra (con le sue renne e i suoi ultimi mammut) ha potuto espandersi senza ostacoli in Lapponia e alcuni rari 'spostamenti' hanno potuto prodursi da est a ovest (piante 'sarmatiche', dalla Russia). Piante e animali domestici hanno quindi seguito le migrazioni umane a partire dal Vicino Oriente, anche a costo di consentire un ulteriore sviluppo delle specie autoctone (il grande uro o il forte cinghiale europei; erbe cattive imitatrici, come avena, segale, veccia, ecc.).

Vi sono comunque grandi differenze nelle forme o nelle cause che hanno guidato la domesticazione di una stessa specie in aree, epoche e contesti sociali notevolmente diversi; si possono quindi soltanto delineare delle tendenze generali, collegando le specie vegetali o animali in questione e le società umane in fase di espansione demografica in un ambiente favorevole allo sviluppo biologico (suolo, acqua dolce, temperatura, precipitazioni, fauna, flora, ecc.), ma non tale da favorire espressioni di aggressività.

Nel caso di un predatore pieno di pretese qual è l'uomo, è difficile non fare anche cenno alla sua tendenza a sfruttare e dominare la natura, a obbligarla a dare ciò che essa potrebbe non avere, o non avere più, in abbondanza; inoltre si deve anche tener conto del piacere di far sfoggio del proprio potere su vasti spazi, sfruttati a prezzo di dure fatiche, capaci di dare profitti e prestigio, o di mostrare la propria supremazia su bestie particolarmente forti e ribelli (dal divino uro all'indomabile cavallo), anche se l'interesse (economico) di questa operazione era inizialmente ben lontano dall'essere evidente. Accanto alla 'disponibilità' di alcune specie, non dimentichiamo, quindi, da parte degli uomini, il manifestarsi, rispetto alla natura, di una certa 'volontà di potenza'.

Le tecniche della domesticazione

È sempre possibile continuare a raffrontare piante e animali, in quanto, attualmente, le ricerche sulle cellule viventi, germinali o non, sulle sequenze del DNA, sulla clonazione di batteri, così come la creazione di 'chimere' animali o la produzione di ormoni (senza contare la fecondazione artificiale o le produzioni di ibridi) vengono realizzate applicando geniali tecniche genetiche, assai simili tra loro. Si parla, per esempio, di 'domesticazione' del lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, giunto dall'Egitto o dalla terra dei Sumeri circa 5.000 anni fa, per la preparazione del pane o delle bevande alcoliche, già studiato da Pasteur, ma 'allevato' oggi per la sequenza completa dei suoi cromosomi e l'interesse di confrontarli con il genoma umano. In questo caso non si tratta, a nostro avviso, di una vera e propria 'domesticazione', in quanto il criterio del controllo della riproduzione sul lungo periodo, che conduce a selezioni durevoli e innovative, non risulta affatto rispettato, come pure non risultano rispettati altri criteri tipici della domesticazione.

Più significativi sono gli esempi dei diversi tipi di mais, riso o grano nel corso dei millenni che hanno portato a stabili modificazioni delle loro riserve di amido. Si può altresì ricordare il caso della pecora karakul, scheletrica, con poco latte e con una carne dura e scarsa, dal pelo ispido, per la quale tutte le caratteristiche che risultano normalmente ricercate nelle altre specie simili sono state sacrificate, nel corso dei millenni, per ottenere la pelle fine con la pelliccia cangiante che caratterizza l'agnello prima di nascere e durante i primi tre giorni di vita. Un altro caso estremamente significativo è quello degli incroci incessanti cui sono stati sottoposti durante cinque millenni i bombici (del gelso bianco), selezionando quelli usciti dai bozzoli migliori, prima che fosse possibile ottenere quella seta lunga e fine prodotta infine da bruchi divenuti inadatti a qualsiasi altra funzione, persino a spostarsi senza l'aiuto dell'uomo verso le foglie fresche, che devono quindi venire colte per essere offerte alla loro voracità.

È troppo diffusa la tendenza, caratteristica della mentalità contadina occidentale, ad accettare l'idea che l'agricoltura richieda sforzi molto superiori all'allevamento; questa vecchia idea del sedentario 'intensivo' rispetto al nomade 'estensivo' si trascina dietro molte reminiscenze storiche. Certamente, la coltivazione di piante domestiche (in particolare quella del grano) è faticosa, consuma forze e tempo: preparare i campi, concimarli, lavorarli, scegliere le sementi, seminare, erpicare, sarchiare, estirpare le erbacce, mietere, accovonare, spigolare, trebbiare, vangare, sistemare nei granai, proteggere i raccolti dagli animali, dagli uccelli, dai topi, dagli insetti, dalle malattie; senza contare gli investimenti per gli animali da tiro e per il 'materiale' necessario ad arare (cavallo e avena, divenuti poi trattori e benzina, aratro multidisco, mietitrice-accovonatrice-battitrice, elicottero per spargere insetticidi, ecc.). Ma l'allevamento di animali domestici richiede altrettanta fatica; e la natura non aiuta certo più in un caso che nell'altro, spingendo gli animali onnivori o erbivori a nutrirsi spontaneamente, più di quanto non faccia crescere la pianta da sola. Occorre assicurare l'alimentazione (e la stabulazione d'inverno), l'igiene, il sostentamento, la guardia o la difesa contro eventuali aggressori, la protezione della riproduzione. Tutto questo comporta, per esempio, rifornimenti d'acqua, prati da curare, fieno di primo e di secondo taglio da raccogliere, piante foraggere da coltivare, foglie da ammucchiare (di tipo diverso per le lettiere), sale, proteine (anche per gli erbivori), luoghi dove è possibile trovare questo tipo di nutrimento.

Il solo controllo della riproduzione presuppone la scelta dei genitori (per incrocio o ibridazione), con la castrazione di molti maschi non particolarmente dotati; per la preparazione del coito: femmine da preparare (o, nel caso si voglia la procreazione di un mulo, l'asino da sollevare, in quanto è troppo piccolo per la giumenta, e da eccitare perché non è di suo gradimento), maschi scelti per la monta da tenere in forma per le decine di monte previste, inseminazione artificiale (con sperma da conservare o acquisire), concepimenti e quindi nascite previste da distribuire nel tempo secondo il personale disponibile, poi sorveglianza sulle future madri, alimentazione e igiene dei giovani nati, slattamento o abbattimento (in funzione anche del latte da rendere eventualmente disponibile), ecc.

Ciascuna di queste azioni ha molteplici effetti: la castrazione, per esempio, non elimina solo i riproduttori giudicati poco interessanti, ma evita altresì i combattimenti per il controllo del branco, aumenta la produzione di carne o grasso, rende più docili al lavoro animali possenti, evita agli allevatori di imbottire di contraccettivi la femmina in calore che viene fatta accoppiare o di farla abortire o di uccidere regolarmente i suoi piccoli (per affogamento, puntura, ecc.). Le fatiche e i disagi richiesti agli uomini da piante o animali domestici sono ampiamente compensati dai guadagni che vengono realizzati, guadagni che non sono soltanto economici o sociali; vi è anche una forma di attaccamento viscerale, religioso, sentimentale, affettivo al prodotto della natura e della terra, la moralità del lavoro, l'affetto per l'animale divenuto familiare, che assomma pulsioni molteplici o transfert di ogni tipo; ma anche l'amore per la pianta scelta e curata che porta il verde e il profumo della natura nell'universo di cemento della città; infine vi è la conoscenza, l'idea e il rispetto nei confronti di Dio e della creazione: X.B. Saintine ha convertito e fatto piangere generazioni di lettori, tra il XIX e il XX secolo, con la storia di "Picciola", la piccola pianta curata amorevolmente da un libero pensatore tra le pietre della sua prigione.

La domesticazione delle piante

Naturalmente, non è possibile assimilare completamente piante e animali. Le prime sono poco mobili, con reazioni spesso lente e differite, fortemente dipendenti dall'ambiente naturale; hanno però immense possibilità per quanto concerne genetica e sviluppo; possono nascere da gemme, stoloni, margotte, innesti, talee, tuberi, come anche da semi (fecondati, partenogenetici, autogami, apogamici, ecc.); d'altra parte esse sono meno polivalenti degli animali e presentano generalmente un solo aspetto d'interesse, e prima di tutto quello alimentare, al quale è legata direttamente la raccolta: gli uomini hanno privilegiato quelle provviste di abbondanti riserve di amido, zuccheri, cellulosa, materie grasse, in grado di fornire lipidi o glucidi (e perfino protidi) che la caccia non fornisce (anche rispetto ai grassi, gli animali sono diversi dai vegetali). In modo meno sistematico gli uomini hanno poi curato piante aromatiche e per condimento, ortaggi che non contengono fecola, e anche piante che forniscono fibre e sostanze coloranti, erbe medicinali, piante foraggere per il bestiame, o piante 'industriali', o ancora 'di lusso', come canne da zucchero, cacao, caucciù, caffè, vaniglia, china, fino alle piante ornamentali, ai fiori o alle piante per prodotti di profumeria. Esemplari sono i casi delle graminacee di base (riso, mais, grano) o della patata.

Prima del decimo millennio, nel Medio Oriente si è registrata, anzitutto, la raccolta delle piante annuali autogame, che si riproducono attraverso i semi (di solito, all'inizio dell'estate) in regioni temperate con inverni piovosi ed estati secche: ogni seme è contenuto in una spighetta a punta acuta, con filamenti ricurvi e lunghe barbe. Al momento della maturazione, la spiga si apre, le spighette si disperdono al vento e sul vello degli animali; la punta finisce per entrare nel suolo, i filamenti a contropelo la fanno penetrare in profondità e il grano, al riparo dai predatori, germina con le prime piogge. La stessa mietitura manuale non è affatto facile, in quanto la spiga si apre; vi sono però dei mutanti che presentano delle spighe chiuse, facili da individuare tra tutte quelle aperte: questi mutanti, invece, si riproducono con difficoltà, in quanto i loro semi non vengono dispersi e si ostacolano reciprocamente. Queste specie, tuttavia, sono preferite nella raccolta e vengono portate negli accampamenti o nelle abitazioni per essere consumate; i loro semi possono allora cadere su detriti, cenere, letame, attorno all'area praticata, e diffondersi rapidamente, con la benedizione degli dei che forniscono così agli uomini, là dove vivono, le varietà più pregiate; sono forse sacri questi semi che, sparsi intorno a un santuario, l'hanno rapidamente circondato di spighe, orzo, piselli, lenticchie, lino, ecc.?

A proposito della coltivazione, resta aperto un problema importante: perché coltivare e selezionare, con un lavoro faticoso (secondo i nostri parametri), piante fornite in abbondanza dalla natura? È stato calcolato, per esempio, che durante le tre settimane di maturazione delle amilacee una famiglia poteva raccogliere, con le mani o con il falcetto di selce, un tipo di grano molto più ricco dell'attuale grano invernale americano, e per di più in quantità sufficiente per tutto l'anno. Con le donne che raccoglievano e gli uomini che cacciavano (per alcuni giorni alla settimana), è facile comprendere come queste civiltà potessero essere facilmente delle civiltà caratterizzate dall''abbondanza'. Bisogna quindi supporre, come testimonia la comparsa di abitazioni stabili e raggruppate, una spinta demografica continua, con raccolte sempre più difficili di piante spontanee, che rimanevano quantitativamente stabili, e una diminuzione della caccia (selvaggina supercacciata? o emigrata? o meno accessibile?), condizioni che lasciano quindi il posto all'allevamento. Ogni pianta ha una storia propria che varia da regione a regione, non solo rispetto a quando è divenuta oggetto di domesticazione, ma anche rispetto a quando è stata 'adottata', e questo vale sia in senso sincronico che diacronico.

Per ragioni climatiche, orografiche ed ecostoriche, l'Africa e l'Europa hanno prodotto poche piante autoctone. La prima, tagliata in due dal Sahara, ha coltivato soprattutto (assai presto) tuberi tipo l'igname, poi il sorgo, il miglio a candela, il fagiolo con l'occhio (Sudan), il sesamo, diversi tipi di cavolo, rape, cotone, e altri ortaggi (acetosa, peperoni). Etiopia (produttrice di caffè) ed Egitto si sono rivolti verso il Nordest e il Vicino Oriente, da cui l'Europa, prima del sesto millennio, ha ricevuto le prime piante coltivate: le erbe 'imitatrici' del grano o del lino (tra cui segale, avena, senape, ecc.) si sono sviluppate soltanto in seguito, così come numerosi ortaggi (asparagi, barbabietole, carote, sedano, lattuga, dolcetta, barbe, erba cipollina, ravanelli, ecc.), derivati dalle specie di cavolo diffuse nel Mediterraneo occidentale e aglio, cipolla, scalogno provenienti dall'Iran. Dall'Egitto o dalla Siria sono arrivati numerosi alberi da frutta, tra cui carrubo, fico e vite; dalle sponde del Mediterraneo aromi e condimenti come anice, timo, lavanda, rosmarino, menta, aneto, finocchio, prezzemolo. Le piante per tingere dal nome di origine germanica (guado blu e giallo, robbia) sembrano autoctone, anche se sviluppate tardivamente e certo non prima dell'Impero romano.

Dall'India provengono le principali spezie (pepe, cassia, zenzero, cannella, chiodi di garofano e noce moscata delle Molucche), ma anche numerosi ignami, il riso (delta del Gange) con il miglio come erba cattiva in competizione, la palma da datteri, fagioli, cetriolo, lattuga, melanzana, spinaci, ravanello, ecc.; la canna da zucchero, il sesamo, il cotone, la juta, l'indaco, la cedranella e tutti gli agrumi, provenienti dalle regioni dell'Himalaya, del Deccan o limitrofe alla Cina, portati in Occidente durante il Medioevo dagli Arabi (fatto questo che spiega i loro nomi attuali).La Cina è quasi altrettanto ricca: oltre a legumi e frutta simili a quelli dell'Europa (pera, mela, pesca, mela cotogna, ecc.) essa ha prodotto albicocca, giuggiola, gelso bianco, cachi, litchi; e ancora soia, canapa, ramia; spezie e piante per la farmacopea; oppio, rabarbaro, ginseng, canfora, bardana, piantaggine, ecc., e, assai tardivamente (VIII secolo d.C., forse), il tè. Igname e cereali autoctoni hanno preceduto il grano (giunto dall'Iran) e il riso (dall'India).

L'America, infine, ha prodotto fin da epoche molto lontane (sesto millennio, probabilmente) mais subtropicale, pomodori (Ande e Messico), patata, tabacco (Perù, Bolivia), topinambur (al Nord e al Sud), fagioli (Ande temperate, Equador, Perù, Bolivia, Cile), arachide e manioca del Brasile, zucca (al Nord), ananas, cacao, avocado e girasole (Messico), sisal, vaniglia, guaiava, coca, patata dolce. 'Caucciù' è certamente un nome amerindio, ma anche molte piante dell'India o della Malesia forniscono lattice; il chewing gum, tuttavia, viene prodotto con il lattice del nespolo americano. Tutte queste piante, che sono state conosciute in Europa al più tardi nel XVIII secolo, sono state diffuse, adattate, trasformate dovunque se ne potesse trarre vantaggio: sono state adottate l'eccezionale patata (1651 in Germania), poi il tabacco, infine il mais (XIX secolo) e, nel XX secolo, la soia, senza contare pomodoro, cucurbitacee, fagioli, agrumi (Spagna, Italia), riso (Italia, Camargue) e fiori (Olanda); l'Europa ha sviluppato la barbabietola da zucchero e seminato nel mondo cotone, juta, cacao, caffè, hevea, tè, canna da zucchero, arachide, banana, china, ecc. Anche se i paesi del Nord hanno ampiamente tratto profitto da questa diffusione universale delle piante oggetto di domesticazione in aree particolari, è giusto però sottolineare che anche l'esplosione demografica nei paesi del Sud ne è risultata parzialmente favorita.

