BATACCHI, Domenico Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 7 (1970)

BATACCHI, Domenico Luigi

Raffaele Amaturo

Nacque a Pisa il 3 nov. 1748 da nobile famiglia di origine fiorentina. Scarse e malcerte notizie si hanno della sua infanzia e della sua prima giovinezza, ricavabili per giunta soltanto dai vaghi cenni autobiografici contenuti nelle sue opere dell'età matura. Dalla Rete di Vulcano (c. XXIII) apprendiamo ad esempio che la sua fanùglia, un tempo non sprovvista di beni di fortuna, si era ridotta pressoché in miseria per le sregolate prodigalità paterne. Dopo aver frequentato per qualche anno le modeste scuole pubbliche di S. Michele, avendo a maestro un "cocciutissimo" pedagogo, certo abate Merciai, che poi nei suoi versi egli ricorderà spesso come prolisso e tedioso rimatore, dovette ben presto rinunciare, per mancanza di mezzi o per naturale indocilità di carattere, a un regolare corso di studi: significativa rinuncia, che mentre spiega da un lato i gravi limiti di disciplina letteraria, fin troppo evidenti nelle sue opere, dà ragione d'altro canto della sua vasta e disordinata cultura, tipicamente autodidattica, che comprende accanto ai testi sacri ed ai classici una conoscenza non comune delle moderne letterature francese e inglese.

Privo di qualsiasi titolo di studio, dovette acconciarsi, per vivere, all'unùle impiego di gabelliere nel dazio della sua città. Molto giovane - non sappiamo però in quale anno - si era sposato con una Anna Lomi, che gli aveva dato numerosi figliuoli: di uno di essi, forse il primogenito, ci è conservato il nome, Luigi, perché a lui sono indirizzate alcune lettere degli ultimi anni; ed è certo che ebbe due figlie, che egli nomina nel suo epistolario con gli scherzosi e inspiegabili pseudonimi di "iniss Nancy" e "miss Carolina Weimar". Il modesto impiego doveva dunque procurargli a mala pena il necessario per vivere e per sopperire alle necessità della sua famiglia, se è da credere alla patetica confessione contenuta, in una sua lettera non datata, secondo la quale una volta sarebbe stato addirittura tentato di porre fine ai suoi giorni gettandosi in Arno. Ma in compenso doveva lasciargli molto tempo disponibile per le sue letture e consentirgli di partecipare alle riunioni degli ingegni più eletti della sua città, nelle quali il doganiere B. era sempre bene accolto e ricercato non solo per il suo tratto signorile e per l'arguzia della conversazione, ma anche per quelle "barzellette in rima", che egli soleva già allora leggere per il diletto dei suoi amici e nelle quali sarà da riconoscere una prima stesura o un primo abbozzo delle sue Novelle, che solo molto più tardi saranno diffusein limitate edizioni a stampa.

Pare quasi superfluo ricordare che le riforme di Pietro Leopoldo, che pure tanto profondamente incidono sulle istituzioni economiche e giuridiche, sociali e finanziarie del granducato, non promuovono parallelamente, ove si eccettui l'originale tentativo riformatore giansenista, un energico rinnovamento culturale. Mentre in altri centri illuministici italiani, a Napoli e a Milano ad esempio, il rinnovato movimento delle idee si traduce in opere teoriche e poetiche di vasta risonanza europea, la cultura toscana della seconda metà del Settecento rimane ancora accademica e oziosa, sostanzialmente arcadica, divisa tra i due poli dell'arida erudizione e della frivola rimeria giocosa. Non molto diversa appare la situazione particolare di Pisa, nel cui Ateneo, che pur vanta una così gloriosa tradizione di libera ricerca scientifica, , domina una mentalità, conservatrice e retriva, non chiusa ma certo ostile al soffio delle nuove idee. Tra i docenti, pure insigni per dottrina ed erudizione, ricordiamo almeno A. Fabroni, G. M. Lampredi, nonché quel Lorenzo Pignotti, le cui Favole e Novelle, stampate a Pisa nel 1782, il B. dovette certamente conoscere e ammirare per la limpida vena narrativa se non per l'uggioso moralismo. Vero e proprio organo ufficioso del Collegio dei professori dell'università, si pubblica in questi medesimi anni a Pisa, ad opera del già menzionato Fabroni, il Giornale dei letterati (1771-1796): un giornale non davvero in alcun modo memorabile per audacia e per originalità di posizioni ideologiche, ma che pur seppe assolvere a una onesta funzione di informazione esatta ediligente sulle correnti e sulle opere più significative della cultura contemporanea. A uno dei redattori del Giornale, Salvatore De Coureil, è certo che il B. fu legato dasentimenti di viva amicizia. Ed amichevoli rapporti intrattenne anche con il giurista Tito Manzi e con Giovanni Anguillesi: nomi di esponenti minori della cultura pisana del tempo e forse anche, per quel che si può congetturare dalle scarse notizie che si possiedono, personalità non del tutto conformistiche alle tendenze intellettuali prevalenti. Con questi amici il B., che già nel 1788 era stato anunesso all'Arcadia pisana con il nome pastorale di Pasiteo Laerzio, si fece promotore di una burlesca Accademia letteraria, detta dei Polentofagi.

Nel 1793 il B. futrasferito, forse su sua richiesta, alla dogana di Livorno. A difficile stabilire con certezza le ragioni che indussero il poeta ad abbandonare un ambiente nel quale aveva saputo conquistarsi stima e simpatie. Si trattò probabilmente di una legittima speranza di miglioramenti economici, o piuttosto fu il desiderio di sottrarsi ai malevoli commenti susseguenti alla disavventura sentimentale di una delle figliuole (la seconda, "miss Carolina").

A Livorno del resto (pur senza tener conto della facilità con cui poteva mantenere i rapporti con gli amici pisani) trovava un ambiente favorevole e congeniale. Quivi dimorava spesso Giovanni De Gamerra, autore, oltre che di ben note commedie "lacrimose", di un poema burlesco La corneide (1781); e da poco se ne erano allontanati il poeta di melodrammi Ranieri Calzabigi e la celebrata improvvisatrice Fortunata Sulgher Fantastici. A Livorno risiedeva inoltre il libraio ed editore Luigi Migliaresi, proprietario di due "gabinetti di lettura" a Pisa e a Livorno, con il quale il B. era in relazione forse già dagli anni precedenti, avendogli sovente fornito suggerimenti per la scelta e l'acquisto di libri. Dietro le sue amichevoli istanze prepara ora la traduzione di due romanzi di successo di Saniuel Richardson: la Clarissa, di cui sappiamo che realmente uscì il primo volume, e la History of sir Charles Grandison, di cui non risulta che mai nulla sia stato pubblicato. Nell'insieme tuttavia gli anni livornesi furono tra i più infausti e sfortunati della vita del Batacchi. Dapprima, per una caduta avvenuta durante un'ispezione notturna su un molo, egli si spezzò una gamba, di cui mai più poté riacquistare l'uso completo. Altre cagioni di ben più profonda amarezza gli derivarono poi dagli eventi politici che sul finire del secolo vennero a turbare il quieto mondo della Toscana granducale.

Dopo l'occupazione di Livorno ad opera dell'esercito del Murat (1796) e ancor più dopo l'occupazione francese dell'intera Toscana (1799), il B., che già da tempo era in fama di libero pensatore (e che di tal fama, probabilmente, doveva essersi compiaciuto), dovette abbandonarsi a qualche imprudente manifestazione di contento. Tanto bastò perché nel corso della reazione che ben presto seguì alle vittorie austro-russe nello stesso 1799 egli fosse incriminato per "genialità francese" e dovesse subire un processo, uno dei più di trentamila che in quell'anno furono intentati per le medesime ragioni. Nelle more di esso era intanto, il 5 marzo 1799, temporaneamente sospeso dall'impiego. Dalla autodifesa, (il cui testo ci è stato fortunatamente conservato), esibita dal B. al tribunale per discolparsi, possiamo facilmente constatare l'inconsistenza delle imputazioni ascrittegli: di aver tollerato che nel suo ufficio fossero tenuti discorsi filo-repubblicani; di aver domposto "prediche" o strofe inneggianti al nuovo ordine politico; di aver mostrato amicizia per certo Nicolini, commissario di polizia durante l'occupazìone francese; di avere assistito con manifesto compiacimento all'innalzamento dell'albero della libertà; di avere infine pubblicato, sia pure sotto falso nome, opere lesive della moralità e del costume. L'autodifesa, fin troppo sincera e in certo modo ingenua nell'anunettere i propri non colpevoli errori, non valse ovviamente a scongiurare la condanna inevitabile: nel maggio del 1800 il B. fu destituito definitivamente dallo impiego. Rioccupata di nuovo nell'autunno dello stesso anno la Toscana dalle truppe francesi e, dopo il trattato di Lunévihe, trasformato il granducato in Regno di Etruria, il B. fu reintegrato nel suo ufficio: non però così presto come aveva sperato e soltanto dopo umilianti suppliche, e grazie ai buoni uffici di un cognato e dell'amico De Coureil. Al sospettoso governo di Ludovico di Borbone si comprende come non potessero riuscire graditi funzionari in fama di giacobini. Fu pertanto destinato, nel febbraio del 1802, alla "sede disagiata" di Orbetello, in Maremma, come fiscale delle Regie Saline. Morì ad Orbetello pochi mesi dopo, l'11 ag. 1802, e quivi è sepolto, per privilegio dei nobili, in una cappella del duomo. La sua pietra tombale, forse per una tacita e impietosa allusione ai suoi trascorsi politici, è però priva di ogni iscrizione e financo del nome.

Se dalla narrazione delle sue vicende biografiche ci si volge alla considerazione delle Novelle e delle altre sue opere non si può non restare sorpresi dal contrasto tra la misera sorte dell'uomo e il tono allegro e fidanciano delle sue pagine. Ebbe a scrivere il Foscolo in un notissimo giudizio sul B.: "e, pare... che narrasse cose liete e licenziose per non morire di dolore". Ma a noi sembra in verità che il tono giocoso dell'opera del B. non possa essere in alcun modo romanticamente spiegato come l'esito o il superamento di drammatici contrasti interiori. Né d'altra parte, nonostante i pur numerosi spunti volterrianamente irriverenti, ci sembra che la figura dei B. possa essere considerata, come pur a taluno è sembrato, "una figura del secolo dei lumi". Vero è invece che la sua opera, come esula per difetto di meditazione formale dai limiti della letteratura in senso stretto, così per altro verso, qualora la si consideri nelle sue motivazioni interiorì' non sopporta in alcun caso il peso di profonde responsabilità ideologiche. "Bassotto di statura, grasso, con i capelli raccolti in coda, vestito con giubba di cammellotto, il cappello a tre punte, che sorrideva maliziosamente coi suoi occhi neri udendo raccontar le ciarle" (così lo descrive il suo miglior biografo, il Tribolati), il B. a noi sembra in tutto e per tutto un epigono, in tempi tanto diversi e calamitosi, della serena età dell'Arcadia: una Arcadia, si intende, destituita dalla vocazione e dal culto dei puri valori formali, oziosa e sciatta, l'Arcadia dei poeti estemporanei e degli improvvisatori, così frequenti nella modesta provincia letteraria della Toscana granducale della seconda metà del Settecento, in cui si contemperavano in una sintesi provvisoria la tradizionale inclinazione novellistica con generici riecheggiamenti della cultura d'oltralpe, l'esperienza del linguaggio "comico" bernesco con il gusto nativo dei coloriti eccessi verbali.

