Dieresi

Enciclopedia Dantesca (1970)

dieresi

Gian Luigi Beccaria

Due vocali contigue nel corpo della parola equivalgono di solito, nel computo del verso, a una sillaba sola; ma il poeta può talvolta tenerle distinte, per conferire loro una pronuncia disillabica: tale figura metrica si chiama d. (e d., dal gr. διαίρεσις, " disgiunzione ", anche il segno ortografico con cui si indica questo fenomeno).

Secondo una regola che è di tutta la metrica italiana, D. non ammette d. nei dittonghi ‛ ie ' ‛ uo ' che risalgono al latino ĕ, ŏ (tiene, fuoco) oppure ad ae (siepe, cielo); quando la i semiconsonante risale a nessi latini cl, gl, pl, bl, fl (chiaro, ghiaccia, piaggia, bieco, Fiorenza), o quando è puro segno grafico (giallo, bacio, figlio, poscia); lo stesso si dica della ‛ u ', quando nella parola latina corrispondente aveva valore consonantico (acqua, equo), oppure quando ‛ au ' ‛ eu ' provengano da dittongo latino o greco (aula, laude, lauro, augure, claustro, Daunia, Euro, Euclide, Europa, Eurialo, neutro).

Non si possono comunque stabilire per D. rigide leggi tali da condizionare uniformità assolute. Nell'osservanza o no della d., egli si lascia guidare o dal suo sentimento etimologico, o dalla tradizione poetica, oppure da particolari esigenze del ritmo poetico.

In D. è vivissima la sensibilità etimologica: riconosce volentieri alla parola un ugual numero di sillabe che nella base latina.

Oltre ai casi citati, D. per es. non fa mai d. (né considera in questi casi bisillabo i̭ + vocale anche a fine verso) nei nessi bbi, mmi, ppi 〈 latino - bi̭ -, - mi̭ -, pi̭ - (dubbioso, abbia, scabbia, rabbioso [ma " rabbïosa ", Guinizzelli], bestemmia, vendemmia, sappia), o dove rispetto alla voce latina c'è stata, nell'esito volgare, una trasformazione del suono consonantico (cagione 〈 occasione(m), stagione 〈 statione(m), ragione 〈 ratione(m): ma regïone, nazïone): cfr. Pd XXVIII 16 un punto vidi che raggiava lume, ma XIX 90 ma essa, radiando, lui cagiona, e I 83 di lor cagion m'accesero un disio, ma XXII 120 la vostra regïon mi fu sortita. E, anche in assenza di i semivocale, riconosce, nel contatto di una doppia vocale di base latina, una doppia sillaba: oltre ai nessi ‛ ae ' (Faenza, Gaeta, saetta, maestro, paese), ‛ ai ' (aita), ‛ ao ' (Caorsa), ‛ au ' (rauna, ausa, paura), ‛ ea ' (concreato, creare, ideale, beato, tornear, peana, real, reame, roteata, roteando, Leandro, Learco), ‛ ee ' (neente), ‛ ei ' (reina, veicolo, Deifile, Deidamia), ‛ eo ' (galeotto, leone, Eteòcle, Anacreonte, Gedeòn), ‛ eu ' (Creusa), ‛ oa ' (Romoaldo, Croazia, coarta, cloaca, soave, mantoano),‛ oe ' (Simoente, poeta, poema), cfr. anche i casi di vocale preceduta da ‛ u ' (si tratta sempre di due vocali in iato, con la seconda tonica, preceduta da vocale diversa da i): ‛ ua ' (intellettüal, casüal, continüando, persüade, süadi, abitüato, intüare, annüal), ‛ ue ' (inflüenza, distribüendo, Assüero, Düera, Samüel, Iosüè), ‛ ui ' (attribüisce, circüire, rüina), ‛ uo ' (affettüoso, continüò, impetüoso, presuntüoso; e vertüosa, Rime LXXX 11). Si ha d. anche quando le vocali sono atone (anteriori alla sillaba accentata): saettando, ammaestrato; Caorsini, Maometto; beatitudo, torneamento, creator, creatura; leonini, teodia, Cleopatràs, Cleopatra; coagulando, soavemente, soavità, Noarese; poetando, poesì, poetar; ruinava, ruinò; paürose, raünai, spaürato (in questi casi si usa nell'edizione il segno grafico della dieresi. Per il motivo già detto, sineresi in ȃurora, laudabile, laudiamo, ecc.); deïforme, deïtà, deïtade, reïterando, Deïdamia; Moïsè; perpetüalemente, virtüalmente; püerile, püerizia; Eünoè, Eüfratès (ma è sineretico sciaurati, If III 64; sineretiche geomètra, Pd XXXIII 133; geomanti, Pg XIX 4. Oscilla, nella Commedia, Beatrice, più comune sineretico, com'anche in tutta la Vita Nuova. Non ci sono comunque nella Commedia esempi di ‛ ea ' protonico con sineresi, salvo Pd VII 127 e queste cose pur furon creature, tant'è vero che Casella leggeva fur crëature, che è il tipo normale, com'anche " crïatura ", " crïatore " nella poesia duecentesca. Noteremo anche la sineresi in aere, in Rime e in tutta la Commedia: così in Vn XXIII 24 52, in rima con tremare, dove peraltro Barbi legge are e Maggini âre (ma è nel pieno usus della tradizione poetica [cfr. grafia âre], da Chiaro Davanzati, Cino a Petrarca: lo si considera dieretico soltanto se tronco).

