COMPAGNI, Dino

Enciclopedia Italiana (1931)

COMPAGNI, Dino

Bernardino Barbadoro

Nato poco prima del 1260, in Firenze, è contemporaneo di Dante, anzi gli è compagno di fede e di sventura, sebbene più aderente alla tradizione guelfa e non proscritto dai Neri. Esordì poeta, perché probabilmente appartengono alla gioventù le rime che vanno sotto il suo nome e, se suo, il poemetto allegorico L'intelligenza. Ma fu piuttosto mercante che uomo di lettere; e se il suo nome è raccomandato alla Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, essa, più che lo storico o il cronista, rivela un popolano di onesta coscienza, innamorato d'una patria nobilissima, che la sua fede ingenua non riuscì a salvare dagli odî feroci delle parti. Codesta patria egli servì nelle pubbliche cariche, passando dai magistrati delle arti ai pubblici uffici: fu console dell'arte della seta due anni dopo la sua immatricolazione, che è del 1282; e poi ancora nel 1286, nel 1289, nel '91, nel '94, nel' 99; partecipò ai consigli del comune nella sua qualità di capitudine come "savio", ossia esperto dei pubblici negozî, indipendentemente dalle sue cariche nell'arte; fece parte di speciali commissioni, come per le gabelle nel 1290 e per la revisione degli statuti nel 1294; salì due volte al priorato, della cui istituzione era stato fautore nel 1282, e toccò anche il più alto fastigio dei pubblici onori: il gonfalonierato di giustizia. Volle il caso che egli appartenesse a quel supremo collegio dei priori (15 aprile-15 giugno 1289; 15 ottobre-7 novembre 1301) e che lo reggesse col gonfalone della giustizia (15 giugno-15 agosto 1293) in momenti di eccezionale importanza. Infatti, cade nel primo priorato la guerra aretina, che fruttò a Firenze la vittoria di Campaldino e che nella costituzione interna segnò quel "cominciamento di popolo" onde poi scaturirono gli ordinamenti di giustizia; durante il gonfalonierato fu conclusa la pace con Pisa, onde l'egemonia fiorentina dopo la vittoria su Arezzo si affermava agli opposti confini di Toscana; il secondo priorato, che giusta l'apostrofe dantesca non giunse a mezzo novembre, e cioè non durò l'intero bimestre, fu l'ultimo di parte bianca; anzi nei verbali consiliari l'attività estrema di quel partito è segnata da un consiglio convocato dal C. "proposto dei priori". Tremenda veramente la responsabilità di quel priorato che doveva fronteggiare la subdola azione pacificatrice di Bonifacio VIII, contenere le insidie e le offese degli avversarî, accogliere come paciere Carlo di Valois, sperimentare la slealtà del "sangue reale di Francia". Il C. a tutto questo provvide, spesso di sua personale iniziativa e con tattica altrettanto conciliante quanto ingenua. Tornati gli ambasciatori dalla Curia e significata la volontà del papa che Firenze si rimettesse in lui, egli tenne un consiglio segreto per procurar l'obbedienza e influire al tempo stesso sulla scelta dell'arbitro; approssimandosi il Valois, che gli onesti avrebbero dovuto accogliere come vero paciere, ebbe il "santo e onesto pensiero" di radunare in San Giovanni tutti i magistrati coi cittadini più autorevoli, onde sopra il fonte del comune battesimo giurassero tra loro "buona e perfetta pace"; cominciata l'opera nefasta del principe, toccò a lui il 5 novembre, con altri due priori, presentarsi al parlamento, in piazza S. Maria Novella, e ricevere egli stesso dagli ufficiali di Carlo il giuramento che il principe si assumeva la custodia della città. Ma non tarda a palesarsi il tradimento: allora il buon popolano impreca alla "fede della real casa di Francia" e confessa il fallimento della sua politica, volta a far propaganda di pace quando più conveniva "arrotare i ferri". Egli stesso è politicamente finito: bandito dagli alti uffici, trascorre il resto della sua vita senza rilievo, fino alla morte, avvenuta il 26 febbraio 1324. Fu sepolto nella chiesa di S. Trinita.

Nell'azione drammatica del 1300-01 è forse la genesi di quell'aureo libretto che è piuttosto commentario che cronaca. Infatti fu proposito dell'autore scrivere a utilita dei posteri "i pericolosi avvenimenti non prosperevoli, i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, spezialmente nell'anno del giubileo dell'anno 1300". Dunque argomento centrale sono i fatti del 1300, culminati nel suo secondo priorato, cominciando dalla pace del cardinale Latino (1280) e scendendo fino all'impresa italica di Arrigo VII, come precedenti e conseguenze di quei fatti. Codeste conseguenze, come nuova materia alla recentissima storia, il C. aveva potuto meditare negli anni grigi del suo isolamento in patria, e allo scomparire dei tristi protagonisti della parte avversa egli aveva potuto assistere, da Corso Donati a Betto Brunelleschi, come colpiti dalla giustizia divina, quasi a predisporre gli eventi a un'illusoria pacificazione degli animi. Perché il C., se poté concepire la sua Cronica fin da quando cedeva alla forza degli avversarî, ne maturò il disegno soltanto all'approssimarsi di Arrigo VII, autentico paciere nell'aspettazione dei vinti, quasi "agnol di Dio" e "addirizzatore d'Italia"; e la scrisse appunto tra il 1310 e il 1312. La genesi dell'operetta ne lumeggia il carattere. È troppo opera di vita vissuta perché possa concludere in una serena e precisa valutazione di uomini e di cose; e di continuo invece vi s'avverte il rimpianto del tempo antico, lo sdegno del presente tutto corruzione e malvagità, il dolore per la rovina di Firenze, l'attesa trepida del vendicatore giudizio di Dio commista con la speranza che venga il paciere invocato (Arrigo VII) a ricondurre la quiete nella città travagliata. Di fronte all'età sua, Dino assume dunque, e con maggiore ingenuità, lo stesso atteggiamento di risoluta condanna ch'è in Dante. Ma questo appunto, se rende forzatamente unilaterale il giudizio dello storico, dà vita e anima alla narrazione, nella quale ci si presenta dinnanzi un uomo, onesto e buono, che mette a nudo tutto sé stesso, che grida la sua passione, con tale profonda sincerità ch'è difficile leggere la Cronica senza commozione. Qui è il massimo pregio dell'operetta; alla quale poi si devono notizie copiose, utili e talore preziose su quell'agitato periodo di storia fiorentina. E tuttavia la Cronica è stata, nella seconda metà del secolo scorso, impugnata come apocrifa, per ragioni filologiche e storiche, da parte della critica, e specialmente dallo Scheffer-Boichorst. Ma una risposta esauriente e definitiva alle obiezioni degl'ipercritici venne con l'opera poderosa di I. Del Lungo, dopo la quale non è stato più possibile discutere dell'autenticità della narrazione del C.

Ediz.: Numerosissime le edizioni a partire da quella muratoriana (sotto il titolo di Chronicon Florentinum italica lingua scriptum) in Rerum Italicarum Scriptores, IX, coll. 467-536. Oggi bisogna riferirsi a quelle a cura di I. Del Lungo, nel vol. II dell'opera Dino Compagni e la sua Cronica (nel vol. III, testo secondo il codice ashburnhamiano), e nella nuova edizione dei Rerum Italicarum Scriptores, fasc. 117-119, Città di Castello 1913. Di più comodo uso pratico, quella ad uso delle scuole di I. Del Lungo, 6ª ristampa, Firenze 1911 (con aggiunta la canzone morale del Pregio); e di R. Piccoli, Lanciano 1911 (aggiunte le Rime e l'Intelligenza).

Bibl.: Del Lungo, D. C. e la sua Cronica, voll. 3, Firenze 1879-87 (ivi, vol. III, la storia della questione dell'autenticità della Cronica).

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