Non tutte le opere del B. ci sono conservate. Di un quaderno manoscritto di poesie varie (sonetti, canzoni, canzonette, favole, ecc.) si è perduta purtroppo ogni traccia. Ugualmente smarriti sono andati un melodramma giocoso, La Didone pisana, e un poemetto di probabile- ispirazione volterriana, La pulcella valdarnese, narrante le gesta di quella Alessandra Mari, che nel 1799 si rese tristamente, famosa in Toscana per aver capeggiato, le bande della reazione sanfedista- Delle opere interamente pervenuteci, la maggiore non è già, come a taluno è sembrato per mero pr9giudizio contenutistico, il poemetto, La rete di Vulcano, bensì i libri delle Novelle, o ancora meglio quel bizzarro novelliere in versi che reca il titolo di Zibaldone.

Nate per la recitazione nei convegni degli amici pisani, le Novelle furono forse in un primo momento diffuse manoscritte, poi pubblicate a dispense a Pisa a partire dal 1791 e nel 1792 in due volumi a Bologna con lo pseudonimo di Padre Atanasio da Verrocchio. Scritte in sesta rima, sono in tutto ventiquattro, a parte La vita di Prete Ulivo, che è posta difatti innanzi alle altre e quasi al di fuori del loro novero per una evidente diversità di argomento e di intenti. Di non tutte è sicura l'attribuzione: una di esse, ad esempio, (Fra' Pasquale), è più che probabile debba essere assegnata al De Coureil. Il genere della novella in versi era tornato in auge nel Settecento con le Novelle galanti del Casti (1790), che è però improbabile, anche per evidenti ragioni di cronologia, che il B. abbia potuto conoscere e tener presenti. Egli si rifà piuttosto come a suoi veri modelli ai Contes di La Fontaine e alle novelle del Furioso.Gli argomenti sono attinti alle fonti più varie: alla storia sacra (che egli non si perita sovente di rendere profana), al Boccaccio, a Masuccio Salernitano, ai novellieri del Cinquecento, alla novellistica orientale, alle fiabe popolari, alla cronaca quotidiana. Ma a tutte le novelle il tono unitario è conferito non già dalle risorse di una vera arte narrativa, che in B. è quanto mai povera ed elementare, quanto invece, si direbbe, dalla stessa mancanza di un'arte meditata e riflessa. Sommaria difatti e sempre approssimativamente delineata è la psicologia dei personaggi, non mai veramente approfondite le situazioni narrative: e il linguaggio stesso appare sempre casuale e provvisorio, adagiato com'è sulle formule fisse e stereotipe, che sono tipiche dei narratori estemporanei. Resta l'interesse, non scarso, connesso alla scelta sfrontata degli intrecci, la meraviglia sempre nuova delle sue espressioni cinicamente plebee: resta insomma il diletto proveniente dall'oscenità stessa dei contenuti e delle forme, un diletto che non ha nulla ovviamente a che vedere con quello di natura superiore che solo sa suscitare l'autentica poesia, ma che pur sembra in un certo senso moralmente innocente e irresponsabile. A scagionare del resto il B. dall'accusa così spesso rivoltagli di immoralità e di scostumatezza, vale innanzi tutto la considerazioneche le espressioni oscene, che pur costellano così numerose i suoi versi, sono da valutarsi alla stregua di ingenui espedienti letterari, nulla più che facili soluzioni di comodo in vista di determinate esigenze espressive. Né si dimentichi in secondo luogo che la poesia del B. non vuole essere nulla di più e di diverso, per usare una sua espressione, che una poesia da recitarsi "a veglia" e che null'altro si propone se non lo svago e l'intrattenimento degli amici dell'Accademia.

