MAURO, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAURO, Domenico

Giuseppe Monsagrati

– Nacque a San Demetrio Corone, nella Sila greca, in Calabria, il 13 genn. 1812 da Angelo Maria e da Carolina Lopes. Dall’origine albanese della famiglia paterna fu indotto a fare i primi studi nel collegio italo-greco di S. Adriano dove rimase dal 1820-21 al 1831 dimostrando buona attitudine agli studi classici, alla letteratura (V. Alfieri, U. Foscolo) e alla filosofia, in particolare alla conoscenza del pensiero di G.B. Vico e di A. Genovesi. Sopravvenne poi la lettura del Corsaro di G.G. Byron a convertirlo al romanticismo, abbracciato col fervore dettato alla sua sensibilità dalla novità della forma e dei contenuti e dal sapore di maggiore libertà che vi percepiva. A favorire in lui tale svolta contribuì il trasferimento a Napoli sul finire del 1832 per seguire i corsi di giurisprudenza e approfondire privatamente gli studi letterari.

La prima apertura del M. al dibattito politico di inizio anni Quaranta passò per una conoscenza approfondita dell’opera dantesca, interpretata anche alla luce di un vago ideale di nazionalità. Risale proprio al 1840 la pubblicazione a Napoli del volume Allegorie e bellezze della Divina Commedia, un commento dell’Inferno che segnalò in lui «il più interessante dei dantisti calabresi dell’età romantica» (Inzitari, p. 757), saldamente impegnato nello sforzo di individuare nel concetto religioso e poetico, ovvero nella fusione tra ideale e reale, l’elemento capace di conferire unità artistica all’intero poema.

Apprezzata dai contemporanei, in particolare da F. De Sanctis e fuori d’Italia da V. Hugo, l’impostazione critica del M. fu più tardi da lui ripresa e, allargata all’intero poema, riproposta al pubblico con il titolo Concetto e forma della Divina Commedia (Napoli 1862), trovando in V. Padula un ammirato recensore.

Stando alla documentazione finora nota, il primo coinvolgimento del M. nell’attività politica sarebbe avvenuto intorno al 1842 tramite l’adesione a una rete settaria di calabresi trapiantati a Napoli. Non avevano un programma preciso e più di tutto li motivava non il desiderio di influire sul futuro del Regno meridionale, né tanto meno su quello dell’Italia, ma un vago istinto di libertà scaturito più dai modelli letterari del romanticismo che da una ben definita scelta ideologica.

Tanto è vero che il M., mentre metteva in atto le prime esperienze cospirative indirizzandole contro i Borboni, continuava a dilettarsi nelle composizioni, collaborava alla rivista Il Calabrese con poesie, racconti e un paio di saggi teorici (Su l’impossibilità d’una letteratura nazionale ai nostri tempi e Sul bello e sul sublime) e affidava a un poemetto in endecasillabi sciolti, l’Errico, novella calabrese (Napoli 1843; poi Zurigo 1845 e Napoli 1869), una storia dai risvolti tragici ambientata nel mondo dei briganti a fine Settecento e fatta di passioni forti, di truci vendette e in parte anche del sentimento di rivalsa contro l’oppressione straniera: parlandone in una delle sue lezioni del 1873 F. De Sanctis vi avrebbe scorto reminiscenze di Ossian e Byron e un eccesso di partecipazione emotiva riscattato però dall’amore del poeta per la sua terra e per il mondo contadino.

In verità, attraverso questi versi, e la mitizzazione del brigante che essi veicolavano, il M. compiva la prima parte del suo percorso verso la politica, a ciò persuaso non tanto dal patriottismo di stampo mazziniano, dal quale lo tenevano lontano le simpatie giobertiane, ma da un più angusto convincimento: la necessità di risolvere i problemi e le ingiustizie sociali della Calabria in un quadro arcaico, di ritorno alla proprietà comune delle terre. La stessa insofferenza per la dominazione francese in nome della difesa della religione si caricava di un che di ambiguo che solo l’odio dell’autore per i Borboni impediva di confondere col legittimismo.

Tale labilità ideologica caratterizzò anche la partecipazione del M. ai moti cosentini del 1843-44 precedenti lo sbarco dei fratelli Bandiera in Calabria e la successiva repressione del loro tentativo: il M., che con i fratelli Vincenzo e Raffaele e con G. Mosciaro aveva messo in piedi una struttura rivoluzionaria imperniata soprattutto sulla presenza dei giovani greco-albanesi del Cosentino, non fu in grado di fare corrispondere alle ambizioni del programma (rivoluzionare tutto il Sud coordinandosi alle coeve iniziative mazziniane) una reale capacità organizzativa e dovette scontare taluni suoi eccessi demagogici con la limitatezza delle adesioni e la diffidenza dei possidenti. Arrestato nel 1843, fu detenuto prima a Cosenza e poi a Napoli. Nel 1844 fu rilasciato ma posto sotto sorveglianza; ormai inserito a pieno nella cospirazione, nel 1847, dopo lo scoppio dei moti di Reggio Calabria e Messina cui aveva fatto precedere la diffusione di un proclama incendiario ora perduto (Le guerrillas calabresi al popolo delle Due Sicilie) fu di nuovo incarcerato. Liberato quando fu concessa la costituzione, riprese con rinnovato vigore la propaganda antiborbonica come membro assai attivo del Circolo nazionale di Cosenza, dove si distinse per le sue posizioni molto avanzate sia sul piano politico (con la richiesta di una Costituente e il ricorso a una propaganda orientata verso la repubblica), sia su quello sociale (con il ritorno alle tematiche egualitarie che, prendendo di mira le grandi proprietà terriere, suscitavano negli elementi più moderati il sospetto della provocazione, sospetto peraltro smentito dalla stessa evoluzione della sua storia intellettuale).

Il risultato delle consultazioni dell’aprile del 1848 dalle quali uscì eletto al primo scrutinio con un numero assai alto di voti lo incoraggiò tuttavia a proseguire sulla strada dell’estremismo e la reazione del 15 maggio a Napoli sembrò dare ragione a lui e a quelli che, risoluti come lui, ritenevano impraticabile qualunque ipotesi di collaborazione con le istituzioni monarchiche. Di fronte alla stretta repressiva messa in atto da Ferdinando II, il M., B. Musolino, G. Ricciardi e pochi altri deputati si portarono a Cosenza dove costituirono perfino un governo provvisorio per cercare di animare, con il consenso delle popolazioni di città e campagna, una più efficace resistenza: l’agitazione, ancora una volta, ignorava volutamente il problema dell’indipendenza nazionale preferendo puntare sul malcontento delle masse. L’idea di fondo era quella di una primordiale lotta di classe con sbocco prevedibile in una sorta di socialismo agrario fatto più di istinto che di effettiva conoscenza della realtà.

In proposito è stato giustamente osservato che nel M. «l’assenza di un pensiero politico strutturalmente coerente favoriva l’assunzione strumentale, anche se sinceramente vissuta, di echi di dottrine che allora erano nell’aria» (Cingari, p. 124).

Si trattava però di echi molto lontani; e comunque l’esito di tale scelta fu disastroso: la ribellione non scoppiò e il solo focolaio accesosi a Campotenese e dintorni fu presto soffocato; il M., che aveva perso il fratello Vincenzo nella feroce repressione compiuta dalle truppe napoletane, fece in tempo a rifugiarsi a Corfù inseguito da una condanna a morte in contumacia. L’anno dopo, nel maggio del 1849, era a Roma per dare una mano alla difesa della Repubblica. Espulso dalla città alcuni mesi dopo la restaurazione papale, riprese la via dell’esilio con un viaggio per mare che ebbe come prima tappa Genova dove gli fu accordato un permesso di soggiorno.

Vi restò fino al 1853, anno del suo trasferimento a Torino dove sarebbe vissuto fino al 1860, spesso in condizioni di estrema indigenza affrontate però con grande dignità. In complesso fu questo per lui un decennio di maturazione nel quale la caratterizzazione molto provinciale della sua prima formazione lasciò il posto a una visione più larga del problema italiano. Frutto di una riflessione sugli errori del passato e annunzio insieme di una nuova prospettiva d’azione comparve nel 1851 a Genova un suo volume dal titolo Vittorio Emanuele e Mazzini, la cui tesi di fondo, avendo come premessa la constatazione del mancato coinvolgimento del popolo nella rivoluzione quarantottesca e del carattere astratto del repubblicanesimo mazziniano, conduceva il M. a dare un giudizio positivo sulla monarchia piemontese e sulla sua fedeltà alla costituzione.

Messi da parte il socialismo e la negazione della proprietà, venivano ora esaltati lo sviluppo interno del Regno sardo e la capacità, che il M. intravedeva nel governo di Torino, di tenere a bada la Francia di Luigi Napoleone allontanando anche lo spettro del murattismo. Sarebbe tuttavia errato parlare in proposito di trasformismo dal momento che non era in gioco alcun interesse privato del M.; piuttosto c’era qui la prova di una personalità debole e perciò stesso portata a oscillare tra due estremi a seconda delle suggestioni del momento.

A Genova trovò i suoi interlocutori principali in quella sempre più vasta corrente d’opinione che, stanca del metodo mazziniano ma tuttora legata ai principî della democrazia, si avvicinava lentamente al pragmatismo cavouriano, al quale in qualche caso poteva anche prestare la propria intraprendenza cospirativa.

Il M., in particolare, si legò a G. Nicotera e a quei meridionali che come G.A. Romeo, A. Plutino, G. Fanelli servivano a Cavour per tener viva nel Sud la fiamma dell’opposizione liberale: in concreto non è dato sapere in quale misura egli si prestasse ai disegni torinesi, essendo nota soltanto una sua presa di posizione in senso antimurattista apparsa nel Diritto del 24, 25 e 28 ott. 1855; è certo però che, pur nel momento in cui cominciò a far propria la soluzione unitaria, in lui rimase sempre vivo il senso della specificità del Mezzogiorno e delle cure che esso avrebbe richiesto per uscire dallo stato di arretratezza in cui l’aveva costretto l’amministrazione borbonica. Di questo e di altro il M. ebbe occasione di parlare nella collaborazione prestata ai fogli della democrazia torinese: La Voce della libertà di A. Brofferio, poi divenuta a metà 1855 La Voce del progresso commerciale, di cui toccò a lui scrivere l’articolo di presentazione.

L’entusiasmo del M. per il Piemonte era destinato a scemare già all’indomani dell’armistizio di Villafranca, quando con alcuni sonetti, dedicati alla situazione del 1859 ed editi in un volume di Poesie varie (Torino 1862), il M. espresse la profonda delusione infertagli dalla conclusione della guerra contro l’Austria, sospesa senza che si arrivasse alla liberazione del Veneto. Approfittando di questo suo sconcerto lo contattò Mazzini per ottenere da lui, che aveva conservato molte relazioni con la Calabria, un appoggio che ravvivasse la speranza di rilanciare l’iniziativa democratica nel Sud. Pur ritornato su posizioni di sinistra, il M. era rimasto scettico verso la direzione mazziniana: perciò, quantunque il Piemonte lo avesse deluso, preferì non attestarsi su una linea che non lo convinceva; si impegnò invece con Garibaldi, che nel 1860 seguì in Sicilia e al quale, dopo il passaggio dello Stretto, facilitò l’attraversamento della Calabria e la risalita verso Napoli. E però anche questa parentesi si chiuse per lui con l’impressione che la rivoluzione fosse stata tradita nei suoi esiti più innovativi e che il moderatismo avesse fatto del processo d’unificazione un evento dall’impatto puramente geopolitico.

Tale impressione negativa non si cancellò nemmeno nel decennio successivo che vide il M. far capo, attraverso l’amicizia con Nicotera, al gruppo napoletano del Popolo d’Italia, un foglio che raccoglieva vari esponenti dell’opposizione repubblicana (tra gli altri G. Asproni e G. Matina) intorno a un programma di critica serrata alle istituzioni e di stimolo al completamento dell’Unità nazionale attraverso la conquista di Roma.

Pur nella sua religiosità, il M. era infatti fermamente convinto che il potere temporale dovesse aver fine e che Roma, in quanto luogo simbolico dell’identità nazionale e deposito delle memorie comuni, non potesse mancare al nuovo Stato; non esitò dunque a polemizzare (in una recensione pubblicata nel Popolo d’Italia del 24 sett. 1865) con G. Ferrari, un pensatore di cui non comprendeva né le astrattezze né il materialismo ateo e che, con un opuscolo su Il governo a Firenze (Firenze 1865), aveva ribadito la propria avversione per il centralismo.

