DIRITTO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

DIRITTO

Francesco D'Agostino
Bruno Paradisi

(XII, p. 983; App. I, I, p. 517; II, I, p. 788; IV, I, p. 594)

Filosofia e teorie generali. − Il lungo dibattito tra giuspositivismo e giusnaturalismo che nei primi due decenni del dopoguerra ha impegnato le forze dei migliori filosofi del d. si è andato lentamente assopendo negli ultimi due decenni, dopo aver prodotto però alcuni frutti rilevanti: da una parte ha messo definitivamente in crisi una delle forme storicamente più significative di giuspositivismo, quello statualistico, indebolito non solo dalla lunga battaglia ideologica mossa contro il mito dello Stato e i guasti da esso prodotti, ma anche da una più scaltrita consapevolezza della sua fragilità metodologica; dall'altra ha messo in evidenza una rinnovata vitalità delle dottrine giusnaturalistiche, che, abbandonato ogni pregiudiziale monolitismo, hanno saputo strutturarsi in una molteplicità di nuove configurazioni concettuali. Infatti, anche gli autori più sostanzialmente fedeli alle prospettive metafisiche del giusnaturalismo tradizionale hanno saputo riformulare il loro pensiero in un serrato dibattito con la cultura giuridica più moderna.

M. Villey, fondatore dei prestigiosi Archives de Philosophie du Droit, ha voluto reinserire pienamente nel dibattito giuridico attuale la dottrina tomistica − ma a suo avviso di pretta origine romanistica − dello jus come ipsa res iusta: la sua opera più cospicua, La formation de la pensée juridique moderne (1975; trad. it., 1986), è dedicata allo studio dell'oblio di questo principio nella cultura giuridica della modernità e assieme a una vigorosa rivendicazione della sua necessarietà. In questa linea si muovono anche studiosi più giovani, tra i quali va ricordato almeno J. Hervada, la cui Introducción critica al derecho natural (1981) rappresenta la più matura sistematizzazione di questo orientamento. Meno legati alla tradizione metafisica in senso stretto, ma egualmente aperti alla continua integrazione della filosofia nell'esperienza giuridica sono i giusnaturalismi di A. Verdross, Statisches und dynamisches Naturrecht (1971) e sopratutto di R. Marcic, che ci ha lasciato nella sua Rechtsphilosophie (1969), un prezioso e compiuto manuale: il massiccio volume di studi in memoria di questo studioso, prematuramente scomparso, è significativametne intitolato Das Naturrechtsdenken heute und morgen (1983) e contiene la più ampia e articolata panoramica del giusnaturalismo contemporaneo, nelle sue mille rinnovate cristallizzazioni. Nell'alveo del giusnaturalismo possono infine farsi rientrare J. Finnis, allievo di H.L.A. Hart, che con l'opera Natural law and natural rights (1980) ha vigorosamente reintrodotto l'ispirazione tomistica nel pensiero giusfilosofico anglosassone, e R. Dworkin, successore di Hart nella cattedra di Giurisprudenza a Oxford, che in diversi studi, tra cui il celebrato Taking rights seriously (1977; trad. it., 1982), attaccando frontalmente giuspositivismo e utilitarismo, ha riproposto il problema teoretico dei principi generali del d. e della loro necessaria fondazione meta-positiva.

In questo quadro di rinnovata validità del giusnaturalismo operano altresì le feconde suggestioni di pensatori pur lontanissimi tra loro, come J. Maritain, uno dei più noti filosofi cattolici del secolo (le cui Neuf leçons sur la loi naturelle sono state pubblicate postume per la prima volta in Italia, in traduzione, 1985) ed E. Bloch, il cui Naturrecht und menschliche Würde (1961) costituisce il più illustre omaggio che un pensatore marxista (anche se eterodosso) abbia reso alla dottrina del d. naturale. Il quadro del giusnaturalismo più recente non sarebbe infine completo se non si ricordasse che perfino una dottrina come quella di P. Piovani, che in Giusnaturalismo ed etica moderna (1961) si era esplicitata come severamente ostile al d. naturale, non per i valori materiali da esso difesi, ma per la sua incapacità di coniugarsi col carattere aperto dell'esperienza etica della modernità, ha potuto venir intelligentemente riformulata, per mostrarne un'indubbia compatibilità con le istanze giusnaturalistiche più profonde, da V. Mathieu, in un importante saggio, Luci e ombre del giusnaturalismo, ora ricompreso nell'omonimo volume (1988). E aggiungiamo che lo stesso N. Bobbio, indubbiamente tra i più significativi filosofi italiani del d. della seconda metà di questo secolo, ponendosi, in un acuto saggio intitolato Giusnaturalismo e positivismo giuridico (ora nell'omonimo volume, 1965), di fronte all'alternativa giusnaturalismo/giuspositivismo, pur non riuscendo a rinunciare all'approccio positivistico per quel che concerne il metodo di studio ottimale del d., dichiara però esplicitamente di non essere né giuspositivista né giusnaturalista per quel che attiene alla teoria del d. e si confessa infine, sul piano ideologico, cioè dei valori, esplicitamente dalla parte del d. naturale. Si comprende pertanto come in un quadro di questo genere gli atteggiamenti anti-giusnaturalisti, anche quando non appaiono aprioristici, ma sono presentati con grande garbo critico, come per es. da A. Leinweber, Gibt es ein Naturrecht? (1972), restano fondamentalmente minoritari nell'ambito della discussione scientifica di frontiera, anche se sono ben frequenti nella cultura giuridica diffusa. Il positivismo giuridico attuale appare in conclusione sempre più aperto a un approfondito dialogo col giusnaturalismo, come testimonia da ultimo l'importante saggio di E. J. Lampe, Grenzen des Rechtspositivismus (1988).

La filosofia del d. degli ultimi tre decenni non può però venire rinserrata tutta nell'alternativa giuspositivismo-giusnaturalismo. Anzi, si può osservare come i frutti più cospicui si siano avuti quando è riuscita a liberarsi da ogni soffocante e aprioristica etichettatura in tal senso e a superare le tematiche dominanti nel dibattito culturale del dopoguerra, e prima fra tutte quella della legge ingiusta e della sua obbligatorietà. Negli anni Settanta e Ottanta il tema principale d'indagine della nuova filosofia del d. è divenuto, sia pur lentamente, quello del fondamento e della giustificazione del diritto. Il venir meno del duplice riferimento idealistico da una parte e scientifico/positivistico dall'altra ha imposto infatti ai filosofi del d. l'acquisizione di nuove coordinate epistemologiche.

Le correnti che maggiormente li hanno aiutati in tal senso sono state quella analitica da una parte e fenomenologica dall'altra: di origine anglosassone la prima e tedesca la seconda. Per quanto lontanissime nell'ispirazione e negli esiti culturali, queste correnti però non si pongono a ben vedere in lotta tra di loro, ma aspirano piuttosto a occupare spazi che di principio sono diversi e non conflittuali. La filosofia giuridico-analitica trova negli strumenti forgiati dalla filosofia del linguaggio un aiuto essenziale a riformulare criticamente un'esperienza, come quella giuridica, che attiene certamente alla prassi, ma solo attraverso peculiari formulazioni linguistiche. Attraverso l'analisi del linguaggio tutto il tradizionale lessico giuridico, tutto l'insieme dei concetti adoperati dai giuristi nel loro lavoro quotidiano ricevono una nuova dignità concettuale grazie a un più rigoroso uso della ragione, rivelata definitivamente nella sua dimensione di ragione linguisticamente strutturata.

Introdotta in Italia da un pioneristico saggio di Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio (1950), la filosofia del d. d'indirizzo analitico si è andata sempre più consolidando nel nostro paese grazie soprattutto all'opera solerte di U. Scarpelli, che già nel 1953, con Filosofia analitica e giurisprudenza, aveva posto tutte le coordinate essenziali del nuovo indirizzo. Il volume collettaneo Diritto e analisi del linguaggio (1976), curato dallo stesso Scarpelli, ne ha costituito un primo ampio consuntivo internazionale (accanto agli italiani Bobbio, E. Pattaro, Scarpelli, G. Tarello, figurano i nomi di K. Olivecrona, G.R. Carriò, K. Opalek, F.E. Oppenheim, A. Ross, G. Williams, R. Wollheim, J. Wroblewski). Il convegno Reason in law, ospitato dall'università di Bologna nel 1984 (e di cui sono già apparsi, a partire dal 1987, tre volumi di Atti), ha ulteriormente e ampiamente mostrato la vitalità di questo indirizzo.

Diversamente dalla prospettiva analitica, che pretende d'introdurre una netta cesura, soprattutto metodologica, nella tradizione filosofica europea, quella fenomenologica mantiene un più stretto rapporto con la cultura idealistica tradizionale: si tratta però di un rapporto di carattere esplicitamente antinomico, per la ferma volontà della fenomenologia di procedere a una riscoperta dell'oggetto, contro la soggettività assoluta dell'idealismo. La prospettiva giuridico-fenomenologica, aperta in Germania in anni ormai lontani da A. Reinach e sviluppata poi da G. Husserl, ha trovato in Italia terreno fecondo, grazie al suo imprevedibile incontro con l'opera solitaria e geniale di G. Capograssi: un pensatore scomparso nel 1956, ma il cui influsso non accenna ad attenuarsi. La vigorosa rivendicazione operata da Capograssi dell'individualità, nelle cui volizioni empiriche, contingenti e parziali, come quelle giuridiche, pur traluce la verità oggettiva della vita (si vedano i preziosi saggi raccolti nel volume Incertezze sull'individuo, 1969), ha trovato in S. Cotta una filiazione ideale e originale, nel cui segno si è andata creando in Italia una nuova scuola di pensiero (si vedano gli Atti di un convegno svoltosi a Catania nel 1986, dal significativo titolo L'indirizzo fenomenologico e strutturale nella filosofia del diritto italiana più recente, 1988).

La filosofia di Cotta, giunta a piena maturazione in Il diritto nell'esistenza (1985), rivendica all'esperienza giuridica da una parte una piena autenticità esistenziale, criticando efficacemente i ricorrenti atteggiamenti antigiuridici, e dall'altra una sua netta autonomia rispetto alle soffocanti e ricorrenti pretese inglobanti della politica. In tal modo Cotta, nell'ultimissima fase del suo pensiero, cristallizzatasi nel saggio Dalla guerra alla pace (1989), dopo aver denunciato, in tutte le teorie che riconoscono alla politica un primato nell'esperienza pratica, un'apologia, anche se in alcuni casi occulta o magari incosapevole, della violenza e della guerra, può individuare nel d. la struttura esperienziale umana o, se si preferisce, lo strumento sociale che per eccellenza va considerato promotore e operatore di pace. Il pensiero di Cotta, sotto questo profilo, si allontana radicalmente da quello dell'altro grande fenomenologo contemporaneo del d., A. Kojève, la cui opera postuma Esquisse d'une phénoménologie du droit (1981; trad. it., 1989), pur raggiungendo autentiche vette di raffinatezza fenomenologica, resta irretita in un fondamentale hegelismo di fondo, che vede nello Stato, anzi in un futuro ''Stato universale e omogeneo'', il quadro inglobante di ogni esperienza giuridica.

La rinnovata filosofia del d. degli ultimi decenni è riuscita in genere a contenere efficacemente le pretese − il più delle volte, peraltro, molto debolmente fondate − di sostituire l'approccio filosofico al d. con un approccio teorico esplicitamente anti-filosofico: cioè con una teoria generale del d. capace di riportare la particolarità delle statuizioni dei singoli ordinamenti giuridici a una generalità epistemologicamente significativa, razionalmente fondata ed esplicitamente antimetafisica. Paradossalmente, però, le maggiori difficoltà per una costruzione pienamente compiuta e strettamente teorica del d. provengono non dalla filosofia, ma dall'interno stesso della teoria generale, in quella che ne è la versione più nota: la teoria pura del d. di H. Kelsen. Quando, nel 1979, apparve postuma, a Vienna, la grande Allgemeine Theorie der Normen (trad. it., 1985), Kelsen era già morto, in tardissima età, a Berkeley, in California, da alcuni anni (per l'esattezza dal 1973). Più che la scomparsa del sommo giurista, maestro di generazioni di studiosi, fu proprio l'apparizione di questo suo massiccio e attesissimo opus postumum a riaprire con forza il dibattito teorico sulla possibilità e sui limiti della teoria generale del d. come disciplina rigorosamente scientifica e autonoma, rispetto sia alle contigue prospettive delle diverse scienze umane interessate al fenomeno d. (dalla sociologia all'antropologia, dalla politologia alla psicologia), che alla grande e antica tradizione giusfilosofica.

Nella Allgemeine Theorie der Normen Kelsen, con la sua consueta e ben nota onestà intellettuale, arrivava di fatto a realizzare un'inversione di rotta epocale, una sorta di svolta copernicana rispetto alle sue posizioni più conosciute, dissolvendo completamente il logicismo che aveva caratterizzato, si può dire fin dagli inizi, la sua dottrina. Il desiderio di assoluta rigorizzazione scientifica del sapere giuridico − come sapere assolutamente ''normativo'', completamente depurato cioè, da ogni tentazione ''cognitivistica'' − ha infatti indotto l'anziano studioso a esasperare il carattere deontologico del d. e a rescindere di conseguenza ogni pur minimo nesso con l'ordine dell'essere. In tal modo la dottrina kelseniana viene di fatto a sfociare in un volontarismo giuridico radicale, che lo stesso Kelsen ha riassunto nel principio: kein Imperativ ohne Imperator, non esiste imperativo senza un ''imperatore'': principio che va inteso non nel senso debole, per il quale è necessario ai fini di conoscibilità e di applicabilità delle norme di d. la presenza e l'attività di un'autorità sovrana cui ne sia demandata la promulgazione e la promozione, ma nel senso forte, per il quale qualunque dimensione del ''giuridico'' dipende di fatto da una volontà in nessun altro modo sondabile, giudicabile o sanzionabile, se non con criteri autoreferenziali. Nemmeno le più elementari istanze logiche possono essere utili, per l'ultimo Kelsen, a fornire criteri di giustificazione della produzione giuridico-normativa. Dopo una lunga riflessione sui possibili fondamenti logici del d., e accanite discussioni con uno dei maggiori studiosi di logica giuridica, U. Klug (la cui Juristische Logik del 1951 è stata più volte ristampata fino alla quarta edizione del 1982), Kelsen è giunto infatti al convincimento dell'impossibilità di costruire una logica deontica in generale e giuridica in particolare; o comunque dell'impossibilità di fare della logica una disciplina sussidiaria della scienza giuridica. Kelsen, insomma, si è convinto dell'inapplicabilità della logica al d.: se infatti la logica studia, ricostruisce o detta le leggi del pensiero, non può ipotizzarsi una sua operatività nell'ambito di un sistema normativo, come quello giuridico, che ha a che vedere, non col mero pensiero, ma unicamente con la dinamica della volontà. Nella fondazione volontaristica del d. sembrano comporsi in definitiva le due più antiche istanze del sistema kelseniano, quella formalistica e quella realistica (che del resto Kelsen aveva sempre tenuto assieme − come giustamente ha osservato Bobbio − non senza notevoli ambiguità), ma si compongono a un prezzo ben caro: riproponendo, di fatto, l'assioma hobbesiano auctoritas, non veritas facit legem e omologandosi alle teorie decisioniste elaborate in ambito più specificamente politologico da C. Schmitt.

Le analisi e i dibattiti che hanno accompagnato l'Allgemeine Theorie der Normen di Kelsen e lo ''scandalo'' che questo libro ha suscitato dimostrano come, ancora una volta, il pensiero del grande maestro abbia saputo individuare uno dei punti nevralgici della riflessione contemporanea sul giuridico. Quella che viene infatti in discussione nell'ultimo Kelsen non è una riformulazione accurata della sua ''dottrina pura del diritto'', quanto la stessa possibilità di principio di costruire una ''teoria generale del diritto'' in quanto tale, intesa cioè non come mero sistema empirico di catalogazione e studio dei concetti giuridici generali, ma come organico strumento epistemologico di conoscenza di uno specifico settore del reale come quello del ''giuridico''. Non c'è dubbio infatti che rispetto alle altre scienze umane, dalla sociologia all'antropologia alla psicologia − scienze dallo statuto anche se discutibile, comunque fondato su concrete e quindi univoche dimensioni fattuali dell'esperienza −, la scienza giuridica in generale e la teoria generale del diritto in particolare sembrano venir poste, dall'ultimo Kelsen, di fronte a un'alternativa: o confermare il loro statuto di discipline normative e battersi quindi per un fondamento epistemologicamente forte (anche al prezzo di restare avviluppate in un fondamentale irrazionalismo) o, per evitare quest'ultimo esito, spostare lentamente la loro attenzione verso la dimensione non normativa, ma per l'appunto fattuale del sapere che costituisce il loro oggetto e riaprirsi di conseguenza a quegli studi sociologici, politologici, etico-sociali, e last but not least, filosofici del d., che Kelsen aveva sempre ritenuto marginali per la comprensione del giuridico.

Alla prima di queste due strade alternative va ascritto il rinnovato sforzo di studi che si è avuto nel campo della logica deontica. Una nutrita serie di cultori (basterà citare i nomi di G. Kalinowski in Francia, A. Wroblewski in Polonia, I. Tamnselo in Australia prima e in Austria poi, A. Conte e G. Carcaterra in Italia), ben poco portati a condividere l'ostilità kelseniana verso questa disciplina, l'ha portata negli ultimi anni a notevoli livelli di raffinatezza critica (al punto che si può ritenere che i più significativi progressi recenti della logica in generale si siano avuti proprio nel capitolo dedicato alla deontica). Difficilmente però può ritenersi superata la difficoltà, già avvertita da tempo con la consueta lucidità da Bobbio, di far convergere lo studio della logica deontica in uno studio specificamente giuridico, di far coincidere cioè le categorie della deontica con quelle effettivamente utilizzate dai giuristi nel loro lavoro quotidiano. Il rischio della deontica resta insomma quello di costruire una teoria irrilevante per la prassi e di considerare a sua volta la prassi irrilevante per la teoria. Una possibile riprova di quanto sia fondato questo rischio l'abbiamo se prendiamo in considerazione un ambito, come quello dell'informatica giuridica, in cui maggiore dovrebbe manifestarsi l'influenza del sapere deontico e che più di ogni altro dovrebbe valersi delle sue acquisizioni. L'informatica giuridica, se da una parte sta conoscendo in questi ultimissimi anni un vorticoso sviluppo (in Italia vanno ricordati l'opera pioneristica di V. Frosini, Cibernetica, diritto e società, 1968, e i corsi di M. G. Losano, ultimamente riassunti in Informatica per le scienze sociali. Corso di informatica giuridica, 1985), dall'altra sembra, però, ancora lontana dal costituire un modello epistemologico non solo scientificamente consolidato, ma soprattutto condivisibile dalla generalità degli operatori giuridici.

Le difficoltà di principio che incontra lo studio della logica deontica induce molti teorici del diritto a esplorare le possibilità di costruire teorie che, senza rinunciare ai più recenti apporti di questo indirizzo, sappiano però valorizzare le dimensioni sociali del d., indebitamente trascurate da Kelsen e dalla sua scuola. Il problema sembra quindi diventare quello di porsi alla ricerca di una terza via, che consenta l'elaborazione di dottrine semanticamente miste. La cultura giuridica anglosassone ha fornito, grazie anche all'insegnamento di H. L. A. Hart, numerosi esempi di tentativi di tal genere, ripresi più di recente anche dalla dottrina tedesca: notevole in tal senso lo sforzo teoretico posto in essere da O. Weinberger, che cerca di coniugare le esigenze del normativismo con una puntuale attenzione alle dimensioni istituzionali del d. (cfr. da ultimo Norm und Institution. Eine Einführung in die Theorie des Rechts, 1988). Al pensiero di Weinberger va ricollegato quello dello scozzese D. N. MacCormick (i due studiosi hanno significativamente deciso di pubblicare assieme, sotto il titolo Grundlagen des Institutionalistischen Rechtspositivismus, 1985, un'importante raccolta di saggi).

Le dottrine del d. meno sensibili ai problemi logici ed epistemologici non hanno invece avuto alcuna difficoltà a vedere negli esiti concettuali dell'ultimo Kelsen una conferma della correttezza delle loro impostazioni e un ulteriore incentivo ad allontanarsi con decisione da ogni formalismo aprendosi a un serrato dialogo con le scienze umane e in particolare con la riflessione politica e sociologica. In questa direzione si è avuta negli anni Settanta una breve, ma intensa stagione, nella quale si è cercato di proporre un ''uso alternativo del d.'' (l'espressione, che ha avuto una grande fortuna, deriva dal titolo di un convegno ospitato dall'università di Catania e i cui Atti, intitolati appunto L'uso alternativo del diritto, sono stati pubblicati in due volumi nel 1973). Si è trattato in definitiva di un tentativo di rinvigorire l'ormai esangue riflessione marxista sul d. con interessanti apporti di matrice eterodossa (primi tra tutti quelli della scuola di Francoforte).

Nella prospettiva marxista tradizionale il d. veniva comunemente letto come sovrastruttura borghese, apparentemente neutrale da un punto di vista politico, ma di fatto strettamente funzionale agli interessi delle classi dominanti, e quindi da combattere e da superare da parte delle forze progressiste; nelle diverse forme di marxismo giuridico fiorite negli anni Settanta si è cercato invece d'ipotizzare una funzione positiva del d., come struttura in grado, se opportunamente utilizzata (attraverso cioè l'abbandono intenzionale e consapevole del valore giuridico tradizionale della terzietà e dell'apoliticità del giudice), di salvaguardare gli interessi delle classi dominate e capace di contribuire in tal modo a un rinnovamento radicale della struttura sociale generale e, al limite, di favorire una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Una brillante sintesi di questo indirizzo, che trova le sue radici in Rechtswissenschaft di R. Wiethölter (1968; trad. it. Le formule magiche della scienza giuridica, 1975), l'abbiamo, per quel che riguarda la dottrina italiana, nel Dizionario critico del diritto, curato da C. Donati (1980).

La stagione dell'''uso alternativo del d.'' si è però rivelata di fatto tanto intensa intellettualmente, quanto significativamente breve: il d. ha offerto una dura resistenza a tutti i tentativi di riformularlo e utilizzarlo in chiave esplicitamente politica, al di là, se non addirittura contro, la sua struttura specifica. Il che ha costituito una riconferma obiettiva dell'irriducibilità del d. alla politica o, se così si preferisce dire, del suo carattere strutturale e non sovra-strutturale. Di questa rinnovata consapevolezza hanno tratto vantaggio sia le più recenti letture sociologiche del d., che hanno trovato in N. Luhmann un autentico caposcuola (Rechtsoziologie, 1972; trad. it., 1977; Rechtssystem und Rechtsdogmatik, 1974; trad. it., 1978), sia le nuovissime prospettive dell'ermeneutica giuridica, che trovano le loro radici nella cultura tedesca contemporanea, in quella però sensibile più che alla via dell'indagine fenomenologica ''alla Husserl'', alla sua rilettura esistenziale ''alla Heidegger''.

Rispetto alla tradizionale teoria dell'interpretazione, disciplina dai forti connotati oggettivistici, tutta interna alla scienza giuridica, e in genere aliena da suggestioni filosofiche, il nuovo indirizzo ermeneutico pretende di portare anche nell'ambito dell'esperienza giuridica l'istanza di fondo della svolta ermeneutica del pensiero contemporaneo: ''esistere è interpretare''. Non si dà interpretazione del mondo, in nessuna delle sue dimensioni, se non a partire da una precomprensione, attraverso la quale l'interprete non solo si rapporta al mondo, ma ne individua altresì le dimensioni ritenute rilevanti. L'opera che più ha ispirato i cultori di questo nuovo indirizzo è Wahrheit und Methode di H. G. Gadamer (1965; trad. it., 1972). Questo libro, uno dei maggiori testi della filosofia teoretica del dopoguerra, contiene altresì pagine essenziali dedicate all'ermeneutica giuridica, nelle quali sono messe a frutto e vivacemente discusse le prospettive ermeneutiche di E. Betti (la cui opera principale, Teoria generale dell'interpretazione, 2 voll., 1955, è apparsa in trad. tedesca, a cura dello stesso Betti, col titolo Allgemeine Auslegungslehre als Methodik der Geisteswissenschaften, 1967). In tal modo l'ermeneutica giuridica si è rapidamente costituita come un nuovo e generalissimo indirizzo epistemologico, esplicitamente orientato a superare l'incapacità della giurisprudenza di considerarsi e funzionare come teoria della prassi giuridica. Nella prospettiva ermeneutica, sviluppata in particolare da A. Kaufmann (di cui possiamo ricordare i recenti Beiträge zur juristischen Hermeneutik, 1984) e da W. Hassemer (curatore tra l'altro del volume collettaneo Dimensionen der Hermeutik, 1984), viene di conseguenza ridefinito il concetto di positività del d.; le norme non sono più intese come meri enunciati prescrittivi, ma come la sintesi di due fattori inseparabili: l'enunciato linguistico del legislatore e la sua interpretazione da parte della giurisprudenza. Il problema giuridico fondamentale diviene quindi quello della individuazione del d., operazione complessa, per la quale il mero riferimento alla volontà del legislatore − anche se imprescindibile − appare semplicisticamente riduttivo, dato che lo spazio che necessariamente tocca all'interprete è altrettanto rilevante di quello che spetta al legislatore (testo di riferimento essenziale al riguardo è quello di J. Esser, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, 1972; trad. it., 1983). La politica del d. cessa in tal modo di collocarsi in un ambito extra-scientifico, abbandonato all'arbitrio del legislatore e comunque della prassi, e viene ad acquistare un nuovo e più rigoroso statuto conoscitivo.

Bibl.: A. Verdross, Statisches und dynamisches Naturrecht, Friburgo i.B. 1971; J. Esser, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, Francoforte sul Meno 1972 (trad. it., Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Camerino 1983); N. Luhmann, Rechtssoziologie, Reinbek bei Hamburg 1972 (trad. it., Bari 1977); Id., Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Stoccarda 1974 (trad. it., Bologna 1978); AA. VV., La filosofia del diritto in Italia nel secolo XX, Atti dell'xi Congr. nazion. della Società italiana di Filosofia giuridica e politica, 2 voll., Milano 1976; R. Dworkin, Taking rights seriously, Cambridge (Mass.) 1977 (trad. it., Bologna 1982); H. Kelsen, Allgemeine Theorie der Normen, Vienna 1979 (trad. it., Torino 1985); J. Finnis, Natural law and natural rights, Oxford 1980; J. Hervada, Introducción critica al derecho natural, Pamplona 1981; A. Kojève, Esquisse d'une phénoménologie du droit, Parigi 1981 (trad. it., Milano 1989); S. Cotta, Filosofia del diritto, in AA.VV., Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Milano 1982, pp. 627-53; U. Scarpelli, Filosofia e diritto, in AA.VV., La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Napoli 1982, pp. 173-200; AA.VV., Das Naturrechtsdenken heute und morgen, Berlino 1983; J. Maritain, Nove lezioni sulla legge naturale, Milano 1985; S. Cotta, Il diritto nell'esistenza, ivi 1985; V. Mathieu, Luci ed ombre del giusnaturalismo, Torino 1988; J. Lampe, Grenzen des Rechtspositivismus, Berlino 1988; AA.VV., L'indirizzo fenomenologico e strutturale nella filosofia del diritto italiano più recente, a cura di F. D'Agostino, Milano 1988; G. Fassò, La filosofia del diritto dell'Ottocento e del Novecento, Bologna 1988.

Storiografia. - Il periodo di tempo intercorrente tra le due guerre mondiali, che cambiò l'aspetto del mondo e il volto della civiltà, corrispose a un mutamento profondo delle idee fino ad allora dominanti del positivismo giuridico, sancì la distinzione tra Stato e società, assistette all'affermazione e allo sviluppo del d. internazionale, contestò la validità dei sistemi giuridici tradizionali. Tutto questo non è accaduto senza ripercussioni sulla storiografia giuridica, anche se è rimasto il torpore che è proprio di quest'aspetto della conoscenza storica in Italia, derivante dalla persuasione che la filologia e l'erudizione siano sufficienti a esprimere quanto la storia detta all'animo e all'intelletto, che siano una sorta di antidoto alle emozioni, un modo di vedere le cose sempre uguale a se stesso, lontano dai problemi generali dell'uomo e soltanto formato da ricerche lessicali, testuali o puramente razionali. Per la stessa ragione gli storici del d. hanno in Italia per lungo tempo trascurato la teoria e anche la storiografia della loro disciplina, considerata come un'attività inutile. Eppure alle origini moderne di questo aspetto della conoscenza storica, nei primi decenni del sec. 19°, erano state enunciate idee fondamentali e rivoluzionarie, l'opposizione al d. naturale, la storicità del d. e il conseguente, intimo rapporto tra il d. e la storia.

Il mutamento avvenuto nella storiografia giuridica tra le due guerre non fu brusco, non ebbe nulla di quanto accadde contemporaneamente nella storiografia politica per effetto della filosofia idealistica. E tuttavia, se si confrontano i problemi che nel periodo anteriore costituirono l'oggetto della ricerca e le idee generali che l'animarono, derivanti dal Risorgimento, non solo come volontà di descrivere la storia del d. in Italia quale storia unitaria, ma anche come adesione a quanto era stato compiuto dalla scienza storica e giuridica tedesca sotto l'aspetto filologico e sotto quello sistematico e dogmatico della identificazione di un d. nazionale (si ricordino i discorsi di Th. Mommsen, il più rilevante dei quali è quello di Lipsia del 1848, e di H. Brunner all'università di Berlino del 1877, entrambi derivanti dalla scuola storica, e opposti sul modo di realizzare, sul fondamento romano o germanico, l'unità sistematica del d.), ben poco era sopravvissuto nella nuova generazione degli storici del diritto. Le polemiche tra F. Schupfer e N. Tamassia avevano fatto il loro tempo, anche se l'attenzione per l'alto Medioevo era ancora predominante. Le vecchie tesi, relative alla prevalenza dei d. germanici in Italia o alla continuità di istituti romani, entrambe il risultato di interpretazioni generali dei caratteri assunti dal d. in Italia prima del rinascimento bolognese, erano ormai superate. Per quanto l'eco di quegli insegnamenti rimanesse, nuovi interessi affiorarono; e, soprattutto, si offuscò la ricerca dello spirito del d. in Italia nel Medioevo e prevalsero gli studi rivolti a chiarire gli aspetti particolari di problemi già posti, e si passò dalla lente d'ingrandimento al microscopio. Le fonti, che erano state oggetto di particolare attenzione nella storiografia giuridica tedesca tra il sec. 19° e il 20°, e che erano state studiate nel nostro paese da tutti gli storici del d., furono posposte ad altri argomenti. La nota comune rimase la filologia giuridica, ma lo stile intellettuale fu completamente diverso.

Si pensi all'esposizione fredda e quasi schematica e peraltro di altissimo livello, che il maggiore degli allievi diretti di Tamassia, G. Ferrari dalle Spade (1885-1943), ha offerto su temi ardui come il parallelismo dei documenti greci medievali dell'Italia meridionale, dell'Oriente bizantino e greco-egizi, sul d. romano volgare, sulle formule notarili, sul d. ereditario in Occidente, sul documento privato nell'alto Medioevo e i suoi presupposti classici, e via di seguito. Studi nei quali si avvertiva qualche suggerimento del maestro, ma dove prevaleva una maggiore organicità potenziale, la volontà di trattare aspetti che avrebbero potuto comporsi in una trattazione generale in contrasto con l'ispirazione tanto vivace ma un po' rapsodica di Tamassia.

Se dallo Studio di Padova, così ricco di ispirazioni originali e che aveva annoverato grandi nomi, come E. Besta, allievo di A. Pertile, ma ben presto affascinato dalla dottrina di Tamassia, poi il Ferrari e, contemporaneo di Besta, ma incline a vedere piuttosto nello Schupfer la propria guida ideale, P.S. Leicht, si volge l'attenzione all'ambiente lombardo, di Pavia e di Milano, si ha la sensazione che i semi coltivati a Padova fossero caduti in un terreno del tutto diverso, con una metodologia lontana da quella diffusa da storici come P. Bonfante e B. Croce, G. De Sanctis e G. Volpe. Allora, come non tutte le città del mondo erano uguali, così i centri dell'attività intellettuale avevano caratteristiche peculiari. E a Milano, dominata per la storia del d. dalla figura di Besta, in quegli anni di estrema maturità attratto dalla storia del d. pubblico, interlocutore critico della Italienische Verfassungsgeschichte di E. Mayer, prevaleva un'estrema analiticità nella ricerca, che scopriva particolari nuovi e insospettati e che si legava alle opere degli svizzeri K. Meyer e P. Schaefer. G. P. Bognetti, che si era laureato con A. Solmi a Pavia discutendo una tesi Sulle origini dei comuni rurali nel medio evo, aveva poi perfezionato i risultati raggiunti in quella eccezionale dissertazione sotto la guida di Besta. La tesi di laurea divenne così l'opera a stampa, pubblicata nel 1926-27; e, dotata di un'originalità confortata da una cultura generale e specifica solidissima che dal Medioevo risaliva fino agli antecedenti preromani del territorio, con risultati che segnavano un enorme progresso sulle indagini precedenti (si veda, per es., quella di G. Mengozzi, Il comune rurale del territorio lombardo-tosco, anch'essa ispirata dal Solmi, che è del 1915), non poteva non suscitare delle obbiezioni. La ''continuità'', che era stavolta documentata ma anche limitata a un ambito specifico, provocò una recensione da parte di un illustre storico tedesco, F. Schneider, che aveva pubblicato nel 1914 un lavoro, Reichsverwaltung in Toscana von der Gründung des Langobardenreiches bis zum Ausgang der Staufer (568-1268), ed aveva poi fatto seguire a quello un altro volume nel 1924, dal titolo Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien. Il loro oggetto, esplicito fin nel titolo, si proponeva di chiarire alcuni aspetti della storia del territorio in relazione alle terre comuni degli insediamenti arimannici e all'identificazione toponomastica delle farae. Schneider voleva raggiungere con questo metodo risultati di grande portata, che egli aveva riassunto in un articolo pubblicato negli scritti in onore di F. Oppenheimer nello stesso anno, e intitolato Zur sozialen Genesis der Renaissance. Le conclusioni di una ricerca puntuale e condotta con estrema positività si convertivano in un'interpretazione generalizzante e arbitraria, nella tesi che la libertà delle città comunali italiane e il Rinascimento che ne fu il prodotto si fossero verificati soltanto sul suolo occupato dagli invasori longobardi. Nella prefazione al suo secondo volume, Schneider ribadiva la sua convinzione. Il periodo nel quale, da qualche decennio, si riteneva di poter derivare da ricerche filologiche a carattere analitico conclusioni rispondenti alla soluzione generale di problemi storici complessi, agiva anche nel caso dello storico-giurista tedesco, e nascondeva la persuasione, allora assai diffusa oltr'Alpe, della superiorità della nazione tedesca e della sua capacità di creare la civiltà nei paesi conquistati. Di questa mentalità, da tesi teorica divenuta prassi politica, l'Europa e il mondo intero dovettero fare l'esperienza che tutti sappiamo.

Bognetti, che aveva recensito l'opera di Schneider nel 1925, ne aveva ricevuto a sua volta una recensione fortemente critica nel 1928, alla quale egli rispose, ribadendo le tesi già sostenute. L'opera dello studioso tedesco conteneva in realtà un errore storiografico di fondo, avendo egli dedotto dalla constatazione di una continuità tra insediamenti longobardi e comuni italiani una conclusione politica ed etica come la libertà. Bognetti, del resto, divenne il maggiore storico dei Longobardi che l'Italia annoverasse, e non solo quindi del d. longobardo, anche se è fondamentale il significato che la sua opera ha avuto nel modo d'intendere la storia di quel d., dei suoi metodi e limiti. Dopo numerose ricerche particolari, Bognetti, prendendo lo spunto dalla scoperta della cappella di Santa Maria di Castel Seprio in Valtellina, i cui affreschi egli attribuì ad artisti siriaci del 7° sec., scrisse un lavoro fondamentale, S. Maria foris portas di Castel Seprio e la storia religiosa dei Longobardi (1948), nel quale la storia politica, civile e religiosa di quel popolo era organicamente unita alla storia del loro d. in Italia. Bognetti era dunque pervenuto, secondo il suo metodo, da un particolare, da ''uno spiraglio'' com'egli usava dire, a una grande visione conclusiva nella quale il d. diveniva, da oggetto di considerazioni tecniche, un elemento integrante della storia nel suo complesso. E questo fu un fatto importante, perché il d. veniva considerato uno degli elementi della storia nel suo insieme, della ''storia etico-politica'', come Croce, nel suo tormentato pensiero intorno a questo tema, la definì.

Questo chiamare il d. a comporre il quadro di una civiltà non è però storia giuridica, che intesa rettamente, fuori dagli schemi usuali o dai limiti necessari agli studi particolari e preparatori, dev'essere storia che si propone di chiarire non soltanto ''come'' si sia svolto il d., ma anche ''perché'', essendo proprio questi due aspetti della realtà il modo col quale essa di volta in volta si presenta e le ragioni per le quali muta, inseparabili da una storia degna di questo nome. Ma non è neppure ''sociologia giuridica'', perché lo scopo di questa non è d'interpretare il d. nel suo divenire, ma di usarlo come elemento strutturale della ''società'', attraverso tipizzazioni e astrazioni. Si potrebbe qui richiamare un esempio lontano e illustre, la Storia di Roma antica di Mommsen, di cui la recente critica storiografica ha alquanto sminuito l'importanza per la sua dipendenza dalla letteratura anteriore, ma che giustamente F. Wieacker considera tuttora un'''opera straordinaria''. In essa, come si sa, l'impostazione giuridica dell'autore, fondamentale per giudicare anche la sua produzione successiva, aveva posto il d. come un aspetto essenziale della storia civile di Roma, accanto alla politica e all'economia. Neppur questa era sociologia, ma storia, per quanto si dividesse equamente tra quei vari aspetti, e quasi fosse, secondo moderne teorie, un'opera ''aperta'', nella quale l'interpretazione era lasciata al lettore, ma fosse anche implicitamente suggerita dall'autore come una sintesi della civiltà romana e del suo spirito.

A proposito dell'opzione per il d. pubblico e di una considerazione di quella branca del d. con una forte accentuazione della storia politica, si deve ricordare anche G. De Vergottini, appartenente alla numerosa scuola di F. Brandileone e che E. Buonaiuti considerava nel 1938 il ''migliore'' degli storici giuristi della generazione allora giovane. E certo la sua opera precoce, Lineamenti storici della costituzione politica dell'Istria durante il Medio Evo, che Besta riteneva un capolavoro (1924-25), è un notevolissimo esempio di storia del d. pubblico riferito a una singola regione. A questo seguirono altri lavori importanti sulla legislazione imperiale di Federico ii in Italia (1952), sullo Studio di Bologna, l'Impero e il Papato (1956), le Lezioni (1ª ed., 1950 e 1953) e, finalmente − e si tacciono i molti contributi monografici − un volume di storia politica, La rinascita politica medievale (1961), tuttavia connessa con un periodo essenziale per la storia del diritto.

Bisogna ora domandarsi, prima di approdare ad altre sponde, quale sia il significato di quell'allontanamento dalla storia giuridica di non pochi storici del d. in età matura, come C.G. Mor con i due volumi sull'età feudale (1952), nei quali la trattazione del feudo come istituto è al centro di capitoli storico-politici o dedicati all'ordinamento imperiale delle città, della Chiesa e anche della vita sociale ed economica e della cultura e dell'arte, e G. Cassandro col volume sul Ducato bizantino, che è un'intelligente ricostruzione della storia di Napoli dal sec. 7° fino all'età normanna, dove la storia del d. riappare di scorcio, come documento addotto a illustrare la vita politica. Questo oltrepassare i confini delle vicende del d. per considerarle in qualche modo in un più ampio contesto, non ha per motivo l'inclinazione verso il d. pubblico, dal quale il passaggio alla storia politica era più agevole, ma ragioni più profonde e generali, nonostante il diverso temperamento degli autori nei quali questo sconfinamento si è prodotto. E aveva anche precedenti illustri in primo luogo in F. Patetta, che dopo poco più di un decennio intensissimo, dedicato a perseguire risultati fondamentali nello studio delle fonti manoscritte dall'alto Medioevo fino al sec. 12°, in vista di una storia del d. romano nel Medioevo purtroppo rimasta nelle intenzioni, spaziò poi, da grande umanista qual era, da Bramante a P. Rossi, da V. de Prioribus alle lettere di Carlo Alberto del 1848. Non si azzarda un giudizio temerario se, guardando ai fatti e lasciando da parte le intenzioni, si afferma che questi erano segni di stanchezza di un'attività faticosa, sospesa tra d. romano e d. medievale, tra indagini sui manoscritti e sintesi rischiose, senza mai trovare l'appagamento di risultati che oltrepassassero la tecnica e dessero la sensazione di essere usciti dalle carte ed entrati nella vita dell'uomo.

E tuttavia vi sono atteggiamenti opposti a questi dubbi impliciti, che corrispondono alla convinzione dell'autonomia del d., produzione intellettuale di una tecnica, fatto definito da quella qualificazione specifica, spontanea o dotta che sia. E questi coincidono con la propensione storico-giuridica verso il d. privato, immenso campo di esperienze promosse dalle condizioni della società e dell'economia, a lor volta connesse con le istituzioni politiche. Ma chi si occupa dello studio fondamentale di quelle figure giuridiche e di quelle norme collegate con le condizioni storiche, lo fa togliendo a modello gli schemi della dogmatica e, fondandosi sulle sue categorie di cui si postula l'immutabilità, ne registra i mutamenti, pago di analizzare la struttura degli istituti, le loro variazioni e il succedersi di norme nuove in luogo delle vecchie, e sostenendo che quella è la vera storia del d., non inquinata da considerazioni di altra natura. I problemi connessi a una vera storicizzazione del d. privato sono però molto complessi, dovendosi tener conto da un lato dello svolgimento delle dottrine giuridiche, dall'altro dei rapporti che queste dottrine hanno avuto con la società e con gli atteggiamenti dominanti nella cultura coeva, scandendone i tempi che sono di lungo, di medio e di breve periodo, a seconda della recettività delle istanze sociali da parte della dottrina. Ma occorre anche identificare i tempi morti, nei quali il pensiero giuridico si adagia sulla tradizione e ripete se stesso, o costruisce strutture ingegnose ma lontane dalla realtà, dalla quale perciò la scienza giuridica si distacca, mentre la necessità fronteggia per suo conto i bisogni reali e, come un fiume ostruito da una frana supera l'ostacolo dividendosi in mille rivoli. Di una storia del d. di questo genere non sembra esservi ancora un esempio. E per citarne invece uno particolare e contrario, si può ricordare la famosa questione del d. volgare, considerato nel periodo tardo imperiale o nel Medioevo, di cui molto e molto dottamente si è scritto, ma senza che quel fenomeno di allontanamento dal d. ufficiale, di adattamento ai bisogni e di corruzione del d. dotto fosse mai accompagnato dalla descrizione della realtà sociale, economica e politica che quel fenomeno aveva prodotto.

Il problema dell'ermeneutica giuridica, che si propone di definire il rapporto intercorrente tra i concetti giuridici del presente e quelli del passato, è stato considerato esclusivamente come analisi del contenuto logico-giuridico delle costruzioni dogmatiche del passato, concepite come entità autonome, sia che si giunga alla loro interpretazione e definizione attraverso la comparazione esplicita o tacita con quelle del presente, sia che quelle del presente vengano assunte come strumento ermeneutico per penetrare il significato delle strutture logiche anteriori. Questa analisi prescinde da qualsiasi indagine sulle ragioni storiche che hanno, direttamente o indirettamente, promosso quelle costruzioni nel passato così come la scienza dogmatica fa per il presente, e costituisce una volta di più una chiusura del d. come tecnica, dotato di una sua ''storia'' autonoma, di fronte alla storia nella sua totalità. E. Betti, che è stato in Italia l'eminente rappresentante di quell'impostazione speculativa, ritenne di dover affermare l'esistenza di una scala gerarchica tra le varie storiografie. Di fronte alla "storiografia in generale, che fa appello alle comuni categorie economico-etiche e di esse si appaga, come di un minimum psicologico sufficiente a chiarire la logica delle azioni", ci sarebbe una ''storiografia di grado superiore'', appunto la storiografia giuridica, che si varrebbe dell'istrumentario concettuale della dogmatica che, come è indispensabile all'interpretazione direttiva della condotta, è altresì rispondente a una esigenza tecnica della storiografia giuridica; il che varrebbe a farne una storiografia superiore, analogamente a quella dell'arte, della lingua, della letteratura, della scienza, delle istituzioni e strutture economiche e degli ordinamenti sociali. E la ragione per la quale la storia del d. si troverebbe in questa buona, ma piuttosto eterogenea compagnia, sarebbe il fatto che "in tutte codeste oggettivazioni della spiritualità sul piano della comunione umana il fatto storico non si limita ad essere semplicemente un fatto individuale di date personalità, fatto che accade in certe condizioni di tempo e di luogo, ma è tale da avere in sé un valore spirituale, la cui coerenza intrinseca e continuità con altri valori affini è da intendere anzitutto in se stessa, nel suo aspetto oggettivo, nel suo stile e 'logos', indipendentemente dalle contingenti circostanze storiche del suo realizzarsi, come anche dalla pura relazione cronologica del prima e del poi". Questa affermazione di una superiorità della storia giuridica è il risultato di un equivoco generato dall'identificazione che Betti fa della storia del d. con il d. come astrazione. La storia, se veramente storia è, ha la sua eticità nella ricostruzione e interpretazione del passato e non consente la superiorità di uno degli aspetti sotto i quali può essere pensata.

Le perplessità provocate dalla storia del d. come storia dogmatica sono state espresse in Germania da O. Brunner. Anch'egli ha sentito il disagio della storia giuridica come storia di pensiero astratto in quegli anni così significativi compresi approssimativamente tra il 1934 e il 1950, il Wendepunkt, per dirla con B. Windscheid, nel modo di intendere la storia giuridica. Ma gli esiti furono diversi, a testimonianza che, individuato il punto dolente, la soluzione era di grande difficoltà, imbrigliata nei sistemi del pensiero, non giuridici questa volta, ma filosofici e gnoseologici. La soluzione era ed è ancora diversamente intesa, sospesa tra l'intrico dei concetti e delle inclinazioni personali, che nei confronti della storia del d. si risolverebbero nel suo abbandono. Reagendo giustamente alla storia giuridica come storia dogmatica, Brunner propose la soluzione sociologica, che ha radici antiche nella Storia romana di Mommsen e la sua espressione più compiuta nel capolavoro di M. Weber. Ma il problema, per quanto riguarda la storia giuridica, non è di abbandonarla perché storia dogmatica, ma di capire la storia attraverso la storia generale di volta in volta per quella significante. Se il d. in quanto tale ha ancora valore per la civiltà, spiegare la sua genesi attraverso tutte le componenti della storia che hanno contribuito a generarlo è ancora un fine meritevole di attenzione; e proprio la coscienza dell'umano, che scaturisce dalla storia, esorcizza e risolve quella contraddittoria storia dogmatica che non bisogna però abbandonare con un'opera di distruzione e di rinuncia. La soluzione del Brunner, questa mediazione tra storia generale e storia speciale con lo scopo di giungere a una storia che non sia più storia politica, del diritto, dell'economia e via dicendo, ma ''storia'' soltanto, comprensiva di tutto quanto è avvenuto, del come è avvenuto e del perché, è una vecchia e nobile illusione. Fatalmente avviene che, nel tentativo di trasformarla in realtà, di volta in volta si fa o della storia politica, nella quale siano considerati gli aspetti giuridici, economici, intellettuali e via dicendo, o della storia economica nella quale quei diversi aspetti riaffiorano, o della storia giuridica che tenga conto di quei diversi modi di pensare gli eventi e di descriverli o, come nel caso di Brunner, della storia sociale. Le storie speciali, cioè quelle che hanno un fine determinato da ricostruire, riaffiorano nella storia generale, anche se questa ricomparsa avviene in modi diversi, per es. col prevalere in una stessa opera ora della politica, ora dell'economia, ora del d., ora della filosofia, o infine della società.

A questo punto il pensiero corre all'opera di G. Astuti, autore di molti volumi e di saggi numerosissimi, tutti ispirati da un rigoroso positivismo critico e da una dogmatica che egli padroneggiava su solidi fondamenti romanistici e che sono di grande interesse proprio per chi sostenga posizioni storiografiche opposte. Vale la pena di riferirsi a una sua pagina significativa, ricca di convinzione e di passione, che attesta come Astuti non seguisse supinamente un metodo di lunga tradizione e però ai nostri occhi ormai sfiorito, ma lo seguisse con meditazione profonda. La pagina fa parte della sua trattazione sui Contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, ed è del 1952: "Senza naturalmente presumere di atteggiarci a critici di posizioni speculative, digiuni come siamo di ogni alta filosofia, ci limiteremo semplicemente ad osservare che tutte le nostre esperienze personali nel campo delle indagini storico-giuridiche ci abbiano condotti a ritenere pur sempre valido, utile e fecondo l'abito metodico proprio degli antiquari, eruditi e storiografi d'ogni tempo, mossi alla ricerca e allo studio delle testimonianze del passato dalla sete di conoscerne la effettiva realtà, dall'amore per la storia, che non è mera curiosità di anticaglie, ma pietà di cose vecchie e morte, religione delle memorie dei tempi lontani di cui siamo i troppo inconsapevoli eredi. Questo atteggiamento di fronte alla realtà storica, questo culto del nostro passato, animato da fede profonda nella possibilità di una ricostruzione ed esposizione obbiettiva dei fatti storici, anche se inevitabilmente parziale e frammentaria, non implica già disconoscimento della soggettività intrinseca a ogni attività di pensiero, e quindi anche all'accertamento dei fatti, per quanto compiuto secondo i canoni della più rigorosa e corretta critica filologica. Ma esso conduce ad una salutare diffidenza verso le valutazioni e interpretazioni più o meno filosofiche, che ci sono suggerite da contingenti interessi spirituali o materiali, dalla presunta razionalità delle nostre fedi ideologiche come dalla dimenticata irrazionalità delle nostre passioni: e ci fa quindi utilmente riflettere sul carattere arbitrario di un'attività critica o interpretativa che pretenda di scegliere, spiegare, giudicare i fatti della storia con soverchia indipendenza, per i fini ed interessi estranei o trascendenti i fatti medesimi, in malinteso ossequio ad esigenze problematiche o di pensiero".

C'è di che rimanere perplessi. Questo attacco si suppone rivolto alla storiografia d'ispirazione idealistica; e, poiché essa è considerata in toto e non v'è altra identificazione, bisogna pensare che le destinatarie siano, in primo luogo, la Storia del regno di Napoli, la Storia dell'età barocca e la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 di B. Croce. Oppure Astuti intendeva riferirsi a qualche modesto epigono nei confronti del quale, tuttavia, doveva criticarsi un'opera specifica e non un metodo così autorevolmente formulato e largamente accettato? E se, come la logica impone, non del secondo caso, ma del primo si trattava, certamente anch'esso discutibile come ogni prodotto dell'umano pensiero, bisogna obbiettare che ogni storico degno di questo nome ha amore per la storia; e che forse le obbiezioni che farebbe sarebbero rivolte a quelle ''cose vecchie'', che si preferirebbe dire ''antiche'' e a quella ''effettiva realtà'', che non è in natura, ma dipende dal giudizio dello storico. Se così non fosse, la storia già scritta sarebbe definitiva e i suoi mutamenti dipenderebbero soltanto dalla scoperta di nuove testimonianze. Il metodo storiografico sarebbe, come infatti Astuti ha sostenuto, uguale e buono per tutti i tempi, per Tucidide e per Tito Livio, per F. Guicciardini e per E. Gibbon, per F. Ranke e per L. Meinecke. Ma questo lago stagnante, questa disperante uniformità del pensiero, è un triste sogno, che non è suggerito dai fatti, ma da una mente che si ripieghi su se medesima e rifiuti il rischio che è inseparabile dall'intelletto. Sembra che Astuti sia stato anche in questo caso influenzato dal suo maestro, dalla sua prudenza che non era però scetticismo e che Patetta rese esplicita nel discorso inaugurale tenuto all'università di Siena il 7 novembre 1902 su Nobili e popolani in una piccola città dell'alta Italia. Del resto, anche l'allievo abbandonò per un momento il suo atteggiamento negativo quando considerò le Prospettive storiche del rapporto fra diritto ed economia (1955) e scrisse dell'influsso dell'economia sul d. e del d. sull'economia.

Un anno dopo la pubblicazione di Origini e svolgimento storico della commenda fino al secolo XIII da parte di Astuti, F. Calasso tenne la sua prolusione all'università di Catania, alla quale diede come titolo Il concetto di diritto comune (1934). Il significato di quell'argomento e come esso fosse il preannuncio di una nuova impostazione dell'intera storia giuridica italiana ed europea si vide soltanto nel tempo, con la successiva produzione di quell'autore. Ma quel primo lavoro di Calasso su quell'argomento fece scalpore e fu accolto come una novità assoluta, il che non era. Soprattutto B. Brugi aveva anticipato gli argomenti che furono poi trattati dal giovane storico del diritto. Ma la stessa impressione suscitata e anche la posizione polemica assunta dal Besta, che pure aveva trattato quel tema, dimostrano che proprio l'impostazione complessiva, e non i particolari, costituivano una novità. Nessuno aveva pensato allora in Italia a dichiarare che il problema del d. comune era la questione centrale della storia giuridica, che dal rinascimento della scienza del d. a Bologna doveva espandersi in Europa e influenzare lo sviluppo del d. dei singoli paesi. Era un pensiero che la storia giuridica tedesca e la dogmatica pandettistica avevano ben conosciuto, ma che avevano anche considerato sotto un aspetto diverso e per alcuni rispetti opposto, la recezione e il tramite del d. canonico per l'infiltrazione del d. romano nel periodo preparatorio alla sua accettazione nel Reichskammergericht. Anche la tesi della trasformazione del d. romano giustinianeo a opera dei glossatori e dei loro successori nell'interpretazione di quella fondamentale eredità, energicamente proposta da Calasso, era stata anticipata dai giuristi tedeschi, tra i quali spicca il nome di F.C. Savigny; anche qui la questione sorgeva per la preoccupazione, allora viva in Germania, della creazione di un sistema giuridico unitario della nazione, sostenuto ugualmente, ma da un opposto punto di vista, da romanisti e da germanisti. L'attenzione alle fonti, che per quella stessa ragione era stata molto viva in Germania, tornava in Calasso con una nuova intonazione. Non era più limitata agli argomenti delle fonti di cognizione e di produzione, ma diventava un argomento storico-giuridico fondamentale e preliminare. Ad essa avrebbero dovuto seguire, nel piano dell'opera complessiva, una seconda parte concernente il ''Sistema'', che egli abbozzò insieme al volume Storia e sistema delle fonti del diritto comune del 1938, e una terza parte, sugli ''Ordinamenti giuridici'', ispirata dalle teorie di S. Romano e che poi prese corpo alcuni anni dopo. Preparazione alla seconda parte era il suo Negozio giuridico (1957). La precoce scomparsa dell'autore impedì il completamento del disegno che egli aveva pensato, proprio sotto l'influsso della pandettistica. Ad opera compiuta, dunque, la storia del d. comune avrebbe offerto una visione tradizionale nell'insieme, contrapponendo la trattazione storica e quella nella quale l'aspetto giuridico sarebbe stato prevalente. Né quest'ultima avrebbe offerto un esempio diverso da quello a cui siamo abituati per la storia del d. privato, a giudicare almeno dalla sua anticipazione. Quella che ci sembra di poter giudicare come un'esitazione metodica, era provocata dalle sue incertezze tra il pensiero di Croce, che egli non conosceva probabilmente a fondo ma che era ormai un patrimonio comune alla cultura storica italiana, e l'impostazione positivistica e dogmatica alla quale egli non si oppose. Cosicché anche la Storia e sistema delle fonti, come l'opera definitiva, Medioevo del diritto (1954), furono un rinnovamento storiografico nei confronti della dottrina seguita fino ad allora, per una considerazione dello spirito del Medioevo che dentro vi aleggia, e per l'esame di alcuni aspetti creativi del pensiero dei glossatori e dei commentatori; ma ha qualcosa d'incompiuto, o, per lo meno, qualcosa che si sarebbe voluto, che sembrava annunciarsi ma che mancò della sua parusia definitiva.

Prescindendo dalla discussione di alcune impostazioni, che hanno una funzione particolare nella costruzione complessiva, vale la pena di aggiungere soltanto, come conclusione, che alla sua figura per tanti rispetti eminente e all'opera necessaria da lui compiuta nella storiografia giuridica italiana giovò, ma anche nocque, un'irruenza intellettuale che lo condusse a una fiducia eccessiva nell'intuizione, che richiama alla mente i pregi e i difetti di F. Guizot, che furono l'oggetto di un giudizio, forse troppo severo, di E. Fueter. Con la nostalgia della sua intelligenza, comunque, sempre viva in noi, bisogna ricordare quanto egli seppe suscitare nei suoi allievi, da lui molto diversi, come si conviene a un maestro; in modo particolare in P. Fiorelli, storico e filologo finissimo, autore, tra l'altro, di due esemplari volumi sulla Tortura giudiziaria nel diritto comune (1953-54); e poi in E. Cortese, che nel 1962-64 pubblicò un'opera importante, per risultati e per metodo, sulla Norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico.

A testimoniare della complessità del pensiero che a metà del secolo arricchì la nostra storiografia, occorre ancora ricordare le due grandi imprese scientifiche dovute a P. Torelli, l'una, estremamente analitica e dedicata alla storia di Mantova (Un comune cittadino in territorio ad economia agricola) del 1930-52, condotta con estremo rigore metodico e con una considerazione dell'aspetto sociale ed economico ben maggiore di quella che può leggersi in G. Salvioli e soltanto paragonabile alla storiografia di G. Salvemini; l'altra, che rispondeva a un'esigenza storica e critica non più differibile, vale a dire l'edizione critica della Glossa accursiana, da lui affrontata per le Istituzioni e che, purtroppo, non andò oltre il primo libro e gli appunti per il secondo, rimasti inediti.

Gli anni che corrono tra il 1946 e il 1952 videro del resto un improvviso risveglio dell'interesse per la metodologia nella storia giuridica, e i tempi parvero a qualcuno maturi per l'abbandono dei vecchi modelli positivistici, secondo quanto era già da tempo avvenuto nella restante storiografia. L'applicazione dei criteri storiografici del neoidealismo italiano incontrava però una duplice difficoltà nello stesso atteggiamento di Croce nei confronti del d. e della possibilità di farne una storia che non fosse, come di fatto si faceva, la storia di una pura tecnica, e nella mentalità degli storici del d., avvezzi a considerare le vicende degli istituti e il succedersi delle norme come un processo a essi intrinseco. Eppure sarebbe stato sufficiente osservare la produzione storico-giuridica tedesca degli anni più recenti per concludere che il rapporto tra la storia del d. e quella della società, dell'economia, della politica, della filosofia, già esistenti anche nella dottrina filosofico-giuridica, e quella rivolta al d. presente, non erano in contrasto né con la filologia, né con la cosiddetta ''dogmatica''. Il problema non era quello di fare la storia separata dei dogmi, ma di risolverli in un processo storico che ne chiarisse la formazione in relazione all'ambiente storico che ne aveva provocato la nascita. Sembrava quasi ovvio, ma per molti, in Italia e fuori, non lo fu. A certuni parve che si minacciasse l'''autonomia'' del d., o che si convertisse la storia giuridica in sociologia del d., attraverso l'affermazione che era necessario considerare il d. in tutta la storia. Il che non voleva dire che si dovesse far ricorso, ogni volta che si trattasse della storia di una costruzione giuridica, a ogni aspetto possibile della storia, il politico, l'economico, il filosofico e così via; ma soltanto che si doveva chiarire quale, in concreto, di quegli aspetti avesse a che fare con le figure giuridiche.

Eppure, le teorie che considerano il d. secondo lo ''scopo'', o quelle che vedono il sistema giuridico preformato nella realtà e perciò non prodotto della dottrina, ma ad essa suggerito, o quelle che vedono la forza vigente del d. non nella norma in sé ma nella sua interpretazione, considerano il d. in quanto storia. Qui Croce non c'entra affatto, a meno che non si voglia considerare la più recente espressione del suo pensiero, contenuta in Metodologia storiografica del 1947, come un aspetto delle tendenze che tutte convergevano a definire l'intimo rapporto tra il d. e la storia. Una parte importante, forse la più importante della storiografia giuridica tedesca contemporanea, ha posto in relazione i vari modi di essere del d. con la cultura e con le condizioni politiche ed economiche; ed è sufficiente far qui i nomi di F. Schulz, di P. Koschaker, di F. Wieacker, di H. Mitteis e di W. Kunkel. Questo metodo, che nella scienza d'oltralpe non si è imposto nel nome di Croce, ma di G.F. Hegel, di W. Dilthey, di G. Husserl, di N. Hartmann, di M. Welzel e di M. Weber, che in Economia e Società ha scritto pagine straordinarie di storia del d., è semplicemente lo storicismo moderno nella varietà delle sue interpretazioni, ma anche con una fondamentale concordanza d'intenti. Cosicché l'aver suggerito di tenerne conto, era null'altro che un invito ad accettare l'importanza che nel pensiero moderno ha assunto la dimensione storica.

Che tutto ciò costituisca un'esigenza che s'impone soprattutto nelle trattazioni generali e che le indagini particolari, per i loro scopi circoscritti, possano ma non debbano tuttavia considerarsene indipendenti, lo dice il buon senso. Ma che, quando ci si trovi a esprimere valutazioni complessive, quel metodo s'imponga, non è una scoperta contemporanea.

Basta rileggere le pagine postume di R. von Jhering (1984) sul Compito e metodo della storiografia giuridica. Introduzione ad una storia del diritto romano: "Oggi il metodo proprio condizionato dal compito della storiografia è pervenuto a una piena valorizzazione dappertutto; qui [cioè nel d.] no: il giurista ha semplicemente trasferito in essa il suo metodo dogmatico. Quest'ultimo si caratterizza per il fatto di limitarsi alla esposizione delle norme giuridiche, senza attrarre nel suo ambito la vita reale; in breve: esso si mantiene sempre all'altezza dell'astratto. È il metodo che la giurisprudenza moderna ha ripreso dai giuristi romani ... Se questo metodo sia quello giusto per la dogmatica lo lascio indeciso ... Ma nessuno che abbia chiara la diversità del compito della storia e della dogmatica negherà che esso sia del tutto sbagliato per la storia del diritto". Lo stesso Jhering diceva ironicamente, a proposito del carattere anfibio della materia e dei suoi cultori (Serio e faceto nella giurisprudenza): "Lei sa che un romanista consiste propriamente di due parti: per metà è un dogmatico, per metà uno storico del diritto".