La domesticazione degli animali

Lasciando da parte i microrganismi, gli animali hanno un genoma complesso e le mutazioni, anche se selezionate dagli uomini, impiegano molto tempo a formare delle razze nuove, e ancor di più delle nuove specie. D'altra parte, se consideriamo la domesticazione nel senso più restrittivo del termine, partendo dalle numerose definizioni proposte (per esempio: "la formazione di linee di discendenza di esseri viventi, allevati, generazione dopo generazione, sotto il controllo dell'uomo che li utilizza, o anche li crea, per esserne nutrito, aiutato, distratto"), si comprende facilmente che essa richiede, allo stesso tempo (oltre, eventualmente, a provviste e familiarizzazione), appropriazione, sfruttamento, allevamento, intervento sulla riproduzione e sulla genetica, e creazione, nel lungo periodo, di complessi di esseri viventi diversi dalla forma originaria dalla quale sono derivati.

Non respingiamo del tutto le 200 e più specie (e le innumerevoli razze) attualmente utilizzate che individua J.P. Digard nella sua recente sintesi, in quanto tutte presentano, o hanno presentato, alcuni, o anche molti, dei caratteri che distinguono il domestico dal selvatico: ma, a torto o a ragione, tendiamo a tenere distinti il possesso, e soprattutto l'allevamento, dalla domesticazione. Il coniglio custodito e sorvegliato in riserve e soprattutto in recinti, dove era protetto, nutrito, e anche selezionato, continuava, a nostro giudizio, a essere un animale selvatico (bellua, dice l'Aldrovandi nel XVI secolo), prima che la massaia non lo sistemasse nelle conigliere (XIX secolo) o la società occidentale non ne facesse un animale di casa (fine del XX secolo).

A differenza delle piante, raramente bivalenti o trivalenti, il piccolo numero di animali che noi consideriamo a prima vista come domestici, sono generalmente polivalenti, vale a dire che forniscono o hanno fornito contemporaneamente o successivamente numerosi prodotti, non necessariamente utili, ma che hanno attirato l'attenzione dell'uomo e hanno indotto a continuare la domesticazione degli animali in questione, eventualmente con metodi diversi: per esempio coniglio da pelliccia, d'angora (per il pelo), da carne o da compagnia; il bue da carne può essere trattato diversamente da quello da lavoro, dalla vacca da latte, dal toro da riproduzione, dal vitello trattato con gli ormoni, ecc.; inoltre, nuove varietà possono essere create per migliorare questi prodotti specializzati, conservando la mancanza di paura o di aggressività o la docilità nei confronti dell'uomo. Un utile schema delle possibili utilizzazioni degli animali domestici può essere tracciato a partire da quello elaborato da F. Sigaut:

1. Prodotti derivati dal corpo: a) di animali morti: carne, sangue (alimentazione), grasso (cucina, colla, illuminazione, lubrificazione), tendini, budelli (cordami, cucito), ossa (materiali duri per tutti gli usi, dalla costruzione alle armi all'ago), pelle (cuoio, pergamena, pelliccia, colla), denti, zanne, corni, zoccoli, scaglie, conchiglie, madreperla, perle, coloranti (murice, cocciniglia), ecc.; b) di animali per lo più vivi: peli (lana, crini, lanugine, per filo, feltro, materassi, pennelli, spazzole); piume (cuscini, ornamenti, materassi); secrezioni o escrezioni (muschio, cera, miele, inchiostro, seta), prodotti fisiologici o biologici, plasma, siero; c) di animali vivi: escrementi: urina (sali, ammoniaca), materia fecale (concia, combustibile, concime); latte (yogurt, burro, crema, caglio, formaggio, lattosio), uova (alimentazione, riproduzione, guscio).

2. Fornitura d'energia: a) tiro: attacco (aratro, carro, slitta, carro da guerra, macchine), maneggio (macina, ecc.); b) trasporto: basto, sella, lettiga; c) gabbia di scoiattoli, ruota di arrotino, ecc.

3. Sfruttamento di particolari comportamenti: a) comportamento alimentare: organismi pulitori usati per l'eliminazione di residui; b) diffusione di piante o di semi: fecondazione dei fiori (api), diffusione dei semi attraverso il pelo o le deiezioni; associazioni con microrganismi ('buoni' o 'cattivi'); c) comportamento predatorio: lotta contro altri predatori; aiuto nella caccia, pesca e raccolta; d) controllo del territorio: guardia, difesa, segnalazione di pericolo, portamessaggi; e) ricerca di tracce (droga, tartufi, miele, persone scomparse); f) comportamenti sociali: compagnia, zooterapia, zoofilia, guida delle gregge, canto, richiami di caccia, combattimenti, corsa, spettacoli.

4. Ruolo semiotico: come segni di riferimento del tempo, divinazione, sacrificio, ricchezza, prestigio, status, moneta o valore.

Questo schema semplificato può essere applicato a quella ventina di specie che l'insieme dei criteri sopra esposti definisce, a nostro avviso, come 'domesticate', e delle quali si può rapidamente ricordare la storia e l'importanza seguendo le diverse epoche e regioni; non è inutile ricordare, per esempio, che gli occidentali (e i loro discendenti siberiani, americani o australiani) sono molto più carnivori degli arabi, indiani o cinesi e quindi che, quali siano state le cause originarie (selvaggina abbondante, Tierhaltung precoce, temperatura fresca, foresta umida, predisposizione fisiologica che porta a rifiutare la fatica di coltivare le piante e lavorare la terra), hanno molto apprezzato i prodotti che potevano ottenere dagli animali uccisi.

L'animale domesticato da maggior tempo (e il più polivalente) è il cane; l'antropofilia dei canidi ha sicuramente attirato l'attenzione degli uomini in aree diverse; i resti o tracce ritrovati nell'attuale Siberia (13.000 anni a.C.) possono forse appartenere a dei lupi, ma certo questo non è possibile per i resti ritrovati in Asia Minore o in India (dai 10.000 ai 12.000 anni a.C.), che possono essere attribuiti al cane delle torbiere (Canis palustris) o allo sciacallo dorato. Fin dall'inizio esso è stato compagno di mensa (e spazzino), di caccia o di gioco, guardiano del campo e delle riserve di carne; e così si sono rapidamente precisate diverse razze. L'antico Egitto conosceva già bassotti, levrieri, pastori e dogue (giunti con il cavallo alla fine del secondo millennio). Aristotele conta dai 7 agli 8 tipi di cani diversi, dei quali si possono trovare i resti negli scavi romani di Tác in Pannonia; appaiono cani da guerra (che Alessandro avrebbe combattuto in India) e cani d'attacco (lo stesso Alessandro ne avrebbe posseduto uno capace di atterrare prima un leone e poi un elefante!). Portatori di fuoco greco nel Medioevo e di esplosivi nella seconda guerra mondiale, cani infermieri, Terranova o San Bernardo che salvano o ritrovano feriti o scomparsi, i cani sono stati talvolta disprezzati come divoratori di cadaveri o di rifiuti (soprattutto nel mondo mediterraneo e nel periodo biblico di Gezabele) o magnificati come nobili compagni di caccia (da Ulisse al Medioevo occidentale), guardiani e fedeli compagni (levriero). È probabilmente nel Medioevo che fa la sua comparsa il cane di Sant'Uberto (prima razza 'creata' dall'uomo); alla fine del Medioevo si sviluppano delle razze nane di cani, adorati dai loro padroni, inutili e destinati a restare in casa; a partire dal XVIII secolo si assiste alla moltiplicazione delle innumerevoli razze di cani da caccia, del Dobermann, del pastore tedesco, all'arrivo del pechinese e al moltiplicarsi dei cani da compagnia.