A parte comunque le eccezioni, che confermano la regola, quanto alla sensibilità etimologica dantesca (ma ben viva nella poesia del Duecento), questa vediamo ancora affiorare nella scansione dieretica latineggiante applicata a parole dotte (meridïano, religïone, opinïone, oblivïone, elezïone, audïenza, scïenza, coscïenza, esperïenza, sapïenza, sapïente, radïoso, radïale, celestïale, dïurno, odïerno, Mantüa, ecc.); talvolta anche infamïa (che ha però suscitato perplessità nei copisti antichi: cfr. If XII 12 l'infamïa di Creti era distesa, con dialefe tra la e infamia trisillabo in qualche codice, oppure in vecchie edizioni, con diversa accentazione, e dialefe Cretì / era), inopïa, connubïo, esigüo, e pïetate, trïunfante, ecc.; gloria ha la d. soltanto se compare in frase latina (Pg XX 136) e così grazia, sempre bisillabo, salvo che nella forma latina (Pd XXXII 95 Ave, Maria, gratïa plena: meno probabile Maria dieretico e gratia bisillabo); e vedi ancora Pg XXV 121 clementïae, XXX 21 lilïa, Pd XV 30 ianüa, e Pg XXIII 11 Labïa mëa, Domine. La scansione dieretica è dunque preferita se la i abbia ragioni etimologiche da essere riguardata come autonoma: oltre ai citati meridïano, religïone, ecc., vedi per es. idïoma, effigïato, chïunque, Ezechïel, Ilïòn, Elïòs, lïuto, umilïato, nïente, Iustinïano, Danïel, stranïare, quïete, requïevi, desïare, desïante, desïanza, disïato (dïsfar in Rime CIV 100, disïosa XLVIII 20, desïate XL 10, disïato LXXXIII 126; ma è di tutta la tradizione: I. Mostacci, Bonagiunta, Cavalcanti, Chiaro Davanzati, Cino, ecc.), eresïarche, Etïopia (anche Rime C 14), Etïòpe, Etïòpo, giovïale, allevïò, travïò, invïarci, spezïal, sostanzïale, pazïenza, obblïando, spïar, disvïato (e Rime LXII 12), disvïando; sempre vïaggio, le sette volte in cui compare nella Commedia (e Rime LX 5, CVI 36), vïole (Pg XXXII 58), fïata (If II 46, V 130, IX 22, X 48 e 50, ecc.; e cfr. Vn XIII 8 6, XVI 7 1, XXXII 5 6, XXXV 5 4, XXXVI 5 10). (Sono invece sempre sineretiche: ufficiali, diavolo, odiare, Diana, cotidiana, fiala, Cicilian, familiar, Damiata, impaniate, coniavi, seniori, testimonianza, piota, Ottavian, viniziani, letiziar, Priscian, Trespiano, cristiano, imbestiò, imbestiate, bestial).

La r sembra in D. privilegiata per determinare d. (prima di dittongo accentato: non è il caso di materia, memoria, ecc.): nella Commedia sempre Adrïano, Cirïatto, glorïar, inebrïate, invetrïiate, mandrïano, Orïaco, Rïalto, rïarse, scurïada, storïato, trïangol, varïar, Arïete, esperïenza, esurïendo, Gabrïel, Orïente, rïempir, rïesca, Scarïotto, trïonfa, trïonfo: e vedremo settentrïone, Gerïòn, glorïoso, furïoso, lussurïoso.

Si ha la d. anche se le vocali sono anteriori alla sillaba accentata: dïamante, Dïascoride, Dïogenès, Dïomede, Dïonisio, Elïodoro, rïaccesa, rïarmar, rïavesse, rïudir, orïental, settentrïonal, invïeranno, vïolenta, vïolenza, razïonabile, Brïareo, Callïopè, Nïobè, trïonfale, trïunfaro, Vïoletta (Rime LVIII 1), quïetò. Oscilla pietate, una volta con d. nella Commedia (Pg V 87: cfr. Guinizzelli, " pïetate "), e cinque sineresi (If II 5, V 140, XIII 36, Pg XXX 81, Pd XXXIII 19: è sempre bisillabo pietà, o pièta; la stessa oscillazione in altri poeti del Duecento: cfr. per es. Chiaro Davanzati " pietà / pïetà, pietanza / pïetanza, pietate / pïetate "). Sineretiche oriafiamma, spietato, dispietato, propriamente, menzionando. E vediamo qualche caso particolare: le parole in -zione, ora hanno ora non hanno la d.; nella Commedia, è più comune la sineresi: non hanno mai d. affezione (If XVI 60, Pg XX 119, XXII 15, Pd IV 98 e 121, XXIV 7, XXV 21, XXXII 149), alterazione, ammirazione, circulazione, cogitazione, cognazione, condizione, contradizione, corruzione, costellazione, devozione, dimostrazione, discrezione (ma " descrezïon ", Guinizzelli, " discrezïone ", Chiaro Davanzati, accanto a " discrezïone "), disposizione, dominazione, dubitazione, esalazione, fazione, formazione, intenzione, invenzione, lezione, narrazione, nazione, operazione, oppilazione, opposizione, permutazione, predestinazione, preparazione, presunzione, proporzione, proposizione, protezione, purgazione, redenzione, resurrezione, rivelazione, salvazione, spirazione, suspizione. Ha invece sempre la d. elezïone (If II 28, Pd XV 40, XXXII 45), talvolta orazïone (Pg IV 133, XI 130), distinzïone (Pd XXIX 30; ma non II 119, XIII 109), perfezïone, una volta su quattro (Pd XIII 83: ma due versi prima è trisillabo, come anche in If VI 110, Pd XXIX 45); dieretico anche presunzïone, l'unica volta in cui compare (Pg III 140; ma non maladizion, poco innanzi [v. 133]); sineretico varïazion di Pg XXVIII 36 (il verso tornerebbe anche con variazïon; ma cfr. varïar, Pd XXII 147, e " varïato ", " svarïato ", " svarïare ", nella poesia duecentesca).

Le parole in -ione, precedute da consonante diversa da z, variano anch'esse il proprio comportamento metrico: non hanno la d. compassione, confessione, confusione, offensione, professione, questione, successione, e, per le ragioni già esposte, cagione (〈 occasione(m)), ragione (〈 ratione(m)); passione, nei cinque casi in cui ricorre nella Commedia, porta la d. in un caso (If XXXI 72; ma anche Rime LXVII 61), la sineresi negli altri (If XX 30, Pg XXI 107, Pd XXIX 98, XXXIII 59), e oscilla conversione, una volta dieretico (Pg XIX 106), le altre due sineretico (If XIX 116, Pd XI 103), mentre aspersïone, oppinïone (anche Rime XL 7), religïone, regïone, settentrïone, visïone, divïsione, hanno sempre la d., come anche Anfïone, Gerïòn, campïone (ma " campione ", in qualche esempio duecentesco).

Altre ancora le oscillazioni: grazioso è una volta sineretico nella Commedia (Pg XIII 91), le altre quattro dieretico (come nella tradizione poetica duecentesca); dieretico accidïoso (If VII 123; e accidïa, Pg XVIII 132); considerata obbligatoria (salvo Pd X 145) la d. in glorïoso (If XIII 62, XV 56, Pg XI 133, XXII 153, XXXII 17, Pd II 16, XIV 6 e 43, XVI 151, XVIII 83, XX 112, XXII 112, XXV 23, XXXI 60, XXXII 28; vedi anche glorïosamente); sineretico fastidioso (If III 69, XXIX 107); ma sempre gaudïoso, le tre volte che occorre nel poema (Pd XII 24, XV 59, XXXI 25), e così furïoso, lussurïoso, prezïoso (Pd II 140, XV 86: oscilla nei siciliani), presuntüoso (Pg XI 122), affettüoso (If V 87), impetüoso (IX 68, XXIV 147); oscilla invece invidioso, dieretico in If III 48, Pd X 138, sineretico in If XV 68 gent'è avara, invidiosa e superba, con dialefe gent'è / avara, più giustificata della d. (in alcuni editori gente avara invidïosa e superba, oppure, con meno usuale dialefe [cfr. DIALEFE], gente avara, invidïosa e superba).

Non è semplice indicare le ragioni di questo oscillare. C'è chi ha gravato di assaporamenti estetici non pertinenti le scansioni dieretiche, o si è troppo abbandonato a supposizioni stilistiche, sottolineando negli indugi dieretici effetti ora di solennità, ora di delicatezza, ecc. L'unica volta in cui studioso ha d. (If XXXIII 31 Con cagne magre, studïose e conte) accade là dove D., commentava pur acutamente il Torraca, " s'indugia inorridito, e le parole gli escono lente, a stento. Il verso procede come a balzi per gli accenti di cagne, magre, conte; e rallentato dalla dieresi su studiose ". E c'è chi, per lo smisurato Brïarëo di If XXXI 98 (e trisillabo Vedëa Brïarëo, ecc. di Pg XII 28, a meno di Vedea Brïarëo), ha accennato alla " corpulenza del nome " del gigante suggerita dalla dieresi. Si è parlato di " rallentare tenero della voce ", di " strascico insinuante ", di " lunga nota melodiosa ", " d'una bellezza particolare " dell'unico affezïone (Pd XXXII 149 e tu mi segui con l'affezïone, secondo la lezione accolta dal Moore): ma a quanto sembra la lezione genuina è e tu mi seguirai con l'affezione. Oppure, più finemente, a commento di Pg XXIII 132 per cui scosse dïanzi ogne pendice, si è pensato che l'unico caso dieretico di questo dianzi dipendesse dal risalto che il poeta voleva dare all'avverbio (ma la lezione esatta sarà presumibilmente per cuï scosse dianzi ogne pendice).

È d'altra parte indubbio che la d. (pur normalissima per via della scansione latineggiante) contribuisce a sottolineare, di un grande nome, maestà e solennità patriarcale (Abräàm patrïarca e Davìd re, If IV 58). Ed è interessante notare per es. che bestiale non porta mai, nella Commedia, la d., mentre celestiale, che per la fonetica non differisce dal primo, è sentito da D. (il quale è restio alla d. sul nesso stia: e non la concede difatti a cristiano, cristianesmo, bestia, astio) semanticamente opposto: difatti, su quattro volte in cui compare, soltanto in Pg II 43 Da poppa stava il celestial nocchiero, è considerato sineretico, in quanto è qualificativo senza rilievo semantico né ritmico. È vero che, più che a vaghi impressionismi, nei casi non risolvibili altrimenti (col ricorrere cioè a una consuetudine dantesca; o alla tradizione: " celestïale ", " super-celestïale " sono per es. dieretici in Chiaro Davanzati, e in altri lirici del Duecento), occorre tener sempre presente (anche in un poeta sommo come D.) la possibilità della d. o la sua assenza come un fatto meramente prosodico (per stabilire cioè più agevolmente la misura sillabica). In genere però propenderemmo a prendere in considerazione spiegazioni ritmiche della scelta. D. è artefice sensibilissimo alle necessità del ritmo, e piega e scandisce la parola in dipendenza di quello (cfr. RITMO; DIALEFE; CESURA). È per es. della tradizione lirica predantesca l'oscillazione fiata / fiata; nella Commedia, fiata è usato sempre con d. (anche Petrarca avrà " fïata "); tre volte però con sineresi. E vero che fiate sineretico è già in Vn XXXI 13 46; ma nei tre versi della Commedia in questione sembra che il movimento del ritmo travolga il rallentamento della i (che di norma fa d.), perché l'accento batte fortemente su fiáte (Pd XVI 38 e trenta fiáte vénne questo fóco; XXV 32 tu sái, che tante fiáte la figúri; e si osservi il movimento anapestico in If XXXII 102 se mille fiáte in sul cápo mi tómi); effettivamente sui 25 casi in cui fiata ricorre nel poema, questi sono i soli versi a collocarla sotto accento principale di 4ª o di 6ª. È presumibile che anche la gran parte delle altre oscillazioni vada spiegata per ragioni ritmiche (sufficiente, sineretico in Pd VII 116, dieretico in XIII 96 e XXVIII 59; Tifeo bisillabo, Rifëo trisillabo; obedïendo in Pd VII 99, cui segue, con sineresi, disobediendo nel verso successivo: con umiliate obedïendo poi, / quanto disobediendo intese ir suso; e ancora, sempre con d. pïorno, con sineresi piota; e abbiamo Flegïàs accanto a cicilian, Grazïan, anzïan a Domizian, Ottavian, balbuzïendo a saziando, potenzïata a viziato). Si vedano parole come ardüa (Pd XXX 36), continüo (If XVI 27, Pd XXVII 125), mutüa (Pd XII 63), perpetüa (Pg XXXII 75, Pd II 19, XV 65), perpetüi (Pd XIX 22), con " sdrucciolo facoltativo " (D'Ovidio); in D. sono parole quasi sempre piane (s'intende, nel corpo del verso), in specie con la i semiconsonante (Trinacria, misericordia, invidia, sedia, incendio, odio, studio, Italia, essilio, Evangelio, peculio, demonio, imperio, contrario, desiderio, miseria, materia, vittoria, propria, Tiresia, giustizia). Ma, allo scopo di sottolineare particolari effetti espressivi, D. sfrutta, si direbbe, il rallentamento della d. in Pd XXIII 25 e 26 per plenilunïi e Trivïa; essa rende più lenta la pronuncia della parola, conferendole, sembrerebbe, una maggior solennità (If X 26 di quella nobil patrïa natio), soprattutto se replicata (I 69 mantoani per patrïa ambedui).

La d. effettivamente suggerisce scansioni lente e ritardi nel ritmo; c'è da supporre che le esigenze diverse del movimento, nell'accentazione dell'endecasillabo singolo, inducano a scandire come sdruccioli Polimnïa (Pd XXIII 56; ma c'è chi l'ha preferito trisillabo), Marsïa (I 20), Marzïa (Pg I 85; e cfr. If IV 128 Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia, assimilabile a si stava in pace, sobrïa e pudica, Pd XV 99), ambrosïa (Pg XXIV 150), infamïa (If XII 12), Indïa (XIV 32), Silvïo (II 13), Livïo (XXVIII 12), Curïo (XXVIII 102 Curïo, ch'a dir fu così ardito; Casella preferiva Curio bisillabo, e quindi dire), però Marzia in Pg I 79 (ma poco sotto, al v. 85, ancora Marzïa piacque tanto a li occhi miei).

Occorrerebbe a ogni modo, per stabilire su basi più solide la funzione delle oscillazioni dantesche, poter ricapitolare sull'intero corpus dei testi delle origini tutte le esitazioni e il duplice senso sillabico che interessa molti vocaboli: un largo uso della comparazione gioverebbe a questo scopo; perché, nell'uso della d., sappiamo che si stabilisce fin dai primi secoli una tradizione poetica, per cui il fenomeno è più comune in alcuni casi, eccezionale in altri. E meglio si potrebbe constatare che, nei poeti minori, l'uso eccezionale è talvolta una questione d'ordine pratico, dovuto spesso a motivi estrinseci (lo si è notato per es. per Boccaccio), un mezzo per far tornare la misura sillabica del verso. Per D. si sono piuttosto invocati motivi estetici, una volta constatato (soprattutto per la metrica della Commedia) che il poeta non obbedisce a schemi rigidi; ma la duttilità della sua metrica, anziché ricondurla genericamente al " pensiero ", o al " sentimento " (osservava Debenedetti che d. in sedi simili possono indifferentemente servire " al tono pacato e stanco, come a quello disperato, iracondo e impetuoso "), va collegata alla sensibilità ritmica che D. mostra di possedere in sommo grado. L 'usus dantesco della d. si conforma e ubbidisce a necessità d'arte (gl'indugi che valorizzano le pause, le fratture ritmiche che creano forte cesura).

E veniamo ad altri casi incongrui: per es. Eurialo (If I 108), ma Zodïaco in Pg IV 64 (o vedi Paulo sineretico di If II 32 e Pd XVIII 131, ma Ëolo in Pg XXVIII 21); spiegheremo sia loïco dieretico di If XXVII 123 tu non pensavi ch'io loïco fossi (ma anche tu non pensavi ch'ïo loico fossi) ricorrendo al sentimento etimologico in D., s'è notato, vivissimo (〈 logicus), che laida di If XIX 82, Pg XXXII 121 (monosillabo germanico, e tale rimasto in francese e provenzale), o Taïde, di origine greca: c'è però laico (If XVIII 117), che pur rimanda al greco lāïkós, latino lāicus.

Per solito D. segue in questi casi le norme metriche consuete: la d. è regolarmente ammessa soltanto a fine verso (il tipo Siede la terra dove nata fui, If V 97; e riposato de la lunga via, Pg V 131, ecc.). All'interno di verso (o di parola: cfr. Pg XXI 6 condoleami, XXXII 94 sedeasi, XXXI 48 dovieti, 83 pariemi, ecc.) è normale la dizione monosillabica (sineresi per es. in Pd XVII 71 cortesia, 117 fia, Pg XVIII 117 villania, lf XXXIII 114 pria, ecc.; e cfr. via in If I 29 ripresi via per la piaggia diserta, III 91, IV 22, ecc.; e io in Pd XXVII 70 in sù vid'io così l'etera addorno; mia in VIII 52 La mia letizia mi ti tien celato; suo in XXXIII 15 sua disïanza vuol volar sanz'ali, che nella maggioranza dei casi sono di una sillaba sola; e sempre dee sineretico, oppure de': If II 88, XI 45, XVI 125, XXIV 78, XXVII 115, XXXIV 36, Pg VI 39, XI 34, Pd IX 41). Ma ci sono eccezioni in D.: cfr. per es. la desinenza verbale in -ea, normalmente monosillabica, ma spesso bisillabica (occorrerebbe anche qui verificare se obbedisce a esigenze del ritmo: -ea difatti è spesso sotto accento di 4ª, specie in pausa [Pg III 60 parëa, Pd XVIII 1 godëa, ecc. nell'ediz. Casella; il Petrocchi legge pareva e godeva]; ma spesso dinanzi ad s implicata, per es. If XXVIII 100 [pareva in Petrocchi] ecc.): vedi i tipi ravvolgëa (If XXXI 90), giacëa (XXV 130), vincëa (Pd XXV 27), avëa (If XXVI 135, Pd XXIX 9), Vedëa (Pd XXXI 49), potëa (XX 114), piangëa (If XXXIII 49, XXXIV 53), intendëa (Pd XXXI 58), discendëa (XXXI 78), solëa (If XXXIII 44); e anche rëa (Rime CXVI 13), Rëa, nome proprio (If XIV 100), Pegasëa (Pd XVIII 82), Rodopëa (IX 100), Enëa (If XXVI 93 prima che sì Enëa la nomasse: il trisillabo non è osservato da qualche copista, che accresce nomasse in nominasse, o varia più profondamente: cfr. Petrocchi, ad l.), Tidëo (If XXXII 130), Tesëo, di If IX 54 e Pg XXIV 123 (e si notino ancora i casi di atona: in fine verso si fa d., entro il verso il più delle volte, ma si può anche non fare: cfr. Borea, bisillabo in Pd XXVIII 81, ma empirëo, quadrisillabo in If II 21; e vedi Petrarca CXXVIII 49 " laurëo ", CCXXV 10 " Laurëa "), e anche Rime dubbie XXX 16-17 e l'uno dicea: " Vedi bella druda! ", / dicea l'altro: " Ella muda ", con dicëa trisillabo, di contro a dicea bisillabo nel secondo verso: e cfr., al v. 9, parëa.

Per D. (come per i poeti delle origini) si presenta dunque il problema della d. eccezionale nelle sillabe finali con dittongo discendente.

1) Con l'ultimo elemento costituito dalla palatale i (frequente negli antichi; cfr. anche Fiore II 5 e dissemi: Tu ssaï veramente; CXXXIX 3 Voï mi fate sì dolze preghera; CXCV 12 Se voï mi parlate di malia; CLIII 4 coluï che più cara mi tenesse; CCII 2 a voï, quando prender le degnaste; CCXII 5 Contra leï battaglia poco dura; e Meo Abbracciavacca, ediz. Zaccagnini, IX 10 " e saï più di me che non sacc'eo ", Gonnella [a Bonagiunta], ediz. Zaccagnini, p. 93, v. 8 " ti sposa, che per luï si diprima "): vedi, in D., Rime LXVII 10 Oimè (anche Petrarca CCLXVIII 34; e Cavalcanti, Cino da Pistoia, " ohïmè "; " ahïmè ", Chiaro Davanzati; mai la d. però nella Commedia, dove aimè è sempre sineretico), haï in Pd XXVI 5, cuï in Pg XXIII 132, coluï in Pd XXXIII 58 (Qual è colüï che sognando vede; ma la '21 e Casella preferivano somnïando, per ovviare alla rara distrazione del dittongo in cesura; ma casi analoghi in un sonetto attribuito a D., Con plu sospiri 13 ch'a servir teï l'anima se pone [cfr. " Studi d. " I (1920) 55], e Gianni Alfani De la mia donna 23 " sotto 'l costeï velo "; altri esempi in " Studi d. " VIII [1924] 62 n. 2. In Pd XVI 141 le nozze süe per li altrui conforti, è comunque preferibile süe ad altrui), levai in Pd XIX 94 e XXV 38 (Casella preferiva in quest'ultimo verso ïo a levaï), ficcaï in If XV 26, e anche mai, una volta (If XXX 23); però sempre mai in Rime e negli altri luoghi della Commedia in cui ricorre (anche assaï, trisillabo talvolta nei poeti delle origini [Dotto Reali " assaï "], è bisillabo in Rime LXIII 9 e in tutta la Commedia; e così " poï " in Bonagiunta, monosillabo in D.).

2) Nei tipi ïo, pïo (sempre dieretico nella Commedia le cinque volte in cui occorre, e anche Pïo, papa. Dio non è mai dieretico: se D. considera la parola come latina, allora abbiamo Agnus Deï, Pg XVI 19, Ecce ancilla Deï, X 44; da evitare dunque, seppur in posizione assoluta, a inizio del verso, Dëo, Rime XLIX 9, voluto da Casella: cfr. l'edizione Contini, che preferisce qui la d., seppur eccezionale, fïe), mïo, tüo, süo. Eccezioni di questo tipo notiamo in Rime LVI 16 mïa donna verrà, Rime dubbie XXII 5 ma desïoso nel desïo stare, con d. eccezionale su desïo (e cfr. Pd XXVII 135 disïa, che darà disira, desira in codici tardi, appunto per il rifiuto dell'eccezione; If VIII 57, Pd XXIX 48 disïo; ma è della tradizione lirica: cfr. per es. Chiaro Davanzati, Maestro Rinuccino, ecc. " disio / disïo ". E vedi anche crïa, in Vn XV 6 13 (anche per influsso di crïare), svïa, in Pd XXVII 141. Frequente nella Commedia l'eccezione dell'ïo dieretico: Pg X 19 ïo stancato e amendue incerti; Pd XXXI 37 ïo, che al divino da l'umano; If XXXII 1 S'ïo avessi le rime aspre e chiocce (ma subito dopo, al v. 4, io premerei di mio concetto il suco); XVIII 43 Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; e cfr. ancora If III 11, XXXIII 130, Pd V 85, X 145, XIV 127, XXIV 56, XXVI 90, XXVII 19, XXXI 37, e 47, ecc.; e mĭo, in Pd III 128, XXIII 10, XXVI 37, XXXI 53; süo, in Pd XXVIII 78, XXX 93, XXXI 12, ecc. (ma sono eccezioni già della tradizione: cfr. gli esempi citati in " Studi d. " VIII [1924] 58). Nei casi più frequenti (tipo If XXXIII 113 sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna), la d. va spiegata con la prostesi inerente al successivo s complicato (qui isf -): e cfr: Rime dubbie XXII 5 cit. nel desïo stare, per prostesi seguente (come per es. in Cino " se ' istato ", in D. Rime CX 13 da te, che sei stato dentro ed extra; o Cavalcanti Deh, spiriti miei 9 " I ' veggo a lui spirito apparire "; e anche Fiore XIII 6 tu ffai stranezza = ffa ' istranezza, CLXIV 4 tu terrai scuola = terra' iscuola; si tenga presente che nell'antico fiorentino e in genere nei dialetti toscani occ. l'elemento palatale tendeva a scomparire nella pronuncia: se', ha', lu'); e cfr. Pg XX 139 No ' ittavamo immobili e sospesi (ovvero noï stavamo), come IX 41 mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto, e If VIII 93 che li ha' iscorta sì buia contrada, o Cv II Voi che 'ntendendo 40 se' ismarrita. Eccezioni, nella Commedia senza s complicata: If XV 26 ficcaï li occhi per lo cotto aspetto (ma vedi l'ipotesi del Casella ficca' i li occhi); Pd XXVIII 85 così fec'ïo, poi che mi provide, XXXI 37, If XVIII 43 cit., XXXII 1. Si è intanto notato che, per regolarizzare la misura metrica, e volendo evitare, o non supponendo, la d. eccezionale, i copisti (influenzati dall'irrigidirsi della metrica postpetrarchesca) hanno di norma variato i versi che contenevano le presunte irregolarità con un supplemento sillabico (e cfr. anche DIALEFE): accrescendo di una sillaba con l'intrusione della copulativa all'inizio del verso (ma la caduta di E(t) iniziale è sempre paleograficamente possibile) o all'interno (If IV 134), di un ‛ si ' (Pd XXIII 10, per evitare mïa; XXVI 37, per evitare mïo), di un ‛ sì ' (Pd XIV 127 Ïo 〈 sì > m'innamorava tanto quinci), e variando in modi diversi (per es. in sì ch 'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, If XXXIII 113, variando duol in dolor; sì in così in Pg XXIII 2 fïccava io sì come far suole), con zeppe insomma di varia natura per ovviare la d. non gradita e accrescere la misura metrica. Vedi ancora Pd XVI 120 che poï il suocero il fé lor parente (la '21 preferiva dialefe tra poi e il; ma cfr. " poï " in Bonagiunta; e voï nel Fiore cit.) e le numerose varianti della tradizione seriore nate dalla difficoltà metrica del verso dovuta all'eccezionale poï. Dal medesimo intento di rifiutare certi bisillabi nasce tra l'altro la polemica Casella-Debenedetti. Mentre il Casella giustifica gli endecasillabi del tipo vidi'ïo scritte al sommo d'una porta (If III 11) come eccezionalmente dieretici, il Debenedetti nega la possibilità della d. eccezionale (rilevando il valore costantemente monosillabico dei dittonghi in questione nei passi incontroversi della Commedia) e ritiene tali endecasillabi errati e bisognosi di emendamento: il Debenedetti, per eliminare la d. d'eccezione in quei casi dov'essa ha luogo dinanzi a s implicata, pensa di ricorrere alla i prostetica, vid'io iscritte al sommo d'una porta. La questione è stata affrontata dal Casella tenendo in conto motivi ritmici ed espressivi. Il Casella notava che sotto l '" accento emotivo " io, mio, tuo sono pronunciati da D. bisillabici (obiettava Debenedetti che non c'è però la d. in Pg V 98 arriva' io forato ne la gola, VI 114 Cesare mio, perché non m 'accompagne?, e If XXXIII 69 dicendo: " Padre mio, ché non m'aiuti? "). Comunque la maggior parte delle d. d'eccezione si verifica sotto accenti ritmici rilevati, soprattutto di 4ª, 6ª, spesso di 8ª, anche quando quella sembra favorita (o condizionata) dalla posizione (s + consonante): If IV 134 quivi vid'ïo Socrate e Platone; Pd XVI 141 le nozze süe per li altrui conforti; XXVII 79 Da l'ora ch'io avea guardato prima; XXXI 53 già tutta mïo sguardo avea compresa; XXIII 10 così la donna mïa stava eretta; If XIV 32 d 'Indïa vide sopra 'l süo stuolo; XIV 105 e Roma guarda come silo speglio; XV 53 questi m'apparve, tornand'io in quella; Pd III 128 ma quella folgorò nel mïo sguardo; V 85 Così Beatrice a me com'ïo scrivo; XXVI 37 tal vero a l'intelletto mïo sterne; sottolineano dunque pause interne di periodo; vedi per es. la differente scansione dei due io in If XIII 25 Cred'io ch'ei credette ch'ïo credesse da collegare all'accentuazione 2+6+10 dell'endecasillabo a maiore, con cesura dopo il settenario piano, non possibile con la disposizione inversa delle d.; e ancora la posizione assoluta nell'endecasillabo che inizia con io e la d. che gli dà rilievo (Pg X 19, Pd XXXI 37 e XIV 127 cit.; o mïa, in Rime LVI 16 cit.). Si può indicare qui un altro punto di distacco dalla tradizione, che ci mostra quanto D. fosse particolarmente sensibile al movimento ritmico del verso: la d. in pausa era d'uso sporadico nella lirica delle origini (già qualche esempio in Fiore XXV 8 che Gelosïa / sì forte ne grava, Vn XV 6 13 la qual si crïa / ne la vista morta); frequente invece nella Commedia sotto cesura (If IV 134, Pg XII 21 e XXIII 2, Pd XVI 141, XVIII 129, XXV 38 e 49, XXVIII 97).

