Dialogo

Dizionario di filosofia (2009)

dialogo


Procedimento di ricerca condotta mediante interrogazioni fra due o più interlocutori, e in tal senso, come pratica filosofica, la sua origine è ricondotta a Socrate. Il termine indica anche il genere letterario di componimento in cui è adottata la forma dialogica e di cui gli scritti di Platone costituiscono i primi esempi. Se il d. è stato utilizzato, fra antichità ed Età moderna, soprattutto in quanto forma di scrittura, nella filosofia del sec. 20° si è avuto un importante ritorno di interesse per il d. inteso come pratica filosofica, nelle filosofie di indirizzo fenomenologico, ermeneutico e nella filosofia del d., in cui si privilegiano i temi legati all’alterità.

Il dialogo socratico

La finalità del d. socratico, che si sviluppa con lo strumento dell’ironia, è quella maieutica, nella quale mediante l’interazione dialogica degli interlocutori si perviene a una verità che, per essere attinta, necessita appunto di tale pratica. Pratica che si intende però mai definitiva e sempre rinnovabile mediante d. ulteriori. Questo il motivo per cui Socrate rifiuta di fermare le tesi guadagnate sulla pagina scritta. Allorché viene redatto, il d. diventa piuttosto uno strumento di strategia espositiva; in questo senso già negli stessi d. composti da Platone si nota un progressivo isterilirsi della vivace contrapposizione presente nei più giovanili d. ‘socratici’ in favore di una maggiore ambizione assertoria, tipica della forma del trattato filosofico, come avviene nelle Leggi.

Il dialogo moderno

Il d. consentendo la messa in scena contemporanea di molteplici punti di vista si presta a una polarità di usi rendendo possibile sia un autentico confronto, ispirato da tolleranza e reciproco rispetto, e in tal senso esso viene accolto anche nelle filosofie di orientamento scetticheggiante ancora in Età moderna (per es., nei Dialogues faits à l’imitation des anciens di La Mothe le Vayer, 1630-31, o ancora nei Dialoghi sulla religione naturale di Hume, post., 1779), sia il netto prevalere di un’opzione rispetto all’altra, inscenando non soltanto il confronto fra tesi, ma l’affermarsi di alcune di esse a discapito di altre; in tal senso è esemplare l’uso del d. in Galilei (Dialogo sopra i due massimi sistemi, 1632), per ridicolizzare le tesi degli scienziati aristotelici, o anche nei dialoghi di Bruno. Importante modello per la forma dialogica antica, ripresa a partire dall’epoca umanistica da autori quali Erasmo (Colloquia, 1518), sono Cicerone e Luciano. Vi si trovano sia il gusto brillante della satira, sia, nel caso di Cicerone, una pluralità di punti di vista che può essere adottata anche in modo precauzionale come scrittura in cui soltanto lettori avveduti sappiano cogliere il punto di vista prevalente: tale è il modo in cui il razionalismo tardo-rinascimentale e il libertinismo erudito leggeranno il De natura deorum, il De divinatione e il De fato. La cultura cristiana, tuttavia, conosce anche la forma dialogica vagliata da Girolamo e, soprattutto, da Agostino, in cui accanto alla ripresa dei moduli classici, presenti per es. nel Contra Academicos, il d. diventa ‘monologo’ e ‘soliloquio’, inteso come confronto dialogico con la ragione nella ricerca della verità (Soliloquia, II, 14) e come d. con Dio (De vera religione; De Trinitate), modello presente anche nel Monologion di Anselmo.

Il dialogo nel Novecento

Il d. continua a essere variamente utilizzato come genere filosofico, secondo la pluralità di moduli che ingloba, fino al sec. 19° da autori quali Fénelon, Fontenelle, Montesquieu, Voltaire, o ancora da Leopardi (Operette morali), Schelling, Renan, fino a cadere a poco a poco in disuso; è nel sec. 20° tuttavia che il d., inteso come pratica filosofica, torna a essere momento centrale di elaborazione filosofica. Nella filosofia del d. di cui sono esponenti maggiori Buber (Ich und Du, 1923; trad. it. L’io e il tu), Rosenzweig (Das neue Denken, 1925; trad. it. Il nuovo pensiero) e anche l’italiano Calogero (Logo e dialogo, 1950; Filosofia del dialogo, 1962), il d. è centrale in quanto momento di elaborazione interumana e tramite del soggetto per la sua propria definizione mediante gli altri. Nella fenomenologia di Lévinas, incentrata sul recupero delle istanze della ragion pratica kantiana e orientata in senso husserliano, il d., che coinvolge esseri umani finiti nella ricerca di una verità non terminabile, diventa strumento di una coscienza intenzionale che incessantemente tende verso l’infinito. Nell’ermeneutica di Gadamer il processo dialogico dell’interrogazione e della risposta identifica la forma in cui l’esperienza ermeneutica si concretizza, poiché è in quanto «linguaggio», dunque d., che «l’essere può venire compreso».

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata