DIATRIBA

Enciclopedia Italiana (1931)

DIATRIBA (διατριβή, diatrĭba)

Camillo Cessi

Originariamente significava "modo di passare il tempo", quindi "trattenimento, conversazione": da questo significato facilmente la parola passò ad indicare in particolare quelle conversazioni, quei discorsi con i quali i filosofi cercarono di divulgare in un circolo più largo che non fosse quello degli studiosi di professione le loro idee. Questo bisogno si fece sentire specialmente nel campo morale, dacché le idee morali debbono essere diffuse nella coscienza popolare per acquistare il loro valore. Socrate stesso cominciò a divulgare le nozioni filosofiche presso il popolo coi suoi discorsi; e più stretto all'esempio del maestro che non Platone - il quale pur mantenne la forma popolare del dialogo - e Aristotele, che discutevano nelle loro scuole, fu Senofonte con i suoi opuscoli di morale popolare. Nel periodo ellenistico la necessità della diffusione della morale si fece più forte: Diogene viveva sulla piazza e confabulava, discuteva coi popolani e usava il loro linguaggio. La scuola cinica ne seguì l'esempio e lo stesso indirizzo seguì la scuola stoica. Frutto ne sono, secondo il temperamento degli artisti, la satira che riproduce l'umore, lo spirito popolare, e la diatriba che ne riproduce il modo di sentire e di discutere. La diatriba è dunque la trattazione popolare d'un concetto filosofico di contenuto morale. Adopera il linguaggio, ne mantiene il tono e il carattere nella vivacità dell'espressione, nella tinta umoristica, spesso scurrile, che la colora e che col motto di spirito combatte il sofisma dell'avversario e rende meno dura anche una verità amara. S'introducono contrasti, interruzioni, dialoghi con gli oppositori, e tutto questo dà un movimento particolare al discorso rispondente appunto alla realtà della vita. La diatriba assume carattere letterario con Bione di Boristene, il quale continua in certo modo l'antica parenesi e il dialogo socratico popolare. Egli non appartiene a nessuna scuola filosofica, ma praticamente trae il bene morale da tutti gl'indirizzi. Di Bione non ci è rimasto nulla: lo conosciamo attraverso le citazioni dei suoi seguaci e imitatori e l'influsso da lui esercitato su tutta l'arte posteriore. Il primo di cui abbiamo documenti diretti è Telete, delle cui diatribe sono giunti a noi, per opera di Stobeo, alcuni saggi, nei quali è spesso ricordato Bione. E mentre la diatriba si svolgeva in prosa, i poeti ne introducevano lo spirito e le forme nella poesia, come Fenice e Cercida. Né fu solo Telete a comporre diatribe: tale forma letteraria diventò comune in rapporto al bisogno sempre maggiore della coscienza popolare di conoscere e di discutere. La diatriba fu genere molto usato e ne dànno argomento le attestazioni di Cicerone riguardo a trattati popolari di morale e all'esempio da lui lasciatoci nei Paradoxa. Tutta la satira romana è sotto l'influsso della diatriba. Bione è direttamente ricordato da Orazio, il quale mantiene nei suoi Sermones, cioè discorsi familiari, alla buona, tutte le caratteristiche della diatriba. Ma ben presto la retorica vi influisce fortemente, e se Persio e Giovenale imitano retoricamente la forma d'Orazio, non ne sentono più lo spirito intimo. La diatriba per effetto della retorica si fa letteraria, perde il suo carattere popolare, per quanto taluno, come Seneca, tenti di mantenerlo anche nelle questioni scientifiche. Ma ormai la diatriba diventa opera di letterati per studiosi e muta anche nome (διάλεξις, ὁμιλία), per quanto in questo faccia sempre sentire il carattere originario di conversazioni familiari, di discorsi reciproci. Saranno saggi di scolari che raccolgono le lezioni dei maestri (Arriano per Epitteto) o di letterati (Luciano) o di filosofi (Filone, Musonio) che discutono questioni particolari o mettono in luce condizioni speciali della società. Di rado nella trattazione nuova entra ancora lo spirito della vecchia diatriba, come in qualche saggio di Dione Crisostomo. Ma è opera letteraria ad ogni modo, come sempre più si staccano dalla vecchia forma popolare i discorsi di Massimo Tirio, di Temistio, di Libanio e di Giuliano imperatore: anche i motivi popolari sono ormai mezzi retorici. Più fermo si mantenne il carattere primitivo nelle prediche dei missionarî del Vangelo che parlavano direttamente al popolo (cfr. il discorso di Paolo negli Atti) e anche quando scrissero, nelle norme e nelle concezioni si tennero stretti sempre al linguaggio e allo spirito del popolo. Così in parte gli Apologetici e poi gli scrittori posteriori nelle loro prediche anche quando esse assunsero forme e dignità letteraria con Basilio, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo, fino ai più tardi tempi con Isidoro e Nilo.

Bibl.: C. Wendland, Beitr. zur Gesch. d. griech. Philos. und Relig., Berlino 1895; id., Die hellenistisch-röm. Kultur, 2ª ed., Tubinga 1912, p. 7 segg.; J. Geffcken, Kynika und Verwandtes, Heidelberg 1909; U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Der kynische Prediger Teles, in Philol. Unters., IV, Berlino 1888, p. 292 segg.; R. Heinze, De Horatio Bionis imitatore, Bonn 1889; R. Bultmann, Der Stil der paulinischen Predigt und die kynisch-stoische Diatribe, Gottinga 1910; C. Wendland, Quaest. Muson., Berlino 1895; J. Bernays, Lukian und die Kyniker, Berlino 1897; O. Halbauer, De diatribis Epicteti, Lipsia 1911.

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