Questo ritorno a un radicalismo dalle forti inflessioni meridionalistiche, pur portando il M. molto vicino al mazzinianesimo tanto da farlo entrare nell’Alleanza repubblicana universale, non attenuò il suo sostanziale isolamento né gli impedì di prendere parte alle elezioni politiche: avvalendosi del sostegno dato alla sua candidatura dal gruppo napoletano, risultò eletto in due legislature, e sempre in rappresentanza di Lucera, la prima volta nell’ottobre del 1865, la seconda nel marzo del 1867. Tuttavia, stando alla testimonianza di G. Asproni, non parve gradire molto il clima di compromesso che si respirava alla Camera, dove prese la parola il 9 giugno 1866 intervenendo nella discussione sul progetto di legge per la soppressione delle corporazioni religiose: anche se qualcuno giudicò il suo discorso sconclusionato, la proposta da lui avanzata in quella circostanza (contro una legge che a suo parere dava eccessiva ingerenza allo Stato; affidamento dei beni della Chiesa al popolo dei fedeli in quanto unico sovrano) era coerente con ciò che aveva sempre pensato in materia di religione e di gerarchia ecclesiastica: il M. ci sarebbe tornato sopra il 24 febbr. 1867 con un indirizzo-manifesto Ai miei elettori del collegio di Lucera pubblicato in un giornale napoletano, La Sveglia elettorale.

Il M. morì a Firenze il 17 genn. 1873.

Pochi giorni dopo la sua scomparsa De Sanctis iniziò la settima lezione del corso di storia della letteratura che teneva a Napoli rendendo un affettuoso omaggio alla sua memoria: «Era un uomo semplice, che non parlava mai di sé; stimava naturali tutte le azioni che il mondo chiama eroiche, quasi egli non sapesse o non potesse fare altrimenti. Non aveva mai creduto che compiere il proprio dovere fosse scala a ricompense» (De Sanctis, 1953, p. 98).

Fonti e Bibl.: Il fondo Domenico Mauro, riordinato e inventariato a cura dell’Arch. di Stato di Cosenza, è diviso nelle serie: Epistolario, Opere a stampa e manoscritte, Carte familiari e varie, Articoli di giornale, Fotografie ed è conservato presso il Centro Studi Risorgimentali di San Demetrio Corone (Cosenza). Su questo materiale è stato condotto il lavoro di G. Cingari, Romanticismo e democrazia nel Mezzogiorno: D. M. (1812-1873), Napoli 1965 (nuova ed., Lungro di Cosenza 2001). Necr., F. Curzio, Sul feretro di D. M.: parole, Firenze 1873; L. Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza 1877, pp. 379-385; Ed. nazionale degli scritti ... di G. Mazzini, Appendice, VI, Imola 1940, pp. 3-5, 35 s.; F. De Sanctis, La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta - G. Candeloro, Torino 1953, ad ind.; Id., Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, Torino 1972, ad ind.; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, I-VII, a cura di C. Sole - T. Orru, Milano 1974-91, ad indices. Altri profili biografici: L. Carpi, Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche d’illustri italiani contemporanei, I, Milano 1884, pp. 376-381; F.E. Martorelli, I romantici calabresi del sec. XIX, I, D. M., Gerace 1906; T.L. Rizzo, Un romantico calabrese esegeta di Dante, Messina 1927; D. Morlacco, D. M., in Rass. stor. del Risorgimento, LXXXVIII (2001), pp. 25-46. Illustrano alcuni momenti e interessi della vita del M.: E. Cione, Napoli romantica: 1830-1848, Milano 1944, ad ind.; G. Gradilone, Gli studi danteschi di D. M., in Shêjrat, IX (1965), pp. 306-314; A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Roma 1970, ad ind.; G. Inzitari, Calabria, in Enc. dantesca, I, Roma 1970, pp. 757-759; A. Vallone, Dantismo calabrese: D. M., estr. dagli Annali della Facoltà di magistero dell’Università di Bari, Bari 1971; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «partito d’azione» 1830-1845, Milano 1974, ad ind.; C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849. Storia dell’istituto e inventario dell’archivio, Roma 1992, ad indicem. L. Aliquò Lenzi - F. Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi. Diz. bio-bibliografico, II, Reggio Calabria 1955, pp. 191 s.; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, ad nomen; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v. (G.M. De Stefano); ibid., p. 537 (per le biografie dei fratelli Raffaele e Vincenzo).

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