PARODI, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PARODI, Domenico

Mariangela Bruno

– Nacque a Genova nel 1672 (Franchini Guelfi, 1988b, pp. 280, 293) dallo scultore Giacomo Filippo Parodi. Indirizzato agli studi classici, dimostrò una propensione per la poesia e un interesse per l’arte stimolato dall’entourage paterno. Nella sua prima formazione artistica, oltre a lavorare la creta, acquisì i rudimenti del lavoro nel marmo e fu iniziato alla pittura da Domenico Piola, suo padrino di battesimo (Ratti, 1769, p. 209).

Tra l’ottavo e il nono decennio del Seicento seguì il padre in Veneto: a Venezia frequentò la bottega di Sebastiano Bombelli, dipinse una S. Cecilia (chiesa di S. Cassiano), non più rintracciabile (Ratti, 1769), e si dedicò allo studio dei maestri veneti (Ratti, 1766).

Grazie alla mediazione paterna dipinse una tela, La Vergine con il Bambino e s. Antonio, per l’oratorio di S. Antonio da Padova ad Anguillara, pagata nel 1694 (Sartori, 1962), che propone il tradizionale schema del dialogo mistico e mostra una personalità artistica già definita: una concezione dinamica e fluida, memore di Correggio, e una sapiente gestualità.

Rientrato in quell’anno a Genova firmò con Jacopo Antonio Ponzanelli una lettera per difendere il diritto a esercitare l’arte della scultura senza doversi iscrivere alla Corporazione (Belloni, 1988; Bruno, 2012a); il documento sembrerebbe così attestare accanto alla pratica della pittura il lavoro nel marmo: a Domenico è stato riferito un pagamento datato 1690 per la statua della Madonna del Rosario della parrocchiale di Savignone (Sanguineti, 2011, p. 114, n.1).

Il 1695 segnò il suo esordio nel contesto genovese: realizzò per Giovanni Andrea III Doria una tela con la Visione di s. Giovanni de Matha e s. Felice di Valois (chiesa di S. Benedetto al Porto; Stagno, 2012, pp. 366-368). Il legame con i Doria, favorito probabilmente dal padre Filippo, si protrasse sino agli ultimi anni di vita dell’artista (Ead., 2011). Secondo recenti proposte tale rapporto gli avrebbe assicurato l’incarico per L’arca dell’alleanza e Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, dipinti per la chiesa romana di S. Maria in Vallicella (Ead., 2012, pp. 369-371) e pagatigli tra il 1697 e il 1699 (Dunn, 1982, p. 611). Tuttavia non si può escludere la mediazione di altri genovesi presenti a Roma in quel tempo (Bruno, 2012a), quali il cardinale Giacomo Franzone (Gavazza, 2000b, p. 9).

Dei soggiorni romani di Parodi (Ratti, 1762, pp. 157 s., e 1769, p. 210) è possibile attestare solo quello tra il 1695 e il 1699. In quel periodo studiò le scenografie pittoriche di Pietro da Cortona e di Giovanni Francesco Romanelli, concentrandosi sulla valenza dinamica espressa poi nella sua produzione grafica (Soldani, 1967, p. 63); frequentò inoltre Giovanni Battista Gaulli (Assini, 2000, p. 126) e Carlo Maratti. Il primo nutrì la sua ‘anima’ barocca in continuità con quanto appreso in patria, mentre il secondo indirizzò Domenico a porre quale fondamento della sua arte il disegno, adottando forme delineate con chiarezza e in maniera composta e una tavolozza pittorica dagli accordi tonali vivaci e dai bilanciati contrasti chiaroscurali.

Tale momento di transizione è attestato da alcuni dipinti nel primo decennio del XVIII secolo. L’Annunciazione, posta nella macchina d’altare progettata dal padre per la chiesa savonese della Ss. Annunziata (oggi oratorio del Cristo Risorto), mostra una componente gaullesca nella figura angelica e nella luce dorata che permea la scena; nella Morte di Lucrezia (1703) la composizione pittorica pausata e la dimensione emotiva temperata ripropongono formule care a Nicolas Poussin (Ratti, 1769, p. 211; Gavazza, 2000b, p. 9). La matrice marattesca emerge nelle pale dipinte qualche anno più tardi: S. Stefano e s. Leonardo in adorazione della Ss. Trinità e della Vergine (chiesa di S. Maria delle Vigne) e la Vergine e s. Francesco di Sales (1715 circa; chiesa di S. Filippo Neri), dove la dimensione narrativa si stempera entro una «quiete contemplativa» (Magnani, 2000a, p. 309).

