VENIER, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VENIER, Domenico

Giacomo Comiati

VENIER, Domenico. – Nacque a Venezia il 25 dicembre 1517, secondogenito di Giovanandrea Venier da San Vio, senatore e dotto mecenate, e di Foscarina Foscarini, nobildonna e poetessa, che diede alla luce almeno altri quattro figli (Lorenzo, Alvise, Francesco e Girolamo).

Sotto la guida di Battista Egnazio (Giambattista Cipelli), studiò lettere greche, latine e italiane. Si appassionò in particolare a queste ultime e cominciò subito a dimostrare una notevole capacità versificatoria. Nel corso degli anni Trenta frequentò le case di Pietro Bembo e di Bernardo Capello, oltre che palazzo Leonardi, dove si incontravano Valerio Marcellino, Girolamo Ferro e altri letterati. Tra i più forti legami che strinse in questo periodo va ricordato quello con Federico Badoer.

All’interesse per la letteratura si affiancò in Venier la necessità di intraprendere il cursus honorum, come il suo status di patrizio richiedeva. Iniziò la sua carriera venendo eletto il 24 settembre 1540 savio agli Ordini. Il 16 agosto 1541 fu nominato camerlengo a Brescia (fu in carica dal 14 ottobre 1541 al 13 febbraio 1543). Il 26 ottobre 1544 venne eletto auditor vecchio. A metà degli anni Quaranta fu colpito da una malattia alle gambe (molto probabilmente una grave forma di gotta), che lo costrinse a lungo a non assumere alcun incarico ufficiale. La datazione precisa dell’inizio dei suoi problemi di salute è una questione non ancora risolta. È possibile che la malattia si fosse già manifestata in qualche forma prima del marzo del 1546, quando la situazione si aggravò. Negli anni successivi le sue condizioni continuarono a peggiorare: fu infermo dal 1549 e poi costretto a letto dal 1564, seppure non in modo definitivo.

In concomitanza con il deteriorarsi della sua salute si assistette a un parallelo intensificarsi degli incontri che da qualche anno avevano iniziato ad avere luogo nel suo palazzo in S. Maria Formosa e che vedevano molti uomini e donne di cultura riunirsi attorno a lui per fare poesia e discutere di letteratura. Sin dagli inizi del quarto decennio del secolo, Venier riempì gradualmente il vuoto creatosi a Venezia in seguito alla partenza di Bembo per Roma nel 1539. Il patrizio divenne un punto di riferimento sempre più fondamentale nel quadro della cultura lagunare e il fulcro di una rete sempre più ampia di letterati, musicisti e filosofi, che ben presto si estese oltre i confini della Serenissima. Tra il 1548 e il 1557 le riunioni si intensificarono ulteriormente. Palazzo Venier fu frequentato da moltissime figure di alto prestigio: Girolamo Molin (con cui Venier si legò in sincera amicizia), Dionigi Atanagi, Bernardo Tasso, Sperone Speroni, Girolamo Ruscelli, Girolamo Muzio, Fortunio Spira, Giacomo Zane, Giorgio e Pietro Gradenigo e Girolamo Parabosco (quest’ultimo fu organista di S. Marco e la sua presenza nel cenacolo ricorda che, sebbene gli interessi del gruppo fossero soprattutto letterari, nell’eclettismo delle riunioni trovava spazio anche la musica: a Ca’ Venier, infatti, si praticava la polifonia volgare e la musica improvvisata in accompagnamento alla recita di poesie). Anche molti giovani letterati – come Veronica Franco, Luigi Groto, Celio Magno e Girolamo Fenaruolo – presero parte agli incontri di quella che venne definita da alcuni contemporanei l’Accademia Venier, sebbene non assunse mai i contorni formali di un’accademia stricto sensu.

Diverse poesie di molti frequentatori di Ca’ Venier apparvero insieme a stampa nel 1550 all’interno del Libro terzo delle rime di diversi autori (Venezia), che si può quindi considerare un ritratto poetico del cenacolo che si riuniva attorno al patrizio veneziano, così come lo sarebbero poi stati i Diporti di Parabosco (Venezia 1551) e il Diamerone di Marcellino (Venezia 1563). Oltre che per la fotografia di gruppo che offre, il Libro terzo è un’opera oltremodo importante poiché in essa si assiste al debutto a stampa di Venier. Nell’antologia furono incluse diciannove sue rime (di cui tredici piangevano la scomparsa di Bembo, avvenuta nel 1547) grazie alle quali si presentò al pubblico e fu percepito come strettamente legato al cardinale e come suo erede letterario. Nel 1553 all’interno del Libro sesto delle rime uscì un nuovo corpus di trentadue suoi componimenti; altri gruppi di suoi testi erano già apparsi nel Libro quinto (1552), e sarebbero poi stati inclusi nel Libro ottavo (1558), nel De le rime di diversi (1565), nonché nei paratesti di opere di amici e come proposte o risposte in edizioni di altri letterati; ma la raccolta poetica inclusa nell’antologia del 1553 costituisce un unicum, essendo la sola che assume le forme di un microcanzoniere, in cui è cantato in stilus gravis il suo amore per Elena Artusi, che, vestendo, invece, i panni di un’odiata donna facile, fu la protagonista della produzione in dialetto veneziano del patrizio.

Nel corso del 1557, a seguito del rientro a Venezia nel febbraio di quell’anno dell’amico fraterno Federico Badoer, il cenacolo di Venier visse un’articolata metamorfosi. Sotto la guida di Badoer un’ampia parte del gruppo originario si organizzò ufficialmente in accademia, che prese il nome di Accademia veneziana della Fama, il cui atto costitutivo fu firmato il 14 novembre 1557 a Ca’ Venier. Nonostante il coinvolgimento di molti dei suoi sodali, Venier non ne divenne mai membro, sebbene sia certamente stato uno degli ispiratori e dei promotori del suo programma culturale ed editoriale.

Le ragioni di questa scelta furono in parte dettate da motivi di salute, ma risiedettero anche nella preferenza accordata dal patrizio agli scambi informali che avvenivano nel suo salotto, rispetto a quelli formalizzati e dettati da un’agenda politica, propri dell’Accademia.

Dopo la repentina chiusura di quest’istituzione nell’agosto del 1561, il genere di scambi più riservati che Venier prediligeva riprese ad aver luogo. Domenico continuò dunque a essere il principale promotore della nuova poesia volgare e su sua iniziativa uscirono postume tre importanti raccolte poetiche di assidui frequentatori del suo cenacolo: le rime di Zane (1562), Molin (1573) e Fenaruolo (1574).

Dall’inizio degli anni Sessanta, complice un possibile periodo di lieve miglioramento delle sue condizioni di salute, Venier riprese ad assumere alcuni incarichi civili: il 7 giugno 1562 fu eletto provveditore al Cottimo di Alessandria, e rimase in carica fino al 7 ottobre 1563; pochi mesi dopo venne nominato officiale alle Rason Vecchie, carica che tenne fino al 14 marzo 1565. Nel corso del decennio che seguì sembra che non abbia svolto alcun ruolo all’interno dell’amministrazione veneziana, ma attorno alla metà degli anni Settanta è possibile che abbia ricoperto un’altra carica ufficiale. Nel 1574 fu forse nominato tra i tre giudici al Procurator. Lo svolgimento di questo incarico (o di un altro compito ufficiale) non risulta dai registri del Segretario alle Voci, bensì può essere dedotto dagli atti di un processo del S. Uffizio, aperto nel 1576 contro di lui. Un certo Giacomo Gallo, conoscente di un servitore del patrizio, riferì ai savi all’Eresia di essere a conoscenza del fatto che Venier si recava troppe poche volte in chiesa, come gli era stato detto dal domestico del senatore nel palazzo di San Matteo mentre Domenico – riporta Gallo – era «in officio» (Zorzi, 1986, p. 89). I savi non presero provvedimenti e chiusero la pratica senza nemmeno convocare Venier. Ma la testimonianza del processo inquisitorio è preziosa perché permette di sapere che Domenico svolse un altro incarico ufficiale, prima di essere eletto nel 1577 come uno dei «dodici sopra le appellationi dei beni inculti» (ibid., p. 84).

Morì il 16 febbraio 1582 e fu sepolto nella chiesa parrocchiale di S. Geminiano.

Venier compose più di duecentosettanta poesie. Meno della metà apparve a stampa, esclusivamente in antologie o nelle raccolte di rime altrui, poiché non si dedicò mai alla pubblicazione dei propri testi; un progetto di canzoniere appare in un codice della Biblioteca nazionale Marciana, It. 589 (= 9765), ma il lavoro non venne mai portato a termine, diventando poi una sorta di ‘codice degli abbozzi’. Diciassette sue composizioni ebbero una messa in musica, per un totale di quarantadue intonazioni e cinquantuno edizioni. La poesia in volgare di Venier si fa testimone delle istanze mature di un bembismo rigoroso, declinato in uno stile alto e capace di dare voce a uno spettro di espressività e sentimenti che travalicano il confine dell’universo amoroso. Se il suo lessico è di imitazione petrarchesca (sebbene non manchino alcuni dantismi e qualche stilnovismo), gli aspetti più innovativi si manifestano nell’ambito sintattico-retorico. In una parte della sua produzione Venier, infatti, si fa sperimentatore di tessiture difficili e di acrostici, praticando la rapportatio e dedicandosi a schemi verbali iterativi e posizionali, che molta influenza avrebbero avuto sulla lirica italiana – su Groto e Gabriele Fiamma, ad esempio – e su quella francese e spagnola, in particolare su Luis de Góngora.

Venier non limitò i propri interessi linguistici al volgare petrarchesco e al veneziano (in cui, come si è detto, compose diverse rime), ma li estese, da un lato, al pavano: fu infatti sostenitore di iniziative liriche in questo dialetto e promotore, insieme ad Andrea Boldù, della raccolta di rime di Giovan Battista Maganza (Magagnò), Agostino Rava (Menon) e Marco Thiene (Begotto) «in lingua rustica padovana» pubblicata a Padova tra il 1558 e il 1569; e, dall’altro lato, alla lingua volgare delle origini e al provenzale. Due codici recano testimonianza di questi interessi: il manoscritto di Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. 589 (= 9765), c. 34, conserva estratti lessicali e verbali derivati dai testi di Guittone d’Arezzo, mentre nel codice di Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 465 inf., è presente un’opera di Venier dedicata alla poesia provenzale di Peire d’Alvernhe. Va infine ricordato che Venier tradusse in volgare un’ode di Orazio (III, 9), pubblicata nell’antologia Odi diverse d’Orazio vulgarizzate (Venezia 1605), e i primi venticinque versi del primo libro delle Metamorfosi di Ovidio in sei ottave.

Opere. Alcune rime di Venier apparvero a stampa in varie antologie del Cinque e del Seicento e poi furono raccolte in Rime, a cura di P. Serassi, Bergamo 1751. Più che duplicato rispetto all’edizione Serassi è il corpus lirico di Venier incluso in M. Bianco, Le “Rime” di Domenico Venier (edizione critica), tesi di dottorato, Padova 2000.

Fonti e Bibl.: Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 465 inf.; Archivio di Stato di Venezia, Sant’Uffizio, Processi, b. 40, 2; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. 589 (= 9765).

E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, pp. 51, 214, 226, n. 1, IV, 1834, pp. 444 s.; B. Richter, Petrarchism and Antipetrarchism among the Veniers, in Forum Italicum, III (1969), pp. 20-42; D. Alonso, Pluralità e correlazione in poesia, Bari 1971, pp. 124-129, 156-173; E. Taddeo, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma 1974, pp. 39-65; A. Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze 1976, pp. 243-270; F. Erspamer, Petrarchismo e manierismo nella lirica del secondo Cinquecento, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi - M. Pastore Stocchi, IV, 1, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 190-222; G. Pozzi, Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose, Bologna 1984, pp. 123-128; A. Zorzi, Cortigiana veneziana: Veronica Franco e i suoi poeti, Milano 1986, pp. 69-90; T. Agostini Nordio, Poesie dialettali di D. V., in Quaderni veneti, XIV (1991), pp. 33-56; M. Feldman, The Academy of D. V. Music’s literacy muse in Mid-Cinquecento Venice, in Renaissance quarterly, XLIV (1991), 3, pp. 476-512; M. Milani, Di un omaggio pavano a D. V., in Quaderni veneti, XVIII (1993), pp. 179-186; L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino 1995, pp. 3-25; M. Feldman, City culture and the Madrigal at Venice, Berkeley 1995, pp. 87-120; F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del ’500, Milano 1999, pp. 208-211; A. Casu, Sonetti fratelli. Caro, V., Tasso, in Italique, III (2000), pp. 45-87; M. Frapolli, Un micro-canzoniere di D. V. in antologia, in Quaderni veneti, XXXIII (2001), pp. 29-68; G. Baldassarri - M. Bianco, Officina padovana, in Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici, a cura di A. Quondam, Roma 2004, pp. 327-344; P. Zaja, Petrarchismo veneto dopo il Bembo, in Lirici europei del Cinquecento, a cura di G.M. Anselmi et al., Milano 2004, pp. 646-696; M. Bianco, D. V. e l’epitaffio di Pietro Aretino, in Quaderni veneti, XLI (2005), pp. 109-116; Ead., Quarantena guittoniana in un autografo di D. V., in Medioevo romanzo, XXXII (2008), pp. 85-115; Ead., D. V., in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, I, a cura di M. Motolese et al., Roma 2009, pp. 373-375; M. Frapolli, Quand’io sarò spento e sotterra. I pianti lirici in morte del Bembo e il ruolo di D. V., in Filologia e critica, II (2009), pp. 161-205; D. Rossi, The illicit poetry of D. V.: a British Library codex, in The Italianist, XXX (2010), pp. 38-62; M. Bianco, Petrarchismo e filologia nel secondo Cinquecento veneziano, in Le forme della tradizione lirica, a cura di G. Baldassarri - P. Zambon, Padova 2012, pp. 61-86; C. Quaintance, Textual masculinity and the exchange of women in Renaissance Venice, Toronto 2015, passim; V. Guarna, L’Accademia veneziana della Fama (1557-1561). Storia, cultura e editoria, Manziana 2018, passim.

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