DOMENICO di Giovanni, detto il Burchiello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DOMENICO di Giovanni, detto il Burchiello

Giorgio Patrizi

Nacque a Firenze da un legnaiuolo, Giovanni, e da una tessitrice, Antonia, nel 1404.

Una vecchia ipotesi collocava la sua nascita a Bibbiena, attribuendo a D. il vero nome di Michele Leonzi, o Lontri, e spiegando il soprannome con la piccola barca che lo avrebbe portato giovanetto da Bibbiena a Firenze: ma i documenti illustrati da V. Rossi collocano con esattezza le origini del poeta presso una modesta famiglia fiorentina che, nel 1427, risultava avere cinque figli maschi, di cui D. il maggiore, e tre femmine. Una terza ipotesi non suffragata convincentemente era quella del Gargani, secondo il quale D. nacque a Pisa e si trasferi giovanissimo a Firenze.

D. iniziò a praticare l'arte di barbiere sotto padrone, per aprire, nel 1432, una propria bottega in Calimala, bottega che presto divenne un centro di ritrovo per letterati ed artisti fiorentini.

Tale fu la fama acquistata da questa celebre barberia che essa venne raffigurata nella volta della Galleria degli Uffizi, secondo un progetto di Paolo Giovio, realizzato, secondo il Manni, tra il 1658 e il 1665. La bottega dovette divenire presto un luogo di improvvisazione e di discussione di versi alla "burchia", genere di poesia comico-realistica che ebbe nel barbiere fiorentino, se non l'inventore, certo uno dei più brillanti creatori e divulgatori, tanto che dal genere stesso, secondo A. F. Grazzini detto il Lasca, curatore di una edizione dei sonetti di D. nel 1552, derivò il soprannome di Burchiello.

Ma l'animata vita della bottega non durò a lungo: nel 1434 D. dovette lasciare Firenze, per motivi che vanno probabilmente ricercati nelle posizioni antimedicee che erano progressivamente emerse nelle rime da lui inviate ai poeti suoi interlocutori.

È fra le caratteristiche del genere "alla burchia" il componimento a tenzone e l'avvio di uno scambio di rime che può anche articolarsi in numerosi sonetti. Tra l'invenzione immaginosa e il dato autobiografico, D. intreccia con i suoi interlocutori polemiche di argomento letterario e politico. Tra i testi dedicati a questa seconda tematica troviamo alcuni sonetti contro Leon Battista Alberti che rivelano un'accesa polemica contro i Medici: nella lotta per il governo di Firenze che oppose gli Albizzi ai Medici e che vide costretti all'esilio ora Cosimo il Vecchio (1433) ora Rinaldo degli Albizzi (1434), in un alternarsi convulso delle fortune delle famiglie e dei rispettivi partiti, la posizione politica di D. - dettata o da opportunismo, come vuole Rossi, o da convinzione - è nettamente a favore dell'oligarchia di Rinaldo. L'autoritarismo mediceo è condannato esplicitamente, ad esempio nel sonetto "0 umil popol mio, tu non ti avvedi" (da alcuni - Guasti, Flamini - attribuito a Rinaldo), o in "Non posso più che l'ira non trabocchi", che si suppone esser stato scritto nel '33.

Con il ritorno al potere di Cosimo, D. dovette subire il bando che lo costrinse ad iniziare un periodo di viaggi che lo portarono probabilmente a Venezia, Parma, Gaeta - secondo quanto è possibile ricostruire dalle annotazioni contenute nei suoi stessi versi - ed infine a Siena, dove soggiornò più a lungo. Ma anche qui non dovette avere vita facile: documenti giudiziari riportano alcune sanzioni pecuniarie inflitte a D., per essersi reso colpevole di ingiurie e percosse, ed una condanna a sette mesi di carcere per lo strano furto di indumenti femminili, che D. giustificava, in una petizione al Consiglio generale del Popolo con cui chiedeva la grazia, alludendo all'episodio come a un equivoco nato da una sua avventura galante.

Il 4 dic. 1439 fu graziato e tornò in libertà. Rimase ancora a Siena fino al '45, sempre in precarie condizioni economiche; nel maggio di quell'anno era a Roma, già ammalato di febbre quartana. È del 21 sett. 1447 una lettera a Giovanni Cosimo de' Medici, in cui chiede danaro in prestito per poter pagare due caldaie di cui aveva grande necessità.

Sappiamo che D. si era progressivamente avvicinato - probabilmente per opportunità politiche ed economiche - alla famiglia che pure lo aveva messo al bando da Firenze: lo testimoniano, già dal '43, lettere di personaggi che dovettero far da mediatori tra le due parti, come Rossello Rosselli, Roberto Martelli, Pietro Ardinghelli, i quali si rivolgono ai Medici dichiarando stima e familiarità per il barbiere poeta.

D. morì a Roma di malaria nel 1449: la notizia fu accolta da una lunga serie di sonetti commemorativi (tra gli autori Antonio Manetti, Piero del Tasso, Mariotto Davanzati, Betto Biasini).

I giudizi che su D. esprimono i letterati contemporanei o del secolo successivo oscillano tra l'esaltazione del Lasca che, nella dedica dell'edizione fiorentina del 1552 dei sonetti di D., da lui curata, definisce l'autore di quelle rime il terzo maestro della grande tradizione poetica inaugurata da Dante e Petrarca, del Varchi che nell'Ercolano lo indica come il creatore di una delle forme del "fiorentino poetare", l'apprezzamento del Berni ("S'i avessi l'ingegno del Burchiello..."), di Antonio Alamanni, di Leonardo Dati ("Burchius est nihil et cantu allicit omnes") e il giudizio negativo di Cristoforo Landino (Plurima mitto tibi tonsoris carmina Burchi: / hacc lege, sed quid tum? legeris inde nihil"), dell'Aretino ("il Burchiello fu ladro per arte e non per natura, e che sia vero egli rubacchiò per mostrare ai cerretani esser non men male il furare le cappe ai vivi che le fatiche ai morti": per tali giudizi si veda principalmente Lanza, p. 188).

La fortuna editoriale dei versi di D. fu notevole: la prima edizione della raccolta di rime fu a Bologna, nell'ottobre del 1475: ad essa ne seguirono ben altre dieci entro la fine del secolo. Numerosissime quelle del secolo successivo, tra cui la più importante è quella fiorentina, dei Giunti, del 1552, curata dal Lasca, la prima che esprima un'esigenza filologica di ricostruzione testuale.

Questo "poeta pittore di grottesche", secondo la felice definizione del Doni, ha posto notevoli problemi nella esatta delimitazione di un corpus che, tutto costruito com'è sull'invenzione linguistica e sulla continua elusione dei canoni stilistici, rende difficile ogni perizia attributiva. Due casi evidenziano questa situazione ambigua e sfuggente: l'iniziale assegnazione a D. di due sonetti della tenzone tra Dante e Forese Donati, poi rivelatasi errata (Tartaro), e la discussione, di cui si è detto, attorno ai sonetti antimedicei di D. che si vorrebbero di Rinaldo degli Albizzi. D'altronde la stessa tradizione derivata da D., che già tra i contemporanei annoverava molti adepti, presenta una proliferazione di testi in cui la maniera burchiellesca oscilla tra il calco e l'originalità: discepoli ed imitatori, gli autori ascrivibili a questo filone forniscono la prova della vitalità di una creazione che da un lato pare azzerare ogni parametro istituzionale per fondare un universo linguistico totalmente nuovo, dall'altro tributa costanti omaggi ad una tradizione poetica d'importanza storica. È quella della poesia comico-realistica che traspare da peculiari, ben riconoscibili, nuclei tematici, da un "certo gusto satirico e maldicente, stillante di umori municipali, che si traduce volentieri in gergo da brigata, inibito agli estranei" (Tartaro). Se quindi tra le ascendenze di D. possiamo ricordare i Carmina Burana, l'Angiolieri, Rustico, Pulci e Sacchetti, tra gli imitatori ed epigoni (oltre a Luigi Pulci, il cui Morgante Alfredo Schiaffini vedeva come un testo d'importanza centrale per la ripresa critica della tradizione burchiellesca), il Lasca, Bronzino, Alamanni, Caro, il Pistoia e il Berni, che forse è il più vicino per la complessità immaginosa del mondo poetico.

È da ricordare infine la singolare consonanza mostrata con il barbiere-poeta dal Doni, autore di un paradossale, monumentale, commento alle Rime, per un'edizione veneziana del 1553. Testo che prolifera su di un altro testo, l'interpretazione dei versi apparentemente privi di senso o costruiti come puri giochi fonico-ritmici si dà come chiave di apertura di molteplici, vastissimi, universi di discorso, oscillanti tra l'allusione furbesca o erudita a fatti e personaggi dalla vita sociale e culturale contemporanea, l'invenzione di pseudoetimologie o di metafore costruite su terni falsamente scientifici o naturalistici, la ripresa e l'amplificazione del nonsense nella catena delle assonanze. Proprio al Doni va attribuita una novella che l'edizione vicentina delle rime burchiellesche (Perin, 1597) pubblica sotto il nome di Domenico.

Le numerose edizioni delle rime che si sono susseguite attraverso i secoli hanno raccolto molti testi probabilmente non attribuibili a D., ma di difficile identificazione. L'edizione moderna più completa - ma anche più infida - è quella pseudolondinese, ma in realtà di Livorno, del 1757, curata forse da A. M. Biscioni (Lanza): dei circa trecento componimenti, quasi tutti sonetti caudati ed alcuni capitoli, stampati sotto il nome di D., lo Schiaffini ne dà per certi solo la metà. Accanto a queste attribuzioni dubbie, abbiamo quella decisamente falsa e paradossale della Libraria del Doni fiorentino (Venezia, Giolito, 1557) che, tra le opere non ancora edite, annovera una Nobilità dell'arte del barbiere di D., trattatello d'esaltazione di un'arte nobile - secondo l'autore - perché re e principi affidano la propria vita alle mani di chi la esercita.

La poesia di D. si struttura secondo una costante misura metrica, quella del sonetto caudato; più rara l'ampiezza del discorso del capitolo, di cui abbiamo solo alcuni esempi. Il Redi sottolinea in D. la frequenza di componimenti che superano il limite dei diciassette versi (del sonetto con una sola coda): in effetti la tendenza burchiellesca a prolungare la misura tradizionale per un effetto di accumulo ritmico e di amplificazione semantica è il procedimento tipico di una poesia che tende, fino al limite di rottura, i canoni ritmici e linguistici tradizionali. Appare utile, se non intesa rigidamente, la suddivisione dei testi burchielleschi, a partire dalla materia trattata, in tre gruppi, come la propone Lanza: sonetti realistici, sonetti di polemica letteraria, sonetti alla burchia. Queste tre scansioni permettono di accorpare in filoni sufficientemente omogenei motivi svariatissimi e riccamente articolati dall'invenzione linguistica. Sono inscrivibili in questi gruppi tutti i temi derivati dalla tradizione comico-realistica: "il vituperium antimuliebre, il lazzo osceno, la scherzosa aneddotica autobiografica" (Tartaro), "il gusto antidillico e anticulturale" (Piromalli), la satira municipale, il gioco caricaturale.

L'inserimento della poesia di D. nell'ambito di uno specifico filone letterario fa giustizia di ogni possibile lettura "ingenua" dei suoi testi, pronta a riconoscervi la tensione di un'immaginazione illetterata e spontanea: quella lettura, ad esempio, che Domenico Guerri riferiva ad una ipotetica "corrente popolare", facendo del poeta-barbiere il rappresentante di un "vigoroso naturalismo che per forze intrinseche e di razza dominava i temperamenti artistici in Toscana in quel tempo" (p. 103), e che Antonio Lanza indicava come esperienza di una poesia che "nasce a contatto con la vita quotidiana e popolare" (p. 200). Appare invece più convincente l'osservazione di Tartaro secondo cui "l'eleganza della costruzione, piuttosto, la duttilità sintattica e l'abile contrappunto dei registri ritmico-stilistici, dovranno notarsi come il segno di una letterarietà sicura e consumata, di ricerca espressiva che è soprattutto arte" (Burchiello e burchielleschi, p. 91). Al gruppo dei sonetti realistici, per i quali non si pone quel problema dell'oscurità di senso che esiste per altri testi, vanno ascritte quelle composizioni che attingono essenzialmente alla materia autobiografica, raccontando le tappe quotidiane di un'esperienza del mondo che o traduce una sorta di propria euforia nella manipolazione straniante del linguaggio (come nel gioco sintattico della tfilastrocca": "Sabato Tessa ci fu mona sera / con un gran maccheron di catinoni") o accende la banale quotidianità del discorso e del gesto, con il ritmo rotondo ed incalzante del canone metrico ("Va' in mercato, Giorgin, tien qui un grosso, / togli una libbra e mezzo di castrone ..."). 0 ancora il sonetto rappresenta i toni più crudi, esasperati dal gusto per il dettaglio di un'esperienza traumatica: il carcere, la malattia, la povertà. Ed è proprio a partire da un dato di così radicale riegatività che viene posta come istanza liberatoria quella della scrittura e della creazione letteraria ("Ficcarni una pennuccia in un baccello / ed empimi d'inchiostro un fiaschettino; / mandamel col mangiar, che paia vino, / ch'ho di fantasia pieno il cervello"). Contrapposizione antinomica, quella di vita e arte - esemplata dalla celebre tenzone della Penna e del Rasoio - che dà luogo ad un'accorta dialettica tra il dato colto della citazione più o meno nascosta, del calco ritmico-fonico di luoghi tradizionali, e l'allusione a situazioni biografiche che accreditino un realismo allucinato ed affabulatorio.

Non si discostano in fondo da questa organizzazione strutturale e linguistica i sonetti di polemica letteraria. La polemica antipedantesca - da ricondurre, anche per riprese tematiche, ai poemetti di inizio secolo di Stefano di Tommaso Finiguerri detto il Za - si svolge in una serie di testi in cui vengono satireggiati alcuni significativi nomi di intellettuali contemporanei, da Leon Battista Alberti a Rossello Rosselli ad Anselmo Calderoni. Al primo va attribuito un sonetto in risposta ai versi antimedicei di D., "0 umil popol mio, tu non t'avvedi"; al secondo è destinata un'ironica lezione di petrarchismo ("Fior di borrana, se vuoi dir in rima, / convienti esser più grasso d'aggettivi"); Anselmo, araldo del popolo, è oggetto di una violenta satira a cui replica con altrettanta violenza ("Io ti rispondo, Burchiel tartaglione"), lanciando ingiurie sull'intera famiglia di Domenico. Bersaglio di impietosi lazzi è la poesia petrarchesca, e, in fondo, l'intero tessuto classicista della cultura umanistica a cui D. implicitamente contrappone un rimare in un linguaggio essenziale anche se inventato, di una sonorità intensa ma certo lontana da ogni intensità idillica. In questo senso le presenze dantesche, nei testi di D., non si limitano alla citazione, più o meno manipolata, di luoghi dell'Alighieri - come gli echi della canzone "Tre donne intorno al cor mi son venute" nel celebre sonetto burchiellesco "Sospiri azzurri di speranze bianche" - ma richiamano più generali coordinate, come il "modello dantesco del basso inferno: nella condizione ... di un pellegrino inerme in un mondo che lo trascende minacciosamente" (Tartaro, p. 98). Quanto al Petrarca, la sua poesia, fondante la tradizione, è frequente oggetto di derisione e caricatura: "Specchiati ne' Trionfi, il gran miscuglio / d'Armi e d'Amor, di Bruti e di Catoni, / con femmine e poeti in guazzabuglio".

Matura, attraverso questi dati, l'immagine di un poeta che nutre un rapporto complesso con la cultura e la tradizione. Un rapporto carico di ambiguità perché è di adesione e di presa di distanza al tempo stesso, rispetto agli auctores citati, in un uso straniato di immagini convenzionali e di frasi stereotipate, per cui più che di reale intento parodico appare giusto parlare "dell'acquisizione di disinvoltura e spregiudicatezza nell'accostarsi alla letteratura colta" (Fubini). Questo duttile approccio alla tradizione e la tensione della ricerca costante di nuove valenze espressive del linguaggio sono alla base del procedimento compositivo che caratterizza il terzo gruppo di testi del corpus burchiellesco, quello dei sonetti "alla burchia", costruiti cioè attraverso un accumulo di materiali significanti apparentemente senza senso. Il gioco dello slittamento e addirittura dell'azzeramento semantico si svolge, con estrema naturalezza, all'interno di un linguaggio che, pur con uno spettro lessicale molto ampio, mantiene salde le strutture sintattiche e grammaticali (scriveva il Crescimbeni che "il modo di comporre del Burchiello, quanto era sano di lingua, oltre ogni credere purgata, e perfetta, tanto era storpio nella condotta e ne' sentimenti": p. 394), per accogliervi una serie di significati il cui referente sembra ormai perduto o del tutto occultato dietro la serie esilissima delle allusioni che a lungo la critica ha cercato di individuare e di chiarire. Esemplare in tal senso il puntiglioso commento che Giovannantonio Papini, nelle Lezioni sopra il Burchiello (Firenze 1733) dedica a dodici sonetti, dei quali vengono apparentemente risolti tutti i problemi di senso, tentando una lettura naturalistica, scientifica e storico sociale, capace di organizzare tutti i possibili significati. Vittorio Rossi affermava, a proposito dell'"oscurità" dei versi di D., che "per il regolare andamento delle concordanze e dei nessi grammaticali e il gradevole rotondeggiare dei ritmi, paiono nascondere in quell'accozzaglia, il filo di un ragionamento, mentre in realtà non dicono cosa alcuna" (p. 360). Altri hanno invece sottolineato l'effetto comico-grottesco derivante dalla pura giustapposizione di un elemento di senso chiaro, un elemento dotto ed uno di valore soltanto fonico. In conclusione l'impossibilità di sciogliere l'"oscurità" è parte di una strategia testuale che implica la disponibilità del lettore a tentare una lettura che, continuamente delusa, svela in luogo del senso tradizionale, "un sistema di relazioni fono-semantiche orchestrate da un orecchio evidentemente abituato alle svariate combinazioni della frottola" (Tartaro, p. 98). D'altronde il versante metalinguistico dei testi rivela un registro ludico che non è possibile assimilare al gergo furbesco, trattandosi piuttosto di un "linguaggio a doppio senso, in parte soggettivo ed in parte convenzionale, fondamentalmente scherzoso, talora accortamente trovato per celare pensieri e fatti che non piaccia far intendere a tutti, tal altra condotto sino alla stranezza di accozzaglia insensata di vocaboli" (Renier, p. 123).

Questa scrittura, da un lato scandita da misure tradizionali, dall'altro articolata da un discorso allucinato e sorprendente, sembra disporsi secondo l'ottica straniante della riproduzione di situazioni di vita quotidiana, in cui gli uomini sono sostituiti dagli oggetti quali protagonisti delle azioni. In tal senso anche il procedimento dell'accumulazione tecnica tanto della costruzione retorica quanto della organizzazione ritmica, con la peculiare costante dell'estensione del numero dei versi, risponde al disegno di un universo popolato di immagini che vivono di esistenza autonoma, con l'oggettività, tutta fittizia, di una realtà che il linguaggio fonda e rende persuasiva. C'è un modello di verso che appare particolarmente frequente nei sonetti burchielleschi: è quello nominale, costruito con due coppie di sostantivo e aggettivo, unite da un nesso prepositivo ("sospiri azzurri di speranze bianche", "zolfanei bianchi colle ghiere gialle", "gamberi verdi tutti in grana gialla"). A un modello che caratterizza i versi improntati al nonsense e al puro gioco sintattico, eppure indica un procedimento descrittivo e narrativo di particolare importanza per la tecnica burchiellesca. A il procedimento che permette la messa a fuoco di soggetti inusitati, chiamati a muoversi in una realtà a loro misura, con un'identità puramente grammaticale, della quale la specificazione che il discorso fornisce (appunto, per lo più, nel secondo emistichio) sancisce la natura tutta verbale ed affabulatoria. È questa senza dubbio la novità più radicale ed innovativa della poesia di D. rispetto alla tradizione comico-realistica, a cui pur rimanda per citazione dotta e per risorse tecniche: è sostanzialmente nuovo l'itinerario che, muovendo dalla materia biografica e naturalistica, la strania in una forma linguistica omogenea solo sul versante fonico. Cosi nel sonetto dal carcere "Lievitomi in su l'asse come il pane", il dato dell'esperienza si trasforma in racconto mirabile ("il corpo m'urla spesso e fa rimbombo, / onde un di mi rispose una colomba, / la qual credette ch'io fussi un colombo") e quindi l'affabulazione cede al puro gioco fonico dell'invettiva incomprensibile, ma assonante e grammaticalmente corretta: "S'i'avessi una fromba, / diss'io, o lasconaccia Valdinera, / ti farei col cavolo stasera".

Nell'iperbolico mondo di D., l'esperienza delle istituzioni della poesia si rinnova e si conferma. Verifica la possibilità di fondare un universo di valori letterari compiuto ed autonomo, articolato ed omogeneo; radicalizza la distanza della specifica tradizione in cui si inserisce dalla linearità monodica del petrarchismo, amplificando lo spettro dei piani lessicali, e dei registri espressivi: in tal senso l'invenzione linguistica di Burchiello s'innesta in un'area di sperimentazione e promozione del volgare - la stessa ad esempio a cui appartiene la prova del Certame coronario del 1441, promosso dall'Alberti - ed è forse proprio in questa dimensione che essa si mostra più fertile, capace di porsi come esperienza centrale, di ricchezza sorprendente, per una lezione di poesia anticlassicista.

Oltre alle edizioni quattrocentesche, numerosissime, come si è detto, dei sonetti di D., ricordiamo tra quelle cinquecentesche: Firenze, Giunti, 1552 (a cura del Lasca); Venezia, Marcolin, 1553 (con il commento del Doni); Vicenza, Perin, 1597. In età più recente, l'edizione più completa, a cui fanno riferimento numerose antologie moderne, è quella citata di Londra (ma in realtà è di Livorno), 1757, inattendibile da un punto di vista filologico. Importante anche l'edizione emendata, a cura di G. B. Vallecchi, Firenze 1834.

Fonti e Bibl.: A. F. Doni, La libraria, Vinegia 1557, pp. 35, 185; M. Poccianti, Catalogus scriptorum Florentinorum, Florentiae 1589, p. 35; B. Varchi, Lezzioni, Fiorenza 1590, p. 586; F. Redi, Bacco in Toscana, Fiorenza 1685, pp. 120-121; A.M. Salvini, Discorsi accademici, Firenze 1712, II, pp. 70-74, 122-127, 180-190, 253-259, 314-327, 412-420; G. A. Papini, Lezioni sopra il Burchiello, Firenze 1733; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, Venezia 1731, I, pp. 40, 165, 394; G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza ital., Venezia 1753, II, p. 78; D. Manni, Le veglie piacevoli, Venezia 1762, I, pp. 28-30; B. Gamba, Delle novelle ital. in prosa, Firenze 1835, pp. 99, 104-107; Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, a cura di C. Guasti, Firenze 1873, III, pp. 647-649; G. Gargani, Sulla poesia toscana di Burchiello, Firenze 1877; C. Mazzi, Il Burchiello, Roma 1876; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento, Pisa 1891, passim; R. Renier, Cenni sull'uso dell'antico gergo furbesco nella letteratura italiana, in Miscell. di studi in onore di A. Graf, Bergamo 1903, pp. 123-142; D. Guerri, La corrente popolare nel Rinascimento, Firenze s.d. (ma 1931), pp. 94-103; C. S. Gutkind, Burchielliana, in Archivum Romanicum, XV (1931), pp. 1-34; L. Spitzer, Zur Nachwirkung von Burchiellos Priameldichtung, in Zeitschrift für romanische Philologie, LII (1932), pp. 484-489; V. Rossi, Un sonetto e la famiglia di Burchiello, in Scritti di critica letteraria, II, Firenze 1940, pp. 359-369; G. Mazzoni, Una filastrocca burchiellesca, in Lingua nostra, II (1940), pp. 4-7; V. Cian, La satira. Storia dei generi letterari in Italia, Milano 1945, pp. 320-344; S. Spellanzon, Un poeta maledetto del Rinascimento ital., in Saggi di umanesimo cristiano, IV (1949), 2, pp. 41-48; A. Piromalli, Aspetti della cultura e della poesia giocosa in Toscana nel '400, in Dal Quattrocento al Novecento, Firenze 1965, pp. 1-10; M. Fubini, Sulla poesia di Burchiello, in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze 1971, pp. 29-49; A. Lanza, Il Burchiello, in Polemiche letter. e berte letterarie nella Firenze del primo Quattrocento, Roma 1971, pp. 171-227; A. Tartaro, Burchiello e burchielleschi, in Il primo Quattrocento toscano, Bari 1971, pp. 89-104.

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