CAVAGNARI, Domenico Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVAGNARI, Domenico Giovanni

Walter Polastro

Nato a Genova il 20 luglio 1876 da Giuseppe e da Ermenegilda Gambino, a tredici anni entrò nell’Accademia navale di Livorno e vi conseguì nel 1895 la nomina a guardiamarina. Seguirono diversi incarichi, campagne e promozioni: dopo aver partecipato alla campagna d’Africa, nel 1900, raggiunse il grado di tenente di vascello; nel 1903 fu destinato in Estremo Oriente e qui divenne aiutante di bandiera dell’amm. C. Mirabello; partecipò, nel 1911-12, alla guerra italo-turca, raggiungendo il grado di capitano di corvetta; nella prima guerra mondiale si distinse operando nell’alto Adriatico.

Fu comandante in seconda della corazzata “Emanuele Filiberto”; all’inizio del novembre 1916 partecipò con la torpediniera “9PN” al forzamento del canale di Fasana: rimorchiò il motoscafo approntato per l’impresa fino alla soglia delle ostruzioni e provvide, con speciali apparecchiature preparate in precedenza, ad aprire un varco nelle stesse. A capo del cacciatorpediniere “Orsini” prese parte all’azione navale del 2 luglio 1918 al largo della costa veneta: un convoglio, costituito da torpediniere. rimorchiatori e pontoni che doveva eseguire un simulato sbarco tra Cortellazzo e Caorle per richiamare in quella zona l’attenzione del nemico, venne intercettato da un gruppo di navi austriache; l'“Orsini” intervenne con due squadriglie di cacciatorpediniere e ne seguì un violento scambio di colpi d’artiglieria. Promosso capitano di fregata per merito di guerra, il 3 nov. 1918 con l’“Orsini” fece parte di una divisione navale inviata, per ordine di P. Thaon di Revel, verso la città di Fiume, e venne distaccato all’alba del 4 insieme al cacciatorpediniere “Acerbi” con il compito di occupare Lussimpiccolo, mentre l’“Acerbi” sbarcava uomini ad Abbazia.

Giunto in vista dell’isola qualche ora prima dell’entrata in vigore dell’armistizio, riuscì a impedire che un gruppo di militari, per lo più croati, appartenenti all’esercito austroungarico, issassero sul forte la bandiera iugoslava affermando così la sovranità sull’isola del nuovo Stato balcanico. Li dissuase e dopo averli disarmati li trasferì a Fiume proclamando l’occupazione italiana di Lussimpiccolo. Per tale azione fu insignito della decorazione di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia.

Dopo l’armistizio il C. eseguì numerose missioni tra Fiume e Venezia attraverso ampie zone minate; fu poi in Albania, e dal novembre 1922 fino al febbraio 1925 fu capo di gabinetto del ministero della Marina. Questo incarico gli fu utile per acquistare dimestichezza con i problemi amministrativi e per farsi conoscere fra gli alti gradi e dallo stesso Thaon di Revel; e probabilmente costituì un precedente che gli valse per la futura nomina a sottosegretario e capo di Stato Maggiore. Promosso capitano di vascello, ebbe il comando dell’esploratore “Pantera” e col gruppo “Pantera”, “Tigre” e “Leone” eseguì una crociera nel nord Europa. Comandò poi l’incrociatore “Pisa” nella campagna di istruzione allievi del 1926 e l’ex “Saida” ribattezzato “Venezia”. Dal 1928 al ’29 fu comandante dell’arsenale militare marittimo della Spezia; dal ’29 fino al ’32 tenne la direzione dell’Accademia navale di Livorno, e nel ’31-32 fu anche a capo dell’Istituto di guerra marittima.

Durante questi anni il C. maturò o comunque assunse determinati convincimenti nel campo della guerra sul mare. Risulta che non si interessò molto all’Istituto di guerra marittima e che, seppure stimolato dalla posizione occupata, rimase quasi estraneo alle discussioni che, allora e negli anni precedenti, si erano sviluppate sulle navi portaerei, sul combattimento notturno, sul ruolo dell’aviazione, sull’impiego dei sommergibili, manifestando in sostanza il pensiero che per il dominio del mare fossero di prevalente importanza le grandi navi da battaglia. Questo può valere a fornire un primo orientamento circa le sue idee sulla strategia navale, anche se è difficile fornire un quadro completo e un giudizio preciso in quanto – e la cosa va notata, perché il C. sarà chiamato poco più tardi alle massime responsabilità – non comparvero suoi scritti a testimoniare precise prese di posizione. Si ha l’impressione che prevalesse in lui un certo agnosticismo e forse una preferenza per la disciplina formale, per le tradizioni più che per le novità e i dibattiti appassionati.

Proseguendo nella carriera gli venne assegnato, nel 1932, il comando della divisione navale in Estremo Oriente, che raggiunse a bordo dell’incrociatore pesante “Trento” inviato col cacciatorpediniere “Espero” a rinforzo della concessione italiana a Tientsin dopo che i Giapponesi avevano iniziato l’occupazione della Manciuria. Ebbe poi il comando della 2ª divisione navale della I squadra, e il 6 nov. 1933, quando Mussolini assunse personalmente i tre ministeri delle forze armate, il C. fu nominato sottosegretario di Stato per la Marina e dopo breve tempo capo di Stato Maggiore mentre gli giungeva anche la promozione ad ammiraglio di squadra. Ricoprì tali uffici fino al dicembre 1940.

La scelta era caduta su un ufficiale di buone capacità, ma non di doti così eccezionali da giustificare del tutto il concentramento delle due altissime cariche, concentramento che fece sì che il C. venisse ad essere, accanto a Mussolini, il massimo responsabile della preparazione e della condotta della Marina militare fino alla guerra. La riunione dei poteri, unita alla lunga permanenza nelle cariche, consentì indubbiamente di dare alla Marina una notevole continuità di indirizzo, ma si rivelò, sotto altri aspetti, eccessiva e negativa. Finì col mutare la fisionomia del capo di Stato Maggiore da uomo di studio dedito ai problemi della guerra in un vero 9 proprio comandante, impegnato in una quantità di questioni, con ampi poteri e con tendenze autoritarie, in armonia del resto con il clima del regime. Da quel momento si accentuarono tendenze già emerse in precedenza: disparità di pareri e discussioni su vitali argomenti di carattere strategico o tecnico divennero poco gradite; autonomia di pensiero e spirito di iniziativa furono il più delle volte considerati riprovevoli; alcuni ufficiali, con l'accettazione acritica delle idee correnti tra le massime gerarchie, giunsero a determinate leve di comando senza averne adeguati meriti e capacità. Tutto ciò si ripercosse, come era naturale, sulla preparazione, sulla valutazione e sulla condotta delle operazioni in guerra.

Prima dell’inizio della campagna d’Etiopia il C. aveva avuto modo di esprimere molte perplessità tecniche per il trasporto delle truppe oltremare e sui rischi dell’impresa, valutando in modo negativo le possibilità della flotta italiana; ma poi, in un memorandum inviato a Mussolini (gennaio 1935), affermò che mai più si sarebbero presentate all’Italia condizioni così favorevoli per l’espansione in Abissinia. Le direttive emanate da lui a più riprese durante lo stesso anno non erano orientate, nell’ipotesi di un conflitto con la Gran Bretagna, alla ricerca dello scontro risolutivo, ma si faceva molto affidamento sulle dimensioni della flotta italiana e si dava per scontato – ciò appunto consigliava l’azione – che la particolare congiuntura internazionale e lo stato degli armamenti avrebbero reso del tutto improbabile la possibilità di un intervento franco-inglese.

La Marina si rivelò indubbiamente fattore logistico fondamentale con il suo efficace approntamento di mezzi per il trasporto di un ingente corpo di spedizione, con la sua cura nell’ampliamento delle installazioni portuali, con il suo impegno nell’invio di rifornimenti di ogni genere (e il C. venne perciò promosso ammiraglio d’armata); ma la flotta italiana non aveva allora né navi da battaglia né portaerei: non si poteva quindi affermare che l’eventuale avversario fosse stato trattenuto dalla consapevolezza di dover pagare un prezzo altissimo. In uno scontro con il grosso anglo-francese la sorte sarebbe stata senza dubbio avversa, né i combattimenti avrebbero potuto durare a lungo. Prevalse quindi nei capi militari, allora e poi anche alla vigilia del secondo conflitto mondiale, più la fiducia nell’abilità politica del capo del governo che un sereno apprezzamento delle rispettive possibilità militari.

Si parlò negli anni successivi della necessità di creare una marina oceanica, di una dottrina di guerra della marina fascista oltre al resto la conquista dell’Etiopia e la conseguente tensione con l’Impero britannico avrebbero dovuto suggerire la necessità di tenere a confronto, per i piani di riarmo, anche la flotta inglese. Ma il C. non aveva idee particolarmente moderne o audaci tali da consentire di compensare in qualche modo la superiorità dei probabili avversari. Continuava a considerare le corazzate fondamentali per stabilire la potenza navale di una nazione, sulla scia di quanto aveva indicato il Revel negli anni dal 1922 al ’25; stimava poco l’aviazione e non valutava adeguatamente la componente aeronavale. Il riarmo fu proseguito in quegli anni tenendo presente l’obiettivo di raggiungere la parità navale con la Francia (privilegiando così la quantità più che la qualità dei mezzi), si assegnò valore fondamentale alle elevate velocità, e non si curò l’autonomia o la capacità di incassamento, né si pensò al combattimento notturno che pure è la forma di lotta caratteristica delle marine più deboli.

Per un più preciso orientamento sul piano delle concezioni strategiche, notevole importanza riveste l’analisi di uno studio del dicembre 1938, elaborato dall’ufficio di Stato Maggiore, per il trasporto di un corpo di spedizione in Africa settentrionale (D.G. 80/A 2: ed. da Gabriele, Operaz. …, C. 3…, pp. 295-301). Vi si mettevano in risalto le difficili condizioni in cui si sarebbe svolto il traffico con la Libia per la presenza di forze inglesi a Malta; si suggeriva quindi l’approntamento dei mezzi per occupare l’isola, e seguiva un accenno ad una serie di operazioni verso l’Egitto e nel mar Rosso, in particolare contro Suez ed Aden. Al documento avrebbe potuto costituire la base per lo studio di un ben congegnato piano di guerra e, del resto, non era che la maturazione di altre direttive navali e di quanto, seppure in modo discontinuo, era stato elaborato presso gli uffici dello Stato Maggiore della Marina. Ma nei mesi successivi non si pensò ad approntare uomini e naviglio per operazioni anfibie, si esagerarono di molto le difficoltà per la conquista di Malta né si provvide a mutare gli indirizzi della politica navale (anche se evidentemente per certe categorie di naviglio era troppo tardi). In conseguenza, scoppiato il conflitto mondiale, il C., messo di fronte alla realtà della guerra dalle decisioni di Mussolini che il 31 marzo 1940 in una relazione segretissima invitava la Marina all’offensiva su tutta la linea, non poteva che presentare con fermezza allo stesso capo del governo, il 14 aprile, un memorandum in cui si faceva presente la assoluta impossibilità di agire in modo offensivo: la sproporzione delle forze era tale che la Marina avrebbe riportato ingenti perdite senza conseguire alcun valido obiettivo; quindi, mancando la possibilità di raggiungere importanti risultati, non sembrava giustificata l’iniziativa dell’entrata in guerra. Seguì, il 29 maggio ’40, con la sua firma, la Direttiva per le operazioni navali ed aeree n. 0, zero appunto perché concernente i concetti generali di azione in Mediterraneo.

L’ipotesi era quella d’un conflitto tra l’Italia e la Germania e la Francia e la Gran Bretagna; si escludeva la possibilità di aprire le ostilità di sorpresa, e si ipotizzava una certa prevalenza italiana nello scacchiere centrale del Mediterraneo, mentre al nemico sarebbe rimasta ampia possibilità di dominio a oriente e a occidente.

I compiti della Marina avrebbero dovuto essere i seguenti: impedire la riunione dei due gruppi avversari; svolgere attività insidiosa nelle acque delle basi nemiche; agire con forze insidiose e leggere contro le linee di comunicazione dell’avversario; creare e sfruttare a fondo ogni occasione di scontri parziali in condizioni di superiorità o di parità di forze per logorare l’avversario; impegnare anche il grosso quando lo scontro potesse avvenire in prossimità delle nostre basi prima che l’avversario si fosse rafforzato; proteggere le comunicazioni con la Libia e l’Albania. Qui risultava attenuato il pessimismo del precedente memoriale; il principio scelto e dichiarato era quello della difensiva attiva. L’atteggiamento era ragionevole per una marina in condizioni di inferiorità e posta di fronte al problema, diversamente insolubile, di tener testa alle squadre inglesi e francesi. Ma in realtà, poi, ci si chiuse quasi subito in una vera e propria difensiva passiva e si lasciò al nemico ampio spazio per agire e il tempo necessario per rafforzarsi.

La mancanza di direttive strategiche a più ampio respiro fece perdere la possibilità di raggiungere notevoli obiettivi (in particolare l’Egitto), proprio quando la caduta della Francia spostò a favore dell’Italia i rapporti di forza sul mare. È evidente d’altra parte che se l’impostaziorie strategica era insoddisfacente, erano state insoddisfacenti le scelte operate per l’approntamento del naviglio e mancavano quindi i mezzi per una diversa condotta della guerra marittima.

La politica navale condotta negli anni dal ’33 alla vigilia del conflitto presentava un errore fondamentale: la nave portaerei, il tipo destinato ad essere la spina dorsale delle flotte, non entrò mai in servizio, perché troppo tardi messa sugli scali. Le discussioni relative alla costruzione erano iniziate già poco dopo la fine della prima guerra mondiale ed erano proseguite per parecchi anni, ma era prevalsa sempre la tesi negativa. Il 15 marzo 1938 il C., parlando alla Camera, aderì pienamente alla tesi di Mussolini e di una parte della Marina sulla convenienza di non costruire portaerei. Nel discorso, momento fondamentale per interpretare gli orientamenti del C. in campo navale, egli dichiarò di ritenere che il rapidissimo progresso tecnico degli aerei, l’incremento della loro velocità, il maggior peso e la migliorata autonomia avrebbero reso sempre più complesso il problema del ponte di volo e avrebbero diminuito l’efficienza e l’efficacia stessa delle navi. Sarebbe stato sufficiente l’approntamento di basi aeree le quali, tra l’altro, avrebbero potuto fornire quantità ben più consistenti di velivoli.

Tali affermazioni non presentavano però un adeguato fondamento tecnico: intanto non si trattava di quantità, quanto piuttosto di assicurare la tempestività dell’intervento e l’affiatamento tra le due armi (scarsa o nulla era allora la collaborazione tra Marina ed Aeronautica), e poi sulle portaerei avrebbero potuto meglio operare specialità (gli aerosiluranti) indicate particolarmente ad ottenere buoni risultati su bersagli navali. Era provata l’incapacità dell’arma aerea di colpire bersagli con il bombardamento in quota; alcune esperienze di questo genere avevano dato risultati negativi, e l’amm. R. Bernotti lo fece notare al C.; questi tuttavia addusse giustificazioni personali senza prendere provvedimenti per il miglioramento della situazione lamentata. Nello stesso discorso del marzo ’38 il C. vantò invece l’approntamento di un gran numero di incrociatori, di sommergibili e soprattutto di una potente linea di corazzate. Decisione conseguente e complementare presa in quegli anni dal capo del governo, e dal C. pienamente avallata, era stata infatti la messa in cantiere di un grosso nucleo di navi da battaglia. Nel 1933 erano stati iniziati i lavori di rimodernamento delle due “Cesare”, che entrarono in servizio nel 1938 e risultarono inferiori alle corrispondenti inglesi della classe “Queen Elizabeth”. Nonostante ciò fu decisa anche la trasformazione della “Doria” e della “Duilio”. Nel 1934 erano state impostate le due moderne corazzate di grandi prestazioni “Vittorio Veneto” e “Littorio”, e nel 1938 furono messe in cantiere le similari “Roma” e “Impero”.

Venne così a costituirsi un complesso formato da due gruppi con caratteristiche di armamento, protezione e mobilità assai diverse e difficili da usare insieme; la grossa squadra rendeva diffidente la Gran Bretagna, ma lasciava alla stessa ancora un ampio margine di vantaggio, né era pensabile che potesse essere superata in quantità. Molto più opportuno, per un futuro conflitto in Mediterraneo, sarebbe stato l’approntamento di diverse specie di mezzi (dalle navi portaerei alle siluranti) da impiegarsi in azioni coordinate. Invece anche a proposito – degli altri tipi di naviglio c’è da notare che non tutto era soddisfacente: alcuni incrociatori erano troppo leggeri; i cacciatorpediniere erano in genere dotati di scarsa autonomia; i sommergibili presentavano eccessive sovrastrutture, bassa velocità, scarsa manovrabilità; mancava una seria organizzazione, e mancavano unità per la lotta antisommergibile, come se la difesa del traffico non dovesse essere di fondamentale importanza. Da ultimo, poiché lo sviluppo scientifico e tecnologico in Italia non era molto progredito, si aggiungevano altre deficienze che avrebbero dovuto essere tenute in maggior conto nell’ipotesi di un conflitto, anche se non tutte erano imputabili alla Marina. L’espulsione del siluro ad esempio avveniva ancora ad aria compressa e la grossa bolla rendeva il battello subacqueo facilmente identificabile; mancava il munizionamento per il combattimento notturno dei medi e grossi calibri, quello diurno dava origine a frequenti e rilevanti dispersioni delle salve; risultavano troppo sensibili e quindi inadatte le spolette specie nel tiro contraereo; lo studio di un radiolocalizzatore era più arretrato rispetto a quello degli avversari e della alleata Germania.

Anche il collegamento tra le due Marine dell’Asse, che avrebbe potuto supplire in parte alle carenze italiane, lasciava alquanto a desiderare. Dopo la firma del Patto d’acciaio, il C. incontrò alla fine del giugno 1939 l’amm. Raeder a Friedrichshaven per discutere dei problemi connessi ad un eventuale conflitto; espose anche un generico concetto operativo, ma i colloqui non andarono al di là di una vaga presa di contatto, mentre i progressi tecnici della Marina tedesca (il radar e la preparazione al combattimento notturno) rimasero in sostanza ignorati in Italia. E così, in conclusione, la Marina entrò nel conflitto con un notevole numero di navi e con spirito ed addestramento ammirevoli, ma con idee spesso antiquate e impreparata al tipo di guerra che doveva combattere.

Nei giorni successivi al 10 giugno 1940 si agì principalmente, sul mare, con i sommergibili; seguendo le direttive di Mussolini il C. ne fece impiegare un gran numero (circa i due terzi): il che portò a un loro rapido logoramento senza che venissero ottenuti successi di rilievo, data l’assenza di traffico nemico. Caduta la Francia, la situazione nel Mediterraneo si modificò notevolmente a favore dell’Italia e si aprì un periodo buono a impegnare gli Inglesi. Il 9 luglio ’40 si ebbe un primo scontro a Punta Stilo. Il Comando superiore della Marina, per compensare la limitata superiorità della “Mediterranean Fleet”, aveva fatto assegnamento sulla vicinanza delle coste nazionali e quindi sulla possibilità di un massiccio intervento dell’aviazione. Ma la battaglia durò pochi minuti e l’aeronautica, intervenuta in ritardo, bombardò sia le navi italiane sia quelle inglesi senza ottenere alcun risultato. Si sarebbero potute far intervenire le due nuove corazzate del tipo “Vittorio Veneto”, ma i massimi gradi, nonostante il parere contrario dei rispettivi comandanti, le ritennero non ancora in grado di partecipare al combattimento. Gli scarsi risultati ottenuti non suggerirono radicali modifiche da apportare alla organizzazione delle due armi, e neppure apparve chiara la necessità di costruire una portaerei, vista la difficoltà di ottenere una soddisfacente cooperazione aeronavale. Da quel momento, anzi, la condotta strategica di Supermarina e del suo capo si fece estremamente e a volte ingiustificatamente prudente, anche quando l’entrata in servizio di nuove unità portò la flotta italiana a possedere una notevole prevalenza sia sul nucleo inglese di Gibilterra che su quello di Alessandria (i due nuclei in tutta la guerra non si riunirono mai per operare insieme). Sfuggì un’ottima occasione di impegnare il nemico tra la fine di agosto e i primi di settembre. L’ammiragliato britannico aveva deciso di rinforzare la flotta nel Mediterraneo, e perciò dispose l’invio della nave da battaglia “Valiant” e della portaerei “Illustrious”; le due unità entrate da Gibilterra si diressero verso Malta accompagnate dalla forza H (composta allora da una corazzata, una portaerei e naviglio minore).

Dall’altro capo la squadra di Alessandria con due corazzate ed una portaerei mosse verso Malta scortando anche un convoglio di rifornimenti. Supermarina venne a conoscenza dei movimenti dei due gruppi e ordinò all’alba del 31 agosto che uscissero tutte le forze navali per andare incontro al nemico. Si trovò così in mare un complesso italiano più forte (quattro corazzate) dei due gruppi avversari, tenendo conto che allora gli attacchi aerei inglesi provenienti dalle portaerei non rappresentavano un grosso pericolo. Ma il Comando superiore della Marina non lasciò alcuna autonomia al comandante in mare; fissò la rotta e la velocità del complesso, e stabilì che se il contatto non fosse avvenuto prima del tramonto le squadre avrebbero dovuto rientrare a Taranto. Data l’ora di partenza e la velocità le navi italiane non avrebbero mai potuto incontrare le inglesi in quella giornata. Non vi era quindi alcuna reale intenzione di intercettare il nemico, tanto più che l’ordine di rientrare venne in un secondo tempo anticipato alle ore 16. L’insoddisfazione e il disappunto sulle navi italiane furono piuttosto vivaci; si pensò alla molta nafta consumata (preziosa data, la mancanza di adeguati rifornimenti) e al fatto che il nemico aveva potuto percorrere in lungo e in largo il Mediterraneo portando a termine con successo le operazioni intraprese mentre avrebbe potuto essere favorevolmente impegnato quando era impacciato dalla difesa del convoglio. L’insoddisfazione crebbe ancor più quando, alla fine di settembre, un’altra simile occasione venne lasciata sfumare. Supermarina, raccogliendo tale stato d’animo, chiese al Comando supremo se mai ritenesse opportuno un mutamento nelle direttive. Ma questo rispose con un discutibile apprezzamento della situazione (tutto andava bene poiché gli Inglesi non avevano attaccato le coste italiane e neppure il nostro traffico, seppure di gran lunga superiori) e confermò che la Marina doveva attenersi ad una stretta difensiva. La trattazione dei problemi navali era alquanto semplicistica, e difficilmente avrebbe potuto essere accettata dal comando della Marina; il documento venne invece accolto dal C., il quale dichiarò che egli si sarebbe attenuto al criterio di seguire la via fino allora percorsa. Poiché il malcontento perdurava, ritenne opportuno recarsi a Taranto, ai primi di ottobre, per illustrare personalmente agli ammiragli delle squadre e delle divisioni navali su quali presupposti si fondavano i criteri adottati.

In una riunione a bordo della “Littorio” commentò le direttive del Comando supremo e un memoriale preparato da Supermarina. Rilevò la difficoltà di intraprendere operazioni contro un nemico di gran lunga superiore (nel memoriale si computavano come riunite le squadre di Gibilterra e di Alessandria), negò la possibilità di incontrare una frazione soltanto di dette forze (come invece era e sarebbe più volte avvenuto), e fissò in definitiva un criterio di vera e propria difensiva passiva. Per il solo fatto di esistere la flotta italiana rappresentava un freno ad ogni iniziativa inglese, per cui non c’era motivo di cambiare atteggiamento. L’intervento del C. non eliminò il malcontento, anzi impressionò sfavorevolmente diversi comandanti e ammiragli, tra i quali ultimi lo Iachino che inviò al suo superiore un promemoria dove venivano messi in evidenza i difetti dell’impostazione data alla guerra navale.

Il riesumato concetto della fleet in being, cioè della flotta che vincola l’avversario senza però incontrarlo, era già stato ampiamente smentito nel passato e anche più lo sarebbe stato di lì a poco. L'11 nov. 1940 aerosiluranti inglesi, decollati dalla “Illustrious”, colpirono nel porto di Taranto, mettendole fuori combattimento, tre navi da battaglia, la metà esatta del grosso, al termine di una complessa e non contrastata operazione. Ciò che rimaneva della flotta venne riparato in porti lontani e più sicuri, e al nemico fu lasciata ampia libertà di agire mentre si andava delineando la sconfitta italiana in Grecia e la travolgente offensiva britannica in Africa settentrionale. Un mese dopo si svolse un generale rimescolamento presso gli alti comandi: si dimise Badoglio e anche il C. lasciò le sue cariche, sostituito dall’amm. A. Riccardi. Passato alla presidenza del Comitato ammiragli, si ritirò poco dopo, a domanda, dal servizio attivo.

Si concludeva così il lungo periodo di comando di un uomo che, pur valente ufficiale, non aveva saputo cogliere i fermenti più vivi presenti nella Marina e troppo spesso aveva ceduto alla volontà di Mussolini; di un uomo che, probabilmente, si era lasciato irretire dalla retorica e dalla tendenza al bluff, caratteristiche del ventennio fascista. Tenutosi lontano dopo la guerra dalle polemiche e dalle discussioni sull’interpretazione e sulle responsabilità delle gravi disfatte militari, si spense a Roma il 2 nov. 1966.

Fonti e Bibl.: Per i primi anni, la partecipazione alla prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra, cfr. Ufficio del capo di Stato Maggiore della Marina, Cronistoria docum. della guerra marittima italo-austriaca 1915-18, Roma 1918-22, fasc. 4, p. 55; fasc. 9, pp. 28, 32, 41, 46; Id., Biografie, Ammir. C., Roma 1927-33, fasc. 4, pp. 17 s.; Ufficio stor. della Marina, Le occupaz. adriatiche, Roma 1932, pp. 72-86; Id., La marina nella grande guerra, Firenze 1935-42, III, pp. 112, 114-23; VII, pp. 641 s.; VIII, pp. 663, 667, 679 ss. Riguardo la posiz. nelle vicende dell’intervento in Africa orient.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Fondo Badoglio, b. 4, n. 47, 11 maggio 1934; Ibid., Ministero della Marina, Gabinetto (1935-40), b. 109, promemoria “La questione italo-abissina”; D. Cavagnari, Il contrib. della Marina alla conquista dellImpero, in LImpero, a cura di T. Sillani, Roma 1936, pp. 53-58. Di notevole importanza per un quadro dello sviluppo della Marina sono i discorsi tenuti dal C. alla Camera sullo stato di previs. della spesa del ministero della Marina nei diversi esercizi finanziari: Atti parlamentari, Camera, Discussioni, leg. XXVIII, tornata 5 genn. 1934, pp. 9411-9415; leg. XXIX, tornata 22 marzo 1935, pp. 1127-1135; tornata 21 marzo 1936, pp. 2417-2422; tornata 4 dic. 1936, p. 2981; tornata 4 maggio 1937, pp. 3572-3574; tornata 15 marzo 1938, pp. 4695-4699; Camera dei fasci e delle corporazioni, legislatura I (XXX), Discussioni, tornata 10 maggio 1939, pp. 140-144. Ancora sulle vicende della preparaz. della Marina, sulla sua attiv. nel primo anno di guerra: Uff. stor. della Marina militare, La Marina ital. nella seconda guerra mondiale, XXI, Lorganizzaz. della Marina durante il conflitto, I, Roma 1972, passim; IV, Le azioni navali in Mediterraneo, ibid. 1970, passim; D. Cavagnari, La Marina nella vigilia e nel primo periodo della guerra, in Nuova Antol., agosto 1947, pp. 370-386.

Tra la numerosa bibliogr., testo fondamentale per una valutazione della preparaz. della Marina e di riflesso per la figura del C. è A. Iachino, Tramonto di una grande marina, Milano 1959, pp. 52 s., 196, 227, 234, 313 s., 317 ss. a cui deve essere affiancato, in particolare per un giudizio della guerra sul mare, R. Bernotti, Storia della guerra in Mediterraneo 1940-43, Roma 1960, pp. 7 s., 25, 33, 37, 40, 45, 83 s., 89. Si vedano inoltre: G. Po, La guerra sui mari nei secc. XIX e XX, Bologna 1940, p. 315 (con la dottrina di guerra della marina fascista); Lipotesi Bera quella della rovina, in Corriere dinformaz., 5-6 genn. 1946; G. Ciano, Diario, Milano 1946, I-II, ad Ind.; P. Badoglio, LItalia nella seconda guerra mondiale, Milano 1946, pp. 25, 52 ss.; A. Iachino, Gaudo e Matapan, Milano 1946, pp. 13, 263; Q. Armellini, Diario di guerra. Nove mesi al comando supremo, Milano 1946, passim; A. Da Zara, Pelle dammiraglio, Milano 1949, pp. 230 s., 233, 279, 286; R. Bernotti, La guerra sui mart. nel conflitto mondiale 1939-41, Livorno 1950, I, pp. 166 s.: G. Santoro, Laeron. ital. nella seconda guerra mond., Roma 1950, pp. 18, 54, 92, 159; F. Rossi, Mussolini e lo Stato Maggiore. Avvenim. del 1940, Roma 1951, pp. 18, 24, 28, 35, 55 s.; G. Valle, Laviazione ital. non era preparata alla guerra?, in Riv. aeronaut. ital., XXVII (1951), 1, pp. 49, 55; A. B. Cunningham, Lodissea di un marinaio, Milano 1952, p. 125; G. Valle, Uomini nei cieli. Storia della Aeron. ital. Roma 1958, pp. 228, 263; V. Tur, Plancia ammiraglio, I-III, Roma 1958-1963, ad Ind.; F. Bandini, Tecnica della sconfitta, Milano 1963, pp. 583 ss., 623, 625-628; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia dItalia nel periodo fascista, Torino 1964, pp. 579, 1011, 1016 s.; G. L. André, La guerra in Europa, Iº sett. 1939-22 giugno 1941, Milano 1964, pp. 390 ss.; D. Mac Intyre, La battaglia del Mediterraneo, Firenze 1965, pp. 5, 51; M. Gabriele, Operazione C3: Malta, Roma 1965, pp. 22, 32, 43; E. Faldella, LItalia e la seconda guerra mondiale. Revisione di giudizi, Bologna 1967, p. 67; M. A. Bragadin, Il dramma della marina ital. 1940-45, Milano 1968, pp. 7, 10, 18, 21, 48, 55, 73; E. Chiavarelli, Lopera della marina nella guerra italo-etiopica, Milano 1969, pp. 57-60, 77-80; G. Bocca, Storia dItalia nella guerra fascista, Bari 1969, ad Ind.; M. Cervi, St. della guerra di Grecia, Milano 1970, pp. 52 s., 89, 105; G. W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dellequil. europeo, Bari 1970, p. 472; R. Bernotti, Cinquantanni nella marina militare, Milano 1971, ad Ind.; G. Rochat, Militari e politici nella preparaz. della campagna dEtiopia, Milano 1971, ad Ind.; R. De Belot, La guerra aeronavale nel Mediterraneo, Milano 1971, pp. 101, 128; F. Pricolo, La Regia Aeronautica nella seconda guerra mondiale, Milano 1971, ad Ind.; G. Colliva, Uomini e navi, Milano 1972, pp. 129, 141 ss.; R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-36, Torino 1974, pp. 632, 638, 689; M. Mazzetti, La politica militare ital. tra le due guerre mondiali, Salerno 1974, pp. 129 s., 157 s., 189 s., 218, 226 s.; D. Mack Smith, Le guerre del duce, Bari 1976, pp. 247, 249, 280.

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