Diritto del mare

Diritto on line (2016)

Giuseppe Cataldi

Abstract

Sono qui esaminati i principali istituti del diritto internazionale del mare così come convenzionalmente codificati, in particolare nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto internazionale del mare del 1982, e alla luce degli sviluppi successivi nel diritto internazionale generale e pattizio. La trattazione dedica particolare attenzione all’evoluzione dei poteri degli Stati costieri nei differenti spazi marini, sulla scorta dei dati offerti dalla prassi più recente.

L’evoluzione del diritto internazionale del mare

Il diritto internazionale del mare disciplina i rapporti tra Stati in ambito marittimo. Per molti secoli questa branca del diritto internazionale è stata caratterizzata dal regime cd. della “libertà dei mari” e, quindi, dall’assenza di regole. Ciò era evidentemente funzionale agli interessi commerciali e strategici delle grandi potenze marittime europee, soprattutto all’epoca della colonizzazione dei territori d’oltremare. Solo dalla seconda metà del diciannovesimo secolo cominciò a manifestarsi il fenomeno, che dominerà il secolo successivo e che può dirsi tuttora operante, della progressiva estensione della giurisdizione dello Stato costiero sui mari adiacenti (per gli aspetti storici del diritto del mare si rinvia a Conforti, B., Il regime giuridico dei mari, Napoli, 1957). Ed è proprio su impulso degli Stati costieri che furono promosse le tre principali conferenze volte a codificare le consuetudini esistenti in materia. Le codificazioni più importanti furono quelle del 1958 e del 1982, mentre quella intermedia del 1960, che si proponeva di determinare l’estensione del mare territoriale, non raggiunse il suo obiettivo.

La prima Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare si concluse a Ginevra il 29.4.1958 e produsse quattro convenzioni: la Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua; la Convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare; la Convenzione sull’alto mare; la Convenzione sulla piattaforma continentale. A distanza di poco tempo, tuttavia, le nuove rivendicazioni degli Stati prima soggetti a dominazione straniera, gli sviluppi tecnologici e le trasformazioni economiche della società internazionale dettero impulso a un lungo lavoro di revisione, operato dalla cd. Terza conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Dopo ben undici sessioni, il 10.12.1982, i lavori si conclusero a Montego Bay (Giamaica) con l’adozione del testo definitivo della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), un testo ambizioso che disciplina la quasi totalità delle questioni giuridiche relative agli spazi marini. Il 16.11.1994, dodici mesi dopo il deposito del sessantesimo strumento di ratifica, l’UNCLOS entrerà finalmente in vigore. Nel momento in cui scriviamo, le ratifiche depositate sono 167, compresa quella dell’Unione europea, ultima in ordine di tempo la controversa adesione della Palestina (2.1.2015). Mancano ancora all’appello gli Stati Uniti d’America, mentre la ratifica dell’Italia è avvenuta con la l. 2.12.1994, n. 689 (si v. Treves, T., Law of the Sea, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, in www.mpepil.com, aprile 2011).

Qui di seguito si cercherà di offrire una descrizione completa e sintetica dei principali istituti del diritto internazionale del mare avendo come costante punto di riferimento le disposizioni dell’UNCLOS, tante volte riconosciute riproduttive del diritto internazionale generale. A ben vedere, tuttavia, a più di trent’anni dalla sua adozione e a più di venti dalla sua entrata in vigore, l’UNCLOS si mostra oggi talvolta inadeguata rispetto alle esigenze sopravvenute. In questa sede non si potrà pertanto prescindere dal confronto con i dati offerti dall’analisi della prassi più recente.

Le zone sottoposte alla sovranità o alla giurisdizione dello Stato costiero

Il mare territoriale

In una zona di mare adiacente alle sue coste, lo Stato esercita piena sovranità come sul suo territorio terrestre. La sovranità si estende allo spazio aereo sovrastante, al suo fondo e al suo sottosuolo. Entro il limite di dodici miglia a partire dalla linea di base, ogni Stato costiero può stabilire l’ampiezza del suo mare territoriale. La misura delle dodici miglia è il frutto di un compromesso tra gli Stati tradizionalmente in favore di un’estesa libertà di navigazione ai fini commerciali e i numerosi paesi in via di sviluppo in favore di uno sfruttamento esclusivo delle risorse marine in spazi molto ampi (art. 2 e 3 UNCLOS).

Tra i vari sistemi che possono essere utilizzati per calcolare il mare territoriale, quello più diffuso è il sistema delle linee di base rette, che consiste in un tracciato che collega i punti più sporgenti della costa o delle isole adiacenti (art. 7 UNCLOS). Anche l’Italia ha adottato questo sistema, che ha prodotto una notevole estensione verso il largo del margine esterno del mare territoriale. In presenza di una baia, inoltre, può essere tracciata una linea di base retta che congiunga i suoi punti d’entrata naturali, purché siano rispettati i parametri dettati dall’art. 10 UNCLOS. Questi rigidi parametri geografici non si applicano invece nel caso delle cd. baie storiche. L’UNCLOS tuttavia non contiene regole per l’individuazione di queste ultime, e anche la prassi internazionale non aiuta, apparendo piuttosto controversa. L’acquiescenza degli altri Stati a tali pretese svolge di conseguenza un ruolo fondamentale.

Un’importante novità dell’UNCLOS è costituita dalla previsione delle «linee di base arcipelagiche rette», linee congiungenti i punti estremi delle isole più esterne e delle scogliere affioranti di uno «Stato arcipelago», purché racchiudano le isole principali e delimitino una zona in cui il rapporto tra la superficie marina e la superficie terrestre rispetti le proporzioni stabilite nell’art. 47 UNCLOS. Le acque che si trovano al di qua della linea di base sono sottoposte al regime delle «acque interne».

L’istituto del diritto del mare che si propone di risolvere la contrapposizione tra gli interessi costieri e gli interessi della navigazione internazionale nel mare territoriale è il diritto di passaggio inoffensivo. Esso consiste nel diritto di tutti gli Stati di attraversare le acque soggette alla sovranità di uno Stato straniero, purché il transito avvenga in maniera inoffensiva, ossia senza pregiudizio per quest’ultimo. Il punto più delicato in tema di passaggio inoffensivo riguarda l’estensione di questo diritto a particolari categorie di navi. Superata la questione del diritto dello Stato costiero a pretendere l’autorizzazione per il transito nelle acque territoriali delle navi da guerra (per un approfondimento si v. Cataldi, G., Il passaggio delle navi straniere nel mare territoriale, Milano, 1990, 199 ss.), resta al contrario problematica quella del passaggio delle navi a propulsione nucleare e delle navi che trasportano sostanze radioattive, pericolose o nocive. Sul punto, l’UNCLOS non offre alcuna indicazione, limitandosi a esigere, all’art. 23, l’osservanza di specifiche misure di sicurezza. Ne deriva che anche il passaggio di queste navi risulterebbe soggetto al regime generale del passaggio inoffensivo. A nostro avviso, tuttavia, un’evoluzione del diritto consuetudinario nel senso della legittimità, quanto meno della condizione della notifica preventiva del passaggio di questa categoria di navi, si è prodotta nel corso degli ultimi anni, soprattutto grazie alla prassi degli Stati più sensibili ai valori di interesse generale, come la salute e la tutela dell’ambiente, in applicazione dell’obbligo di cooperazione affermatosi in queste materie.

Inoltre, è bene ricordare che molti Stati attivi nel commercio internazionale via mare fanno oggi maggiore ricorso a nuovi strumenti di protezione di navi civili in transito in acque a rischio di pirateria marittima (per l’Italia, si veda la l. 2.8.2011, n. 130). In particolare e per quanto qui rileva, è dubbio se l’attraversamento delle acque territoriali da parte di mercantili recanti a bordo personale armato in funzione anti-pirateria possa essere ritenuto in ogni circostanza inoffensivo.

Corollario del passaggio inoffensivo è la regola dell’astensione da parte dello Stato costiero dall’esercizio dei suoi poteri coercitivi in materia civile e penale relativamente ai fatti avvenuti a bordo di nave in transito, purché tali fatti restino circoscritti alla realtà di bordo e non turbino la pace e l’ordine della comunità costiera (art. 27 e 28 UNCLOS). La regola è assoluta nel caso di navi da guerra e di navi di Stato utilizzate a fini non commerciali.

Gli stretti internazionali

Sono porzioni di mare interno o territoriale che mettono in comunicazione due diverse porzioni di alto mare o di Zona economica esclusiva (ZEE). L’estensione delle acque territoriali ha generato un notevole aumento degli stretti rientranti nel mare territoriale degli Stati costieri. Si è pertanto reso necessario ritrovare un equilibrio tra le esigenze degli Stati marittimi e degli Stati costieri; compromesso espresso nel nuovo regime previsto per gli stretti maggiormente rilevanti per la navigazione internazionale, sottoposti alla disciplina del «passaggio in transito». Il nuovo regime, che si applica anche al sorvolo e non richiede espressamente che i sottomarini transitino in emersione, risulta più favorevole per i paesi in transito. Al contrario, gli Stati costieri restano privilegiati dalla generale disciplina sul passaggio inoffensivo non sospendibile che resta applicabile nel caso di stretti attraversabili anche mediante una rotta alternativa (per approfondimenti si rinvia a Fornari, M., Il regime giuridico degli stretti utilizzati per la navigazione internazionale, Milano, 2010)

Un altro aspetto degno di nota è quello della regolamentazione del traffico negli stretti nel rispetto delle esigenze ambientali. È il caso, per esempio, delle limitazioni al traffico nello Stretto di Bonifacio decise dall’Italia e dalla Francia in due decreti del 1993 nei confronti di navi battenti bandiera italiana o francese, e adottate anche nella Raccomandazione A 766 del 4.11.1993 dell’Organizzazione marittima internazionale (per approfondimenti sul tema si v. Cataldi, G., Mare - dir. int., in Cassese, S., a cura di, Dizionario di diritto pubblico, IV, Milano, 2006, 3587 ss.).

La zona contigua e la zona archeologica marina

In zone adiacenti al mare territoriale, che sfuggono alla sua sovranità, lo Stato costiero può decidere di esercitare diritti esclusivi rispetto a materie determinate. Ai sensi dell’art. 33 UNCLOS, in una zona di estensione massima di ventiquattro miglia lo Stato costiero può proclamare la cd. zona contigua ed esercitare i suoi poteri di polizia per la prevenzione e repressione delle violazioni alle sue norme in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione. L’Italia, sebbene finora non abbia formalmente proclamato una sua zona contigua, come previsto dal diritto internazionale, in alcune disposizioni in tema di immigrazione clandestina via mare nomina la «zona contigua italiana» (art. 12, co. 9-bis, t.u. imm.). Si può quindi dedurre che, ai soli fini dell’immigrazione (ad esclusione quindi delle altre ipotesi previste), la zona contigua esista, e la sua esistenza sia opponibile a tutti gli Stati, trattandosi di un istituto previsto dal diritto consuetudinario, così come dall’UNCLOS. Rileviamo questa circostanza al fine di ribadire l’erroneità delle conclusioni alle quali sul punto giunge la Corte di cassazione nella sentenza 8.9.2010, Kircaoglu Mehemet e Sanaga Mehemet (in Ital. YB. of Internat. L., 2010, 419 ss. con nota G. Andreone; v. anche Id., Immigrazione clandestina, zona contigua e Cassazione italiana: il mistero si infittisce, in Diritti umani e diritto internazionale, 2011, 183 ss.). Questa decisione, infatti, afferma l’illegittimità della pretesa di opporre l’esistenza della zona contigua alla Turchia, non avendo questo Stato ratificato l’UNCLOS. Purtroppo questa decisione continua a condizionare e limitare le azioni di polizia nella zona contigua.

L’art. 303 UNCLOS fa rinvio alla norma sull’istituzione della zona contigua con riferimento anche a un ulteriore interesse dello Stato costiero, e cioè il controllo del commercio degli oggetti di carattere archeologico e storico scoperti in mare. Pertanto, nella zona contigua la rimozione di tali oggetti dal fondo del mare, senza l’autorizzazione dello Stato costiero, costituisce violazione delle sue leggi e dei suoi regolamenti. In Italia, la materia è disciplinata dall’art. 94 d.lgs. 22.1.2004, n. 42 che istituisce il «Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’art. 10, l. 6 luglio 2002, n. 137». Anche in questo caso si fa riferimento implicito all’esistenza della giurisdizione italiana tra le dodici e le ventiquattro miglia marine, lasciando così presumere l’esistenza di una «zona archeologica marina» italiana (per la prassi di altri Stati, Garabello, R., La Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, Milano, 2004, 151 ss., cui si fa rinvio anche per i problemi interpretativi sollevati dall’art. 303 e per i rapporti di questa norma con la Convenzione per la protezione del patrimonio culturale subacqueo adottata a Parigi il 2.11.2001 dalla Conferenza generale dell’Unesco e ratificata dall’Italia con l. 23.10.2009, n. 157).

La zona economica esclusiva

Per la ZEE, che si sviluppa in una zona di estensione massima di duecento miglia dalla linea di base del mare territoriale, l’UNCLOS prevede un regime giuridico sui generis, che non è assimilabile né a quello del mare territoriale né a quello dell’alto mare. In questa zona, infatti, lo Stato costiero è titolare di diritti sovrani ai fini dell’esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali biologiche e non biologiche della colonna d’acqua, del fondo del mare e del suo sottosuolo. In questa zona, inoltre, lo Stato costiero ha giurisdizione esclusiva in tema di stabilimento e uso di isole artificiali, ricerca scientifica marina, protezione e preservazione dell’ambiente marino. Trattandosi di poteri funzionali specifici, gli altri Stati restano titolari delle tradizionali libertà di navigazione, sorvolo, posa di cavi e condotte sottomarine, nonché, come precisa l’art. 58 UNCLOS, della libertà di utilizzare il mare per altri fini internazionalmente leciti connessi con l’esercizio delle suddette libertà (C. giust., 24.11.1992, C-286/90, Poulsen, in Foro it., 1993, IV, 249 ss. con nota G. Cataldi).

La ZEE è un istituto formatosi nel diritto consuetudinario sulla base delle rivendicazioni e della prassi degli Stati oceanici e non invece degli Stati costieri dei cd. mari chiusi o semichiusi, quale è il Mediterraneo. Per questi ultimi, l’UNCLOS all’art. 123 ha previsto, in generale, obblighi di cooperazione “rafforzata”. La prospettiva di difficili contenziosi da affrontare in materia di delimitazione, dovuta alle caratteristiche geopolitiche del bacino, fu, in un primo momento, un freno considerevole alla istituzione nel Mediterraneo di zone di giurisdizione esclusiva. Nel corso degli ultimi quindici anni, tuttavia, in seguito al fallimento di numerosi tentativi di cooperazione, la prassi degli Stati mediterranei è decisamente mutata, prevalendo oggi la scelta di stabilire zone nazionali esclusive. Tra i vari Stati che hanno istituito zone esclusive nel Mediterraneo c’è anche l’Italia, che ha provveduto alla proclamazione di una zona ecologica (l. 8.2.2006, n. 61; cfr. Andreone, G., La zona ecologica italiana, in Diritto maritt., 2007, 3 ss.). La scelta dell’Italia è per la verità conseguenziale alle iniziative di altri Stati mediterranei, e può essere ricondotta alla necessità di dotarsi di un titolo giuridico utile ai fini della delimitazione delle rispettive zone nazionali con gli Stati frontisti e adiacenti. Molti altri Stati vicini, come Malta, Spagna, Croazia, Francia, Egitto, Cipro, Libano, Siria, Israele, Libia e Tunisia hanno, infatti, proclamato zone esclusive, che si segnalano perché sui generis, dal momento che gli Stati costieri, almeno inizialmente, hanno inteso attribuirsi solo in parte i poteri previsti dall’istituto della ZEE. Ne sono nate “zone di pesca”, “zone ecologiche”, “zone ecologiche e di pesca”, destinate presumibilmente (com’è già avvenuto per la Francia e per la Tunisia) a diventare vere e proprie ZEE (per approfondimenti si rinvia ad Andreone, G.-Cataldi, G., Regards sur les évolutions du droit de la mer en Méditerranée, in AFDI, 2010, 1 ss.; Andreone, G.-Cataldi, G., Sui Generis Zones, in Attard, D.J.-Fitzmaurice, M.-Gutierrez, N.M., The IMLI Manual of International Maritime Law, I, The Law of the Sea, Oxford, 2014, 217 ss.).

La piattaforma continentale

La piattaforma continentale di uno Stato costiero consiste nel prolungamento naturale del suo territorio terrestre, e comprende il fondo marino e il sottosuolo al di là del suo mare territoriale fino all’orlo esterno del cd. margine continentale, o fino a una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale, nel caso che l’orlo esterno del margine continentale si trovi a una distanza inferiore (art. 76 UNCLOS). Qualora la piattaforma continentale si estenda oltre il limite delle 200 miglia, lo Stato costiero è tenuto a versare all’Autorità internazionale dei fondi marini una percentuale variabile del ricavato dell’attività estrattiva, ai fini della distribuzione tra i Paesi meno sviluppati o privi delle risorse prodotte nella piattaforma continentale. Come per il mare territoriale, su questa zona i diritti di esplorazione e sfruttamento dello Stato costiero sorgono ipso iure e, dunque, a prescindere dall’occupazione e da ogni forma di proclamazione espressa (art. 77 UNCLOS). Ad ogni modo, l’esercizio di questi diritti non deve pregiudicare il regime giuridico né delle acque sovrastanti, né tanto meno quello dello spazio aereo al di sopra di tali acque, non deve pregiudicare la navigazione o gli altri diritti e libertà riconosciuti agli altri Stati e non deve intralciarli in modo ingiustificabile (art. 78 UNCLOS).

La delimitazione degli spazi marini tra Stati adiacenti o che si fronteggiano

Con riguardo alla delimitazione del mare territoriale, nel caso di Stati che si fronteggiano o che siano adiacenti, l’UNCLOS stabilisce che, in assenza di accordi contrari o di circostanze speciali del caso, si debba applicare la regola dell’equidistanza, nessuno Stato avendo quindi il diritto di estendere la sua sovranità al di là della linea mediana (art. 15 UNCLOS).

Diverso, e più articolato, è il caso della delimitazione della piattaforma continentale e della ZEE. La regola dell’equidistanza è prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale quale regola da applicare anche nelle ipotesi di delimitazione della piattaforma. Successivamente, però, è prevalso il concetto dell’«equa soluzione» quale obiettivo della delimitazione; criterio procedurale indicato innanzitutto dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 1969 resa nel caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord (in ICJ Reports, 1969, 3 ss.), e recepito poi, con due disposizioni gemelle, dall’art. 83 UNCLOS sulla delimitazione della piattaforma continentale e dall’art. 74 UNCLOS sulla delimitazione della ZEE (sul punto si v. anche la sentenza relativa alla delimitazione nel Golfo del Maine tra USA e Canada resa nel 1984 da una Camera della Corte internazionale di giustizia che chiarì espressamente la conformità al diritto consuetudinario del criterio dell’«equa soluzione» (in ICJ Reports, 1984, 246 ss., v. in particolare § 90). La giurisprudenza successiva in materia ha poi introdotto ulteriori criteri. Ogni decisione ha cercato, rispetto al caso concreto dedotto, di individuare gli elementi che concorrono al raggiungimento di una soluzione equa (si veda ad esempio la sentenza della Corte internazionale di giustizia sulla delimitazione marittima nel Mar Nero, Romania c. Ucraina, 2009, I.C.J. Reports, 2009, 61 ss., § 288). Così, di volta in volta, ai fini di una delimitazione equa si è data importanza alle circostanze geologiche e geomorfologiche, a quelle storiche e politiche, e, in casi specifici, alle circostanze biologiche ed ecologiche e perfino a quelle di ordine militare. Resta fermo, naturalmente, il principio per cui, in applicazione del principio di sovranità, in un negoziato sulla delimitazione gli Stati sono liberi di accettare o respingere le regole sedimentatesi nella giurisprudenza internazionale. Talvolta una stessa linea è utilizzata per delimitare interessi diversi, oppure un accordo può prevedere linee di delimitazione distinte a seconda degli interessi da delimitare. Una linea liberamente convenuta per un fine specifico (ad esempio la delimitazione della piattaforma continentale) non può tuttavia essere unilateralmente utilizzata, da uno degli Stati parte dell’accordo, relativamente ad altri fini (ad esempio l’estensione della zona di pesca nazionale). Tentativi di questo tipo sono da registrare, di recente, nel Mediterraneo, da parte in particolare di Croazia e Tunisia, paesi che hanno esteso zone nazionali utilizzando come linea esterna quella convenuta con l’Italia in accordi bilaterali risalenti nel tempo, esclusivamente relativi alla piattaforma continentale (in proposito si rinvia a Cataldi, G., L’Italia e la delimitazione degli spazi marini. Osservazioni sulla prassi recente di estensione della giurisdizione costiera nel Mediterraneo, in Riv. dir. int., 2004, 621 ss.; per la delimitazione delle zone di giurisdizione nel Mediterraneo si rinvia a Andreone, G.-Cataldi, G., Sui Generis Zones, cit., 230 ss.).

Le zone al di là della giurisdizione costiera

L’alto mare comincia oltre il limite determinato dagli spazi sui quali gli Stati costieri esercitano la loro sovranità o giurisdizione (art. 86 UNCLOS). In alto mare tutti gli Stati esercitano in maniera paritaria le libertà previste dal diritto internazionale. Naturalmente, così come nessuno Stato può pretendere di assoggettare alla propria sovranità alcuna parte dell’alto mare (art. 89 UNCLOS), allo stesso modo il principio di libertà non può intendersi in senso assoluto e astratto, ma in un senso «concreto e contingente» (così Scovazzi, T. Elementi di diritto internazionale del mare, III ed., Milano, 2002, 65 ss.), nel contesto cioè delle numerose attività, che si svolgono in mare, attività potenzialmente in conflitto tra loro e pertanto espressione di interessi da contemperare.

Per quanto riguarda la navigazione, l’art. 90 UNCLOS stabilisce che ogni Stato ha il diritto di far navigare in alto mare navi che battano la sua bandiera. Questa viene attribuita dallo Stato secondo condizioni da esso stesso determinate, purché sussista un legame sostanziale tra di esso e la nave (art. 91 UNCLOS ). L’esigenza di questo legame è motivata dall’esistenza del fenomeno delle cd. bandiere ombra, i.e. bandiere attribuite da uno Stato senza alcun legame effettivo con esso, e di conseguenza svincolate dall’osservanza delle norme interne o internazionali vigenti sul territorio domestico delle persone, fisiche o giuridiche, che ne esercitino il controllo effettivo (Schiano di Pepe, L., La questione della nazionalità delle navi dinanzi al Tribunale internazionale per il diritto del mare, in Riv. dir. int., 2002, 329 ss.).

Nessuno Stato, tranne quello della bandiera, può interferire con la navigazione in alto mare. Questa immunità da atti di coercizione e dalla giurisdizione degli Stati stranieri è assoluta per quel che riguarda le navi da guerra e le navi impiegate esclusivamente per servizi governativi non commerciali (artt. 95 e 96 UNCLOS). Le navi private, invece, sono soggette a una serie di eccezioni. La prima è la pirateria marittima (artt. 101 ss. UNCLOS), crimine juris gentium che, come noto, vive oggi una fervida e preoccupante recrudescenza. In alto mare, in base a una regola consuetudinaria molto antica, qualsiasi Stato può, per mezzo delle sue navi pubbliche, catturare una nave (o un aeromobile) pirata, arrestare i responsabili e requisirne i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha operato la cattura si pronunceranno sulla pena da infliggere e sulle misure da adottare nei confronti delle navi e dei beni. A ben vedere, tuttavia, nonostante la previsione di questa eccezione, gli Stati, scoraggiati da numerose difficoltà di ordine sia pratico sia giuridico, sembrano oggi desistere dall’esercitare la propria giurisdizione nei confronti di sospetti pirati. In molti casi, infatti, i pirati sono catturati e subito rilasciati, senza essere sottoposti ad alcun processo. Più di recente, però, per aggirare le accennate difficoltà, i paesi occidentali che impegnano le loro unità militari a pattugliare le aree a rischio di pirateria e la stessa Unione europea hanno stipulato degli accordi con paesi, per lo più africani, che dal canto loro si impegnano a sottoporre a processo, ed eventualmente a detenere, i pirati catturati (per approfondimenti sulla pirateria marittima, si v. Ronzitti, N., Pirateria - diritto vigente, in Enc. dir., XXXIII, 1983, 912 ss.; per gli sviluppi più recenti in materia e per la prassi relativa ai più noti incidenti, tra i quali la vicenda dei “fucilieri di Marina italiani in India”, si v. Andreone, G.-Bevilacqua, G.-Cataldi, G.-Cinelli, C., a cura di, Insecurity at Sea: Piracy and other risks to Navigation, Napoli, 2013; Caracciolo, I.-Graziani, F., Il caso dell’Enrica Lexie alla luce del diritto internazionale, Napoli, 2013; Bevilacqua, G., Counter Piracy Armed Services, the Italian System and the Search for Clarity on the Use of Force at Sea, in Ital. YB. of Internat. L., 2012, XXII, 39 ss.; Conforti, B., In tema di giurisdizione penale per fatti commessi in acque internazionali, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, IV, Napoli, 2014, 2619 ss.).

Per la repressione in alto mare della tratta di schiavi, invece, l’art. 110 UNCLOS si limita a concedere il diritto di visita alle navi da guerra. L’art. 111 disciplina il diritto d’inseguimento concesso in alto mare allo Stato costiero per le violazioni commesse dalla nave straniera in zone soggette alla sua sovranità o giurisdizione, purché l’inseguimento inizi in queste acque, sia continuo e condotto da navi pubbliche. Il diritto cessa non appena la nave inseguita entra nel mare territoriale del proprio Stato o di uno Stato terzo. L’art. 109, a titolo di «sviluppo progressivo del diritto internazionale», contempla invece un’ipotesi nuova d’interferenza in alto mare a bordo di navi straniere. Si tratta del caso di radiotrasmissioni o telediffusioni non autorizzate e dirette verso la costa in violazione delle norme internazionali. Lo Stato che riceve le emissioni e lo Stato le cui radiocomunicazioni sono disturbate dalle trasmissioni possono intervenire nei confronti di navi, persone e cose. In ambito ambientale, l’art. 221 UNCLOS disciplina poi il diritto dello Stato costiero di intervenire anche in alto mare al fine di adottare misure atte a evitare l’inquinamento delle proprie coste in conseguenza di un incidente in mare. Per la repressione del traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope in alto mare, l’art. 108 prevede poi solo un obbligo di cooperazione da parte di tutti gli Stati (sulle implicazioni legate alla possibile violazione di diritti umani nel corso di operazione di law-enforcement in mare, v. Corte eur. dir. uomo, Grande camera, 28.3.2010, Medvedyev e altri c. Francia). L’obbligo di cooperazione, inoltre, è anche contemplato nel Protocollo n. 4 sul traffico illecito di migranti per terra, mare e cielo, annesso alla Convenzione di Palermo del 2000 delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata. In base all’art. 8, in particolare, l’abbordaggio e l’ispezione di una nave, così come l’adozione di misure coercitive appropriate, sono sempre permesse, con riferimento ad azioni adottate al fine di combattere il traffico di migranti, se c’è un sospetto che la nave sia priva di nazionalità, mentre, nel caso di nave in alto mare battente bandiera di Stato diverso da quello che interviene, le misure in questione dovranno essere autorizzate (sulla giurisprudenza italiana applicativa di queste regole v. Cataldi, G., Giurisdizione e intervento in alto mare su navi impegnate nel traffico di migranti, in Giur. it., 2015, 1498).

A tutto ciò si aggiunga che, in tema d’illeciti in mare, molti Stati hanno altresì aderito alla Convenzione per la soppressione di atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima, cui il Protocollo del 2005 ha aggiunto un ulteriore articolo, l’art. 3 bis, il quale contempla nuove ipotesi di atti illeciti che ricadono nell’ambito di applicazione della medesima Convenzione (Guilfoyle, D., Shipping Interdiction and the Law of the Sea, Cambridge, 2009, 21 ss.).

Infine, per quanto riguarda il regime dello sfruttamento dei fondi marini al di là degli spazi soggetti alla giurisdizione nazionale (la cd. «Area» di cui all’art. 1 UNCLOS), nel corso della terza conferenza sul diritto del mare era stato congegnato un sistema che tenesse conto tanto del principio, ormai consolidatosi, per cui tali fondi costituiscono «patrimonio comune dell’umanità», tanto della circostanza per cui le tecnologie e i mezzi finanziari per la ricerca dei siti minerari e per il loro sfruttamento sono a disposizione soltanto degli Stati industrializzati. Tale sistema corrisponde al cd. “sfruttamento parallelo” previsto nella parte XI dell’UNCLOS. In base ad esso, una volta che uno Stato o un’impresa autorizzata a farlo avessero individuato un sito, questo sarebbe stato oggetto di sfruttamento tanto da parte di questi ultimi che da parte dell’Autorità internazionale dei fondi marini, organizzazione internazionale agente per conto dell’umanità intera (art. 137 UNCLOS) attraverso un suo organo operativo (la cd. “impresa”). Tuttavia, in virtù della ferma opposizione degli Stati industrializzati, tale regime è stato modificato mediante l’Accordo di applicazione della parte XI, concluso a New York il 29.7.1994 (l. 2.12.1994, n. 689). Questo accordo, piuttosto che “applicare”, sostanzialmente annulla il regime di sfruttamento parallelo. In particolare, viene abolito l’obbligo di dividere in due parti il sito minerario da sfruttare e si stabilisce che l’impresa opererà in joint ventures con gli operatori nazionali.

La soluzione delle controversie nel diritto internazionale del mare

Un altro rilevante aspetto profondamente rinnovato dall’UNCLOS è l’articolato sistema di soluzione delle controversie previsto nella sua parte XV. Tale sistema si fonda, in ultima istanza, sull’obbligo di ricorrere a uno degli organi arbitrali o giurisdizionali internazionali indicati nella sezione II della medesima parte XV, ossia la Corte internazionale di giustizia, il Tribunale internazionale del diritto del mare, un tribunale arbitrale da costituire in base a quanto previsto nell’all. VII o in base all’all. VIII UNCLOS (art. 286). Quanto ai criteri per l’individuazione della corte o tribunale indicati nella sezione seconda cui, di volta in volta, può essere sottoposta, anche su istanza unilaterale, una determinata controversia, essi sono piuttosto elaborati e sono stabiliti dal successivo art. 287 (per approfondimenti si rinvia a Virzo, R., Il regolamento delle controversie nel diritto del mare: rapporti tra procedimenti, Padova, 2008).

Fonti normative

L. 2.12.1994, n. 689; l. 2.8.2011 n. 130; art. 12, co. 9-bis, t.u. imm.; l. 23.10.2009, n. 157; l. 8.2.2006, n. 61.

Bibliografia essenziale

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