A considerazioni non dissimili induce anche lo Zibaldone, poemetto di dodici canti in sesta rima, pubblicato anch'esso a Bologna nel 1792, sotto il medesimo pseudonimo di Padre Atanasio da Verrocchio. Senonché la presenza di una pur modesta "cornice", entro la quale si inseriscono le sette novelle del libro, e il titolo stesso, chiaramente allusivo all'allegro disordine della struttura, ci avvertono subito che una maggiore consapevolezza dei fini e dei mezzi della sua arte ha assistito questa volta l'autore nella composizione della sua operetta. Già intanto la novella stessa che fa da "cornice" e in cui è narrata la squallida storia del prete don Barlotta e l'avventuroso viaggio della sua giovane amica Vespina ci presenta, in pagine che sono tra le più fresche e colorite del B., tutta una folla di personaggi diversi e ben caratterizzati, esponenti non facilmente dimenticabili di una umanità degradata e furfantesca. Anche nelle seguenti non è difficile scorgere alcune doti di più maturo equilibrio narrativo, che invano si cercherebbero nei libri delle Novelle, nonché la quasi costante presenza di un tono tra il realistico e il fiabesco, che dovremo considerare come uno dei più congeniali all'arte del B. e da lui più consapevolmente intuito e svolto. Si pensi, in particolar modo, nel libro V, alla deliziosa fiaba di Basilichina.

Un'opera sostanzialmente fallita è invece La rete di Vulcano, poema burlesco di ventiquattro canti in ottave, probabile fatica degli anni senili del Batacchi. Si tratta di una parodia mitologica, sul genere di quelle che già erano state tentate in alcuni poemetti del Seicento, come ad esempio nello Scherno degli dei del Bracciolini e parzialmente nella Secchia rapita del Tassoni. La trama del poema èpresto detta nelle sue linee essenziali. Lo zoppo Vulcano, istigato da Apollo, denuncià a Giove il tradimento della moglie Venere con Marte. Ne segue un processo in cui tutti gli dei dell'Olimpo parteggiano per l'uno o per l'altro dei contendenti, finché Venere viene assolta per mancanza di prove decisive e per l'aperto favore di Giove, giudice della contesa. Vulcano, per mezzo della sua rete, riesce a ottenere la prova desiderata ma al tempo stesso dichiara pubblicamente la sua onta coniugale. Intorno a questo gracile intreccio il poema si trascina stancamente, senza grazia e senza vivacità, con le consuete oscenità e le rare invenzioni argute, attraverso digressioni e inutili lungaggini, insopportabili tirate retoriche e vieti luoghi comuni moralistici.

Il poema uscì postumo a Milano nel 1812 con lo pseudonimo di monaco Beda Ticchi. E certamente non lo conobbero né il Goethe né il Foscolo, che pur mostrarono un benevolo interessamento per l'arte del B. e su di essa formularono due noti giudizi. Il Goethe, veramente, si limita ad istituire un brevissimo raffronto tra le Novelle del B. e quelle del Casti, risolvendolo rapidamente a tutto favore del secondo. "Fu assai più licenzioso del Casti - afferma invece il Foscolo nel Gazzettino del Bel Mondo - e nondimeno diresti ch'ei, come l'Ariosto, voglia più rallegrare che corrompere i suoi lettori; e ha la disinvoltura del Berni e l'ingenuità di La Fontaine. Forse aveva il loro genio". Il momento più felice della fortuna del B. coincide comunque con l'età romantica, se è vero che il Porta lo ammirò al punto da imitarne alcum versi nelle sue poesie. È certo invece che, attraverso la mediazione dei Guadagnoli, influì sulla poesia del suo conterraneo Giusti, che ne riecheggia talora alcune caratteristiche movenze beffarde e motteggiatrici. Il Settembrini lo ammirò per la vivacità della lingua." Il B. - egli annota nelle sue Lezioni di letteratura italiana - scrive come parla ed essendo toscano scrive con tal brio e naturalezza che vince tutti gli scrittori del secolo passato". In epoca postromantica la fortuna del B. declínò sensibilmente. Nelle Letture del Risorgimento italiano il Carducci esprimeva un giudizio, che pur nella sua farmulazione nervosa e infastidita, potremmo ritenere molto esatto e pressoché definitivo: "Chi vuol vantarsi del B., si serví. Per qualche stilla di lingua viva, per qualche mossa di bécero svelta, quanta sciacquatura di versificazione arcadica e che difetto di forza fantastica!".

Opere: in voll. 5, Firenze 1910-1913 (1711, Novelle; III, Lo Zibaldone; IV-V, La rete di Vulcano); Opere, voll. 6, Milano 1926 (I-III, Novelle; IV-V, La rete di Vulcano; VI, Lo Zibaldone). Premesso al I vol. dell'una e dell'altra di queste edizioni il saggio biografico di F. Tribolati, in cui sono anche le indicazioni sulle opere inedite o perdute del Batacchi. Novelle (voll.2) e Lo Zibaldone del Padre Atanasio da Verrocchio, Bologna 1792; La rete di Vulcano del monaco Beda Ticchi, Siena 1799(ma in realtà Milano 1812); La rete di Vulcano, con pref. di G. Natali, Genova 1915 e Roma 1917.

Bibl.: S. De Coureil, D. B., in Nuovo Giorn. dei letterati, V (1803), pp. 83 ss.; U. Foscolo, Epistolario, in Ediz. Naz., XIV, pp. 383 s.; Id., in Gazzettino n. 12, Lettere scritte dall'Inghilterra (vol. V della Ediz. naz., Prose varie d'arte, a cura di M. Fubini), Firenze 1951, pp. 448 s.; F. Romani, in Gazzetta ufficiale, nn. 267-271 e nn. 33 e 38-39 (1840 e 1857): il secondo articolo, Del poema eroicomico italiano, poi accolto in Critica letteraria, II, Firenze-Torino-Roma 1883, pp. 416-426.; P. Fanfani, La poesia giocosa in Italia, in Nuova Antologia, V (agosto 1867), p. 653; L. Setterribrini, Lezioni di letteratura italiana, III, Napoli 1872, p. 194 n. 1; A. Bonneau, Les nouvelles de B., Paris 1882 (la prefazione a questa, traduzione francese di novelle scelte fu poi accolta in Essais critiques de littérature ancienne ou mal connue, Paris 1887); F. Tribolati, Un novelliere toscano del sec. XVIII (D. B.), in Saggi critici e biografici, Pisa 1883, pp. 237-321 (poi riprodotto come prefazione alle edizioni delle Opere, cit.); R. Kohler, Goethe e D. B., in Arch. per lo studio delle tradizioni Popolari, X, I (1891), pp. 21-27; G. Carducci, prefazione a Letture del Risorgimento italiano, Bologna 1896, pp. XIII s.; C. Carboni, D. B. e le sue opere, Pitigliano 1898; G. Natali, pref. a La rete di Vulcano (poi riprodotta con il tit. Il Momo Pisano, in Idee, costumi. uomini del Settecento, Torino 1916, pp. 229-240, con note bibl. alle pp. 230-235; e rielaborata in Il Settecento, II, Milano 1950, pp. 1079-1083, con suppl. bibl. a p. 1113); R. Del Rosso, Il poeta dell'amore, Milano 1925; F. Gaeta, Pornografia, in Prose, a cura di B. Croce, Bari 1928, pp. 88-92; L. Mannucci, Per la vita d'un novellatore toscano del Settecento (con lettere inedite), in Leonardo, IX, II (1938), pp. 427-439; C Previtera, in La poesia giocosa e l'umorismo (Storia dei generi letterari italiani), Milano 1942, pp. 133-138; A. Cajumi, Dieci libri da salvare, Torino 1949, pp. 93-97; R. R. [Raffaello Ramat], Novelle di B., in Diz. letter. Bompiani delle opere e dei personaggi, V, Milano 1951, p. 108; Id., Rete di Vulcano, ibid., VI, Milano 1951, p. 202; Id., Zibaldone, ibid., VII, Milano 1951, p. 929; F. Giannessi, Saggio sul B., Pisa 1952; A. Cajumi, Il doganiere B., in Colori e veleni, Napoli 1956, pp. 81-85.

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