Dopo Petrarca, la metrica si cristallizza in più rigide norme (di qui il notato rifiuto dell'eccezione nei codici della Commedia: negli autografi del Petrarca, e di Francesco da Barberino, o del Sacchetti, non troviamo versi con io bisillabo (come non troviamo dialefi d'eccezione), salvo che nell'ultimo verso del Canzoniere (" Ch'accolga 'l mïo spirto ultimo in pace "). E anche i metrici del tempo fissano il monosillabo su io, mio (Antonio da Tempo [1332] enuncia questo principio come regola generale). In D. quelle d. d'eccezione non rappresentano che le ultime tracce di consuetudini metriche comuni alla lirica precedente o contemporanea. Ma D., pur erede di una tradizione elaborata dai poeti e dalle scuole poetiche che l'hanno preceduto, si foggia un verso ben suo; e, senza avviarsi decisamente verso una norma stabile e uniforme (che prevarrà soltanto nei verseggiatori che assimilarono la lezione petrarchesca), infrena l'uso indiscriminato delle eccezioni e delle incongruità; ma la libertà delle scelte che egli conserva gli permette una più libera mobilità ed efficaci singolarità ritmiche.

Bibl. - Antonio Da Tempo, Summa artis rithimici vulgaris dictaminis (1332), a c. di G. Grion, Bologna 1869, 75; Gidino Da Sommacampagna, Trattato de li rithimi volgari (1381-84), a c. di G. B. Giuliani, Bologna 1870, 5; F. D'Ovidio, Dieresi e sineresi nella poesia ital., in " Atti R. Accad. Scienze Morali Politiche Napoli " XXIV (1889), rist. in Versificazione italiana e arte poetica medioevale, Milano 1910, 1-76 (recens. di E.G. Parodi, in " Bull. " XVII [1910] 305-308); ID., Nuovi studi danteschi, Milano 1907, 418-419; E. Ciafardini, Dieresi e sineresi nella D.C., in " Rivista d'Italia " XIII (1910) 888-919; F. D'Ovidio, Sette chiose alla Commedia, in " Studi d. " VI (1923) 46; M. Casella, Sul testo della D.C., ibid. VIII (1924) § II " Dieresi e dialefi di eccezione ", 28 ss. (e S. Debenedetti, in " Giorn. stor. " LXXXV [1924] 354-357; ibid. LXXXVII [1926] 74-99); ID., Filologia e storia, in " Giornale della cultura ital. " I 6; ID., Versi sbagliati in D.?, in " Giornale d'Italia " 10 dic. 1925; ID., in " Studi d. " XII (1928) 132 ss.; A. Levi, Parole e verso in D., in " Arch. Romanicum " X (1926) 387-427; S. Frascino, Suono e pensiero nella poesia dantesca, in " Giorn. stor. " suppl. XXIV, 1928 (e A proposito di d. in D., in " La Cultura " V [1926] 126-127); M. Barbi, La nuova filologia e l'edizione dei nostri scrittori da D. al Manzoni, Firenze 1938, 21 ss.; V. PERNICONE, Storia e svolgimento della metrica, in Tecnica e teoria letteraria, Milano 19482, 237-277 (e, sul Boccaccio, oltre a S. Battaglia, Introduzione a Il Teseida, Firenze 1938, e G. Vandelli, in " Studi Filol. Ital. " Il [1929] 39-43, anche la polemica Pernicone-Branca, in " Belfagor " IV [1946] 474 ss., e II [1947] 80 ss.). Cfr., oltre ai manuali di metrica di F. Zambaldi, T. Casini, G. Fraccaroli, G. Mari, P.E. Guarnerio, le utili trattazioni di P. Leonetti, W.T. Elwert, e il fondamentale M. Fubini, Metrica e poesia, Milano 1962, passim.

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