Devianza

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Devianza

Ernesto U. Savona

Il concetto di d. può avere più interpretazioni: quella negativa di violazione di norme (sociali e giuridiche) e quella neutrale di scostamento positivo/negativo da un criterio di normalità. Dal comportamento 'deviante' si passa facilmente al concetto di persona 'deviante', un'etichetta che si attribuisce alle persone che si comportano in un modo così definito socialmente. Per quanto gli studiosi abbiano cercato di mantenere un approccio avalutativo, considerando deviante tutto ciò che è al di là di una curva di normalità, il comportamento deviante, e quindi il soggetto deviante, è diventato sinonimo di disapprovazione sociale. Nel tempo ha assunto connotati prevalentemente negativi sia nel linguaggio comune, sia in quello scientifico, dove è raro riscontrare un uso positivo del concetto di devianza. L'aggettivo 'deviante' viene quindi usato insieme a sostantivi diversi. È deviante un comportamento, una persona, un'opinione. Si tratta di attributi dipendenti dalle norme sociali di riferimento che stabiliscono un diffuso concetto di 'normalità', il quale varia sia nel tempo sia nello spazio. Il termine devianza diventa discutibile quando viene usato come sinonimo di criminalità. Le norme sociali e le norme giuridiche variano tra loro nei contenuti e nelle sanzioni e non sempre un comportamento deviante è automaticamente criminale e viceversa.

Devianza e criminalità

Il comportamento deviante è diverso da quello criminale per la diversità delle regole violate. Il primo è una violazione di norme sociali e morali, il secondo di quelle giuridiche. Il primo riceve le sanzioni conseguenti alla violazione di norme sociali, come la riprovazione. Il secondo riceve le sanzioni conseguenti alla violazione di norme giuridiche: la multa (sanzione amministrativa) e il carcere (sanzione penale). Si tratta soltanto di alcune tipologie di sanzioni, essendo la loro gamma vastissima e in continua trasformazione. Il sociologo americano W.G. Sumner (1906) ha distinto tre tipi di norme: quelle di uso (folkways), morali (mores) e giuridiche. Alla prima categoria appartengono i diversi modi di comportarsi. Esiste un'aspettativa generale che in ciascuno di questi settori si seguano alcune regole. Se ciò non accade, gli altri reagiranno con sanzioni informali. Più dure saranno le reazioni se non si rispettano le norme morali, se si mente, se si va nudi in luoghi pubblici, se si bestemmia. Alcune di tali norme possono diventare giuridiche. A differenza di quelle di uso o morali, quelle giuridiche prevedono sanzioni formali per chi le viola. Nei diversi Paesi le norme giuridiche sono stabilite dal Parlamento e diventano leggi, oppure sono il risultato di decisioni prese dai tribunali che costituiscono precedenti con potere vincolante. I rapporti tra cittadini sono regolati dal diritto civile, quelli tra Stato e cittadino dal diritto amministrativo se riguardano la regolazione di comportamenti con valore pubblico o dal diritto penale se si tratta di regolazione di comportamenti che hanno effetti sulla sicurezza degli altri.