Se tale è la situazione, quali sono le speranze nell'avvenire della materia? Che cosa si è fatto o si sta facendo di nuovo, dato che quel che si dovrebbe è stato già detto? Intanto si deve constatare il crescente interesse per la storia del d. moderno che si è manifestato negli ultimi decenni. Astuti vi dedicò dal 1951 al 1977 una parte notevole della sua produzione. Va anche ricordata la Società Italiana di storia del diritto, che tenne alto il nome della scienza storico-giuridica italiana per oltre un ventennio e organizzò quattro importanti congressi internazionali, con l'intento di stabilire una più intensa collaborazione tra storici del d. e studiosi di altre discipline. Sette volumi di Atti testimoniano la sua attività; e i tre del terzo Congresso furono appunto diretti allo studio della Storia del diritto moderno in Europa.

Che, accanto all'inclinazione di alcuni storici del d. a trattare temi diversi da quelli della loro disciplina, si sentisse anche la necessità di allargare il campo dell'indagine, divenne evidente, tra l'altro, con il corso tenuto da E. Besta nel 1932-33 sui Lineamenti del diritto internazionale. Chi scrive dedicò alcuni anni allo studio della storia del d. internazionale posta in relazione con quella dello Stato e come parte di un solo sviluppo storico (Storia del diritto internazionale nel medio evo, i, 1940; Il problema storico del diritto internazionale, 1944; e gli studi raccolti in Civitas Maxima, 1974). G.P. Bognetti, che nel 1932 aveva pubblicato le Note per la storia del passaporto e del salvacondotto, tenne all'università di Milano una relazione su Formazione storica dell'Europa e diritto internazionale nel medio evo (1942); e il Besta tornò ancora sul tema con uno studio sul Diritto internazionale nel mondo antico nel 1946. Nello stesso anno G. Vismara diede alle stampe gli Acta pontificia juris gentium usque ad annum MCCCIV, preceduti da uno studio di G. Balladore Pallieri, e, tra il 1947 e il 1954, alcuni articoli che riguardavano la storia del d. internazionale.

Questo interesse per un argomento non familiare si è poi spento, nonostante la sua fertilità. La generazione successiva ha provveduto in altro modo a colmare le grandi lacune della storiografia giuridica italiana e non solo italiana. Si devono ricordare, a questo proposito, gli studi di V. Piano Mortari sui vari aspetti della Scuola culta, ora riuniti in Diritto, logica, metodo nel secolo XVI (1978), condotti con un organico riferimento alla storia della cultura e agli eventi politici del Rinascimento e anticipati dal volume su Diritto romano e diritto naturale in Francia nel secolo XVI, al quale hanno fatto seguito quelli su Gli inizi del diritto moderno in Europa (1980) e il recentissimo Cinquecento giuridico francese. Lineamenti generali (1990).

Da quel momento qualcosa è cambiato nella storiografia giuridica. E se per C. Ghisalberti, che ci ha offerto un vasto panorama unitario della formazione del diritto moderno in Italia, dal volume sulle Costituzioni giacobine (1796-1799) (1957) a quelli su Stato e Costituzione nel Risorgimento (1972), Dall'antico regime al 1848 (1974), Storia costituzionale d'Italia. 1849-1948 (1974), Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia (1978), La codificazione del diritto in Italia, 1865-1942 (1985) e Modelli costituzionali e stato risorgimentale (1988), la storiografia giuridica è storia delle idee, della politica e del d. positivo trattata con metodologia idealistica e perciò il problema metodico è ancora quello dell'equilibrio tra quei vari aspetti, non sembra che questo possa ripetersi per altri casi. La storiografia che è sulla scia della tradizione pur con originalità di vedute (si vogliono ricordare qui, come esempio di storicizzazione del diritto privato, il poderoso volume di A. Padovani, Studi storici sulla dottrina delle sostituzioni, del 1983, e l'elegante filologia di S. Caprioli, dal volume sul Bolognini, Indagini sul Bolognini, del 1969, fino ai numerosi studi sui manoscritti giuridici), ha ancora come oggetto l'età medievale.

Le nuove inquietudini che percorrono la disciplina sembrano invece provocate e comunque connesse con lo studio del d. moderno. L'atteggiamento critico che si era manifestato nel terzo decennio del secolo e si era consolidato nel seguente e dal quale, in ultima analisi, dipende anche il criticismo radicale di una parte dell'attuale storiografia giuridica per l'esigenza di una maggiore storicizzazione, ha il significato di un mutamento profondo, anche se esso è limitato ad alcuni storici del diritto. Le connessioni tra storia del d. e pensiero filosofico, politica e cultura sono ora ovvie. Ma i fermenti antisistematici e antiformalistici, che affiorano nella dottrina positiva contemporanea, sono diventati un tema centrale. Così si va rivelando un più immediato interesse della storiografia giuridica per le condizioni del nostro tempo, per le quali non fa più velo la soggezione alle simmetrie giuridiche di settecentesca ed ottocentesca memoria. Con questo è naturale che la polemica sia vivace nei confronti del pensiero e della società del liberalismo.

Questa impostazione è particolarmente esplicita nella produzione più recente di P. Grossi che, medievalista all'inizio, si è poi rivolto all'età moderna e sempre più intensamente alla dottrina giuridica italiana dell'Ottocento. Al volume Un altro modo di possedere (1977), ha fatto seguito un altro, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana 1859-1950 (1986), e i numerosi contributi pubblicati nella grande serie dei Quaderni fiorentini, dedicata appunto ai problemi che la crisi della società solleva nel diritto contemporaneo e nella riflessione storica. Bisogna riconoscere a Grossi il merito di far circolare dell'aria fresca nei nostri polverosi volumi. Occorre soltanto ricordare che, se è legittimo e salutare rivelare il disagio provocato da vecchie strutture e suggerire nuove alternative, è anche obbligatorio per lo storico riconoscere lo stato delle cose anteriore e in esso trovare i motivi per penetrare il pensiero che da esse sorse. Perché, altrimenti, si predicherebbe la costante necessità di porre in relazione il d. con il contesto della storia? Considerazioni che valgono anche per P. Costa, che aveva fin dal 1969 trattato da un angolo inconsueto un tema medievalistico nel volume Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433) e, voltosi poi ad argomenti concernenti l'età moderna, ha esaminato il pensiero filosofico-giuridico inglese da Hobbes a Bentham nel Progetto giuridico. Ricerche sulla giurisprudenza del liberalismo classico, i (1974), ed infine, nello Stato immaginario (1986), concetti del d. pubblico in stretta relazione col precedente lavoro. Si tratta, ancora una volta, di problemi giuridici visti non dall'interno, ma, per così dire, dall'esterno. "Lo Stato", dice Costa nell'introduzione, "è tutto nel discorso degli specialisti e anche di qualche non specialista. È una loro 'immaginazione'. Essi la proiettano nella realtà". Sono, ancora una volta, ragionamenti filosofici che non diminuiscono l'interesse per la lettura, ma che hanno a che vedere con la storia giuridica soltanto di riflesso, come premessa a una storia del d. e come considerazioni conclusive di questa storia una volta che sia stata già scritta. È impressionante che, dopo l'affermazione della necessità di guardare alla storia del d. con quanto aveva concorso alla sua comparsa e al suo svolgimento, si sia considerata la storia giuridica come l'oggetto di una problematica che storico-giuridica non è. Altrettanto si deve ripetere per un altro autore di molto ingegno, R. Ajello. Egli ha pubblicato sull'età moderna e in modo specifico sul sec. 18° e il regno di Napoli pregevoli studi di storia sociale e politica. Ora sono comparsi un suo volume sul Formalismo medievale e moderno, la seconda e più ampia parte del quale porta il titolo di Estasi della ragione, e una prefazione alla nuova edizione critica degli Avvertimenti ai nipoti di F. D'Andrea, a cura di I. Ascione (1990). Entrambi gli scritti, che rivelano ancora una volta il vigore intellettuale dell'autore, sono una critica radicale alla validità della filosofia idealistica, specialmente di Hegel e poi di Croce, responsabile di un dogmatismo che avrebbe avuto conseguenze negative sulla speculazione, anche giuridica, e sulla storiografia, compresa naturalmente anche quella del diritto. Si tratta, come si vede, di un tema di importanza fondamentale ed attualissimo; ma per il fatto che esso investe l'intero sistema dell'idealismo filosofico ed anche della Scuola storica fino a noi (per la quale, tuttavia, non mi sentirei di sottoscrivere un giudizio che la fa dipendere da Hegel) ha necessità di ben altra trattazione. E perciò non possiamo che restare in attesa.

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