Il rientro nel contesto genovese significò altresì presentarsi all’élite locale quale continuatore della tradizione dell’affresco, conciliando in tal modo le istanze encomiastiche della committenza con il desiderio di mostrarsi artista aggiornato (Gavazza, 1987, pp. 238, 272 s., e 1989). Entro questa strategia è da ricondurre la Gloria della famiglia Negrone, allegoria celebrante la magnificenza del casato (Gavazza, 2000b, pp. 26 s.) che gli procurò molti sostenitori nel concorso del 1700 per la decorazione del Salone del maggior consiglio di Palazzo Ducale (Ratti, 1769, p. 213), vinto non senza aspre polemiche dai bolognesi Marcantonio Franceschini e Tommaso Aldrovandini (Gavazza, 1978-1979, pp. 167 s.; Biavati, 1999, pp. 368 s.). Della proposta di Parodi rimane oggi solo un bozzetto (Ciliento, 1991, pp. 159 s.; Leoncini, 2008). L’artista fu in seguito parzialmente risarcito con la committenza delle Virtù cardinali, dell’Amor di Patria e dell’Amor Divino per il Salone del minor consiglio, monocromi distrutti in un incendio nel 1777 (Ghio, 1999, p. 394).

Alla morte del padre (1702) ereditò il fiorente laboratorio da scultore e i fidati collaboratori, per primo Francesco Maria Biggi, che lavorarono all’ombra del titolare traducendone i bozzetti nel marmo (Ratti, 1769, p. 230; Bruno, 2012b, p. 148). Domenico divenne pertanto il solo in ambito locale ad affiancare, a una brillante attività di pittore, la conduzione di una bottega da scultore; un riflesso di questa versatilità è riscontrabile anche nei disegni predisposti per manufatti scultorei (Franchini Guelfi, 1988a, pp. 51, 53). Nonostante si sia parlato di un ruolo esclusivamente ideativo nell’ambito plastico, i beni inventariati alla sua morte registravano una Madonna del Rosario con il Bambino scolpita a grandezza naturale, e un busto iniziato dal padre e da lui terminato (Ivaldi, 1996, p. 221). La fama di artista ‘completo’ varcò i confini locali: sulla scorta di questa notorietà ricevette, infatti, l’incarico per il busto di Giovanni V, re di Portogallo (1705-15; Franchini Guelfi, 1995, e 2006, pp. 224 s.; Bruno, 2011, p. 168).

Nel primo decennio del Settecento la sua attività fu connotata da spunti di eccezionale originalità e versatilità, prova ne sono le committenze dell’Ordine ignaziano a Genova: gli affreschi della cappella domestica nel Collegio gesuitico (1709; Lamera, 1987, pp. 342 s.) e il rifacimento della cupola della chiesa del Gesù con pitture e stucchi (Magnani, 2007, p. 128). Entro il 1710 lavorò alla sala ‘della Grotta’ per la dimora di Anton Giulio II Brignole-Sale (Boccardo, 2004a).

In tale decorazione il mito di Paride è narrato in uno spazio architettonico dove pittura e scultura creano un gioco tra mito, realtà e metamorfosi della materia (Magnani, 2000b, pp. 158-161, 164 s., 168), soluzione adottata anche nella coeva allegoria nuziale di villa Durazzo a Pino Sottano che esaltava i committenti Gio. Luca II Durazzo e Paola Franzone (ibid., pp. 149-153, 156; Gavazza, 2000b, p. 30, e 2009, pp. 350 s.).

Come ben esemplifica il suo Autoritratto (1719; Bruno, 2004; Sanguineti, 2011, p. 109), l’interesse per l’epica e la poesia pose l’artista-letterato in un dialogo privilegiato con la committenza più colta e ricercata. Così, intorno al 1710, Domenico affrescò tre sale del palazzo di Matteo Franzone, membro della Colonia ligustica dell’Arcadia, con allegorie della poesia petrarchesca: nel disegno preparatorio è compresa anche parte della cornice architettonica, segno di un tentativo di indirizzare il lavoro del quadraturista (Boccardo, 1999).

Nel 1712 eseguì gli affreschi della cappella di Nostra Signora di Loreto nella chiesa di S. Maria Maddalena (Stoppiglia, 1929; Colmuto Zanella, 1976; Piccinno, 2000): di una di queste scene esiste un elaborato grafico in cui il ductus dell’artista si manifesta con un tratto asciutto e spigoloso di ascendenza marattesca (Boccardo, 1994, pp. 83, 87, fig. 1).

Sempre nel secondo decennio del secolo è da situare l’intervento nella dimora di Carlo e Stefano Pallavicino in Strada Nuova (Manzitti - Priarone, 2004, p. 63), dove creò un’armoniosa osmosi tra spazi interni ed esterni (Magnani, 2004, p. 46).

In una sala, in qualità di unico ideatore della decorazione delle pareti e dell’impaginato della volta, come attesta il disegno progettuale (Gavazza, 1977; Disegni genovesi, 1989; Gavazza, 2000b, pp. 32, 34, fig. 36), dipinse Bacco che regge la corona di Arianna (Gavazza, 2000a, pp. 66-68; Manzitti - Priarone, 2004, pp. 63 s.). Ideò inoltre una fontana-ninfeo per raccordare il cortile del palazzo con il giardino soprastante a monte, dove in una grotta rustica sculture raffigurano la favola di Adone (Magnani, 1987; 2000b, p. 158, e 2004, p. 48).

Tra il 1712 e il 1715 Gerolamo Ignazio Durazzo, apprezzati gli affreschi nella cappella della propria dimora in Strada Balbi, affidò a Parodi la raffigurazione di Diana ed Endimione in un’altra sala (Gavazza, 2000a, pp. 84, 86; Leoncini, 2012, p. 356). Intorno al 1725 il medesimo committente lo incaricò altresì di progettare l’allestimento della sontuosa Galleria degli Specchi.

In tale decorazione il pittore orchestra una trionfale celebrazione del casato, dove lo stemma Durazzo risulta circondato da Virtù. Attraverso un abile uso del mezzo pittorico sono simulati bassorilievi con immagini allegoriche e all’interno di questo ensemble sono inserite sirene in stucco, che evidenziano le qualità di Parodi come artista a tutto tondo (Gavazza, 2000a, pp. 86-99; Leoncini, 2012, pp. 248-261).

Il suo spiccato senso scenografico, retaggio della formazione secentesca, si palesò anche nel ruolo di regista per cerimonie e per feste pubbliche e private (Magnani, 2007, pp. 128-138).

Progettò numerosi apparati effimeri in Genova: per la canonizzazione di Pio V in S. Maria di Castello (1713; Vigna, 1864), per la beatificazione di Francesco Regis nella chiesa del Gesù (1716; Franchini Guelfi, 1986, p. 11; Ivaldi, 1992, pp. 301-303; Magnani, 2007, p. 128; Priarone, 2007), uno spettacolo pirotecnico per Giovanni Andrea III Doria-Pamphilj (Stagno, 2012, p. 376), i festeggiamenti per la presenza in città di Carlo Alberto di Baviera, accolto su un’isola galleggiante con il tempio di Nettuno (Ratti, 1769, pp. 224 s.; Gavazza, 1978-1979, p. 166; Newcome, 1980; Boccardo, 1994, pp. 83 s.; Gavazza, 2007). Ancora nel 1736-37 si occupò delle celebrazioni per l’Apparizione di Nostra Signora della Misericordia di Savona (Ratti, 1769, pp. 226 s.; M. Natale - V. Natale, 1985, p. 200; Collu, 2004, pp. 21 s.; Magnani, 2007, p. 137) e per la canonizzazione di Caterina Fieschi Adorno (Ratti, 1769, p. 225; Manzitti, 2007, p. 175).

Il segno dell’attrattiva in città della sua bottega da scultore è inoltre dato da un documento del 1716, con cui Parodi si impegnava a far perfezionare un giovane in tale professione (Franchini Guelfi, 1988b, pp. 293 s.). In questo periodo furono scolpite Amor di Dio e Purezza, per l’altare di s. Francesco di Sales nella chiesa oratoriana genovese, la Vergine con il Bambino per i Ss. Nicolò ed Erasmo di Genova Voltri (p. 294), mentre, in veste di architetto-scultore, Parodi sistemò la scala nell’atrio del Collegio dei gesuiti (Colmuto Zanella - De Negri, 1987, p. 264).