Norme e controllo sociali

Le norme sociali poggiano su un complesso di valori, di norme, di aspettative che la maggioranza delle persone definisce come accettabili/inaccettabili, vere/false. Gli studiosi di scienze sociali definiscono valori i fini ultimi dell'azione, e norme le regole da seguire per realizzare un determinato valore, ossia i mezzi che prescrivono o vietano determinati comportamenti per realizzare un fine. Nelle società viene fatto ogni sforzo per assicurare la conformità alle norme. Si parla di controllo sociale per tutte quelle attività orientate a produrre uniformità nei comportamenti dei destinatari, in modo che costoro rispettino le norme e le aspettative del gruppo di appartenenza. In ogni società il controllo sociale si realizza attraverso due processi: uno interno, l'altro esterno. Il primo opera attraverso la socializzazione. Con questo termine si definisce il processo con il quale ogni società, per assicurare la propria continuità, cerca di trasmettere a coloro che vi entrano la sua cultura, ossia l'insieme di valori, di norme, di atteggiamenti, di aspettative, di conoscenze, di linguaggi di cui dispone. Si distingue la socializzazione primaria, che avviene nei primi anni di vita del bambino e che è rivolta alla formazione delle competenze di base, da quella secondaria, che inizia invece quando una persona entra nella scuola e che mira alla formazione delle competenze specifiche necessarie per lo svolgimento dei vari ruoli sociali. La famiglia è la principale agenzia della socializzazione primaria; la scuola, le organizzazioni formali e i mass media sono le agenzie di quella secondaria. Nel processo di socializzazione, grazie all'interazione continua con i genitori, i parenti, gli insegnanti, gli amici, i vicini e i conoscenti, una persona apprende il contenuto delle innumerevoli norme della società di cui fa parte, e le fa proprie, le interiorizza, le trasforma in norme morali che da allora in poi guideranno la sua condotta e che la faranno sentire in colpa, o almeno in forte disagio, alla sola idea di violarle. La socializzazione è un mezzo per assicurare un buon grado di conformità alle norme. Se la maggior parte della gente rispetta la maggior parte delle norme per la maggior parte del tempo non è perché teme di incorrere in sanzioni, ma perché ha interiorizzato tali norme e le considera giuste e naturali.

Per qualche motivo, il processo di socializzazione può fallire oppure non essere sufficiente. In tal caso entra in azione il processo esterno di controllo sociale, il ricorso alle sanzioni. Le sanzioni sono reazioni sociali alla devianza. Esse sono diverse per natura e per fonte. Sotto il primo aspetto, si distinguono in negative e in positive. Le sanzioni negative sono punizioni rivolte a scoraggiare atti, credenze o tratti devianti. Quelle positive sono ricompense per il rispetto delle norme. Per quanto riguarda la fonte, si dividono in informali e formali.

Le sanzioni informali sono reazioni non ufficiali e non scritte dei gruppi primari: la famiglia, gli amici, il vicinato. Le sanzioni formali sono invece espressioni ufficiali e scritte o dello Stato o di altre organizzazioni: la scuola, la chiesa, l'impresa, l'associazione volontaria. Le sanzioni informali riguardano i comportamenti devianti e quelle formali riguardano i comportamenti criminali.

Le reazioni alla devianza

La d. non è una proprietà intrinseca di certi atti o comportamenti, ma un attributo che deriva dalle reazioni (definizioni, significati) attribuiti a quegli atti o comportamenti dai membri di una collettività. Queste reazioni variano nello spazio e nel tempo, ossia un atto può essere considerato deviante a seconda del contesto socioculturale nel quale avviene. Si può stare nudi in un campo di nudisti o nella propria casa ma non in un luogo pubblico. Anticamente si mangiava con le mani, un comportamento che oggi verrebbe considerato deviante mentre è normale mangiare con le posate. Questa concezione relativistica della d. è patrimonio delle moderne scienze sociali. Tuttavia non tutte le forme di d. sono relative; quando si sovrappongono a comportamenti considerati criminali - vale a dire quando lo stesso comportamento è vietato dalle leggi e, al contempo, viene riprovato socialmente - allora si parla di criminalità e non di devianza.

La stigmatizzazione

Nel 1963 il sociologo americano E. Goffman si è servito della parola stigma per analizzare la devianza. Lo stigma, secondo questo studioso, è "un attributo profondamente screditante" che squalifica chi lo ha da "persona completa e normale ad una segnata e disonorata" (1963, p. 3). Studi successivi hanno permesso di individuare quattro diversi momenti e aspetti del processo di stigmatizzazione (Link, Phelan 2001). Il primo consiste nell'individuare alcune differenze fondamentali, per es., il colore della pelle, le caratteristiche fisiche, la fede religiosa, che possono diventare etichette utili a classificare gli altri in gruppi contrapposti: neri e bianchi, disabili o abili, credenti o non credenti. Il secondo si ha quando si collegano stereotipi negativi a tali etichette, si attribuiscono caratteristiche indesiderabili: i neri violenti, i disabili parassiti, i non credenti inaffidabili. Il terzo ha luogo quando le etichette connotano una separazione fra 'noi' e 'loro', quando ci si convince che le persone stigmatizzate sono sostanzialmente diverse da noi. Il quarto si verifica quando la persona stigmatizzata subisce una perdita di status ed è colpita da vari tipi di sanzione. Le reazioni degli 'etichettati' sono diverse: alcuni accettano la definizione ricevuta, la interiorizzano e finiscono per crederci, condividendola. Altri reagiscono nascondendo quei tratti che suscitano reazioni negative negli altri. Gli eroinomani nascondono i segnali della siringa sul corpo, gli omosessuali a volte si sposano per mascherare socialmente la loro condizione. Le persone oggetto di stigmatizzazione si difendono anche con le tecniche di neutralizzazione (Sykes, Matza 1957) convincendosi che vi sono buoni motivi per non rispettare una norma o per essere devianti. Si tratta di meccanismi che negano la responsabilità propria per ricondurre la causa del proprio stato ad altri fattori al di fuori del proprio controllo. Un altro modo di reagire è quello di cercare sostegno fra coloro i quali si trovano nella loro stessa situazione. E infine i devianti possono cercare di cancellare lo stigma, cambiando il tratto che lo ha prodotto: curandosi se si tratta di una d. prodotta da una malattia, oppure cambiando comportamento, come quando un eroinomane esce dal suo stato di tossicodipendente.

Le teorie della devianza

Le sovrapposizioni fra comportamento deviante e comportamento criminale hanno portato molti autori a ragionare indifferentemente di cause e di tipologie per l'uno e per l'altro. Considerata la differenza esistente (un comportamento deviante può non essere criminale come un comportamento criminale può non essere deviante) si passerà a esaminare le teorie che considerano prevalentemente i comportamenti devianti intesi come violazioni di norme sociali e sottoposti a sanzioni 'sociali' indipendentemente dal fatto che siano anche violazioni di norme giuridiche e quindi incorrano nelle relative sanzioni.

L'anomia. - Il sociologo francese E. Durkheim pensava che certe forme di d. fossero in parte dovute all'anomia, ossia alla mancanza delle norme che regolano e limitano i comportamenti individuali. Quando ciò accade, osservava Durkheim, "non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che non è giusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che vanno oltre la misura" (1897; trad. it. 1969, p. 307). In seguito R. Merton ha ripreso tale idea, sostenendo che la d. è provocata dall'anomia, che, a sua volta, nasce da un contrasto fra la struttura culturale e quella sociale. La prima definisce le mete verso le quali tendere e i mezzi con i quali raggiungerle. La seconda consiste nella distribuzione effettiva delle opportunità necessarie per arrivare a tali mete con quei mezzi. Mentre per Durkheim l'anomia è la mancanza di norme e la d. ne costituisce l'effetto, per Merton la d. nasce dall'impossibilità determinata dalla struttura sociale di avere i mezzi legittimi per raggiungere le mete culturalmente definite. Sono le norme che indicano il successo economico come meta della società americana. Come osserva Merton, gli Stati Uniti sono ossessionati dall'idea del successo finanziario. Tutti i cittadini di questo Paese sono spinti, fin dai primi anni di vita, dalla famiglia, dalla scuola, dai vicini, dai mezzi di comunicazione di massa a raggiungere una posizione economica agiata. Coloro che ci riescono vengono stimati e apprezzati, mentre quelli che falliscono vengono ignorati, screditati, disprezzati, considerati incapaci e vagabondi.

