Didattica

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Didattica

Giaime Rodano

(XII, p. 771; App. V, i, p. 828)

Didattica modulare

Negli studi dei pedagogisti e nel dibattito degli esperti di questioni scolastiche l'espressione didattica modulare ha cominciato a profilarsi, con una presenza via via più significativa, negli anni Novanta. Il processo di integrazione europea - senza dubbio accelerato dalla prospettiva della moneta unica - ha difatti posto all'ordine del giorno anche il problema di prefigurare prima, e di mettere a regime poi, un sistema di valutazione (v. scuola: Valutazione scolastica, in questa Appendice) dei curricoli educativi capace di garantire una sostanziale equipollenza degli standard di rendimento disciplinari e, quindi, la trasparente collocazione delle competenze acquisite, pur nell'ambito degli specifici ordinamenti formativi, in un mercato del lavoro destinato a divenire di dimensioni continentali. D'altro canto, alla base del crescente interesse per i temi della d. modulare non vi sono soltanto motivazioni d'ordine, per così dire, economicistico. Non sono pochi a ritenere, infatti, che al diffondersi di nuovi criteri didattici siano altresì legate le sorti di un 'sistema integrato' capace non solo di collegare in modo organico e duraturo il mondo della scuola con quello della produzione, ma pure di rendere finalmente concreta la prospettiva di una 'educazione permanente' (v. formazione continua, in questa Appendice) di tutti i cittadini del futuro concerto europeo: un obiettivo il cui raggiungimento diventerebbe oggettivamente irrinunciabile al cospetto del mutamento di qualità che, a cavallo del nuovo millennio, sta investendo con impeto l'organizzazione complessiva della società civile.

In realtà, quest'ultima appare coinvolta sempre di più in una crisi di significato epocale: nell'era della cosiddetta mondializzazione (caratterizzata da una libera circolazione di capitali, beni e servizi che non ha precedenti nella storia) il modo di lavorare sta cambiando profondamente, viene a perdere le sue connotazioni tradizionali, si trova a dover affrontare una trasformazione non meno profonda e dolorosa di quella che accompagnò il passaggio dall'economia agricola all'economia industriale nel Settecento. Il ruolo decisivo dell'informatica e della robotizzazione porta difatti a ridurre drasticamente gli spazi offerti a un utilizzo intensivo (e ripetitivo) della forza-lavoro umana, emargina occupazioni e attività anche secolarmente consolidate, presuppone nelle mansioni che saranno svolte nel prossimo futuro una duttilità nell'approccio e una flessibilità nei cambiamenti ignote ad altre età.

A una metamorfosi così incisiva e traumatica della realtà produttiva non può tuttavia non corrispondere - si osserva da più parti - un mutamento altrettanto significativo dell'intero sistema della formazione, delle sue strutture e delle sue stesse metodologie. Tanto più che anche a un loro coraggioso aggiornamento vengono affidate - soprattutto nel nostro paese - le speranze di spezzare il circolo vizioso della 'mortalità' e della dispersione scolastiche, a causa delle quali il numero dei diplomati e dei laureati italiani continua a collocarsi nei gradini più bassi della scala europea: le cifre riportate dal rapporto Education at a glance del 1992 (v. scuola, in App. V) non hanno in effetti subito, nel corso degli ultimi anni, modificazioni davvero significative.

Un importante momento di sintesi e, nel contempo, il naturale punto di riferimento dell'intero dibattito qui sopra rapidamente riassunto sono costituiti dal Libro bianco curato, per conto della Commissione delle Comunità Europee, da É. Cresson e P. Flynn. Pubblicato nel 1995, con il titolo Insegnare e apprendere: verso la società conoscitiva, il volume non solo presenta tutta una serie di dati interessanti, ma svolge anche un'analisi documentata dello status della condizione scolastica europea e offre infine alcune indicazioni di prospettiva. In particolare, tra le mete da raggiungere già nel breve-medio periodo viene segnalata quella di "permettere ad ogni individuo di far riconoscere competenze parziali in un sistema flessibile e permanente (suscettibile di essere utilizzato da ogni individuo ogniqualvolta lo desideri) di certificazione di unità di conoscenze". Ne consegue la necessità di "individuare, valutare e concordare tali unità di conoscenza" attraverso una "cooperazione europea nella ricerca di una possibile suddivisione dei grandi settori disciplinari in unità elementari" al fine di giungere - grazie al nuovo strumento delle "tessere personali delle competenze" - a una "certificazione europea" di queste ultime.

Sull'onda di tali autorevoli valutazioni, anche in Italia è venuta emergendo da qualche tempo l'ipotesi di introdurre il cosiddetto portfolio delle competenze. Considerato uno strumento essenziale sia del quadro di formazione sia di approccio dei giovani al mondo del lavoro, il portfolio (o 'libretto dello studente') dovrebbe costituire una sorta di dossier individuale di ogni cittadino che, registrando le abilità da lui via via conseguite in ogni ambito formativo (anche non necessariamente istituzionale), lo accompagni per l'intera esistenza. È peraltro ancora solo implicito (ma non per questo meno evidente) come in una simile prospettiva un tale portfolio o libretto non solo dovrebbe facilitare le azioni di recupero e di integrazione degli allievi (combattendo una meno difficile battaglia contro la dispersione e la mortalità scolastiche), ma verrebbe alla fine pure a sostituire (nelle iscrizioni all'università, negli eventuali rientri nel sistema educativo, nell'accesso a un mondo del lavoro sempre più elastico e variegato) la presentazione di quei formali titoli di studio che oggi non appaiono più in grado di testimoniare il possesso di alcuna reale e verificabile capacità.

È appunto a un siffatto insieme di problemi che, nelle intenzioni dei suoi estimatori, la d. modulare intende dare una risposta. Questo nuovo approccio formativo (in cui peraltro risuonano gli echi neppure troppo lontani dell'articolato dibattito pedagogico di questo secolo) parte in realtà dal presupposto che le dinamiche dell'apprendimento non debbano fondarsi soltanto - come pure è in qualche modo necessario - sulla trasmissione e sulla 'memoria' del patrimonio di sapere consolidato. L'autentico fulcro dell'insegnamento dovrebbe consistere piuttosto nel mettere i discenti nelle condizioni di poter continuamente acquisire una formazione critica e un metodo di lavoro capaci di rompere la tradizionale e "artificiosa dicotomia tra il know why e il know how" (Bertonelli 1998) e di coniugare dunque il momento del 'sapere' con quello del 'saper fare', il bagaglio delle conoscenze con la loro tempestiva traduzione applicativa. Stando così le cose, la d. modulare si presenta come un sistema formativo al tempo stesso flessibile e strutturato. Se il suo obiettivo è quello di pervenire a un rigoroso e codificato tableau di "unità capitalizzabili" (Di Francesco 1996), queste ultime vengono a loro volta a costituire le mobili tessere di un duttile mosaico, composto dalle molteplici "abilità" (da quelle "di base" a quelle più tipicamente professionalizzanti) che il cittadino potrà a vario titolo utilizzare durante l'intero arco della sua vita attiva. È ancora aperto il dibattito sulla loro certificazione. Secondo alcuni la "validazione" di tali abilità dovrebbe spettare, in prima battuta, a quelli che sono giudici naturali dei discenti, vale a dire i loro insegnanti. L'effettiva corrispondenza di tali giudizi con gli standard nazionali (e in un prossimo domani europei) potrebbe poi essere verificata da un'apposita autorità esterna, che in quanto tale verrebbe sottratta al rischio di formulare valutazioni in qualche modo autoreferenziali. In ultima istanza, tuttavia, sarebbe comunque la mano invisibile del mercato a misurare che quanto risulta registrato nel 'portfolio delle competenze' di ogni singolo cittadino corrisponda davvero alla puntuale certificazione cartacea.

Si tratta, come ben si vede, di un intreccio di problemi di rilievo non banale, la cui soluzione implica risposte che finiscono per travalicare il mero campo del dibattito pedagogico. Non per niente si è opportunamente osservato come la d. modulare costituisca nel nostro paese "una sfida dei tempi" che per essere vinta "richiede una rigorosa pianificazione, accumulazione e valorizzazione delle risorse, nonché un rispetto dei gangli formali di una strategia capace di tener continuamente in conto il variare dei fattori che determinano la qualità dell'istruzione" (Domenici 1997).

Scendendo un po' più nello specifico, proviamo adesso a illustrare quelle che sono le caratteristiche essenziali di questa peculiare metodologia di apprendimento. Al suo cuore si colloca appunto il concetto di 'modulo'. Il termine "è mutuato dalla scienza delle costruzioni e sta a indicare l'essere modulare: vale a dire una composizione i cui elementi costitutivi sono collegati in modo da formare una struttura complessa che, nello stesso tempo, può essere diversificata nella sua forma e ampliata o ridotta nelle sue dimensioni, aggiungendo o togliendo moduli in presenza di esigenze diverse" (Centro europeo dell'educazione 1997). Nel contesto della formazione scolastica e professionale, per 'modulo' si intende generalmente uno strumento didattico che affronti (prevedendo ovviamente anche le necessarie verifiche iniziali, in itinere e conclusive) una determinata sezione di una qualsivoglia disciplina in termini che siano, al tempo stesso, non solo compatti, ma pure articolati e, per così dire, prensili (si pensi, anche se l'immagine potrà sembrare un po' 'giocosa', ai celebri mattoncini del Lego). Nel modulo didattico infatti una porzione ben definita di uno specifico curricolo formativo si struttura compiutamente in una serie di 'unità didattiche', le quali devono tuttavia avere la caratteristica di essere definite attraverso il criterio di una rigorosa corrispondenza tra le conoscenze di cui man mano ci si viene impadronendo e le competenze che a quelle conoscenze sono rispettivamente pertinenti. Sarà proprio la loro summa a costituire una conoscenza e una competenza di livello modulare.

Il modulo costituisce allora un sistema sincronico che, se conta su una propria specifica e inconfondibile autonomia, non resta però chiuso in se medesimo. Da una parte, infatti, diacronicamente può collegarsi secondo una dinamica sequenziale al modulo precedente o seguente della disciplina in questione; dall'altra, può anche interagire orizzontalmente con moduli di materie diverse. A quest'ultimo riguardo - per fare solo un esempio tra i non pochi possibili - può essere ipotizzato, all'inizio di un curricolo liceale, un 'modulo zero' trasversale alle discipline dell'area linguistica che, consentendo l'apprendimento dei principali fenomeni fonetici e grafematici dell'italiano, del latino, del greco e della lingua straniera, conduca l'allievo anche a una loro competente individuazione e applicazione nell'ambito dei quattro diversi idiomi studiati. Va detto, tuttavia, come una trasversalità siffatta riguardi non soltanto materie vicine per contenuti o semplicemente affini per l'esistenza di prerequisiti informativi in qualche misura comuni, bensì pure aree di sapere tradizionalmente divaricate, le quali però possono essere modularmente collegate appunto attraverso i linguaggi, le strutture e persino gli oggetti che sono loro propri.

Nelle intenzioni dei suoi promotori, la d. modulare mira insomma a evitare gli eventuali rischi sia di un insegnamento meramente asseverativo, sia di una trasmissione per così dire dogmatica del patrimonio delle informazioni date: l'acquisizione del sapere infatti "non è l'esito di un processo accumulativo e meccanico, i cui contenuti sono accolti in modo pedissequo dal soggetto che apprende. È piuttosto il risultato di percorsi complessi, per comprendere i quali l'esame dei processi cognitivi e mentali va svolto tenendo presenti le realtà in cui questi si sviluppano" (Meghnagi 1992). In questo senso, il modulo tende a far rivivere le diverse discipline "come veicoli e come potenziali fattori di crescita della conoscenza, grazie alle specifiche caratteristiche che ne fanno tra l'altro ambiti di ricerca organizzata" (Meghnagi 1992). In breve, la d. modulare non solo sollecita nei confronti dei saperi un atteggiamento mentale teso non tanto a incamerare nozioni quanto a comprenderle e collegarle, ma favorisce altresì un'acquisizione delle relative competenze che può essere monitorata, valutata e codificata quasi in tempo reale, e comunque in termini senza dubbio più tarati e compiuti rispetto a quelli tradizionali.

I sostenitori della d. modulare non mancano di sottolineare le vantaggiose opportunità che possono scaturire da una sua diffusione su larga scala nel contesto di un 'sistema formativo integrato'. In primo luogo, potrebbero essere via via superati i pesanti limiti che sono insiti nei curricoli strutturati, come accade attualmente, in rigidi cicli uguali per tutti, in ciascun ordine di studi. Come l'esperienza dimostra, un impianto di tal tipo comporta due effetti (ieri di lieve entità in una scuola d'élite, negativi oggi in una scuola di massa). Da un lato, si assiste alla richiesta continua di nuovi curricoli che, nel nostro paese, ha portato ben oltre il centinaio gli indirizzi di studio superiore, facendo per di più proliferare in modo abnorme le sperimentazioni. Dall'altro, gli attuali percorsi di studio - indifferenziati e lineari all'interno di ogni singola fase formativa e, tuttavia, poi paradossalmente discontinui nei loro passaggi da un grado all'altro del curricolo educativo - non solo si sono rivelati alla resa dei conti una delle cause di una dispersione scolastica di dimensioni inaccettabili, ma hanno finito altresì per sollecitare un'incontrollata diffusione di dequalificate offerte formative private, destinate a improbabili e raffazzonate modifiche della durata istituzionale dei corsi di studio.

Si è appena ricordato, invece, come la d. modulare contempli un percorso del tutto diverso dell'intero processo di apprendimento. Essa si basa infatti su una successione di acquisizioni disciplinari di n livelli, a ognuno dei quali corrisponde una determinata competenza in termini di 'sapere' e di 'saper fare'. Ciascuna di tali acquisizioni andrebbe registrata (con le procedure di cui pure si è detto) e diverrebbe a questo punto spendibile in più maniere. In primo luogo, durante il cursus studiorum, essa servirebbe per adire il livello n+1 della medesima disciplina in tutti gli indirizzi in cui essa venga impartita. Una volta assolti gli adempimenti scolastici, invece, le competenze e le abilità certificate diverrebbero valide sia per l'ingresso a vario titolo nella formazione professionale o nel mercato del lavoro, sia per un possibile successivo rientro nel sistema formativo integrato. Si potranno così ipotizzare curricoli finalmente flessibili e addirittura percorsi personalizzati, contraddistinti - sul terreno delle verifiche in itinere - da un'annotazione dei 'debiti e crediti formativi', sottratta finalmente ai rischi della faciloneria per non dire a quelli della casualità o dell'arbitrio. Proprio tale struttura flessibile renderebbe allora ben altrimenti agevoli rispetto a oggi non solo gli eventuali passaggi da un ordinamento curriculare a un altro, ma anche gli interscambi tra formazione scolastica e professionale, e persino tra frequenza a scuola ed esperienze, più o meno brevi, maturate nel mondo del lavoro.

Può essere utile al riguardo la descrizione di un'ipotesi meramente esemplificativa. Immaginiamo che uno studente di un indirizzo qualsiasi abbia acquisito il livello n di una lingua straniera. Immaginiamo quindi che sospenda temporaneamente gli studi e svolga uno stage in un'agenzia turistica assai qualificata o un'esperienza di vacanza e/o di lavoro, per cui sia indotto a trasferirsi per un certo periodo nella nazione nella quale si parla quella determinata lingua. Ebbene, si dovrebbe a questo punto prevedere come egli non possa certo rientrare nel sistema formativo al livello n+1 (immediatamente superiore a quello da cui era uscito), poiché avrebbe acquisito un 'credito' che, una volta riconosciuto, lo porterebbe al livello, poniamo, n+3. Va da sé come un analogo discorso potrebbe essere fatto per uno studente che abbia operato in un cantiere di scavi archeologici con compiti di decifrazione di epigrafi o per molti altri possibili casi.

L'organizzazione modulare della didattica, insomma, dovrebbe far sì che ogni alunno possa contrarre debiti in alcune discipline, ma possa pure - nel corso del medesimo anno scolastico - accumulare crediti nelle discipline a lui più congeniali. Nel corso dell'anno e/o in quelli successivi, insieme a tutti i suoi compagni che si trovano nelle stesse condizioni, egli sarà tenuto a estinguere i debiti o attraverso la frequenza del modulo nel quale si è prodotta la sofferenza, ovvero - nel caso in cui il numero dei moduli non superati nella stessa disciplina sia maggiore - attraverso la frequenza di appositi moduli di recupero. Mentre i fenomeni della dispersione e delle stesse ripetenze potrebbero essere ricondotti a una dimensione per così dire fisiologica, i corsi di recupero (v. scuola, in App. V) perderebbero in ogni caso il carattere di eccezionalità, a causa del quale gli interventi didattici integrativi - unico elemento flessibile in una struttura rigidissima - hanno troppo spesso finito per costituire una contraddizione difficilmente sanabile. Non ci si può nascondere, tuttavia, come in una tale prospettiva (che il processo di progressiva attuazione dell'autonomia scolastica potrebbe però rendere col passare del tempo in qualche modo inevitabile, per i meccanismi di emulazione e di concorrenzialità dei quali l'autonomia stessa è implicitamente levatrice) ci si dovrà prima o poi porre il problema di una flessibilità anche del diploma finale. Esso cioè, in un domani forse non troppo lontano, dovrebbe limitarsi semplicemente a certificare i livelli che sono stati effettivamente raggiunti in ciascuna disciplina, con le ovvie conseguenze ai fini tanto dell'iscrizione alle facoltà universitarie e/o ai corsi postsecondari, quanto dell'immissione sul mercato del lavoro.

Gli inediti scenari aperti dalla d. modulare non interessano più soltanto la ricerca degli specialisti. Da un lato, infatti, le nuove metodologie didattiche cominciano a essere concretamente verificate sul campo da parte di aggiornati sperimentatori; dall'altro, a esse fanno ormai più o meno esplicito riferimento sia progetti di legge pronti ad affrontare la discussione parlamentare, sia addirittura concrete indicazioni normative. Già nell'anno scolastico 1997-98 alcune prime classi di oltre centocinquanta istituti superiori italiani dell'istruzione classica, tecnica e professionale hanno iniziato a saggiare una trattazione modulare dei programmi del biennio, nell'ambito di curricoli che comportano un'ampia area disciplinare di equivalenza, nonché più ridotte aree di orientamento e di integrazione. Il tempo scuola previsto è di trenta ore settimanali, ma esso - nello schema ministeriale - viene significativamente indicato in termini di monte annuale, proprio per garantire all'orario dei docenti come degli allievi l'elasticità necessaria a una d. di tipo nuovo. Il disegno di legge quadro "in materia di riordino dei cicli dell'istruzione", approvato dal Consiglio dei ministri del governo Prodi il 3 giugno 1997, presuppone a sua volta, in parecchi punti del suo complessivo articolato, le tipiche problematiche insite in un contesto formativo segnato dalla presenza di una d. modulare. Particolarmente significativi sembrano - al riguardo - gli artt. 7 e 8 relativi al ciclo secondario; altrettanto significativi sono gli artt. 9, 10 e 14 che dettano norme in merito alle "certificazioni", ai "crediti formativi" e al "Servizio nazionale per la qualità dell'istruzione".

L'impulso più forte alla diffusione nel nostro sistema formativo delle metodologie della d. modulare potrebbe tuttavia venire soprattutto dalla l. 17 marzo 1997 nr. 59, comunemente nota - dal cognome del ministro proponente - come legge Bassanini. Il suo art. 21, dedicato per intero ai temi dell'autonomia scolastica, offre infatti ampio spazio alla libera iniziativa e persino alla fantasia dei soggetti interessati, in un quadro di riferimento che sembra, peraltro, più omogeneo e strutturato di quello che a suo tempo ha introdotto i moduli nella nostra scuola elementare (v. scuola, in App. V). In molti casi, cioè, ci troviamo non di fronte a un elenco di prescrizioni vincolanti, ma piuttosto dinnanzi a un articolato ventaglio di opportunità, tra le quali (si veda soprattutto il comma 8) uno spazio privilegiato viene ritagliato proprio per la flessibilità dei tempi, degli spazi e dei metodi di insegnamento, a cui la d. modulare appare indissolubilmente legata.

bibliografia

La letteratura nei trienni. Proposta di un curricolo modulare, a cura di A. Colombo, Bologna 1987.

S. Meghnagi, Conoscenza e competenza, Torino 1992.

Comunità Europee: Commissione, Libro bianco su istruzione e formazione. Insegnare e apprendere: verso la società conoscitiva, a cura di É. Cresson, P. Flynn, Lussemburgo 1995.

G. Di Francesco, Standard formativi: unità capitalizzabili e riconoscimento dei crediti, Roma 1996.

Centro europeo dell'educazione, Progetto Mobidic: linee guida alla didattica integrata modulare, Roma 1997.

G. Domenici, L'organizzazione modulare e flessibile della didattica, Roma 1997.

Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori (ISFOL), Progetto per la realizzazione di un sistema di standard formativi: unità capitalizzabili e crediti (documento di lavoro), Roma 1997.

Le competenze: approcci e modelli di intervento, dossier a cura di P.G. Bresciani, in Professionalità, 1997, 38, pp. i-xxxi.

E. Bertonelli, Licealità e istruzione postsecondaria, in Nuova secondaria, 1998, 7, pp. 11-14.

G. Domenici, Manuale dell'orientamento e della didattica modulare, Bari 1998.

G. Rodano, La didattica modulare come occasione, in Quaderni della Direzione generale per l'istruzione classica, scientifica e magistrale, 1998, 2, pp. 47-52.

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