Sono questi gli anni in cui Domenico alternò l’attività di pittore a quella di scultore, conquistandosi il favore presso una prestigiosa committenza europea. Sono da collocare post 1716 le nove statue per la residenza del Belvedere a Vienna del principe Eugenio di Savoia (Milano, 1996, pp. 99 s., e 2004, pp. 182-186), opere celebrate dall’arcade Giovanni Battista Ricchieri (Ratti, 1769, pp. 223 s.). Sempre per l’ambito austriaco Domenico – «Berühmten Bildhauer» (Eilenstein, 1918) – realizzò per Maximilian Pagl, abate del convento benedettino di Lambach (Alta Austria), due Angeli e tre Virtù per il tabernacolo dell’altare maggiore della chiesa conventuale (1719) e una pala d’altare raffigurante L’adorazione dei pastori per il santuario di Stadl-Paura (1720; Milano, 1997-1999, e 2004, p. 184). La notorietà raggiunta trova ulteriore conferma nel carteggio, datato 1735, con Filippo Juvarra a quel tempo al servizio del re di Spagna (Battisti, 1958, pp. 292-297; Filippo Juvarra, 1978; Boccardo, 1994, pp. 84 s.).

Tra il 1713 e il 1725 Parodi e Biggi realizzarono una serie di effigi marmoree di nobili genovesi, destinate al Salone del maggior consiglio in Palazzo Ducale. Di queste opere, distrutte durante i moti del 1797, rimane testimonianza solo nelle fonti scritte (Franchini Guelfi, 1988a, pp. 51-53) e in uno studio grafico dello stesso Domenico per la statua di Ansaldo Grimaldi (Boccardo, 1994, pp. 83, 88, fig. 2).

Parodi si impegnò in effetti, oltre che nel campo della ritrattistica scultorea, come attestano i busti di Marcello Durazzo e Giacomo Filippo I Durazzo (1723, 1728; Puncuh, 1984, pp. 209 s.; Bruno, 2011, p. 168), anche in quella pittorica. Questa sua significativa produzione è stata rivalutata (Sborgi, 1987; Sanguineti, 2011) ponendo in evidenza le sue capacità nel caratterizzare efficacemente i volti ritratti. Il diffondersi del gusto francese nel Settecento attraverso le opere di Hyacinthe Rigaud e di Nicolas de Largillière segnò una nuova evoluzione nella sua pittura: egli acquisì infatti il codice ritrattistico d’Oltralpe raffigurando la nobiltà con pose e gesti di raffinata eleganza, a cui contribuì l’uso di una tavolozza pittorica dai toni argentei.

Alla morte di Paolo Gerolamo Piola (1724), Parodi e Lorenzo de Ferrari divennero i principali referenti della committenza locale, nonostante alcune interferenze esterne come Jacopo Antonio Boni (Gavazza, 2000a, p. 66). Inoltre, la morte di Biggi (1728) spinse Domenico verso la sola pratica della pittura.

Dalla fine del terzo decennio del secolo perdurò nell’uso di un linguaggio allegorico articolato in formule ripetitive, che si fecero stanche e prive di qualità pittorica, indice di un passaggio di consegne ai suoi collaboratori. Progettò e descrisse i soggetti da rappresentare nel palazzo di Giovanni Francesco Brignole-Sale, dove dipinse Gioventù in cimento (Marcenaro, 1965; Boccardo, 2004b, p. 75); eseguì inoltre per la dimora di Paolo Gerolamo III Pallavicino degli affreschi ispirati all’Eneide (1728-30; Gavazza, 2000a, p. 99, e 2000b, p. 53; Leonardi, in corso di stampa).

In continuità con tale scelta di soggetti encomiastici realizzò in quegli stessi anni un quadro per la famiglia Doria, dove erano effigiati tutti gli esponenti del casato in vita; il dipinto è noto solo attraverso una lettera di Domenico, che ribadiva una consuetudine di dialogo con la committenza (Stagno, 2012, pp. 380-382).

Tra il 1734 e il 1736 affrescò per Stefano Durazzo L’allegoria dei fiumi Magra, Vara, Bisagno e Polcevera e Il sonno di Nettuno, in cui la grotta, tratto distintivo dell’invenzione scenografica a lui cara, si apre verso il cielo in un articolato gioco spaziale finto attraverso il mezzo pittorico (Magnani, 2000b, pp. 168-170).

Morì a Genova il 25 novembre 1742, a causa dello «smoderato uso del cioccolatte, di cui negli ultimi anni della sua vita unicamente nutrivasi» (Ratti, 1769, p. 228), e fu seppellito nella chiesa di S. Teodoro (Franchini Guelfi, 1988b, p. 293).

L’anno seguente la vedova Angela Maria vendette a Gerolamo Ignazio Durazzo le opere del defunto marito, che entrarono così a far parte delle collezioni della sua residenza, attuale Museo di Palazzo Reale (Ivaldi, 1996; Leoncini, 2012, p. 51).

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