È soltanto in questo periodo, all'incirca verso il 1869, quando vi erano già ben 195 razze di cani, che il gatto (di cui vi erano solo 6 razze) cominciò a sviluppare la sua concorrenza al cane come animale di famiglia; domesticato recentemente (appena da 5.000 anni), a partire dal gatto egiziano (usato contro topi e serpenti) o dal gatto delle steppe asiatiche, per passare alle razze 'birmane' (dei monasteri buddhisti), persiane o siamesi, ecc. Dall'Egitto, quindi, il gatto è penetrato nel mondo romano, sotto gli imperatori, e in Gallia. L'urbanizzazione medievale, le riserve di grano (assai appetite dai topi) ne hanno favorito la moltiplicazione; detestato però più o meno esplicitamente per la sua parentela con il gatto selvatico o per il suo legame con il paganesimo o la stregoneria, solo molto lentamente è diventato la bestia affettuosa conosciuta dai monaci o dai ragazzi e da qualche borghese del Medioevo. Altri carnivori o roditori hanno avuto sorti simili: la mangusta (nei paesi infestati dai serpenti), il furetto (fin dalla bassa antichità per cacciare i conigli), la lontra dell'Estremo Oriente (per pescare), la cavia (da circa 6.000 anni nelle Ande per la sua carne e la sua simpatia, molto più di recente nei nostri laboratori, dove fa concorrenza al topo bianco albino), o il coniglio, di cui si è già trattato.

Non sono domestici, ma allevati, gli animali da pelliccia, a partire dalla fine del secolo scorso (volpi argentate, visoni, ecc.); addomesticati o addestrati i delfini, conosciuti già dai Cretesi o dai Romani, ma utilizzati soprattutto dagli Americani dopo la seconda guerra mondiale; i ghepardi da caccia (Africa, India) e, tra gli erbivori, gli elefanti (il cui addestramento risale a circa 5.000 anni fa). Gli erbivori domesticati sono: al Nord, la renna, sfuggita alle cacce dell'epoca preistorica, utilizzata dai Samoiedi da almeno 3.000 anni prima di Cristo; il camoscio di Battriana, adattato al freddo (tra il Turkestan e la Manciuria, 3.000 anni a.C.) e il dromedario, giunto dall'Arabia (verso il 2.500 a.C.), che si è diffuso in India come nel Sahara nel corso del primo millennio); in America, l'alpaca e il lama del Perù (da circa 6.000 anni); la vigogna viene addomesticata e tosata, ma non allevata (si dice che la finezza della sua lana potrebbe risentirne).

Fondamentali, tra gli erbivori, sono i bovini: zebù indiano, yak del Tibet, bufalo asiatico e, discendente dall'uro, il bue, domesticato in Asia Minore, in Tessaglia (da almeno 8.000 anni), e, poco dopo, in Egitto, non lontano da Assuan e nel delta del Nilo. Aggiogato da almeno 4.500 anni, fornitore di carne, latte, formaggio e ancor più usato come animale da lavoro, il bue è stato alla base dell'agrosistema occidentale e del paesaggio attuale, formatosi prima del XIV secolo.Gli ovini provengono dal Vicino Oriente turco (circa 9 o 10.000 anni fa) e si sono diffusi in Siria, Irak e poi in Occidente (da 8 a 9.000 anni fa); la pecora è stata selezionata più tardi per la pelliccia dell'agnello (karakul, 6.000 anni fa) o per la lunga lana (Medioevo, Inghilterra e Castiglia); la capra è stata domesticata circa 9.000 anni fa nello Zagros iraniano. Tra gli equini, l'asino 'tuttofare' proviene, probabilmente, dalla vallata del Nilo (7.000 anni fa) e da lì si è diffuso verso Est e verso Ovest (in quest'ultimo caso verso la fine del primo millennio). Il tarpan d'Ucraina ha dato origine (circa 5.500 anni fa) al nobile cavallo, rapidamente addestrato a tirare il carro da guerra e a facilitare le invasioni e le dominazioni 'indoeuropee', dall'India all'Occidente; derivato dall'asino e dalla giumenta, il mulo è diventato poco per volta di uso universale.

