Divenire

Dizionario di filosofia (2009)

divenire


Concetto filosofico opposto a quello dell’essere ( ➔), quando quest’ultimo sia concepito come eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione. A tale concezione dell’essere, sostenuta già nella prima fase evolutiva del pensiero greco dalla scuola eleatica, che avvertiva nel d. una contraddizione logica, e quindi ne negava la realtà, si contrappone la dottrina della scuola eraclitea, secondo la quale tutta la realtà del mondo non è che un perenne d. (πάντα ῥεῖ, «tutto scorre»). Dopo una fase giovanile di adesione all’eleatismo, Platone si sposta in direzione della scuola eraclitea, introducendo da un lato il d. nello stesso mondo delle idee (‘il parricidio verso Parmenide’), dall’altro concependo la materia come perenne flusso o divenire. Distaccandosi da Platone, Aristotele concepisce il d. come una forma di mutamento (μεταβολή). Sotto l’aspetto ontologico, il d. è interpretato come passaggio dalla potenza all’atto, ed ha luogo secondo diverse categorie. I mutamenti nei quali si articola il d. vengono divisi da Aristotele in: (1) generazione e corruzione (secondo la sostanza); (2) alterazione (secondo la qualità); (3) aumento e diminuzione (secondo la quantità); (4) traslazione (secondo il dove). Occorre precisare che queste quattro forme di d. riguardano essenzialmente il mondo sublunare, perché in Aristotele esistono due fisiche, una per il cielo e una per la Terra. I corpi celesti sono costituiti di un elemento proprio, l’etere o quinta essenza, e si muovono di moto circolare puro in eterna contemplazione del ‘motore immobile’. La teoria aristotelica divenne il fondamento di tutto il pensiero medievale finché in età moderna non venne soppiantata dalla rivoluzione scientifica, che sulla base delle dottrine atomistiche unificò cielo e Terra in una sola fisica, trasformando il moto, ossia il d., in uno ‘stato’ assimilabile alla quiete, e interessandosi esclusivamente alle variazioni del moto stesso. Tale concetto, centrale nella fisica di Cartesio e di Newton, si ritrova in tutta la filosofia del Seicento e del Settecento, in partic. in quella di Kant, che ebbe anzi modo di precisare – quasi prevedendo gli sviluppi futuri della filosofia continentale – che il movimento fisico o d. non è un passaggio dall’essere al non essere, perché è «senza contraddizione». Un ritorno a posizioni presocratiche si ebbe invece con Hegel, il quale riesumò la dottrina eleatica del d. come contraddizione, ricavandone però la conseguenza opposta: non già, come gli eleati, l’inesistenza del d. o del movimento, ma l’esistenza della contraddizione: l’esteriore moto sensibile è dunque una vera e propria contraddizione in atto. Un posto di notevole rilievo assume il concetto di d. anche nella filosofia di Bergson: il d. si presenta come «durata», «slancio vitale» che sorregge la realtà e condiziona i suoi modi di apprendimento.

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