DOLO

Enciclopedia Italiana (1932)

DOLO (gr. δόλος; lat. dolus; fr. dol; sp. dolo; ted. Dolus; ingl. criminal intent)

Giuseppe GIUDICE
Vincenzo MANZINI

Nella civiltà latina dolus venne ad assumere il significato di frode, in contrapposto a violenza, e cioè, secondo la definizione di Labeone, riferita da Ulpiano (1, 2, Dig., de dolo malo, IV, 3); calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum, fallendum, decipiendum. Questa nozione fu mantenuta dai glossatori e dai postglossatori, e valeva tanto per il diritto privato quanto per il diritto penale. Si conservò pure la distinzione romana tra dolus malus (inganno diretto a un fine riprovevole) e dolus bonus (diretto a un fine lodevole). Ma nel sec. XVIII cominciò, nell'uso giuridico penale del termine dolo, quel processo di specificazione, per cui si giunse alla nozione odierna. Doloso, cioè, venne considerato non solo il fatto fraudolento, ma altresì ogni fatto commesso con volontà libera (non coartata) e con coscienza dell'illegittimità del fatto medesimo. Nel diritto privato, invece, l'antichissima nozione del dolo non venne modificata, tanto che oggi il codice civile (articoli 1108, 1115; v. anche: 1038, 1077, 1300 e segg., 1317, 1341, 1354, 1746, ecc.) assume il termine dolo nel senso d'inganno, di raggiro, di frode, cioè nel senso d'un dolo particolare, e non già in quello di dolo contrapposto a colpa.

Diritto civile. - Nel linguaggio giuridico la parola dolo denota anzitutto il comportamento di chi, traendo ingiustamente altri in errore, ne vizia il consenso inducendolo a un negozio giuridico quale non avrebbe voluto.

Per determinare esattamente il concetto del dolo, occorre distinguerlo dall'inganno che consiste nella difformità della volontà reale da quella dichiarata (simulazione) e dal comportamento di chi delude i suoi creditori sottraendo le garanzie del credito. Il dolo ha per effetto di rendere invalido il consenso della persona che si è obbligata, sì che il negozio giuridico, privo di uno dei suoi elementi essenziali, è annullabile ad istanza dell'obbligato o dei suoi aventi causa. Ma perché produca codesto effetto, occorre che il dolo abbia un'adeguata gravità, tale che senza di esso il negozio non sarebbe stato voluto; che sia cioè un dolo determinante (dolus causam dans). Se il negozio si sarebbe ugualmente voluto, benché a condizioni diverse, si avrebbe un dolo di minor gravità (dolus incidens), che non cagiona la nullità del negozio, ma dà diritto all'ingannato di ottenere il risarcimento dei danni. Perché abbia giuridica rilevanza, occorre altresì che il dolo consista in raggiri o positive macchinazioni e non soltanto nel nudo mendacio o nella semplice reticenza. Il vantare le cose che sono oggetto del negozio, il dissimularne i difetti, il lodare un contraente vanitoso, il suscitare speranze di lieti eventi, non sono fatti giuridicamente dolosi, reputandosi che nel commercio sia tollerabile e talvolta utile una moderata circuizione. Questa specie d'inganno si dice dolus bonus.

Può il dolo consistere anche nell'approfittare ingiustamente dell'altrui errore non cagionato maliziosamente, ma in tal caso occorre che tra le parti esista un rapporto per il quale quella che approfitta sia tenuta a illuminare l'altra. Il diritto soccorre la vittima dei raggiri non perché ha errato, ma perché è stata ingannata: per questo l'errore sui motivi, che di regola non ha alcuna influenza sulla validità dei negozî giuridicì, ne cagiona la nullità quando è prodotto dall'altrui dolo. Se il dolo proviene da un terzo il negozio è valido, ma il terzo è responsabile dei danni sofferti dall'ingannato. Il dolo adoperato per indurre altri a far testamento a favore di qualcuno con danno degli eredi legittimi si dice captazione. Il dolo non si presume; si può provare con qualunque mezzo; l'esistenza di esso è questione di fatto. Si denomina dolo anche il comportamento di chi, avendo assunto un'obbligazione, deliberatamente si rende inadempiente o rende impossibile l'adempimento: in tal caso il debitore è responsabile dei danni e neppure una speciale preventiva convenzione varrebbe ad esonerarlo.

Diritto penale. - Per il vigente diritto penale italiano dolo è l'elemento psichico generico richiesto, di regola, per l'imputabilità dei delitti (dolosi, in contrapposto ai delitti colposi), e consiste non già soltanto nella volontà fraudolenta, ma in qualsiasi volontà libera (cioè non coartata) e cosciente, di compiere un fatto commissivo od omissivo, lesivo o pericoloso per un legittimo interesse altrui, del quale si sa di non poter disporre, conoscendo o no che tal fatto è represso dalla legge penale (v. art. 42 cod. pen. 1930). Questo concetto in sostanza corrisponde a quello del diritto canonico: Dolus heic est deliberata voluntas violandi legem, eique opponitur ex parte intellectus defectus cognitionis et ex parte voluntatis defectus libertatis (Codex Bened. XV, 1917, can. 2200, § I). Non è pertanto l'intenzione di violare la legge, che costituisce il dolo. Il delinquente non ha quasi mai siffatta intenzione, e soltanto una psicologia fittizia, avulsa dalla realtà, può supporre un simile requisito. Neppure lo scopo è elemento della nozione del dolo. Soltanto in pochi casi il fine al quale è diretta l'azione o l'omissione viene preso in considerazione, per differenziare l'un titolo delittuoso dall'altro. In tali ipotesi si ha un dolo specifico (es.: fine di uccidere, nell'omicidio; fine di trarre profitto, nel furto), che di regola non si esige, per l'imputabilità dei delitti, quando non sia espressamente richiesto, essendo sufficiente il dolo generico, secondo la nozione sopra precisata. Il dolo, quale requisito per l'imputabilità dei delitti dolosi, deve sussistere nella causa che ha prodotto l'evento punibile, ma non è necessario che accompagni l'esecuzione del fatto in ogni suo momento. Con ciò si esclude anzitutto che possa bastare per l'imputabilità di un fatto, il cosiddetto dolo sopravvenuto, cioè sopraggiunto dopo compiuto in buona fede o per mera colpa quel fatto che, per costituire delitto, deve essere doloso. Il dolo sopravvenuto può fondare l'imputabilità di quei fatti di natura permanente, che vennero iniziati legittimamente o altrimenti senza dolo, mentre in un successivo momento della loro permanenza insorse il dolo prima che il fatto complessivo, come preveduto nella nozione del delitto, fosse compiuto. Poiché, inoltre, il concetto di causalità dolosa non esige la permanenza della volontà dolosa in ogni momento del processo esecutivo del delitto, potendo avvenire che l'atto consumativo di un reato sia dovuto all'azione di forze inanimate, subumane o umane incoscienti, così può aversi imputabilità a titolo di dolo anche quando l'agente o l'omittente si trovi in stato di non imputabilità nel momento in cui si verifica l'evento delittuoso.

In relazione appunto a questa possibilità è stata costruita, dai nostri giureconsulti dei tempi di mezzo, la teoria delle actiones liberae in causa, sive ad libertatem relatae (fatti liberamente voluti, ma compiuti mentre l'autore si trovava in stato di non imputabilità), che riguarda principalmente l'ipotesi dell'ubriachezza piena contratta per commettere un delitto o per procurarsi una scusa ma che deve estendersi ad ogni ipotesi psicologicamente equivalente Per questa teoria, accolta dal nostro diritto, l'imputabilita del reato è piena, nonostante che il dolo non abbia accompagnato tutto il processo esecutivo del reato medesimo. L'imputabilità dei delitti dolosi esige il dolo così in relazione al fatto delittuoso essenziale, come alle circostanze aggravanti, quando queste non siano di natura meramente oggettiva. Nella dottrina penalistica hanno perduto quasi ogni importanza (data la vigente generica nozione del dolo) le numerose distinzioni che un tempo si facevano, e che rammenteremo solo a scopo di erudizione. Dolo principale si diceva la volontà diretta a commettere un fatto contrario al diritto penale, la quale implica necessariamente anche la volontà di fare tutto ciò che a quel fatto si riferisce (dolo accessorio), sia per eseguirlo, sia per occultarlo, sia per impulso dell'occasione. Il dolo determinato si ha quando l'evento è, came tale, esclusivamente voluto (Tizio vuole uccidere Caio e non ferirlo soltanto); il dolo indeterminato invece si presenta quando l'agente vuole più effetti. Esso si suddistingue in dolo alternativo (o uccidere o almeno ferire), ed eventuale, che si ha quando si vuole un fatto dal quale segue, come necessaria conseguenza, un determinato evento, che pertanto è anch'esso necessariamente (indirettamente) voluto. Secondo l'antica dottrina, e i codici sardo-italiano e toscano, che ebbero vigore in Italia fino al 1890, il dolo si distingueva altresì in dolo puro e misto a colpa, riferendosi quest'ultima espressione a quel plus criminoso cagionato dal fatto del delinquente, la volontà del quale era invece diretta, come a fine, ad un evento meno grave (conseguenze eccedenti il direttamente causato, eccesso nel fine: delitto preterintenzionale).

Al dolo si contrappone la buona fede, come causa che lo esclude, la quale consiste nella ragionevole opinione di agire secondo il diritto.

Il dolo si presume sino a prova contraria perché, data la volontarietà della causa, è conforme a ragione ritenere volontario anche l'effetto, se non sia dimostrato il contrario. Questa presunzione, peraltro, vale soltanto per il dolo generico (volontà di ledere un legittimo interesse altrui) e non per il dolo specifico, che serve a caratterizzare il fatto sotto l'uno piuttosto che sotto l'altro titolo delittuoso. Il dolo specifico deve essere direttamente provato sempre quando non sia inerente al fatto stesso.

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