Distribuzione della ricchezza e del reddito

Enciclopedia delle scienze sociali (1993)

Distribuzione della ricchezza e del reddito

Alberto Quadrio Curzio

Introduzione

I problemi della distribuzione del reddito e della ricchezza sono da sempre rilevanti nella scienza economica in termini di analisi teorica, di indagine empirica e storica, di politica economica. Alcuni importanti studiosi hanno addirittura fondato tutti i problemi della economia politica sulle teorie della distribuzione del reddito. Queste centralità richiedono dunque notevole selezione per non disperdere l'analisi. La nostra scelta di temi sarà la seguente: a) teorie 'sociali' della distribuzione del reddito e teorie 'funzionali', con riferimento a un singolo paese o sistema economico; b) analisi teorico-storico-empiriche, che denominiamo teoria 'mista', sulla dinamica della distribuzione del reddito in economie singole e comparate; c) analisi teorico-empiriche sulla distribuzione 'personale' del reddito; d) la distribuzione della ricchezza: cenni.

Quanto al metodo svolgeremo analisi storico-analitiche e analitico-empiriche. Tracceremo cioè un'evoluzione selettiva della teoria in base a stilizzazioni analitiche (e non esegeticamente) dei contributi di vari economisti ed esamineremo dati statistici stilizzati mediante l'analisi economica. In entrambi i casi punteremo alla chiarezza piuttosto che alla completezza della rassegna e della critica, rinviando a tali fini ad altri contributi e ben sapendo che la teoria della distribuzione ha varie componenti - che evidenzieremo - talvolta complementari, talvolta alternative, talvolta antagonistiche. L'uso che faremo di alcune relazioni formali ha scopo di sintesi e confronto tra teorie, pur non attribuendo agli stessi simboli sempre lo stesso significato.

La teoria sociale della distribuzione del reddito

Principî generali e richiami storici

I punti su cui la teoria sociale è stata costruita in circa due secoli sono i seguenti.

1. La presenza di categorie, ceti o classi sociali che entrano in contatto con il processo di produzione esercitando su di esso una funzione o un diritto o un potere o una combinazione di questi. Le categorie sociali 'stilizzate' sono quelle dei 'lavoratori', dei 'capitalisti', dei 'proprietari terrieri' (secondo la denominazione ottocentesca che ha mantenuto vitalità pur cambiando via via di contenuto); esse avanzano richieste sulla ripartizione del prodotto netto (cioè la differenza tra produzione complessiva e mezzi di produzione impiegati), o reddito, del processo di produzione in un certo periodo (di solito l'anno).

2. L'esistenza di categorie di redditi in cui si stabilisce una corrispondenza tra categorie sociali, processo di produzione, prodotto netto (reddito). Sono le rendite dei 'proprietari terrieri', o più in generale di chi apporta alla produzione risorse scarse; i profitti dei 'capitalisti', o più in generale di chi apporta alla produzione imprenditorialità e capitale monetario; i salari dei 'lavoratori' dipendenti, o più in generale di chi apporta al processo produttivo servizi lavorativi.

Quanto detto spiega perché si può parlare di teoria 'sociale' della distribuzione. Al centro dell'analisi non è infatti il problema della remunerazione di un singolo fattore della produzione, in base al solo nesso prestazione-remunerazione o in base alle sole relazioni tra domanda e offerta del fattore, ma è piuttosto quello della distribuzione del prodotto netto nella società e tra i suoi ceti.

Questa teoria ha avuto grande impulso con i classici (per una sintesi, v. Cannan, 1893; v. Pivetti, 1987) - a cominciare da Adam Smith (1776) - e in particolare con David Ricardo (1815) (v. Sraffa, 1951). Egli si concentrò (v. De Vivo, 1987) dapprima sul profitto, con l'Essay on profits del 1815, poi progettò il trattato The principles of rent, profit and wages ritenendo che: "questi principî sono così interrelati e così connessi con ogni elemento appartenente alla scienza dell'economia politica che io considero della massima importanza una appropriata visione degli stessi" (v. Ricardo, 1815; ed. 1952, vol. VI, pp. 315316). Dopo Ricardo la teoria sociale ebbe molte varianti tra cui una ideologizzata con Karl Marx (v., 1867-1894). Dal 1870 circa bisogna passare agli anni trenta di questo secolo per una ripresa-riformulazione-estensione della teoria sociale secondo due filoni complementari: uno macrodinamico, che fa capo a Keynes (v., 1936) e a Kalecki (v., 1939), l'altro multisettoriale, che fa capo a Sraffa (v., 1960).

Lo schema teorico di base: salari, profitti, rendite

Lo schema di base della teoria sociale è quello di Ricardo, così stilizzabile (v. Pasinetti, 1960):

Y' = W + P + R, (1)

W = wL (2)

Y = Y' - W = P + R. (3)

Per la (1) la produzione (Y´), che per ora si suppone data da una sola merce ('grano'), si ripartisce tra salari (W), profitti (P), rendite (R). Per la (2) i salari totali sono dati dal salario unitario (w) per il numero dei lavoratori occupati (L).

Due tipi di salari vanno distinti: a) il salario naturale unitario (o prezzo naturale del lavoro) wn, che è determinato dalle necessità naturali e sociali di sussistenza del lavoro in un periodo storico e perciò non è costante nel tempo; b) il salario di mercato unitario (o prezzo di mercato del lavoro) wm, che dipende dalle condizioni di domanda e offerta del lavoro. Può accadere che wm superi wn: ne segue un aumento della popolazione e dell'offerta di lavoro con una discesa di wm verso wn. Per converso, se wm scende sotto wn, calano la popolazione e l'offerta di lavoro e wm risale verso wn. Per la (3) i salari naturali sono tutto capitale circolante, cioè mezzi di produzione, e quindi non entrano nel prodotto netto, che dunque si distribuisce tra rendite e profitti.

La rendita è data da

R = Y - P = Y' - yuL ≅ (y1 - yu) + (y2 - yu) + ...+ (yu - yu), (4)

cioè dalla produzione meno quella che si avrebbe se tutti i lavoratori producessero come l'ultimo occupato, cioè quello occupato sulla terra meno fertile (yu). La rendita è generata dalla diminuzione di produttività del lavoro, dovuta alla decrescente fertilità e alla scarsità delle terre, e dalla concorrenza tra capitalisti-imprenditori, che rende il saggio di profitto pari a quello del capitale impiegato sulla terra meno fertile.Il profitto totale è infine una grandezza residuale, o calcolata per differenza, data dalla (5), sulla cui base si determina il saggio di profitto (π), dato dalla (6):

P = Y - R = Y' - W - R = (yu - w)L;   (5)

π = P/W = (yu/w) - 1. (6)

Esso potrebbe anche intendersi come una forma di 'rendimento' del capitale circolante (W) e come una 'remunerazione' per il ruolo che i capitalisti-imprenditori svolgono nella produzione. Dalla (6) risulta che tra salario unitario e saggio di profitto esiste una relazione statica inversa per cui quando cresce w cala π.

fig. 1

In sintesi grafica il modello è esprimibile tramite il diagramma della fig. 1, dove è tracciata la curva di produttività ('marginale') del lavoro: y=f₁ (L).

Questa trattazione riguarda un'economia dove si produce una sola merce (il 'grano'): pur nella sua estrema schematizzazione, essa evidenzia la struttura della distribuzione sociale in un contesto uniperiodale (e poi dinamico). Vari problemi rimangono aperti, in particolare quello delle relazioni tra prezzi e distribuzione in una economia a pluralità di merci e quello dell'accumulazione e della dinamica.

Prezzi e distribuzione

Introduciamo il problema delle relazioni tra prezzi e distribuzione per una economia a più merci riferendoci al calcolo di π. Essendo π = P/K, dove K è il capitale totale, bisogna allora conoscere i prezzi delle merci da cui dipende il valore sia dei profitti totali sia del capitale; ma per calcolare i prezzi bisogna conoscere π. Vi è dunque una circolarità.

Ricardo tentò una soluzione con la teoria del valore-lavoro, assumendo che il prezzo delle merci fosse dato dalla quantità di lavoro, scelto come numerario, incorporata direttamente e indirettamente nelle merci stesse; non risolse comunque il problema e non eliminò i disturbi dei prezzi. Anche Marx affrontò il problema, allargando la teoria del valore-lavoro a una teoria generale dello sfruttamento del lavoro e impostando (ma non risolvendo) il cosiddetto problema della trasformazione dei valori nei prezzi (v. Garegnani, 1960; v. Blaugh, 1962).

Alla soluzione giunse nel 1960 Piero Sraffa (v., 1960; v. Pasinetti, 1975), mediante una teoria multisettoriale espressa dal sistema a m equazioni prezzi-distribuzione

A´ P(1 + π)+ Lw = P, (7)

ove A´ è una matrice di coefficienti tecnici di tipo leontieviano, P il vettore incognito dei prezzi, L il vettore dei coefficienti di lavoro. Sraffa individua un numerario (merce tipo o merce standard) con il quale la relazione tra π e w può essere analizzata senza i disturbi dei prezzi.

Con una doppia normalizzazione (sul valore del prodotto netto del sistema tipo e sul lavoro totale occupato) Sraffa giunge alla relazione

π = s(1 - α), con 0<α<1, (8)

ove α = (wL)/Y    (9)

da cui       w = Yα/L                           (9')

Nella (8) s è il saggio uniforme di prodotto netto e α è la quota dei salari sul valore del prodotto netto del sistema economico.

Per concludere sulla teoria sociale si consideri l'esogenità di π oppure di w (ovvero di α). La teoria studia infatti le relazioni antagonistiche (inverse) tra w e π, non la loro simultanea determinazione. Una delle due deve essere determinata esogenamente essendo questa una teoria 'aperta' che deve essere 'chiusa' con altre. Perciò è teoria flessibile e capace di interpretare varie situazioni tramite la variabile esogena.

Antagonismi sociali e distributivi e tecniche nella statica

Per Ricardo tra salario e profitto c'era un antagonismo che nel lungo periodo operava sempre contro il salario spingendolo alla sussistenza; esisteva anche un antagonismo tecnico-naturalistico tra rendita e profitto che operava contro il profitto, ma che poteva essere superato con il progresso tecnico che, a parità di lavoro occupato, determina un aumento dei profitti e una riduzione delle rendite (v. fig. 1: spostamento dalla curva f alla curva f). In tale impostazione è difficile leggere un conflitto necessario tra classi sociali per quel che riguarda la distribuzione. Marx, partendo da Ricardo, elaborò invece una teoria del conflitto tra classi a proposito della distribuzione, che emerge già dalla seguente relazione per la determinazione di π basata su flussi annui:

π = P/(K + W) = P/(K + wL) = (P/W)/[(K/W) +1] = ss/(co + 1)    (10)

K è il capitale costante (ammortamento annuo del capitale fisso più le materie prime); W è il capitale variabile (o salari annui); P è il plusvalore; Y´=P+K+W è il prodotto nazionale lordo e Y=P+W quello netto. Le grandezze K e W sono definite in termini di lavoro necessario a produrle e P è pluslavoro. Su tale base si definiscono il saggio di plusvalore (ss) - che è una misura dello sfruttamento - e la composizione organica del capitale (co). La teoria della distribuzione di Marx andrebbe letta unitamente alla teoria del valore-lavoro. La crescita di π dovuta a quella di ss comporta un aumento dello sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti. Se ss cala per l'aumento del salario unitario sopra le sussistenze, cioè se i lavoratori riescono a far diminuire lo sfruttamento, diminuirà π e ciò spingerà i capitalisti a cambiare le tecniche riducendo l'impiego di lavoro e aumentando quello delle macchine, cioè aumentando co. Ciò determinerà disoccupazione riducendo di nuovo il salario. Secondo questa impostazione, che contiene parecchi errori, esiste un conflitto sociale insanabile riguardo alla distribuzione.

fig. 2

Sraffa (v., 1960) si stacca sia da Ricardo che da Marx nell'analisi dell'antagonismo tra w e π, non ricercando 'leggi naturali' alla Ricardo né 'leggi social-capitalistiche' alla Marx. Egli studia la relazione statica (a tecnologia data) inversa (antagonista) tra salari e profitti. La sua teoria consente di vedere subito come il progresso tecnico possa eliminare o attenuare l'antagonismo. Infatti, in determinate condizioni e sotto specifiche ipotesi circa le quote distributive, un aumento di s da s₁ a s₂ (v. la relazione 8 e la fig. 2) e un aumento di Y/L (v. la relazione 9) permettono un aumento simultaneo di w e π a parità di α.

Rendita e risorse naturali scarse

Anche la rendita, ch'ebbe ampio spazio in Ricardo, va riconsiderata. Le risorse naturali scarse, le materie prime e la rendita, che spesso sono state tralasciate dalla teoria generale della distribuzione, ora hanno ripreso rilevanza con l'emergere di nuove scarsità e con la generalizzazione del modello a tutti i mezzi di produzione non prodotti o non riprodotti e scarsi che entrano nei processi produttivi circolari (v. Quadrio Curzio, 1987).

Una teoria della rendita, elaborata da Sraffa (v., 1960) e generalizzata da Quadrio Curzio (v., 1967, 1977 e 1990), si basa su k equazioni del tipo

(a11hp1 + a12hp2 + ... + a1nhpn)(1 + π) + l1hw + t1hr1h = p1   (11)

con h=1,..., k e a, l, t coefficienti tecnici leontieviani. Ogni equazione riguarda una stessa merce ('grano') prodotta con una diversa risorsa naturale ('terra') scarsa, su cui si genera una rendita (r₁) che sarà tanto maggiore quanto più il processo che utilizza la risorsa t₁ è efficiente rispetto al meno efficiente in uso, sul quale non ci sarà rendita in quanto la stessa ha natura differenziale. Le k equazioni (11) vanno affiancate alle m equazioni (7) per risolvere il sistema prezzi-distribuzione. È intuitivo come le variazioni della grandezza distributiva esogena (w o π) influenzino le rendite, ma anche come la rendita influenzi la grandezza distributiva endogena. Dunque la rendita 'complica' molto le relazioni tra w e π.

La dinamica delle grandezze distributive: classici e post-keynesiani

La teoria sociale ha rivolto grande attenzione alla dinamica.

Per Ricardo la dinamica nasce dalla accumulazione del profitto e cambia tutte le grandezze distributive (v. fig. 1): salari, rendite e profitti. Più precisamente l'andamento di tali grandezze sarebbe il seguente.

Salari. Se ci si trova in una situazione di eguaglianza tra domanda e offerta di lavoro in corrispondenza di wn, l'accumulazione porta a un aumento della domanda di lavoro, a un wm maggiore di wn e quindi a un aumento della popolazione e di L. Ne segue un calo di wm, che ritorna verso wn, anche se questo richiede tempo. Nel lungo periodo crescono sia W che L in proporzioni tali che tendenzialmente wm converge al livello costante di wn. Nella dinamica naturale cresce dunque il monte salari W=Lwn, fermo restando wn.

Rendite. L'accumulazione porta a utilizzare terre via via meno fertili e/o ad aumentare l'impiego di lavoro su una stessa terra. Ne segue una continua diminuzione della produttività dell'ultimo lavoratore che - come si vede dalla (4) - fa crescere la rendita, la quale diventa massima nello stato stazionario (posizione L₂).

Profitti. L'accumulazione porta a una riduzione continua di π, come risulta dalla (6), in quanto la crescita del sistema economico genera una diminuzione di yu e di π. Poiché il profitto è la fonte dell'accumulazione e della dinamica, ne segue che, quando yu=w, π diventa zero e si giunge allo stato stazionario dove cessa la crescita (posizione L₂). L'ovvia pecca di questa teoria è che essa sottovaluta il progresso tecnico, il quale, aumentando la produttività (spostamento dalla curva f₁ alla curva f₂ nella fig. 1 e passaggio da uno stato stazionario L₂ a uno L₃) può condurre a risultati diametralmente opposti a quelli previsti da Ricardo.

Anche Marx studiò la dinamica, proponendo, tra l'altro, una 'legge' sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. In base alla (10), poiché l'accumulazione e la scelta delle tecniche accrescono K/W, cioè co, se si suppone che ss cresca meno (Marx ne suppone poi addirittura la costanza), ne segue il calo di π nel tempo. Questa 'legge' è insostenibile per molti motivi, tra cui il seguente: supporre ss costante vuol dire non tenere conto che con co cresce la produttività del lavoro.

La rilevanza dei contributi classici e di Marx, pur criticabili sotto vari aspetti, dipende dal fatto che in essi è riconosciuta la centralità della relazione tra distribuzione del reddito, saggio di profitto, accumulazione del capitale, scelta delle tecniche, progresso tecnico. Imperniati sulla stessa centralità sono i due grandi contributi contemporanei: quello post-keynesiano, che si connette a quello neoricardiano, e quello kaleckiano che assume una sua autonomia collocandosi come teoria 'mista'.

Nella teoria post-keynesiana π e la distribuzione si legano al saggio di crescita dell'economia tramite le propensioni al risparmio. La teoria è stata formulata da Kaldor (v., 1956) e generalizzata da Pasinetti (v., 1962 e 1974), che qui seguiremo. La distribuzione del reddito netto è

Y = W + P,   (12)

dove

P = Pc + Pw    (13)

è la somma dei profitti che vanno agli imprenditori-capitalisti (Pc) e dei profitti (interessi) che vanno ai lavoratori (Pw) in quanto il loro risparmio si traduce in capitale (Kw) che genera interessi (iKw).

Il risparmio (S) è

S = Sc + Sw,   (14)

dove

Sw = Sw(W + PW) e Sc = ScPc,  (15)

essendo Sc il risparmio dei capitalisti-imprenditori, Sw quello dei lavoratori, sw e sc le rispettive propensioni al risparmio dei lavoratori e dei capitalisti.

L'equilibrio dinamico di piena occupazione del lavoro e del capitale è dato, alla Harrod-Domar, da

s = vGn,    (16)

dove

s = S/Y, v = K/Y;   (17)

Gn è il saggio naturale di crescita, che esprime la dinamica della popolazione e del progresso tecnico. Supponendo che gli investimenti (I) necessari per la crescita stabilita dalla (16) siano effettuati in prospettiva dell'ampliamento dei mercati, la condizione di equilibrio dinamico

I = S,   (18)

è da cui si ottiene

I = sw(W + Pw) + scPc = swY + (sc - sw)Pc,   (19)

(P/Y) = [1/(Sc - sw)](I/Y) - [sw/(sc-sw)].   (20)

Questa ultima è la quota del reddito che va ai capitalisti-imprenditori e che dà la distribuzione tra categorie sociali, essendo quella per i lavoratori 1-(Pc/Y). Ma essa non esprime più la quota dei profitti sul reddito, che è invece data dalla (21), da cui risulta come, nelle democrazie sviluppate di mercato, non ci sia più coincidenza tra categorie sociali e di reddito. A ciò segue che il rapporto tra i profitti dei capitalisti-imprenditori e il capitale (Pc/K) non si identifica più con il saggio di profitto del sistema economico:

(P/Y) = (P/Y) + (Pw/Y),     (21)

π = (P/K) = (Pc + Pw)/K.   (22)

Se il saggio di interesse è eguale al saggio di profitto, ipotesi plausibile in equilibrio di lungo periodo, dalle (21) e (22) si ha:

(P/Y) = (1/sc)(I/Y)    (23)

(P/K) = (1/sc)(I/K) = (1/sc)Gn  (24)

Queste relazioni, e in particolare la (24) detta 'equazione di Cambridge', hanno grande importanza per quanto segue.

1. Nella dinamica di lungo periodo la propensione al risparmio dei lavoratori influenza la distribuzione del reddito tra le categorie sociali ma non la distribuzione tra profitti e salari e neppure il saggio di profitto.

2. Per ciascuna categoria sociale i profitti nel lungo periodo sono proporzionali ai suoi risparmi, cioè al capitale che si è formato con i risparmi. I capitalisti-imprenditori, dalle cui decisioni dipende il processo di produzione e di investimento, hanno, con le loro scelte di risparmio, un ruolo strategico per tutta la dinamica.

3. Se sc, v, Gn sono costanti nel tempo, il mantenimento dell'equilibrio di piena occupazione di lungo periodo implica la costanza del saggio di profitto e quella delle quote distributive tra salari e profitti. A ciò s'associa che il salario unitario deve aumentare allo stesso saggio di crescita della produttività, il che significa che i benefici del progresso tecnico vanno ai lavoratori (v. Pasinetti, 1974) senza escludere un aumento dei profitti.

4. π è determinato esogenamente dal saggio naturale di crescita e dalla propensione al risparmio dei capitalisti-imprenditori. Sono quindi i salari la grandezza distributiva endogena, 'residuale', pur in crescita continua nel tempo.

5. Gli investimenti determinano i profitti e non viceversa. Gli investimenti per la dinamica di piena occupazione determinano il livello dei risparmi necessari e questi sono soddisfatti mediante una adeguata distribuzione del reddito tra salari e profitti e tra categorie sociali.

Ulteriori osservazioni su questa teoria riguarderebbero i dibattiti critici (v. Pasinetti, 1974; v. Baranzini, 1987, per una sintesi) e le estensioni, specie quelle multisettoriali (v. Pasinetti, 1981; v. Quadrio Curzio, 1987).

Teoria funzionale della distribuzione

Principî generali e richiami storici

La teoria funzionale della distribuzione matura con la grande svolta marginalistica o neoclassica (denominazioni che useremo come sinonimi) dopo il 1871. Il numero degli economisti e delle scuole che l'hanno costruita, pur con differenze, rende impossibile persino una sommaria rassegna sia in un contesto di equilibrio parziale che in uno di equilibrio generale (per rassegne: v. Stigler, 1941; v. Ferguson, 1969; v. Bliss, 1987).

Il principio marginalista venne elaborato in varie applicazioni (domanda, utilità, impresa, benessere, ecc.) che si sono via via integrate perfezionando un principio generale. Secondo tale principio i prezzi dei beni e i prezzi dei fattori di produzione sono determinati da regole comuni e in particolare dalle forze di offerta e di domanda esercitate da soggetti che massimizzano i propri obiettivi (v. Bliss, 1987).

Consideriamo innanzitutto i contributi di equilibrio parziale alla teoria della distribuzione, dove spiccano i nomi di fondatori come P.H. Wicksteed (v., 1894), J.B. Clark (v., 1899), A. Marshall (v., 1890), K. Wicksell (v., 1893). Questi autori, pur partendo dai problemi dei classici per spiegare la distribuzione tra grandi categorie sociali (lavoratori, capitalisti, proprietari terrieri), categorie di redditi (salari, profitti, rendite), categorie di fattori di produzione (lavoro, capitale, terra), se ne staccano poi nettamente. Secondo Wicksteed, che Sraffa definisce "il purista della teoria marginale" (v. Sraffa, 1960, p. VI), i classici, con la distinzione di ogni categoria sociale-fattore-reddito, rendono "impossibile coordinare le leggi della distribuzione" (v. Wicksteed, 1894; tr. it. p. 126). Bisogna "portare le diverse leggi della distribuzione in una più stretta relazione reciproca. La base comune a queste leggi non deve essere cercata nella natura speciale dei servizi resi dai vari fattori, ma nel fatto, a tutti comune, di prestare un servizio. Se è possibile ottenere una misura oggettiva del servizio reso da ciascun fattore nel suo impiego marginale, allora vi sarà la possibilità di coordinare la distribuzione del prodotto su questa base" (v. Wicksteed, 1894; tr. it. p. 127).

La teoria marginalistica passa dal problema classico della remunerazione di grandi categorie (sociali, di reddito, di fattori) a una teoria generale della produzione e del valore, che riassorbe la spiegazione della distribuzione nella spiegazione del pagamento dei servizi di ogni tipo di fattore produttivo, senza che il 'nome' del fattore abbia alcuna rilevanza. Così da una teoria (classica) sociale della distribuzione si passa a una teoria (neoclassica) funzionale, dove vi è una stretta connessione tra la prestazione di ogni fattore, la sua domanda e disponibilità, la sua remunerazione. Da ciò sono state ricavate persino proposizioni di tipo 'etico'. Clark ha valutato la teoria neoclassica come un principio di giustizia distributiva in quanto il comportamento dei soggetti economici non può scostare le remunerazioni dalla loro produttività marginale (v. Blaugh, 1962).

Schema teorico aggregato di base e teorema di Eulero

Iniziamo con una versione neoclassica aggregata - che noi denomineremo 'Wicksteed-Wicksell' -, la quale consente di ben vedere prima il raccordo con i classici e poi il distacco dagli stessi. Essendo Y il prodotto netto, T la terra, L il lavoro, K il capitale, si consideri la funzione di produzione (25) continua, omogenea di primo grado, derivabile, con derivate prime parziali positive e seconde negative, e l'identità distributiva (26):

Y = F(L, T, K),   (25)

Y = wL + rT + πK.   (26)

In regime di concorrenza perfetta la remunerazione dei fattori sarà data dalle rispettive produttività marginali. Si avrà quindi il cosiddetto 'esaurimento del prodotto', secondo il teorema di Eulero:

Y = (∂Y/∂L)L + (∂Y/∂T)T + (∂Y/∂K)K.   (27)

Una variante più particolare e di grande successo della (25) è la funzione:

Y = cL1-αKα    (28)

dove c e α sono costanti. Questa funzione di produzione, detta 'funzione Cobb-Douglas', ha molte proprietà logico-intuitive. Tra queste le produttività marginali del lavoro e del capitale

∂Y/∂L = c(1-α)(K/L)α = w    (29)

e

∂Y/∂L = cα(L/K)1-α = π    (30)

dalle quali risulta che il saggio di salario e quello di profitto dipendono anche dall'impiego relativo di L e K. A loro volta le quote relative di salari e profitti sul reddito nazionale sono espresse, rispettivamente, dalla (31) e dalla (32),

(∂Y/∂L/Y) = (1- α)/L    (31)

e

(∂Y/∂L/Y)/Y = α/K,   (32)

da cui discende la famosa proposizione sulla costanza delle quote distributive, dati i parametri della tecnologia.

Molti sono i problemi a proposito di queste relazioni. Ne segnaliamo tre: quelli che riguardano, rispettivamente, l'esaurimento del prodotto, i coefficienti e la misurazione del capitale.

Circa l'esaurimento del prodotto il problema non si poneva per i classici, in quanto una grandezza distributiva era residuale. Ma qui tutte sono determinate simultaneamente, sicché nulla garantisce l'esatta distribuzione. Il lungo dibattito svoltosi ha riguardato in gran parte il teorema di Eulero (v. Stigler, 1941; v. Quadrio Curzio, 1972) e le funzioni omogenee di primo grado. Altri problemi sono sorti per la fissità assoluta o relativa dei coefficienti di produzione e per l'indivisibilità di alcuni servizi produttivi che, laddove si verificasse, renderebbe impossibile applicare la teoria marginale (v. Stigler, 1941).

Circa il capitale, si può dire che la precedente impostazione, mentre è relativamente accettabile quando si ha a che fare con i fattori L e T, ciascuno dei quali può considerarsi espresso in entità fisiche internamente omogenee, diventa inutilizzabile quando si usa il 'fattore capitale'. Questo è infatti un insieme di beni eterogenei, unificabile solo in termini di valore, e a tal fine è necessario conoscere il saggio di profitto, che però, a sua volta, può essere determinato solo in base al valore del capitale. Vi è dunque una 'circolarità' per la soluzione della quale si sono impegnati molti economisti - da Wicksell (v., 1893), fino a Samuelson (v., 1962) e altri -, ma i problemi sono rimasti (v. Robinson, 1954; v. Garegnani, 1960; v. Pasinetti, 1966; v. Harcourt, 1972; v. Bliss, 1975). La conclusione è che, in assenza di una misurazione delle grandezze aggregate, la produttività marginale del capitale è indefinita.

Ciò detto, la miglior formulazione della teoria marginalistica della distribuzione si ha passando a un livello microeconomico e a uno di equilibrio generale.

Formulazione microeconomica, domanda e remunerazione dei fattori

La maggior forza interpretativo-intuitiva della teoria marginalistica della distribuzione si ha in riferimento all'impresa.

La formulazione elementare (v. Dorfman, 1987) si fonda sulle seguenti ipotesi: a) le imprese massimizzano il profitto; la domanda dei fattori di produzione e il loro impiego sono basati sul confronto tra prezzi dei fattori, produttività, prezzi dei prodotti; b) le funzioni o tecniche di produzione sono in proporzioni variabili, per cui eguali successivi aumenti di un fattore, fermi restando gli impieghi degli altri, generano incrementi successivi decrescenti della produzione fisica; c) i mercati dei fattori e quelli dei prodotti sono in concorrenza perfetta.In termini formali si ha:

P = R* - C;     (33)

g(q1, q2, ..., qm; f1, f2, ..., fn) = 0.    (34)

L'impresa massimizza il profitto (33), dove R* sono i ricavi e C i costi, subordinatamente alla funzione di produzione implicita, differenziabile e senza argomenti negativi, (34); da scegliere sono le qi, le quantità dei prodotti, e le fi, le quantità dei fattori. Su base annua i ricavi e i costi sono, rispettivamente,

R = ∑ piqi    (35)

e

C = ∑ cifi,  (36)

ove pi sono i prezzi dei prodotti e ci i prezzi dei fattori. La scelta delle qi e delle fi che massimizzano P è data dalle seguenti condizioni 'marginalistiche'.

1. Il saggio marginale di sostituzione tra due fattori di produzione, cioè - nella relazione (37) specificata qui di seguito - la variazione di fj che sostituisce una variazione di fi, ferma restando la produzione, deve soddisfare la condizione (38), secondo la quale devono essere eguali i costi di sostituzione dei fattori che, variando in direzione opposta mantengono costante la produzione:

dfj/dfi = -(∂g/∂fi)/(∂g/∂fj);  (37)

(dfj/dfi) = ci/cj;     dfj∙cj = dfi∙ci.   (38)

2. Il saggio marginale di 'trasformazione' di un prodotto in un altro, dato dalla (39), restando fermi gli impieghi dei fattori, deve soddisfare la condizione (40), per cui le variazioni di produzione di beni in direzioni opposte devono essere eguali in termini di valore:

(dyi/dyk) = -(∂g/∂yk)/(∂g/∂yi);  (39)

(dqi/dqk) = pk/pi;     dqi∙pi = dqk∙pk.   (40)

3. La produttività marginale di ogni fattore, data dalla (41), deve soddisfare la (42), per cui si ha l'eguaglianza tra il valore di un prodotto incrementale e il valore del fattore incrementale necessario per ottenerlo:

(dqi/dfj) = -(∂g/∂fj)/(∂g/∂qi);  (41)

(dqi/dfj) = cj/pi;     dqi∙pi = dfj∙cj.   (42)

Questa è la sintesi della teoria marginalistica della distribuzione in condizioni di equilibrio parziale. Essa è, in fondo, una teoria della domanda dei fattori da parte di imprese operanti in condizioni di concorrenza perfetta e in presenza di date disponibilità di fattori di produzione. Una critica importante a questa impostazione è quella che prende di mira l'irrealismo dell'ipotesi di concorrenza perfetta; tale critica ha dato luogo a un lungo dibattito sulle forme di mercato non concorrenziali (v. Chamberlin, 1933; v. Robinson, 1933).

Equilibrio generale e distribuzione

Nella teoria dell'equilibrio economico generale il sistema economico viene concepito come un grandioso blocco unitario nel quale confluiscono le decisioni di tutti gli agenti relativamente a tutti i beni, tra i quali vi sono i vari tipi di servizi di lavoro, le terre di diverse qualità, le miriadi di beni capitali fisicamente individuabili. Nei modelli, tutti di carattere uniperiodale, predisposti da Walras (v., 1874-1877) e perfezionati da Pareto (v., 1896-1897 e 1906) i prezzi di tutti i beni, compresi i fattori produttivi, originari e non, sono determinati simultaneamente, con l'intervento del banditore, in modo da pareggiare la domanda e l'offerta di ciascun bene. Non si dà quindi alcun problema della distribuzione distinto dal problema generale della simultanea determinazione dei prezzi di tutti i beni (v. Equilibrio economico).

Teoria delle forme di mercato e distribuzione

Una possibile 'intersezione' delle precedenti teorie

Entrambe le precedenti teorie contengono elementi per comprendere la distribuzione, malgrado i loro contrasti spesso aspri. Una linea 'intermedia' o 'mista' sembra essere quella che parte da Kalecki ed è stata sviluppata da altri, tra cui Sylos Labini. È una teoria centrata sulle relazioni prezzi-costi-distribuzione con riferimento alle forme di mercato prevalenti nel settore manifatturiero delle economie industrializzate e che rivolge molta attenzione ai fenomeni storico-stilizzati della distribuzione.

Il grado di monopolio

La teoria di Kalecki (v., 1939 e 1954) ha rilevanza per l'analisi della dinamica della quota salari sul reddito nazionale in rapporto alla dinamica della relazione costi-prezzi e al 'grado di monopolio'. In base alla relazione (43) (v. anche Laski, 1987), dove P sono i profitti lordi, B gli stipendi, k il rapporto di mark up, W i salari, M il costo delle materie prime (o più in generale dei materiali di base), la quota relativa (α) dei salari sul reddito nazionale (Y) (in breve la 'quota salari') è data dalla (44), ovvero dalla

P + B = k(W + M);    (43)

α = W/[W + k(W + M)] = [W/(W + P + B)] = W/Y;   (44)

α = 1/[1 + k(1 + j)].  (45)

Le grandezze cruciali per spiegare α sono dunque k, cioè il rapporto di mark up rispetto ai costi del lavoro e ai costi dei materiali di base, e j, cioè il rapporto tra costi dei materiali e costi del lavoro:

k = (P + B)/(W + M);   (46)

j = M/W.  (47)

Queste grandezze dipendono dal meccanismo di formazione dei prezzi. I prezzi delle materie prime sono determinati dalla domanda, mentre quelli dei beni finiti sono determinati dai costi, in quanto la loro offerta è elastica in virtù di riserve di capacità produttiva. Nella struttura oligopolistica (specie nel manifatturiero) i prezzi dei prodotti finiti sono stabiliti dai produttori che applicano un mark up sui costi primi medi per pagare gli stipendi e ottenere dei profitti. Il rapporto di mark up dipende a sua volta dal 'grado di monopolio', che è funzione del grado di competizione sul prezzo. Da queste premesse possono essere tratte almeno quattro conclusioni.

1. Un aumento sia del grado di monopolio, e quindi di k, sia dei prezzi delle materie prime rispetto al costo-salario, e cioè di j, causa un decremento della quota salari. Storicamente la stabilità osservata è dovuta invece al movimento contrapposto di k e di j.

2. In Gran Bretagna la quota salari non è cambiata molto tra il 1880 (41,4%) e il 1913 (39,4%). Ciò è dovuto a una relativa costanza statistica di j e di k. Dal 1913 al 1935, invece, j è calato notevolmente, in quanto sono calati i prezzi delle materie prime rispetto ai costi-salario. Essendo rimasta pressoché invariata la quota dei salari (tra il 43% e il 41,8%), Kalecki ne deduce che è notevolmente aumentato il grado di monopolio, e cioè k. Negli Stati Uniti la quota salari è rimasta abbastanza stabile tra il 1909 (37,9%) e il 1925 (40,2%), in presenza di un notevole aumento del grado di monopolio (e quindi di k), che è stato controbilanciato dalla caduta di j (v. Kalecki, 1939).

3. Il rapporto di mark up (k) ha andamento anticiclico: aumenta nelle depressioni, per le decisioni imprenditoriali tese a ricostituire i profitti che calano con la produzione, e diminuisce nei boom, dove si rafforza il potere dei sindacati. A loro volta i prezzi delle materie prime determinati dalla domanda (e di conseguenza j) sono ciclici: crescono con la domanda nei boom e calano nelle depressioni. Perciò i movimenti di k e di j almeno parzialmente si compensano determinando una quota salari costante nel breve periodo.

4. La concentrazione dell'industria tende nel lungo periodo ad aumentare il 'grado di monopolio' e vari settori industriali diventano 'oligopolistici'. Ciò può essere controbilanciato dal venire meno di imperfezioni del mercato, per la caduta dei costi di trasporto, per la standardizzazione dei beni, per l'organizzazione degli scambi, ecc. "I risultati a cui si perviene in questo saggio hanno un aspetto più generale. Un mondo in cui il grado di monopolio determina la distribuzione del reddito nazionale è un mondo che si allontana molto dal modello della libera concorrenza [forma di mercato che] come descrizione dello stato normale dell'economia capitalistica è puramente un mito" (v. Kalecki, 1939; tr. it. p. 234).

Il grado di oligopolio

Consideriamo adesso il contributo di Sylos Labini, concentrandoci su un suo lavoro (v. Sylos Labini, 1979), raccordo di sue varie analisi che si fondano sulla sua teoria dell'oligopolio (v. Sylos Labini, 1956), mentre Kalecki postula piuttosto un grado di monopolio.

Sylos Labini rileva che una risposta generale al problema della relazione costi-prezzi non può essere data, perché, malgrado le molte stime econometriche, varie equazioni includono elementi di domanda che oscurano tale relazione. Questo problema viene superato utilizzando il modello teorico di oligopolio (v. Sylos Labini, 1956 e 1984) per l'industria manifatturiera, dove si presentano tre tipi di oligopolio: concentrato, differenziato e misto.

Si parte dalle seguenti relazioni, che incorporano il principio del costo pieno nel modo più semplice:

p = av = a(w/z) + am;    (48)

v = (w/z) + m.  (49)

In queste relazioni p è il prezzo, a è il margine proporzionale (mark up sui costi diretti), v è il costo diretto o variabile, dato dalla somma del costo del lavoro e delle materie prime per unità di prodotto, w/z è il rapporto tra salari monetari orari e produttività oraria in termini reali, e cioè il costo del lavoro per unità di prodotto, m è il costo delle materie prime per unità di prodotto.

Sylos Labini stima econometricamente per vari paesi la relazione che lega le variazioni costi-prezzi nell'industria manifatturiera, concludendo che, mentre la traslazione dei costi delle materie prime sui prezzi è abbastanza completa e simmetrica, la traslazione dei costi del lavoro tende a essere parziale e asimmetrica a seconda del tipo di interdipendenze oligopolistiche e a causa della concorrenza internazionale.

Passando alla relazione prezzi-costi-distribuzione nell'industria manifatturiera, Sylos Labini, dopo aver stimato la (48) per l'Italia e gli Stati Uniti, passa a considerare la quota salari sul valore aggiunto data dalla (50), dove, essendo X il volume della produzione, Yi=piX-mX è il valore aggiunto industriale, W=(w/z)X è il totale salari, Df=p-m è il deflattore del valore aggiunto. La quota salari varia dunque inversamente ad a e a m.

W/Yi = (1/a) - (m/Df)a*;    a* = (a - 1)/a.    (50)

Il margine proporzionale dà il potere di mercato dei produttori industriali, che, a settore isolato, può esprimersi come capacità sia di aumentare i prezzi sia di ridurre i salari.

La relazione inversa con m indica un antagonismo tra lavoratori industriali e produttori di materie prime (e/o tra paesi industrializzati importatori e paesi produttori di materie prime). Un antagonismo esiste dunque tra il margine proporzionale e la quota salari, ma anche tra questa e il prezzo delle materie prime. Se quest'ultimo aumenta, la quota salari cala, a meno che il margine proporzionale non cali in una misura che compensa la crescita del prezzo delle materie prime. A sua volta la quota profitti sul valore aggiunto industriale è data dalla (51), dove P=Yi-W-Co rappresenta i profitti totali e Co il valore complessivo dei costi indiretti. Se a si riduce, lo segue la quota profitti, che cala anche al crescere dei costi generali.

(P/Yi) = a*(pi/Df) - (Co/Yi).   (51)

Passando dal piano teorico a quello empirico, si può precisare quanto segue.

1. In Italia e in Gran Bretagna la quota profitti ha mostrato una tendenza a calare, sia pure con fluttuazioni, almeno negli ultimi anni settanta, e così è stato, sia pure meno rapidamente, negli Stati Uniti e in altre economie di mercato avanzate.

2. Le cause di questo declino sono: la competizione internazionale, che agisce come freno sui prezzi; l'aumento del potere contrattuale dei sindacati; l'aumento del potere di mercato dei paesi in via di sviluppo produttori di materie prime e di fonti di energia; l'aumento dei costi generali unitari nel lungo periodo.

3. L'aumento dei costi indiretti unitari è dovuto più all'aumento relativo degli stipendi che a quello degli ammortamenti e di altri oneri in conto capitale. A causa di ciò la quota profitti può rimanere costante solo se cresce il margine proporzionale sui costi diretti, e questo può accadere nel lungo periodo solo se a periodi di aumento dei costi seguono periodi di cadute dei costi di sufficiente intensità e durata. Tuttavia la quota dei costi generali unitari, mentre nel breve periodo cresce a un saggio stabile, largamente indipendente dal saggio di crescita della produzione, cala al crescere del reddito in fasi di rapida ripresa economica e di prosperità. In questi periodi la quota profitti cresce anche con un margine proporzionale lordo stabile o calante.

4. Per quel che riguarda le materie prime importate, l'aumento dei loro prezzi acutizza l'antagonismo tra lavoratori e imprenditori industriali. Le difficoltà delle economie industrializzate per l'aumento di tali prezzi (specie di quello del petrolio) derivano non tanto dalla riduzione del margine proporzionale quanto da quella della domanda, che aumenta i costi unitari generali e comprime la quota profitti.

Il contrasto tra paesi produttori di materie prime e paesi produttori di manufatti può essere visto tramite le variazioni di m/Df nella (50), che è anche un modo per vedere i termini di scambio tra materie prime e prodotti industriali.La conclusione è che esiste un antagonismo trilaterale tra lavoratori, industriali, produttori di materie prime.

Su tale base sarebbe di grande interesse esaminare le molte stime econometriche sulla dinamica delle quote relative. Citiamo solo quelle fatte da Sylos Labini sulla distribuzione del valore aggiunto manifatturiero in Italia e Stati Uniti. In Italia dal 1951 al 1978 la quota salari e stipendi è cresciuta di 17,3 punti, la quota salari è cresciuta di 5,7 punti, la quota costi indiretti e tasse è cresciuta di 13,7 punti e la quota profitti è calata di 19,4 punti.

Negli Stati Uniti la situazione è più complessa, perché si sono ridotte sia la quota profitti che la quota salari, mentre sono aumentate la quota salari più stipendi e la quota costi indiretti più tasse.

La distribuzione personale del reddito

Le curve di Lorenz

L'analisi della distribuzione personale, o familiare, del reddito fornisce la misura del grado di diseguaglianza dei redditi individuali, o familiari, in un dato paese, la loro evoluzione, il confronto fra le distribuzioni del reddito di paesi diversi. Si tratta di una linea d'analisi avviata da Pareto (v., 1896 e 18961897) e proseguita da Lorenz (v., 1905) e da Gini (v., 1910) nonché da una serie di statistici e di economisti alla ricerca della miglior misura della concentrazione del reddito (v. Dagum, 1987).

fig. 3

Lo strumento più diffuso per rappresentare e analizzare la distribuzione personale, o familiare, del reddito è la 'curva di Lorenz', che stabilisce una corrispondenza tra quote di soggetti (individui o famiglie) di una popolazione e quote di reddito nazionale che vanno a questi soggetti. Si consideri il diagramma riportato nella fig. 3: sulle ascisse sono indicate le percentuali della popolazione e sulle ordinate quelle del reddito nazionale. La curva di Lorenz ha un andamento lineare in caso di equidistribuzione, cioè quando ogni percentuale di popolazione riceve la stessa percentuale di reddito. Le due curve sotto la retta 0B esprimono invece diversi gradi di diseguaglianza nella distribuzione: la curva I corrisponde a un paese in cui la distribuzione è più egualitaria che nel paese cui corrisponde la curva II.

Se le curve di Lorenz di due distribuzioni di reddito non si intersecano, allora presenta maggior concentrazione la distribuzione la cui curva sta al di sotto dell'altra.

L'ordinamento delle distribuzioni di reddito in base alle curve di Lorenz è solo parziale nel caso di intersezione delle curve; ma è possibile ricorrere a indici che consentono un ordinamento completo in termini di maggiore o minore concentrazione. Nel caso di curve di Lorenz che si intersecano è tuttavia possibile che diversi indici diano luogo a diversi ordinamenti.

Una linea di indagine che ha molto attirato l'attenzione degli economisti (v. Atkinson, 1975; v. Atkinson e Harrison, 1978; v. Sen, 1973; v. Kakwani, 1987) è quella relativa all'utilizzo delle curve di Lorenz per lo studio delle connessioni tra ordinamenti nella distribuzione del reddito (e della ricchezza) e benessere sociale e per le misure della diseguaglianza e della povertà.

Alcuni dati statistici

Consideriamo brevemente l'analisi empirica che ha fornito interessanti elementi sulla distribuzione personale come risulta dai dati della Banca Mondiale che sono tra i più diffusi.Sulla base di tali dati (v. World Bank, 1992), facciamo alcuni confronti, avvertendo tuttavia che tali confronti non sempre sono attendibili, per la diversità degli anni di riferimento e per altre particolarità di stima.

Ogni popolazione esaminata è stata suddivisa in cinque parti uguali, dette, appunto, 'quintili' (in altre parole un quintile corrisponde a un 20% della popolazione): il I quintile corrisponde al 20% più povero della popolazione, il V al più ricco.

La Nuova Zelanda ha una distribuzione più diseguale della Spagna e un reddito medio pro capite superiore, anche se, a tale riguardo, la Spagna ha guadagnato terreno dal 1985 al 1990.Il Belgio ha una distribuzione meno diseguale della Spagna e della Nuova Zelanda e un reddito medio pro capite superiore a quello spagnolo, anche se relativamente peggiorato. Il Regno Unito ha una distribuzione più diseguale del Belgio con un reddito medio pro capite superiore e in relativo miglioramento. Il confronto tra Italia e Regno Unito dà una distribuzione più equa per l'Italia per i primi due quintili e per il V, ma più diseguale per il III e il IV. Ciò significa che sono i ceti medio e medio-alto quelli relativamente meno coperti rispetto al Regno Unito, mentre per quelli basso, medio-basso e alto la distribuzione è più equa. Il reddito medio pro capite italiano ha notevolmente guadagnato terreno dal 1985 al 1990. Il confronto fra Italia e Olanda rivela per quest'ultima una distribuzione meno diseguale a parità, circa, di reddito pro capite. Il confronto tra Giappone, Germania e Stati Uniti rivela come i primi due abbiano una distribuzione meno diseguale degli ultimi. Passando ad alcuni paesi in via di sviluppo, si rileva che il Bangladesh ha una discreta equidistribuzione, purtroppo della miseria. La Colombia ha una fortissima concentrazione del reddito nel 20% più ricco della popolazione e quindi ha una forte diseguaglianza. Botswana e Brasile presentano una situazione ancora più diseguale. In Brasile il 20% più ricco della popolazione riceve il 62,6% del reddito nazionale. Un'analisi adeguata della distribuzione nei paesi in via di sviluppo, specie in quelli di grandi dimensioni come il Brasile, dovrebbe considerare anche gli squilibri territoriali che si associano a concentrazioni di classi povere e ricche.Limitatamente ai paesi sviluppati, facendo dei confronti entro ogni quintile, si rileva quanto segue.

I quintile: il massimo si ha per il Giappone (8,7) e il minimo per l'Austria (4,4); il Giappone dà quindi ai suoi ceti più modesti una quota di reddito maggiore dell'Austria.

II quintile: il massimo si ha per il Belgio (13,7) e il minimo per la Nuova Zelanda (10,8).

III quintile: il massimo si ha per la Norvegia (18,9) e il minimo per la Nuova Zelanda (16,2).

IV quintile: il massimo si ha per la Danimarca (25,6) e il minimo per la Svizzera (22,1).

V quintile: il massimo si ha per la Svizzera (44,6) e il minimo per il Belgio (36,0).L'analisi di questi dati richiede sempre molta prudenza. Il fatto che la Svizzera abbia la massima concentrazione di reddito nel quintile di popolazione più alto non significa che i suoi ceti meno abbienti godano di un benessere inferiore rispetto ai ceti più ricchi di altri paesi, dal momento che il reddito pro capite svizzero è di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri paesi.

Questa riflessione apre la strada ai problemi relativi alla distribuzione del benessere e della ricchezza.

La ricchezza e la sua distribuzione

Le difficoltà delle analisi della ricchezza

Si pensa comunemente che il problema della ricchezza sia il problema centrale, almeno storicamente, dell'economia politica: ne è dimostrazione immediata il titolo dell'opera che i più considerano la pietra angolare della scienza economica contemporanea, e cioè La ricchezza delle nazioni (1776) di Adam Smith. Ma l'analisi della distribuzione della ricchezza non sembra aver raggiunto una elaborazione paragonabile alla teoria della distribuzione del reddito, principalmente perché il concetto di ricchezza è stato oggetto di molti equivoci o, quantomeno, di molte definizioni che hanno dato luogo ad altrettante linee di ricerca. Per lungo tempo la ricchezza è stata considerata come stock di beni materiali e più spesso come stock di risorse naturali e, al più, di metalli preziosi. Con la rivoluzione industriale la ricchezza è stata intesa come flusso di produzione e capacità di produzione. Molti economisti hanno parlato di ricchezza trattando invece del reddito. Lo stesso Smith considerava ricchezza la capacità di produrre flussi di reddito nel tempo piuttosto che gli stocks di beni materiali in un dato momento (v. Blaugh, 1962; v. Pasinetti, 1975). Questa scelta, implicita o esplicita, si è spesso generalizzata, tant'è che oggi per misurare la 'ricchezza' nei diversi paesi si guarda innanzitutto al livello del reddito (totale e pro capite). Altri hanno identificato la ricchezza con l'utilità derivante da servizi e quindi, in definitiva, con il benessere (v. Heilbroner, 1987).

Ciò premesso, noi procederemo come segue: da un lato daremo elementi di rassegna sulle teorie della distribuzione della ricchezza, nell'impossibilità, data la loro natura non omogenea, di presentarne una esposizione organica, come per quelle del reddito; dall'altro accenneremo ad alcune rilevazioni empiriche sulla ricchezza in Italia.

Teorie sulla distribuzione e sull'accumulazione della ricchezza: cenni

Come detto, il processo di distribuzione e di accumulazione della ricchezza ha occupato gli economisti sin dal tempo dei classici, nella maggior parte dei casi limitatamente però al ruolo che lo stesso svolge nel processo di formazione e di distribuzione del reddito. Più recentemente i marginalisti hanno riconsiderato l'intera problematica, soprattutto per quanto concerne la distinzione tra ricchezza del ciclo vitale e intergenerazionale (v. Kessler e Masson, 1988). L'approccio dei marginalisti ha tuttavia un taglio fondamentalmente microeconomico, in quanto il processo di accumulazione e di distribuzione non è che la semplice aggregazione, pur tenendo conto della piramide delle età e di altri fattori, dei parametri individuali.

Un'analisi esaustiva del processo di distribuzione e accumulazione della ricchezza dovrebbe invece partire da un quadro macroeconomico ben preciso, sia pure specificato attraverso certe regole per integrarvi i fattori microeconomici come il ciclo vitale, la struttura demografica della popolazione, ecc. Questo approccio è stato proposto dai post-classici e dai post-keynesiani, fra cui Modigliani, il fondatore della teoria del ciclo vitale (v. Modigliani, 1949; v. Modigliani e Brumberg, 1954), secondo la quale la propensione al risparmio e l'accumulazione della ricchezza dipendono dal rapporto tra anni di lavoro e anni di post-lavoro. I soggetti tendono infatti a livellare i consumi nel corso della vita, bilanciando gli stessi attraverso l'accumulazione, prima, e poi, nella vecchiaia, la decumulazione del risparmio.

L'approccio proposto dai post-classici e dai post-keynesiani, oltre che sulle proprietà viste a proposito della distribuzione del reddito, dovrebbe gettar luce sui meccanismi di natura storica che stanno alla base della formazione e della conservazione di classi differenti, anche per una diversa dotazione di capitale intergenerazionale: questo elemento è evidentemente importante per analizzare il processo di crescita del sistema e il suo grado di capitalizzazione.

Diversi sforzi in questa direzione sono stati fatti in questi ultimi anni. Atkinson (v., 1975) ha sviluppato un semplice modello di distribuzione funzionale dei risparmi del ciclo vitale, basato su un modello marginalista. Vaughan (v. Kessler e Masson, 1988) ha considerato alcuni problemi relativi alla distribuzione della ricchezza in un modello microeconomico con la presenza di due classi di risparmiatori: i lavoratori e i capitalisti. Pasinetti (v., 1974) ha espresso il capitale di equilibrio delle classi dei lavoratori e dei capitalisti all'interno del modello distributivo di Kaldor e Pasinetti. Baranzini (v., 1991) ha in particolare mostrato che le classi tradizionali del modello ricardiano e post-keynesiano in generale possono coesistere nel sistema, entrambe con due forme di capitale (quello del ciclo vitale e quello intergenerazionale), pur notando che le condizioni di sopravvivenza a lungo termine per le classi che traggono reddito principalmente dal capitale o dalla rendita sono legate a una propensione al risparmio superiore alla media e, soprattutto, a una propensione alla trasmissione del capitale intergenerazionale (a favore cioè dei propri figli) più forte di quella delle altre classi socioeconomiche. Ancora Baranzini mostra che la presenza di rischio e di incertezza riguardo al rendimento dei risparmi tende a polarizzare la società in classi socioeconomiche differenti, il che sembrerebbe rafforzare la validità di un'analisi dei processi distributivi (sia del reddito che della ricchezza) basata, tra l'altro, sulla presenza di gruppi sociali differenti.

La ricerca svolta in quest'ambito negli ultimi due o tre decenni conferma, in sostanza, la validità di un approccio globale all'ampio problema della distribuzione, in base al quale si parte da un modello macroeconomico ben preciso (sia esso di natura squisitamente classica oppure neoricardiana o post-keynesiana) e successivamente lo si integra con sottosistemi di natura microeconomica che spieghino i comportamenti degli individui, delle dinastie o delle classi. In quest'ultimo caso la teoria del ciclo vitale e i meccanismi di trasmissione intergenerazionale del capitale, sia pur basati su una funzione di utilità molto generale, possono risultare preziosi nel comporre il quadro generale dell'analisi.

Analisi empiriche della ricchezza in Italia

Le analisi empiriche della ricchezza e della sua distribuzione sono moltissime (cfr., per esempio, "Review of studies in income and wealth"), sicché è impossibile darne conto in termini sintetici come s'è fatto per il reddito. Gli strumenti di analisi impiegati vanno dalle curve di Lorenz alle indagini campionarie relative a varie classificazioni economico-giuridiche di ricchezza.

Limitiamoci perciò a citare l'indagine campionaria svolta periodicamente (la prima volta nel 1986) dalla Banca d'Italia, concernente i bilanci delle famiglie italiane con riferimento sia al reddito sia alla ricchezza. Dall'indagine del 1989 (v. Banca d'Italia, 1991) risulta che la ricchezza reale familiare è in media di 124,1 milioni di lire, circa 3,6 volte il reddito medio. Tale ricchezza viene investita per l'86,2% in immobili, per il 10,4% in partecipazioni in aziende, per il 3,5% in oggetti di valore. Le famiglie che possiedono almeno un immobile sono pari al 67,4%.La ricchezza reale netta è in media più elevata al centro (152,6 milioni) che al nord (123,4 milioni) e al sud (116,1 milioni), ed è più elevata per i lavoratori autonomi (251,2 milioni) che per i lavoratori dipendenti (105,5 milioni) e i pensionati (95 milioni).

Dal punto di vista della diffusione delle attività finanziarie risulta che l'88,0% delle famiglie possiede almeno uno strumento finanziario. In particolare l'80,9% delle famiglie possiede depositi bancari, il 12,2% depositi postali, il 22,5% titoli di Stato e il 7,4% altri strumenti finanziari.Questi brevi richiami aprono la strada a quella che dovrebbe essere una analisi economico-istituzionale che non potremo fare qui.

Conclusione

La precedente analisi si è concentrata sulle principali teorie economiche della distribuzione del reddito e della ricchezza. La teoria sociale si è molto modificata in quasi due secoli. La sua originaria attenzione alle classi sociali stilizzate (lavoratori, capitalisti, proprietari terrieri) si è spostata, col tempo, verso categorie sociali molto più articolate e cioè percettori di salari, di profitti, di rendite e anche di redditi misti. Costante è però rimasta la sua attenzione per i nessi con la produzione, il valore, la crescita, pur nella autonomia relativa di queste componenti nell'ambito di una teoria generale della dinamica. Così si è passati dalla impostazione classica originaria di Ricardo alle moderne versioni multisettoriali di Sraffa, a quelle macroeconomiche di Kaldor e di Pasinetti, a varie altre che si ricollegano al filone keynesiano.Talvolta la teoria sociale è stata criticata per aspetti ideologici.

La teoria funzionale ha avuto uno sviluppo molto minore rispetto alle origini, collegate in particolare a Wicksteed e a Wicksell. Essa è rimasta infatti, nella formulazione microeconomica, la teoria di massimizzazione dei profitti dell'impresa che domanda fattori di produzione sulla base del confronto tra l'andamento del loro prezzo, della loro produttività, del prezzo dei prodotti, il tutto in regime di concorrenza perfetta. Le critiche d'irrealismo avanzate nei confronti di questa teoria non ne hanno diminuito la diffusione nell'ambito della manualistica; questa popolarità è dovuta sia all'eleganza formale sia all'apparente intuibilità della teoria in questione.

La teoria delle forme di mercato (grado di monopolio e oligopolio), da Kalecki (v., 1939) a Sylos Labini (v., 1956 e 1979) è stata da noi presentata come teoria 'mista', intermedia tra le due precedenti (sociale e funzionale). Le relazioni tra imprese e percettori di salari dipendono dai prezzi delle materie prime, dei prodotti, dai costi di produzione, dal livello di attività economica. Le 'forze' di mercato che determinano la distribuzione sono dunque almeno tre: imprese, sindacati, produttori di materie prime. In tal modo ci si avvicina a una spiegazione più completa delle effettive dinamiche storiche della distribuzione.

La teoria personale della distribuzione (v. Lorenz, 1905) è stata da noi presentata nella sua forma analitica più statistico-quantitativa che economico-qualitativa. Gli economisti hanno però lavorato molto sulle cause della diseguaglianza rispetto alle quali la teoria personale rappresenta una sorta di sintesi nella quale confluisce una grande quantità di fattori sociali, economici, istituzionali. Per capire quali elementi confluiscono in questa teoria bisognerebbe però ampliare l'analisi ad aspetti socioeconomici.

Questo passaggio è anche opportuno per avere una analisi completa della distribuzione della ricchezza. Noi abbiamo trattato questo argomento nella parte conclusiva per due ragioni: perché dal punto di vista della teoria economica esso è ancora molto magmatico; perché abbiamo circoscritto l'analisi alle teorie sociali, funzionali e personali della distribuzione del reddito, tenendo anche conto della teoria del ciclo vitale del risparmio.Il passo successivo di questa trattazione, che è essenzialmente di analisi economica, dovrebbe essere verso la teoria sociale delle classi, dei ceti, della stratificazione, della grande gamma di tipologie di redditi, per arricchire la quale appaiono necessarie anche strumentazioni di altre discipline e molti riferimenti istituzionali a determinati periodi. Ciò dovrebbe portare a un'analisi della crescita delle classi medie nelle loro diverse connotazioni (urbana, impiegatizia, ecc.) e al superamento della polarizzazione imprenditori-lavoratori, anche in relazione all'evoluzione della struttura produttiva e alla distribuzione territoriale dello sviluppo. Una analisi qualitativa e quantitativa di questa natura deve tenere conto di elementi socioeconomici, anche sotto il profilo storico e istituzionale, ed essere svolta anche comparativamente tra sistemi economici (si veda, per esempio, Sylos Labini, 1986).

È dunque di estrema importanza stabilire un legame tra analisi economica e analisi sociale, così da avere una riflessione socioeconomica che interpreti anche la realtà dei fenomeni della distribuzione periodo per periodo. Una riflessione di questo tipo è particolarmente confacente alla tradizione delle scienze sociali in Italia pur nella distinzione tra discipline e metodi. (V. anche Concorrenza; Economia; Equilibrio economico; Interesse; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Profitto; Reddito; Rendita; Ricchezza; Salari e stipendi).

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