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Ogni società definisce quali sono i mezzi consentiti per raggiungere una meta. Negli Stati Uniti, come in Europa, non è considerato legittimo ottenere la promozione a scuola con la violenza o l'inganno. Analogamente, nella società americana i mezzi approvati per raggiungere il successo economico sono il lavoro, il risparmio, l'istruzione e l'onestà. Ma nella società americana si dà maggiore importanza al fine piuttosto che ai mezzi, al successo economico più che al modo con cui lo si raggiunge. L'unica cosa che conta è vincere. Di conseguenza una persona che diventa molto ricca con mezzi ambigui è più stimata di un povero onesto. Il contrasto fra l'enorme importanza attribuita al successo finanziario e le opportunità effettive di raggiungerlo (offerte dalla struttura economica e sociale) provocano una situazione di tensione e di anomia per tutti, ma soprattutto per le persone delle classi più basse, che sono più svantaggiate. Per adattarsi ai valori culturali proposti nella situazione prodotta dal contrasto fra le mete e i mezzi per raggiungerle, gli individui possono scegliere fra cinque diverse forme di comportamento (v. .). Il primo è la conformità, che consiste nell'accettazione sia delle mete culturali sia dei mezzi previsti per raggiungerle. Gli altri quattro comportamenti sono devianti. Il secondo è l'innovazione: la strada scelta da coloro che usano i mezzi illegittimi per raggiungere le mete. Il terzo è il ritualismo, proprio di chi abbandona le mete, ma resta attaccato alle norme sui mezzi. Tale è il comportamento di chi si accontenta di ciò che ha. La quarta modalità di adattamento è la rinuncia sia ai fini sia ai mezzi, propria dei mendicanti, dei senza fissa dimora, dei tossicodipendenti, degli etilisti. L'ultima possibilità è la ribellione, che consiste nel rifiuto sia delle mete sia dei mezzi e della loro sostituzione con altre mete e altri mezzi.

Dalla teoria di Merton sono scaturite altre analisi della devianza. Tra queste quelle di A. Cohen (1955), R. Cloward e L. Ohlin (1960). Questi studiosi si occupano delle bande giovanili e riprendono il concetto di anomia. Cohen ritiene che la fonte principale della d. giovanile sia la difficoltà che i giovani incontrano nel tentativo di raggiungere lo status, ossia la stima e la considerazione sociale. I problemi di questi giovani emergono quando, andando a scuola, sperimentano direttamente la contraddizione fra i valori familiari (violenti, aggressivi, orientati al presente) e quelli trasmessi dalla scuola che, essendo istituzione di classe media, trasmette valori opposti come l'ambizione, la responsabilità individuale, le buone maniere, il rispetto della proprietà. La scuola diventa in tal modo, per i giovani di classi sociali basse, il luogo della negazione dei valori trasmessi dalle famiglie di appartenenza. La rottura o tensione per alcuni di questi produce mancanza di adattamento e quindi la ricerca all'esterno di giovani che condividono gli stessi valori e che hanno gli stessi orientamenti. Nascono così le bande criminali che negano i valori della classe media aggregandosi intorno a valori alternativi come la violenza, la distruzione della proprietà privata, l'insuccesso scolastico.

La teoria del conflitto culturale. - Secondo la teoria del conflitto sociale, sviluppata alla fine degli anni Trenta del 20° sec. dal sociologo americano Th. Sellin, d. e criminalità si producono quando vi è un conflitto fra norme sociali, ossia quando regole di condotta più o meno divergenti governano la vita degli individui (Sellin 1938). Nelle società semplici, culturalmente omogenee, vi è una tendenza all'armonia e all'integrazione, e le norme sociali diventano leggi con un consenso generale. Nelle società complesse i conflitti fra le norme dei diversi gruppi diventano la regola. Vi sono conflitti primari tra due culture diverse, e secondari all'interno della stessa cultura. Quelli primari si verificano quando regole diverse entrano in collisione alla frontiera di zone di culture contigue (etnie diverse nello stesso Paese o in Paesi confinanti). Oppure quando un gruppo, un Paese, una comunità ne conquista un altro e impone le proprie norme (esperienza coloniale). Quelli secondari si registrano quando, con lo sviluppo della complessità sociale, crescono i processi di differenziazione sociale e si sviluppano le subculture. Il conflitto culturale spiega alcuni comportamenti devianti degli immigrati che sfociano in veri e propri comportamenti criminali. Tra questi vi sono quelli relativi alle violazioni dell'onore, alle relazioni di coppia, e a tutta quella sfera di comportamenti che assumono significati diversi nelle culture, come il furto per alcuni gruppi di nomadi in diversi Paesi europei.

