DIFFUSIONE

Enciclopedia Italiana (1931)

DIFFUSIONE

Franco RASETTI
Umberto FORTI

. Diffusione della luce. - Diffusione sulla superficie dei corpi. - La superficie di un corpo si può comportare in modi diversi quando su di essa si faccia cadere un raggio luminoso. Alcuni corpi assorbono, cioè non rimandano la luce che vi cade sopra (corpi neri). Altre superficie respingono il raggio incidente, almeno per una certa frazione della sua intensità, in una direzione ben determinata dalle leggi della riflessione (superficie metallica levigata, superficie dell'acqua). Vi sono infine delle superficie le quali, pur non assorbendo del tutto la luce, neppure la riflettono regolarmente, bensì la sparpagliano in tutte le direzioni. Diciamo allora che si ha una superficie diffondente. Se la diffusione è completa uniformemente per tutti i colori di cui si compone la luce, la superficie è bianca (p. es., un foglio di carta bianca, un vetro smerigliato, la neve); se si ha diffusione prevalente per qualche colore, la superficie è colorata.

La diffusione si presenta tutte le volte che la superficie riflettente di una sostanza viene resa scabra, cioè costituita da moltissime faccette orientate irregolarmente in tutte le direzioni. Allora ciascuna faccetta riflette la luce in una direzione determinata, e si ha l'effetto complessivo dello sparpagliamento.

Caratteristica di una superficie perfettamente diffondente è la legge del coseno, secondo la quale la luce diffusa dall'unità d'area, in una certa direzione, è proporzionale al coseno dell'angolo α che questa direzione forma con la normale alla superficie. Poiché l'area effettiva osservata sotto un determinato angolo solido è inversamente proporzionale a cos α, ne segue che la superficie appare ugualmente luminosa, veduta sotto qualsiasi angolo. Un muro bianco, p. es., soddisfa a questa legge con molta approssimazione.

Diffusione nelle soluzioni colloidali, e diffusione molecolare. - Se si fa passare un raggio di luce attraverso a un liquido o a un gas, il quale contenga in sospensione minute particelle, il raggio stesso si rende visibile come una striscia luminosa. Ciò si deve al fatto che la luce, incontrando una particella, anziché proseguire indisturbata nel suo cammino rettilineo, viene deviata e dispersa in tutte le direzioni, ossia diffusa. Questo fenomeno, studiato per il primo da I. Tyndall nel 1868, si può osservare con notevole intensità in sospensioni di particelle di qualsiasi natura, e anche in sostanze generalmente appartenenti alla classe dei colloidi, che non si possono chiamare sospensioni nel senso ordinario (gelatine). Infine come vedremo, esso si manifesta anche nelle sostanze trasparenti perfettamente pure, sebbene in misura estremamente attenuata.

È qui opportuno distinguere in modo rigoroso il fenomeno di Tyndall dalla fluorescenza. Se la luce che attraversa il liquido o il gas diffondente è bianca, e le particelle a cui è dovuta la diffusione sono estremamente piccole, la luce diffusa appare azzurra. Per questo non si deve credere che nel fenomeno della diffusione avvenga un cambiamento di colore, cioè di lunghezza d'onda, della luce stessa. Il fatto accennato dipende da ciò, che la luce azzurra viene diffusa con maggiore intensità della luce rossa, e perciò la prima dà un contributo maggiore al fenomeno di Tyndall. Ma se noi facciamo l'esperienza con luce monocromatica, cioè contenente una sola lunghezza d'onda, troviamo che anche la luce diffusa ha rigorosamente la stessa lunghezza d'onda.

Diciamo invece che si tratta di fluorescenza, allorché la luce diffusa ha lunghezza d'onda diversa e, in larga misura, indipendente da quella della luce primaria. Gli olî lubrificanti, le soluzioni di eosina e di fluoresceina, il vetro all'uranio, il platinocianuro di bario costituiscono esempî ben noti di sostanze fluorescenti.

La luce diffusa viene sottratta al raggio primario, il quale viene così ad essere indebolito man mano che esso si propaga attraverso alla sostanza. I corpi diffondenti presentano perciò necessariamente un assorbimento della luce, tanto maggiore per i colori che vengono più fortemente diffusi. Il fumo di sigaretta appare azzurrognolo per diffusione; ma una sorgente di luce bianca, osservata attraverso a un grosso spessore di fumo, appare rossastra, perché la luce rossa, meno diffusa, lo attraversa più facilmente.

Se osserviamo la luce diffusa in una direzione perpendicolare al raggio primario, attraverso ad un prisma di W. Nicol, troviamo che essa, in misura maggiore o minore, è polarizzata, e precisamente che il piano in cui il vettore elettrico ha maggiore ampiezza è sempre normale al raggio primario. Il grado di polarizzazione dipende dalla natura, dalla grandezza e dalla concentrazione delle particelle diffondenti. Questo fatto della polarizzazione stabilisce un altro criterio di distinzione tra diffusione e fluorescenza, in quanto la luce di fluorescenza non è polarizzata.

La teoria della diffusione è dovuta sostanzialmente a lord Rayleigh (1871). Supponendo le particelle diffondenti sferiche, e le loro dimensioni lineari piccole in confronto alla lunghezza d'onda, si trova una formula che dà l'intensità e lo stato di polarizzazione della luce diffusa in ogni direzione. I risultati più interessanti della teoria, e che l'esperienza conferma, sono i seguenti: 1. l'intensità totale diffusa è inversamente proporzionale a λ4 (λ = lunghezza d'onda); 2. essa è anche proporzionale a NV2, dove N è il numero totale delle particelle e V il volume di ciascuna. Ne segue che a parità di massa di sostanza diffondente (cioè tenendo NV costante) si ha diffusione minore quanto più essa è finemente divisa; 3. la luce diffusa è completamente polarizzata.

La teoria è stata in seguito estesa per includere il caso che le particelle non siano sferiche, che le loro dimensioni non siano trascurabili in confronto alla lunghezza d'onda, e che la loro concentrazione sia così forte da non poter più ammettere che esse agiscano isolatamente. Così sono stati spiegati i fenomeni di parziale depolarizzazione, e il fatto che in certe condizioni la luce è diffusa di preferenza in direzioni che formano angoli acuti col raggio primario. Nei colloidi metallici si osservano anomalie nel colore della luce diffusa, le quali vennero spiegate tenendo conto delle particolari proprietà ottiche dei metalli.

Il fenomeno Tyndall si presenta pure, sebbene con intensità molto ridotta, in qualsiasi sostanza trasparente solida, liquida o gassosa perfettamente pura. Data l'assenza di particelle in sospensione, dobbiamo ammettere che, in questo caso, le stesse molecole costituiscano i corpuscoli diffondenti. Di qui il nome di diffusione molecolare. L'effetto è abbastanza facilmente osservabile nei solidi e nei liquidi (per es., con notevole intensita nel benzolo o nel tetracloruro di carbonio); invece soltanto con grande difficoltà nei gas, a causa della debolissima diffusione. A meno che non si osservi un grandissimo spessore del gas, nel qual caso la luce diffusa può rendersi facilmente visibile. Per esempio, alla diffusione nell'aria è dovuto il colore azzurro del cielo (v.), il quale, in assenza di atmosfera, sarebbe perfettamente nero.

Molto di quanto si è detto a proposito della diffusione da parte di particelle colloidali, vale per la diffusione molecolare. Qui, naturalmente, la condizione che le dimensioni delle particelle siano piccole in confronto alla lunghezza d'onda è sempre verificata. Tuttavia si presenta spesso il fenomeno della parziale depolarizzazione della luce diffusa, dovuto all'assenza di simmetria sferica delle molecole stesse. Anzi, la misura del grado di depolarizzazione nei gas e nei vapori, dove le molecole sono sufficientemente distanti l'una dall'altra per non disturbarsi reciprocamente, ha permesso di determinare la maggiore o minore asimmetria delle rispettive molecole. Abbiamo già detto che l'intensità della diffusione dipende dallo stato di divisione più o meno fine delle particelle. Questo fatto ha dato luogo a un'interessante applicazione, poiché una misura dell'intensità della diffusione molecolare permette di determinare il numero N di molecole contenuto in un grammo-molecola di una sostanza (numero di Avogadro). Si sono così trovati valori di N compresi tra 6 e 7,5 × 1023; in buon accordo col valore più preciso determinato per altra via, 6,06 × 1023. Questa coincidenza toglie ogni dubbio sull'origine molecolare defla diffusione.

Recentemente si è trovato (C. V. Raman, 1928) che la diffusione molecolare è sempre accompagnata da una debolissima diffusione di nuovo tipo, in cui la luce diffusa ha frequenza diversa da quella della luce primaria. La differenza di frequenza mn dipende dalla luce impiegata, ma è caratteristica della sostanza, e per questo ha permesso di dedurre importanti informazioni sulla struttura delle molecole. Il fenomeno di Raman, che si può considerare come qualche cosa d'intermedio fra la diffusione e la fluorescenza, si spiega molto bene con le moderne teorie quantistiche sulla struttura della materia, e ne costituisce una brillante conferma.

La diffusione della luce nei gas assume un'intensità eccezionale quando la frequenza della luce primaria coincide con una frequenza propria dell'atomo o della molecola. Si parla in questo caso di diffusione di risonanza. Il fenomeno si può osservare facilmente nei vapori di mercurio o di sodio. In questo ultimo caso, la luce diffusa essendo nello spettro visibile (riga gialla del sodio), l'effetto è straordinariamente appariscente.

Una diffusione analoga a quella della luce presentano, nel passaggio attraverso ai corpi, le radiazioni di più alta frequenza (raggi X, e raggi y delle sostanze radioattive). In questo caso, le particelle diffondenti non sono più le molecole o gli atomi, ma le ultime particelle costituenti la materia, gli elettroni. Le leggi di questi fenomeni, e particolarmente della modificazione di frequenza nella diffusione (effetto Compton), hanno gettato molta luce sulla natura degli scambî energetici tra la materia e la radiazione.

Bibl.: J. Tyndall, in Proc. Roy. Soc., Londra 1868; J.W. Rayleigh, in Phil. Mag., 1871, 1897, 1899; J. Cabannes, La diffusion moléculaire de la lumière, Parigi 1929; R. Gans, Lichtzerstreung, in Wien-Harms, Handbuch der Experimentalphysik, Lipsia 1929; Pringsheim, Ramanspektra, in Geiger-Scheel, Handbuch der Physik, Berlino 1929.

Diffusione del calore.

Ciò che si è detto a proposito della diffusione nel caso della luce può ripetersi per il calore. Del calore che un corpo rimanda indietro una parte viene riflessa, un'altra diffusa. Il calore riflesso predomina di gran lunga se la superficie del corpo è lucida e ben tersa (superficie speculare). Al contrario se la superficie è scabra e irregolare il calore viene diffuso. Intrinsecamente però la diffusione non differisce dalla riflessione: essa è l'insieme di una grandissima quantità di riflessioni che si compiono nei varî punti della superficie scabra in direzioni diverse e in modo del tutto disordinato.

L'esistenza del calore diffuso fu provata da Macedonio Melloni cui si debbono in genere i primi e più ampî studî condotti su questo soggetto. Come diversi corpi rischiarati da una stessa sorgente luminosa presentano varî colori, cioè rimandano indietro per diffusione luci di varie tinte, così anche corpi che ricevono il calore di una stessa sorgente rimandano indietro ciascuno una qualità speciale di calore. I varî corpi, cioè, sono diversamente termocroici per usare il termine coniato dal Melloni ad esprimere nel campo dei fenomeni termici ciò che si esprime nel campo dei fenomeni ottici con il termine "colorati". Vi sono dei metalli (platino, ferro, piombo, stagno, zinco, ecc.) che sono leucotermici, essi cioè riflettono ugualmente tutte le specie di raggi calorifici, precisamente come i corpi bianchi riflettono ugualmente tutti i raggi luminosi. Ma vi sono anche dei metalli termocroici (come l'oro, l'argento, il mercurio, il rame, ecc.). I corpi bianchi in genere si comportano anch'essi rispetto al calore raggiante non come leucotermici (bianchi), ma come termocroici (colorati).

Il potere di diffusione dei metalli varia notevolmente: quello dell'oro, dell'argento, dello stagno, del platino, del rame, supera quello dei corpi non metallici, mentre quello del piombo e del ferro, è notevolmente minore. Notevoli sono i seguenti risultati sperimentali: 1. i cristalli sono leucotermici; 2. la carta bianca e la vernice nera; la tela e la seta bianche e nere; l'oro, l'argento e il mercurio costituiscono gruppi di oggetti aventi la stessa termocrosi; 3. il nerofumo non assorbe tutto il calore ricevuto, ma ne diffonde sempre una piccola frazione.

Diffusione dei liquidi.

Versando con cautela del vino puro sopra l'acqua contenuta in un bicchiere si può ottenere che i due liquidi rimangano separati e sovrapposti. Per il principio di Archimede il vino essendo più leggiero dell'acqua dovrebbe rimanere perpetuamente al di sopra di essa; invece si vedrà la colorazione propria del vino procedere lentissimamente entro la massa limpida dell'acqua e al contrario divenire sempre meno intensa nelle parti superiori. Delle molecole di acqua nella loro incessante agitazione pervengono alla superficie di separazione dei due liquidi, la oltrepassano e si disperdono - per così dire - entro la massa di vino continuando in essa il loro incessante moto; e viceversa delle molecole di vino penetrano nell'acqua e vi rimangono. Per effetto di questa diffusione dell'uno nell'altro i due liquidi dopo un tempo più o meno lungo sono così intimamente mescolati insieme, che in ogni unità di volume del miscuglio è presente una stessa quantita di vino, sicché la concentrazione del miscuglio stesso è ovunque uniforme. Potrebbero naturalmente scegliersi esempî di molti altri liquidi che si diffondono l'uno nell'altro: così se in un bicchiere si pone dell'acqua colorata in viola con tintura di tornasole e poi con una pipetta di vetro si deposita sul fondo un po' di acido solforico, si vede l'acqua dal fondo arrossarsi per la presenza dell'acido. Lasciando il tutto in quiete la colorazione rossa sale a poco a poco, segno evidente che l'acido solforico - sebbene più pesante - non rimane al fondo, ma si diffonde entro l'acqua mescolandosi con essa. Effetto analogo si avrebbe con l'acido cloridrico.

La velocità di diffusione e l'influenza che su di essa hanno le diverse condizioni fisiche nelle quali si compie il fenomeno si possono studiare con varî metodi. Citeremo quello di lord Kelvin che offre un dispositivo assai utile per mettere in rilievo la diffusione fra i liquidi incolori. Esso consiste nell'immergere entro la massa liquida alcune perline cave di vetro aventi pesi specifici diversi e compresi fra quelli estremi dei liquidi di cui si studia la diffusione. Evidentemente le perline galleggeranno in tempi diversi ad altezze diverse, rivelando le variazioni di peso specifico dei singoli strati della massa liquida e fornendo così un rivelatore preciso della diffusione fra i due liquidi. Un metodo ugualmente efficace consiste invece nel prelevare (dopo qualche ora a seconda delle sostanze) dei campioni del miscuglio in varî strati equidistanti. Ripetendo più volte l'operazione e sottoponendo ad accurata analisi i campioni prelevati, ci si può fare un'idea abbastanza esatta dello svolgimento del fenomeno. Le esperienze eseguite in tal modo da T. Graham hanno messo in luce che: 1. la velocità di diffusione cambia con la natura dei liquidi messi in presenza; 2. tale velocità cresce rapidamente con la temperatura; 3. infine, nel caso in cui uno dei liquidi sia una soluzione (come quando dell'acqua colorata in azzurro con solfato di rame si diffonde in acqua pura) le molecole di soluto si portano dai punti di concentrazione maggiore verso i punti di concentrazione minore; e la massa M di soluto passata nel tempo t attraverso la superficie a alla distanza l, è proporzionale alla differenza di concentrazione c - c′ fra il punto di partenza e quello di arrivo, sicché si ha:

ove d è un coefficiente di proporzionalità (coefficiente di diffusione) caratteristico di ciascuna sostanza, e variabile con la temperatura. La grande differenza di comportamento fra le sostanze molto diffusibili e quelle poco diffusibili, ha indotto il Graham a distinguere le sostanze disciolte in cristalloidi e colloidi (v. colloidi).

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