Il porco, infine, onnivoro, attirato dagli avanzi e dagli insediamenti umani, è rimasto dovunque assai vicino al cinghiale, da circa 9./10.000 anni (Irak, Tessaglia) e viene utilizzato quasi soltanto per i prodotti che si ricavano dalla macellazione.

A questi mammiferi si possono aggiungere una decina d'uccelli: l'oca selvatica, che scende spesso in branco nei villaggi, dove cerca nutrimento, è stata domesticata circa 4.500 o 5.000 anni fa, molto prima dell'anatra, che ha cominciato a essere domesticata solo verso la fine dell'antichità, o del cigno, ornamento degli stagni di Carlo Magno o delle tavole medievali; il gallo verrebbe dall'India (circa 8.500 anni fa) e si sarebbe diffuso in Occidente durante l'età del bronzo, poco prima dell'età del ferro 'gallica' (il termine gallus fa riferimento all'animale); il pavone proveniente dall'India antica, il tacchino dal Messico (7.000 anni fa), la faraona, portata dai Romani dalla Numidia, si sono diffusi in Occidente durante il Medioevo e il Rinascimento. Piccioni e colombi, uccelli migratori che tendono a fissarsi in posti attraenti, anche sistemati dagli uomini, sono controllati dall'uomo da circa 3.000 anni lungo i loro itinerari (Iran, Egitto). Vengono addestrati falchi, aquile e cormorani; allevati struzzi, pappagalli, pappagallini, canarini, ecc.; e sono più o meno familiari dell'uomo: ibis, marabù, urubù e altri uccelli che si cibano di carogne. Nel caso del coccodrillo, usato in pelletteria, della rana usata come barometro, della carpa, del pesce rosso, della trota e di altri pesci d'allevamento, non si può parlare di domesticazione.

Tra gli invertebrati, ve ne è uno solo completamente domesticato, da oltre 5.000 anni, il baco da seta, del quale si è già parlato, arrivato dalla Cina attraverso Bisanzio (VI secolo), poi la Sicilia e la Spagna (XI secolo), infine la Provenza e il resto d'Italia (XVI secolo). Un altro invertebrato domesticato, ma rimasto selvatico, è l'ape, sfruttata e al tempo stesso protetta da alcuni millenni (almeno dai tempi dell'antico Egitto); uno è invece addestrato a combattere da circa 1.500 anni (il grillo cinese) e molti sono allevati: la cocciniglia nopale (Messico, XVI secolo), crostacei, lumache, cozze, ostriche (per uso gastronomico dai tempi di Roma, per le perle dopo che il giapponese Mikimoto ne introdusse la coltivazione circa 100 anni fa) e infine, da poco tempo, i lombrichi.

In conclusione, la domesticazione, sviluppatasi lungo il corso di millenni, non può essere confusa con l'agricoltura, l'allevamento o lo sfruttamento programmato, anche se si tratta comunque di tappe che segnano un'evoluzione che prende le sue mosse dalla caccia e dalla raccolta. I fattori spazio e tempo, e quindi la storia, sono fondamentali; una specie domesticata (e stabilmente differenziata dalle forme selvatiche dalle quali essa deriva) richiede da parte delle società umane, oltre al controllo della riproduzione e della selezione, un'attenzione continua, cure specifiche (sorveglianza, sostentamento), rapporti di fiducia. La domesticazione comporta inoltre uno sfruttamento di natura economica e affettiva, l'addomesticamento e l'affetto verso gli animali, ma anche, sembra, verso alcune piante sensibili al 'pollice verde' che le cura. Senza dimenticare, infine, la tendenza profondamente umana all'appropriazione e al dominio. (V. anche Evoluzione culturale).

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