MASSIMO, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MASSIMO, Domenico.

Valeria Cafà

– Nacque presumibilmente a Roma, intorno al 1460, da Pietro e da Maria, figlia del nobile romano Lorenzo Astalli.

Il M. apparteneva a una delle più antiche famiglie romane, documentata, parrebbe, già alla fine del X secolo e, almeno dal XII, residente nella via Papalis (ora corso Vittorio Emanuele II), nel rione Parione. Secondo una leggendaria tradizione, alimentata fin dal tempo del M. e ricostruita per primo da O. Panvinio (1556), la famiglia sarebbe discesa da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore. Tuttavia la sua fortuna ebbe origine, tra il XIV e il XV secolo, da una spezieria nel rione S. Eustachio, vicino al Pantheon.

La prima notizia che lo riguarda è il prestigioso matrimonio contratto nel gennaio 1478 con Giulia, figlia di Evangelista Maddaleni Capodiferro, di cui dà notizia anche l’amico e cognato M.A. Altieri (Li nuptiali, p. 27). Dall’unione nacquero 18 figli (altri dicono 22), molti deceduti in giovane età.

Il padre lo nominò erede universale nel testamento del 23 sett. 1481, lasciandogli un discreto patrimonio.

Il M. curò le tradizionali attività familiari, principalmente la spezieria e il banco di prestito a Campo de’ Fiori, cui in seguito si affiancarono l’allevamento e il commercio. Tra il 1499 e il 1513 e ancora intorno al 1517, proseguì nella diversificazione delle fonti del reddito investendo in numerosi acquisti di terre, casali e vigne. Grazie a queste acquisizioni, che attestano l’ingente liquidità di cui disponeva, consolidò le ricchezze e il ruolo pubblico della famiglia, dando modo ai figli e ai nipoti di stringere significative alleanze matrimoniali (con i Santacroce, i Mazzatosta, i Planca, gli Spannocchi, i Mattei, i Cesarini, i Colonna).

Il 22 giugno 1493 redasse il suo primo testamento noto, lasciando eredi i figli maschi Pietro, Angelo, Luca e Giuliano, ancora minorenni, con mandato agli esecutori testamentari di investire nelle terre e vendere il bestiame. Con tali disposizioni intendeva sottrarre la famiglia alle attività prettamente commerciali. D’altra parte, anche l’educazione data ai figli lascia intuire questo suo proposito: Silvestro (morto nel 1517) studiò a Bologna; Pietro (morto nel 1544) e Angelo (morto nel 1550) diventarono abbreviatori apostolici; Giuliano (morto nel 1527) fu sollecitatore delle Lettere apostoliche; Camillo (morto nel 1513) abbracciò la carriera militare.

Due assistenti di Girolamo Zorzi, ambasciatore veneto presso il papa Alessandro VI, e ospiti in una domus del M. all’incrocio tra la via Papalis e via del Paradiso, ricordano come, durante l’alluvione del Tevere del dicembre 1495, fosse riuscito a stento a salvare la vita sua e dei familiari e le merci stipate nel fondaco, stimate per 4000 ducati (Pastor, III, 1959, pp. 417 s.). Panvinio aggiunge che il M. svendette quelle merci, «cannella, garofoli e pepe, cassia, e altre droghe del valore di molte migliaia di scudi, che facea venire da Venezia, [con cui] poi ne provedeva all’ingrosso de Botteghe della Città» (Cancellieri, p. 100), cedendole a un tale Giovan Battista de’ Massimi, speziale del rione Parione, probabilmente un figlio illegittimo, perché ormai delegava gli affari e trascurava il commercio.

Le domus sulla via Papalis – via che fu identificata (5 dic. 1503) come «de Menico de’ Massimo» (Mariani, p. 10) – ospitavano una delle più antiche collezioni d’antichità di Roma, segno dell’ambizione sociale e del culto della Romanitas della famiglia. La collezione comprendeva lapidi, cippi funerari, statue e busti antichi.

Com’era nella tradizione familiare, il M. partecipò alla vita pubblica municipale, sebbene di rado in ruoli primari.

Nel 1499 e nel 1502 fu maestro delle Strade con Giacomo Frangipane, carica che ricoprì anche nel 1508 con Girolamo Pichi e nel 1512 di nuovo con Frangipane; al M. e a Frangipane si deve una lapide commemorativa in omaggio a papa Giulio II. Dalla fine del 1501 entrambi, insieme con i nobili romani Stefano Del Bufalo e Antonio Paluzo, furono impegnati ad accompagnare Lucrezia Borgia a Ferrara, dove entrò il 2 febbr. 1502 per il matrimonio con Alfonso I d’Este. Nel 1505 fu rappresentante dei Romani e pare abbia accolto in casa i tre ambasciatori del re di Polonia che si trovavano a Roma per ricevere la rosa d’oro da Giulio II. Nel 1507 fu il solo tra i Romani a erigere un arco trionfale al ritorno del papa dalla conquista di Bologna, apparato che tuttavia, secondo Paride Grassi, fu «qualcosa di festoso più che sontuoso» (Cruciani, p. 324).

Negli anni dei pontificati medicei (Leone X e Clemente VII), la partecipazione del M. alla vita pubblica si affievolì e si accentuò la sua posizione critica nei confronti del potere della Chiesa. Lo proverebbe il fatto che, all’indomani dei processi scaturiti dalla «congiura dei cardinali» contro Leone X (1517), il M. contribuì più degli altri nobili romani al riscatto imposto dal pontefice per la libertà dell’anziano cardinale Raffaele Riario, coinvolto nel complotto. Inoltre, pur avendo la liquidità e la concreta possibilità di far nominare cardinale probabilmente il figlio Angelo (il primo in famiglia), destinò invece la somma all’acquisto di terre e casali dei Cesarini, che con quei ducati procacciarono la porpora al loro Alessandro.

Nel 1516 il M. fu console del Popolo romano e dell’arte dei mercanti-bovattieri, con Altieri, impegnato a mantenere il controllo dei prezzi del grano e a sottrarlo alla Camera apostolica. Nel 1518 fu di nuovo maestro delle Strade. Nel 1522 fu deputato dei pubblici interessi e l’anno successivo, sotto Adriano VI, fu per la prima volta conservatore del Popolo romano, con Melchiorre Baldassini e Giacomo Frangipane. Nel 1524 fu ancora deputato del Popolo romano e sconsigliò Clemente VII dall’imporre una gabella sulla farina.

Altieri lo nominò esecutore testamentario il 31 marzo 1511, ricordandolo come «vir genere, virtute, sobole, divitiis clarus, meus et necessitudine et benevolentia coniuctissimus» (Li Baccanali, p. 331). Esiste tuttavia una folta aneddotica sul M., che celebra il suo buon vivere, che egli avrebbe condensato nel motto «terreno quanto vedi, vigna quanto bevi e casa quando abiti» (Mariani, p. 98, n. 4), o che, al contrario, insiste sulla sua ostinata avarizia e ingente ricchezza.

M. Sanuto, in occasione del sacco di Roma del maggio 1527, lo cita nei suoi Diarii come «romano ricchissimo» (XLVI, col. 144); Guicciardini lo definisce «ricchissimo sopra a tutti i romani», criticandone l’arrogante e cieca opposizione a Clemente VII, che gli chiedeva ducati per rafforzare la difesa della città contro l’esercito imperiale. Il sacco rappresentò un’amara vicenda per il M.: sicuro della sua incolumità, per aver sempre sostenuto la fazione favorevole ai Colonna, filoimperiale, fu invece duramente colpito. La cronaca delle violenze sulle figlie, la morte del figlio Giuliano e l’incendio della sua domus circolarono per l’intera penisola, a evocare l’orrore che la città stava vivendo. Seppur espresse in una contingenza tragica, le affermazioni di Sanuto e Guicciardini hanno riscontro nella Descriptio Urbis dell’inverno del 1526-27, una sorta di censimento dei residenti nell’Urbe, quando alla famiglia e alla casa del M. afferiscono ben 160 persone, una delle cifre più alte relativamente a un privato. Il suo nome compare inoltre nel rione Colonna e S. Angelo.

Il M. morì di peste, a Roma, intorno al 1528. Il corpo fu tumulato nella cappella familiare di S. Maria Annunziata, nella basilica di S. Lorenzo in Damaso, solo nel 1532.

Nel 1511 aveva fidanzato la figlia Ersilia con Tarquinio di Prospero Santacroce, ricco avvocato concistoriale, che nel 1528 sposò in seconde nozze un’altra figlia del M., Aurelia. Nel 1523 aveva stabilito i patti matrimoniali tra il figlio Angelo (1491-1550) e Antonina (morta nel 1524), figlia di Paolo Planca Incoronati, anch’egli facoltoso avvocato concistoriale. In quell’occasione fu commissionata la decorazione a graffito, in parte ancora visibile, della facciata della cosiddetta domus nova sull’attuale piazza dei Massimi. Aveva stabilito le sorti del patrimonio in un secondo testamento (31 maggio 1520) e, infine, in un terzo (l’ultimo reperito), stilato il 1° dic. 1526, nel quale nominò eredi i figli Pietro, Angelo, Luca e Giuliano, morto durante il sacco, e il nipote Antonio (figlio di Angelo). Il 28 febbr. 1532 i tre figli superstiti procedettero alla divisione patrimoniale. Poco dopo, Pietro, Angelo e Luca dettero avvio alla costruzione di tre palazzi sulla via Papalis, chiamando rispettivamente Baldassarre Peruzzi, che trasformò la domus antiqua, residenza paterna, in palazzo Massimo alle Colonne; Giovanni Mangone, che costruì il cosiddetto palazzo di Pirro; e Antonio da Sangallo il Giovane (A. Cordini), che ristrutturò la domus magna (in parte demolita alla fine dell’Ottocento per la creazione di corso Vittorio Emanuele II). L’entità del loro investimento e la capacità di portare a termine i cantieri dimostrano che il patrimonio accumulato dal M. era davvero ingente.

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