La teoria del controllo sociale. - Le norme sociali e quelle giuridiche che le legittimano si fondano sul presupposto della moralità dell'individuo che lo porta a rispettarle avendole fatte proprie. Le viola quando riceve un forte incentivo (psicologico, economico) e non le viola quando riceve un forte disincentivo (sanzione). Alcuni studiosi americani (A. Reiss, J. Toby, I. Nye, W. Reckless) si riferiscono a Durkheim, il quale sostenne che i bisogni e i desideri degli esseri umani sono illimitati ("la nostra sensibilità è un abisso senza fondo che nulla può colmare […] una sete inestinguibile è un supplizio eternamente rinnovato", 1897; trad. it. 1969, p. 301) e che, se non vengono regolati e controllati dalla società, possono produrre varie forme di devianza. Gli studiosi americani che, dopo il 1950, hanno elaborato le diverse versioni della teoria del controllo sociale sono d'accordo nel ritenere che gli esseri umani violano le norme quando mancano freni e controlli sociali. Tali controlli sociali sono diversi: vi sono quelli esterni, ossia le varie forme di sorveglianza per scoraggiare e impedire i comportamenti devianti: vi sono quelli interni diretti, che si manifestano nei sentimenti di imbarazzo, di colpa e di vergogna che prova il trasgressore di una norma sociale: vi sono infine quelli interni indiretti, ossia l'attaccamento psicologico ed emotivo e il desiderio di non perdere la stima e l'affetto. La versione della teoria del controllo sociale più diffusa è quella presentata nel 1969 da T. Hirschi, chiamata bonding theory. Secondo Hirschi, soltanto i legami sociali riescono a contenere l'inclinazione naturale degli esseri umani a violare le norme. I comportamenti criminali o, più in generale, quelli devianti sono tanto più probabili se fra l'individuo e la società non vi è alcun legame o se questo è debole. I legami sociali presentano quattro elementi. In primo luogo, l'attaccamento, ossia la dimensione affettiva del legame: quanto maggiore sarà l'attaccamento alla famiglia, agli amici, ad altre figure, tanto minore sarà la probabilità che si commettano azioni che questi disapprovano. In secondo luogo, l'impegno nel perseguire gli obiettivi riconosciuti da tutti, ossia gli sforzi compiuti per avere successo scolastico, per ottenere un buon lavoro, per avere una buona reputazione. Quanto maggiori saranno tali sforzi e quanto più significativi saranno gli obiettivi raggiunti, tanto più difficile sarà il rischio di perdere tutto ciò che è stato raggiunto violando le norme. In terzo luogo, il coinvolgimento nel raggiungere gli obiettivi: quanto maggiore sarà il tempo che una persona dedicherà agli impegni, tanto minore sarà quello restante per violare le norme. Infine, le credenze, che costituiscono l'elemento morale del legame sociale. Quanto più una persona avrà interiorizzato le norme morali convenzionali e considerate legittime le norme sociali, tanto più sarà difficile che le possa violare. Si tratta di quattro fattori interrelati in una specie di effetto domino: maggiore sarà l'attaccamento, maggiori saranno l'impegno, il coinvolgimento e l'interiorizzazione dei valori.

bibliografia

E. Durkheim, Le suicide, Paris 1897 (trad. it. Il suicidio. L'educazione morale, Torino 1969).

Th. Sellin, Culture conflict and crime, New York 1938.

G.M. Sykes, D. Matza, Techniques of neutralization: a theory of delinquency, in American sociological review, 1957, 22, pp. 664-70.

E. Goffman, Stigma: notes on the management of spoiled identity, Englewood Cliffs (NJ) 1963.

R.K. Merton, Social theory and social structure, New York 1968 (trad. it. Bologna 1983).

M.R. Gottfredson, T. Hirschi, A general theory of crime, