DIO

Enciclopedia Italiana (1931)

DIO (fr. Dieu; sp. Dios; ted. Gott; ingl. God)

Giuseppe FILOGRASSI
Antonio BANFI
Carlo BRICARELLI

Dottrina cattolica. - Intorno all'esistenza e alla natura di Dio, l'insegnamento cattolico distingue nettamente un doppio ordine di verità: quelle che si conseguono con la nativa capacità dell'intelletto umano e insieme formano oggetto di fede, supposta la rivelazione divina; e quelle che, superando le forze dell'intelligenza, si affermano soltanto per fede. Riguardo alle prime, alle quali si limita la presente trattazione, le affermazioni fondamentali della dottrina cattolica sono: 1. si può dimostrare l'esistenza di Dio; 2. di fatto, si dimostra con validi argomenti; 3. anche della natura di Dio si può ottenere una conoscenza rispondente, ma non adeguata, alla realtà.

Il Concilio Vaticano dichiarava (24 aprile 1870) che Dio, primo principio e ultimo fine, può essere con certezza conosciuto con il lume naturale della ragione umana, attraverso le cose create. Si deve attribuire a beneficio della rivelazione che le verità riguardanti Dio, anche se non impervie per sé stesse all'umana ragione, si possano da tutti, nelle presenti condizioni dell'umanità, conoscere con sicura certezza e senza mescolanza di errori. Cosi il Concilio Vaticano prendeva posizione di fronte agli agnostici in materia religiosa, che ritengono impossibile stabilire razionalmente l'esistenza d'un Dio personale.

Pio X, nell'enciclica Pascendi (8 settembre 1907), oltreché l'agnosticismo, riprovava anche il cosiddetto immanentismo vitale, per cui l'esistenza di Dio si proverebbe solo mediante l'interna esperienza religiosa; Pio XI nell'enciclica Studiorum Ducem (29 giugno 1923) proclama tuttora valide le prove addotte da Tommaso d'Aquino.

Quanto al primo punto, è da osservare che dimostrare l'esistenza di Dio, per la dottrina cattolica, non significa fornire le ragioni intrinseche di questa esistenza e manifestarne la naturale necessità; ciò non è possibile perché Dio è incomprensibile e non si adatta a schemi logici, che ne esauriscano l'infinità. Affermare la possibilità di questa dimostrazione significa soltanto, partendo da ciò che è, e dalle esigenze di ciò che è, dedurre che la prima causa - quella che suole chiamarsi Dio - esiste veramente: e cioè non solo nelle posizioni ideali soggettive del pensiero, ma anche nell'ordine obiettivo del reale. Per usare la terminologia tradizionale, Dio non si può dimostrare a priori, prendendo quale termine di partenza le cause di Dio stesso; ma a posteriori, risalendo alla sorgente dell'essere da quello che rientra nell'ambito proprio del potere conoscitivo dell'uomo (cfr. T. d'Aquino, Summa theol., p. 1, q. 2, a. 2). Si riconosce l'esistenza d'un rapporto tra il mondo e Dio, tra l'uomo e Dio, rapporto che tuttavia non implica il passaggio dal finito all'infinito, come se il finito racchiudesse e comprendesse in sé l'infinito. Si afferma soltanto che il finito richiede l'esistenza d'un infinito.

Quanto alle vere e proprie prove dell'esistenza di Dio, sono notissime le cinque "vie", indicate da Tommaso d'Aquino (Summa theol., p. 1, q. 2, a. 3). La prima è desunta dal moto (ex parte motus); la seconda, dalla causa efficiente (ex ratione causae efficientis); la terza, dalla contingenza (ex possibili et necessario); la quarta, dai gradi di perfezione (ex gradibus, qui in rebus inveniuntur); la quinta, dall'ordine (ex gubernatione rerum). A esse, cui venne posteriormente applicato il titolo di prove cosmologiche e teleologiche, si riducono in realtà anche le altre prove, che si adducono di solito. Tutte, anzi, sotto varî aspetti, ripetono e rinnovano l'unica forma argomentativa, che dall'effetto ascende alla causa.

Né giova solamente assegnare una causa prossima e immediata, fuon d'un fenomeno o d'una serie di fenomeni. È necessario procedere più oltre, finché non si sia additata una prima causa, al di là della quale non sia lecito procedere né ontologicamente né logicamente. Di causa in causa, si dovrà, finalmente, trovare la prima sorgente del moto e dell'essere. Essa possiede in sé piena la ragione della sua esistenza e attività; da altra non mossa, tutto muove; da altra non causata, tutto causa. Senza un primo, non si spiega l'ultimo; non si spiegano gli anelli intermedî dei sistemi organizzati e concatenati, costituenti un unico sistema cosmico. Dagli esseri manifestanti caratteri d'insufficienza e dipendenza si risale all'Essere in sé pienamente sufficiente e dotato d'assoluta indipendenza.

L'ascesa che ha luogo, risalendo la serie dei fenomeni, non si compie attraverso il tempo e la successione temporale, bensì attraverso le esistenze attuali, l'una condizione dell'altra, attualmente l'una all'altra comunicante essere, moto, attività. Il passato non è più: condizione del presente, quanto al divenire, esso non ne fornisce la ragione immanente né esteriore, sia prossima, sia remota. Si torna indietro nella serie dei fenomeni, nell'atto stesso e nel momento in cui, tra loro collegati, mutuamente si condizionano. L'ultimo non sta senza il precedente; gl'intermedî non stanno senza gli antecedenti. Se mancasse un primo, mancherebbero di colpo tutti. Non si darebbe dell'esistenza dei fenomeni e del movimento spiegazione adeguata; anzi non si darebbe nessuna spiegazione (cfr. T. d'Aquino, Sum. theol., p. 1, q. 2, a. 3).

La possibilità poi di acquistare una conoscenza della stessa natura divina rispondente ma non adeguata alla realtà, è affermata dall'insegnamento cattolico in base al principio stesso di causalità: quanto l'effetto possiede di essere e di perfezione, tutto si contiene nella causa, o in maniera più perfetta o almeno eguale. Ora Dio contiene in sé tutte le perfezioni. In quale maniera questo cumulo di perfezioni in lui sinteticamente si riducano a unità, rimane velato di mistero. Ma che in lui si ritrovino sovraeccedendo il modo d'essere proprio del finito, si dimostra dai teologi cattolici ricorrendo a un duplice processo di negazione e di sovraeminenza. Mediante il primo si rimuovono da Dio i modi d'essere inconciliabili con la sua natura, intravista, ma non adeguatamente compresa. Per mezzo dell'altro s'innalzano a un grado infinito i modi d'essere, compatibili con la natura della prima causa. Dio non è soltanto buono, sapiente, potente, ma infinitamente buono. sapiente, potente. L'intelletto umano lo attinge; non lo esaurisce. Dio è intelligibile, altrimenti nulla di lui si conoscerebbe; è incomprensibile, altrimenti non sarebbe più Dio.

Bibl.: Th. Granderath, Constitutiones dogmaticae sacros. oecum. Conc. Vaticani, Friburgo in B. 1892; J. Vacant, Études théologiques sur les constitutions du concile du Vatican, Parigi 1895; G. Grunwald, Geschichte der Gottesbeweise im Mittelalter ecc., Münster 1907 (Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters); A. Daniels, Quellen und Unters. zur Gesch. der Gottesbeweise ecc., Münster 1909; G. Mattiussi, Sulle "cinque vie" di S. Tommaso, in Riv. di fil. neoscol., 1913, pp. 67-72; R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Parigi 1919; C. Pesch, Pralectiones dogmaticae, 6ª ed., II, Friburgo in B. 1925; A. Zacchi, Dio, 2ª ed., Roma 1925, voll. 2; L. Billot, De Deo uno et trino, 7ª ed., Roma 1926; H. Lennerz, Natürl. Gotteserkenntnis. Stellungnahme der Kirche in den letzten hundert Jahren, Friburgo in B. 1926; E. Rolfes, Die Gottesbeweise bei Thomas und Aristoteles, 2ª ed., Limburgo 1926; J. Van der Mersch, Tractatus de Deo uno et trino, 2ª ed., Bruges 1928.

Dio nelle varie concezioni filosofiche. - L'esperienza religiosa, per quanto varia d'aspetti e di significati, è caratterizzata dalla coscienza che i problemi della vita - anzi la sua intima problematicità stessa, fondata sul contrasto tra l'essere oggettivo del mondo e le esigenze ideali delle persone - devono e possono trovare la propria soluzione solo in un ordine che trascende l'essere empirico determinato delle cose, degli uomini e dei loro rapporti. Quest'ordine è appunto la sfera del divino e la fede nella sua realtà è l'espressione dell'immediata certezza interiore della propria validità che accompagna la vita religiosa. Le diverse forme e le diverse relazioni secondo cui il trascendente assume concretezza per la mentalità collettiva determinano con la varietà dell'esperienza religiosa anche la varieià delle immagini e del contenuto intuitivo del concetto di Dio (v. divinità).

Nella concezione monoteistica, tra gli altri elementi che concorrono a formarla, il teoretico, che nel concetto di Dio introduce e svolge l'esistenza d'un assoluto principio o fondamento della realtà, ha una particolare importanza. Già il processo secondo cui l'esperienza religiosa, accentuando e purificando il suo senso spirituale interiore, tende a porsi come autonoma e universale, implica che essa si liberi dalla contaminazione di contenuti particolari e che si organizzi in forma universale teoretica secondo un sistema coerente di concetti. Questo sistema, in quanto, pur dando forma universale all'esperienza religiosa e liberandola dalla particolarità fantastica del mito, si determina in funzione del punto di vista religioso stesso, costituisce la teologia; ma là dove esso tende a valere come interpretativo della realtà in generale e a trasformarsi in un sistema di pure categorie razionali, dà luogo allo sviluppo del pensiero speculativo. Benché non sia facile fissare concretamente i limiti dei due campi, è necessario considerare separatamente il concetto di Dio nel campo teologico e il suo sviluppo nella speculazione filosofica. Ogni teologia è sempre lo svolgimento d'un sistema concettuale sulla base d'una concreta esperienza o tradizione religiosa assunta come assolutamente valida; essa quindi è di principio sempre determinata dal contenuto particolare delle singole religioni positive, benché valga a purificarle e a mettere in luce ciò che vi è in esse di universalmente religioso. Ma anche là dove - come nelle religioni superiori - raggiunge un piano di maggiore universalità, il pensiero teologico rimane vincolato al principio dell'assoluta validità dell'esperienza religiosa o dei suoi momenti, o, in altri termini, della realtà eminente di Dio.

Ora nel concetto del divino sono essenzialmente compresi due elementi: l'uno è l'assoluta trascendenza alla realtà empirica, l'altro è la potenza di risoluzione e d'armonizzazione in esso implicita di fronte alla problematicità della vita. Di qui nasce un duplice indirizzo per la definizione dell'essenza e degli attributi divini: da una parte (via negationis) si procede per mezzo dell'esclusione e negazione di tutte le proprietà e qualità del finito (infinità, immaterialità, incorporeità, ineffabilità, inconoscibilità, ecc.); dall'altra (via eminentiae), per mezzo dell'esaltazione di tutte le forme della vita in cui essa esprime la forza di risolvere, superandoli, i suoi problemi e i suoi contrasti, cioè di tutti gli aspetti di perfezione (spiritualità, onnipotenza, onnipresenza, onniscienza, somma verità, bellezza, bontà, ecc.). Questa duplice polarità del concetto di Dio si riflette sulla concezione dei suoi rapporti col mondo e con la personalità spirituale. Per rispetto al mondo, Dio è, secondo un punto di vista, l'assoluto trascendente, distinto da quello per essenza, e in ciò sta appunto il fondamento della concezione teistica - del concetto di Dio come realtà in sé assoluta e perfetta separata dall'universo finito; secondo l'altro, Dio è principio interiore d'unità e di vita del mondo stesso, a cui tutti gli esseri si richiamano come a proprio sostegno, e in ciò appunto sta il fondamento della concezione panteistica - del concetto di Dio come verità e realtà radicale di tutti gli esseri. Ugualmente, per rispetto alla persona, Dio, è da un lato il giudizio che si volge contro il suo essere, contro le sue azioni, i suoi pensieri, l'Eterno in sé perfetto, dinanzi a cui il finito non è se non colpa, miseria, peccato, perdizione; ma dall'altro Dio è l'interiore principio della spiritualità, l'intima scintilla da cui l'anima prende luce e vigore. Il primo può dirsi il senso numinoso della divinità, per cui essa si pone in netta antitesi con la persona finita; il secondo è il senso mistico, in cui si esprime l'unione e l'essenziale identità di natura tra l'anima e Dio.

Questi sono i momenti del concetto del divino considerati nella loro astrattezza, cosi come effettivamente possono venire fissandosi nello sviluppo razionalistico del pensiero teologico. Ma ogni religione positiva, in quanto rappresenta una concreta sintesi del pensiero religioso, dà luogo a una teologia in cui questi momenti pur prevalendo l'uno sull'altro, sono o tendono ad essere conciliati. È da notare che, in generale, i punti di vista teistico e numinoso, da una parte, panteistico e mistico dall'altra, tendono a coincidere. Ma, di più, la separazione teistica fra Dio e il mondo non è mai tale che la realtà del primo, per la sua stessa eminenza, non fondi e risolva la realtà del secondo (creazione, provvidenza). E l'unione panteistica tra Dio e il mondo non è mai tale da non ammettere in tale unità un principio negativo di separazione. Così, la natura numinosa di Dio rispetto all'uomo, a cui si congiunge il concetto del peccato e della perdizione, non esclude il momento d'unità sotto forma di redenzione e di grazia, in cui hanno la loro garanzia il culto e la preghiera; mentre il concetto d'unità mistica s'accompagna spesso e anzi si fonda dialetticamente sulla coscienza negativa della miseria dell'uomo.

Per tal modo la sintesi concreta di vita rappresentata da ogni religione positiva si esprime in un complesso sistema teologico, dove sono mediati i momenti essenziali dell'idea del divino. In questa mediazione assume un particolare valore il concetto della personalità di Dio, che non solo si riconnette alla secolare tradizione mitica, ma ammette via eminentiae, la possibilità di un'elevazione infinita, in senso spirituale, dell'immagine di Dio, pur nei limiti dell'intuibilità, mentre d'altro lato risponde all'esigenza d'una soluzione concreta dei problemi dell'anima religiosa e d'una definita validità delle pratiche di culto. Ma quanto più quel sistema tende a svolgersi razionalmente, tanto più la struttura dialettica del concetto di Dio acquista rilievo e si precisa attraverso le dispute teologiche. Così il pensiero teologico, per ciò stesso che eleva l'esperienza religiosa a forma universale e autonoma, dissolve l'immediata certezza della fede, pone in discussione l'irriflessa validità dei suoi presupposti, e se non si arresta, come avviene generalmente, in una posizione dogmatica fondata sull'autorità e sulla tradizione, deve o rinnegare sé stesso nell'immediatezza della fede o affidarsi al criterio del pensiero puramente razionale.

È stato già rilevato del resto che per la tendenza stessa dello spirito religioso a porsi come criterio interpretativo della realtà in generale, le categorie teologiche tendono a risolversi in categorie teoriche. Per questa via l'idea di Dio si svolge secondo una nuova dimensione, diviene un concetto eminentemente speculativo, d'esplicazione e di sistemazione razionale dell'essere. I suoi momenti teologico-religiosi s'intrecciano a momenti speculativi, dànno loro concretezza e intuitività, ma di mano in mano che questi ultimi si sviluppano, che si organizzano in un sistema razionale, l'elemento intuitivo si dissolve, il concetto di Dio viene assumendo una pura funzione teoretica. Così in questo processo di razionalizzazione dell'esperienza religiosa, come al Dio della fede immediata e positiva s'era sovrapposto il Dio del pensiero teologico, a questo si sovrappone ora, e tende a risolverlo in sé, il Dio del pensiero filosofico. Naturalmente, nella storia della speculazione religiosa e particolarmente del concetto di Dio, questi tre punti di vista s'implicano spesso reciprocamente, dando luogo a sintesi complesse, ma qualche volta reagiscono tra loro, sia che la tendenza razionale si accentui e tenda a liberare il pensiero da ogni residuo di teologismo, tanto dai suoi atteggiamenti valutativi quanto dai suoi presupposti ontologici, sia che il motivo religioso si riaffermi nella sua originalità, secondo l'una o l'altra delle sue tipiche categorie, introducendo così nella concezione di Dio un momento di irrazionalità. Questa dialettica segnata qui nel suo senso fondamentale si manifesta storicamente in forme così varie e complesse, ricche di sfumature e in cui interferiscono così numerosi motivi culturali e teoretici, da non poter essere riconosciuta nella sua verità se non attraverso analisi particolari.

Quanto alle forme in cui il concetto di Dio nel pensiero filosofico è introdotto come principio di sistemazione ed esplicazione razionale, è noto che già Hegel stabilì la corrispondenza delle definizioni filosofiche di Dio con la categoria della ragione. Semplificando si può così distinguere: A) secondo il punto di vista ontologico, come principio supremo della realtà, Dio può essere concepito: a) come l'Essere assoluto (Parmenide); b) come la causa trascendente del mondo (Simbolo del concilio di Nicea); c) come fine dell'universo (Aristotele); d) come sostanza immanente (Spinoza). B) secondo il punto di vista logico, Dio può essere concepito come principio supremo dell'ordine del mondo, della ragione nell'uomo, della corrispondenza tra il pensiero e le cose (Platone, Leibniz). Queste categorie possono a loro volta sovrapporsi e connettersi nell'idea di Dio, anche in funzione dei motivi teologico-religiosi a volta a volta affioranti. La più totalitaria trasposizione in senso razionale dell'idea di Dio è quella compiuta da Hegel, per cui Dio è il processo eterno in cui l'idea - come principio razionale del mondo - giunge a coscienza della sua assoluta universalità e autonomia.

Con l'universalizzazione teoretica dell'esperienza religiosa, all'immediatezza della fede si sostituisce la mediazione razionale: alla certezza dell'esistenza di Dio, le sue prove. La loro enunciazione e discussione costituisce uno dei compiti fondamentali della speculazione teologica. Se si faccia astrazione dal fine apologetico che ha dato loro la forma di prove, esse appaiono come il rilievo dei momenti universali costitutivi dell'idea di Dio. In questo senso si possono così riassumere: A) prove relative al momento religioso dell'idea di Dio: a) prova dell'esperienza religiosa personale diretta e della sua certezza e validità immediata (Giustino, Giovanni Damasceno, Tertulliano, gli scolastici, i mistici, Campanella, Descartes); b) prova dell'universalità dell'esperienza religiosa - e consensu gentium - (Aristotele, Cicerone, Clemente Alessandrino).

B) prove relative al momento etico dell'idea di Dio: a) prova della fonte trascendente all'anima umana del sentimento e della coscienza morale (Paolo di Tarso, gli stoici romani, Melantone, Calvino); b) prova derivante dall'esigenza d'affermare l'assoluta validità del mondo morale e risolvere l'opposizione di questo col mondo naturale (Kant).

C) prove relative al momento teoretico dell'idea di Dio: a) prova ontologica: l'esistenza di Dio è implicita nella sua idea, in quanto essa è l'idea dell'assoluto ordine razionale (dell'assoluta totalità o dell'assoluta perfezione), che, come tale, è in sé assolutamente necessario, si giustifica in sé e nella sua essenza stessa pone la sua esistenza. Questa è insieme fondamento della realtà tutta e del pensiero, e la sua idea non può essere un prodotto della coscienza singola, ma piuttosto è il riflettersi in essa dell'assoluto ordine di ragione, come criterio al suo pensiero (Anselmo di Canterbury, Agostino, Descartes, Spinoza, Leibniz, Hegel); b) prova cosmologica: la finità e la contingenza del mondo, la serie causale dei fenomeni, rimanda a un principio, a una causa prima (Anassagora, Aristotele, Cicerone, Agostino, Giovanni Damasceno, Gregorio di Nissa, al-Fārābī, Averroè, Maimonide, Ugo e Riccardo di S. Vittore, Tommaso d'Aquino, Descartes, Locke, Leibniz, Wolff, Voltaire, Schleiermacher, Lotze); c) prova fisico-teleologica: l'ordine del mondo rimanda a un fine supremo, a un'assoluta potenza ordinatrice (Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele, gli stoici, Cicerone, Filone, Minucio, Tertulliano, Lattanzio, Agostino, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Damasceno, gli scolastici e Tommaso d'Aquino, Leibniz, Wolff, Hutcheson).

Le prove dell'ultima categoria nate nella filosofia greca, riprese dalla patristica e dalla scolastica, furono accolte dal razionalismo del secoli XVII e XVIII e divennero (cosmologica e fisico-teologica) il fondamento della teologia naturale illuministica. La critica a esse coincide con la critica al razionalismo dogmatico, sia da un punto di vista scettico (Sesto Empirico), sia da un punto di vista empiritistico (Hume), sia da un punto di vista critico-trascendentale (Kant), per cui l'idea di Dio, come assoluta sintesi razionale dell'esperienza non è, dal punto di vista teoretico, che un'idea limitata dalla ragione. Contro tale critica si volge Hegel, per il quale, come già per Spinoza, l'argomento ontologico non è assunto quale prova, ma quale definizione dell'idea di Dio, ossia dell'assoluta realtà. Le prove della seconda e della prima categoria sogliono, a scopo apologetico, accompagnarsi a quelle dell'ultima, ma quando queste e specialmente l'ontologica prevalgono, indizio di una radicale trasposizione del concetto di Dio in senso puramente teoretico, le prove morale e religiosa hanno valore dialettico di reazione. Con tale senso troviamo la prima in Kant e in Ritschl, la seconda, pur sboccando a intuizioni tutt'affatto diverse della Divinità, in Jakobi, Schleiermacher, Kierkegaard e nei mistici in generale.

Bibl.: Sull'origine e sviluppo dell'idea di Dio: A. Lang, The Making of Religion, 3ª ed., Londra 1909; W. Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee, Münster 1926, 1929, 1931; N. Söderblom, Das Werden des Gottesglaubens, 2ª ed., Lipsia 1926; R. Pettazzoni, Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo, Roma 1922. - Sui momenti costitutivi dell'idea di Dio in rapporto all'esperienza religiosa: H. Scholz, Religionsphilosophie, 2ª ed., Berlino 1922; M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Lipsia 1921; G. Wobbermin, Das Wesen der Religion, 2ª ed., Lipsia 1925; E. Troeltsch, Glaubenslehre, Monaco 1925: P. Hofmann, Das religiöse Erlebnis, Charlottenburg 1925; R. Otto, Das Heilige, 2ª ed., Breslavia 1920. - Sull'idea filosofica di Dio in rapporto al concetto teologico e alla rappresentazione immediata della fede: La Querelle de l'Athéisme, in Bull. de la Soc. fr. de philos., 1928; E. Le Roy, Le problème de Dieu, Parigi 1929; D. Parodi, Le rationalisme et l'idée de Dieu, in Rev. de Mét. et Mor., 1930. - Sullo sviluppo e significato dell'idea di Dio nella storia della filosofia: R. Eisler, Wörterbuch der philosophischen Begriffe, I, 4ª ed. 1927, pp. 580-599, con ricche indicazioni bibliografiche. Per un esame della storia e del valore delle prove dell'esistenza di Dio, vedi: M. Schulze, Wert u. Unwert d. Beweise f. das Dasein Gottes, Görlitz 1905; Fr. Sawicki, Die Gottesbeweise, Paderborn 1926.

Iconografia. - È noto il divieto di qualsiasi raffigurazione di Dio, fatto agli Ebrei nell'Antico Testamento e passato dal giudaismo all'islamismo. Quanto all'arte cristiana, raffigurare in forma sensibile la cosa assolutamente più aliena dal senso, la natura divina, è il tema più arduo che in essa si possa proporre. Niuna meraviglia quindi che nel periodo primitivo quell'arte ci rinunciasse, anche per il ricordo del divieto suaccennato e per cautela di fronte all'antropomorfismo del paganesimo. E perciò ricorse al simbolo. In un affresco del sec. II nella cappella dei Sacramenti nelle catacombe di Callisto sopra una barchetta sbattuta dalle onde sta ritto con le braccia alzate un giovane in pericolo di naufragio, e intanto da un nimbo ovale in alto s'affaccia con due fasci di raggi e tutto il busto un giovane imberbe che protende il braccio destro e glielo posa sul capo con un'allusione evidente all'aiuto celeste: il pittore ha bellamente trasformato in senso cristiano un esempio classico. Tutta l'arte era allora troppo informata alle tradizioni classiche, per contentarsi di rappresentare una mano soltanto o un braccio, senza il busto. Cotali simboli staccati non compariranno prima del sec. IV, nelle storie ove una mano tra le nubi appare a fermare il braccio d'Abramo, a proteggere i tre fanciulli nella fornace di Babilonia, ecc. Da allora in poi pitture e mosaici la introducono facilmente come simbolo della presenza divina senza più.

La difficoltà di trovare un'immagine di Dio non era tanto tecnica, quanto dottrinale. Si trattava di richiamare in figura il concetto d'un Dio, personale, in quanto cioè è uno, solo, incomunicabile, affatto distinto da tutto il mondo creato. D'altra parte la fede professava nel modo più espresso una Trinità in quella somma unità divina, Quale dunque delle tre persone divine si doveva raffigurare? E come? Ora il criterio invalso nella Chiesa e divenuto la norma dell'iconografia per tal proposito, si riduce a questo: potersi Iddio rappresentare sotto alcuno di quegli aspetti, nei quali si manifestò agli uomini. D'altra parte quando nella Sacra Scrittura è fatta menzione di Dio senza distinzione di Persone, quantunque la comune accezione riferisca quel vocabolo alla prima, cioè al Padre, nondimeno l'antichità cristiana non ne formò in pittura un tipo ben definito e costante. Tanto che nelle scene bibliche dei mosaici di S. Maria Maggiore (sec. IV o V), dove occorre l'intervento di Dio esso sempre apparisce sotto le sembianze giovanili di Cristo e tale costume si protrae per tutto il sec. XII, come nei mosaici di Palermo e di Monreale; talvolta più oltre ancora, come nelle sculture sulla facciata del duomo d'Orvieto (sec. XIV). Ma il tipo d'Iddio Padre, l'Antiquus dierum, descritto da Daniele (7, 9 segg.) in aspetto di vecchio venerando, canuto, con lunga barba e capelli, non si presenta in Occidente prima del sec. XIII: dal quale tempo in poi prevale senz'altro, quale tipo stabilito, perenne. Noti e insuperati esempî sono quelli lasciati da Michelangelo nelle storie della Creazione nella cappella Sistina, da Raffaello nelle Logge e in particolare nella Visione d'Ezechiello (Pitti). Esso invece - l'"Antico dei giorni", cfr. Daniele, II, 9; 13; 22) - era nell'arte bizantina già nel sec. XI. Il Verbo divino o Figlio di Dio, ebbe spontanea raffigurazione nella natura umana da lui assunta (v. gesù cristo). E lo Spirito Santo dal racconto evangelico stesso fu simboleggiato nella colomba (Luc., 3, 22; Io, 1, 32 segg.); simbolo che rimase nella tradizione classico, inviolabile, aggiuntovi talora il nimbo crucigero, occorrendo significare la divinità della Persona. A rappresentare poi le tre Persone insieme riunite, cioè il mistero dell'indivisibile Trinità, s'ingegnò alle volte il Medioevo, o con alcuni tentativi disadatti per materiale e puerile simbolismo, o peggio per mostruose figure umane con tre capi, ovvero con tre facce in un solo capo, espedienti riprovevoli e riprovati dalla Chiesa e dal buon senso cristiano. Altre volte dispose tre persone umane a un medesimo livello, con un medesimo sembiante, e ugualissime fattezze, vestito e aspetto, ciascuna col suo attributo, lo scettro al Padre, la croce al Figlio, la colomba allo Spirito Santo. Di questo genere è l'immagine notissima, probabilmente trasportata dall'Oriente dai basiliani nel sec. IX, che si venera nel santuario della SS. Trinità al Monte Autore. Del resto per il pericolo d'insinuare il triteismo, neanche questo tipo di figurazione ebbe gran diffusione. Altri si ridusse a effigiare in figura umana il Padre e il Figlio, e tra i due lo Spirito Santo in forma di colomba. E altri, meglio ancora, il Padre in alto, nel suo seno il Figlio o crocifisso o altrimenti in umana forma, tra loro due lo Spirito Santo significato per la colomba. A questo tipo si possono riportare le due composizioni di Alberto Dürer (Vienna) e quella di Raffaello nella Disputa del SS. Sacramemo nelle Stanze vaticane.

Bibl.: R. P. Garrucci, Storia dell'arte cristiana, Prato 1873-1881; G. Wilpert, Le pitture delle catacombe romane, Roma 1903; R. Künstle, Ikonog. der christl. Kunst, Friburgo in B. 1928; J. Molanus, De hist. Ss. Imaginum et picturarum pro vero earum usu contra abusus, II, Lovanio 1771, c. 2-4 (anche in Zaccaria, Thesaurus Theol., IX, Venezia 1762); Benedetto XIV, Breve al vescovo d'Augusta, 1° ottobre 1745 (Ben. XIV, Op. omn., XV, Prato 1845).

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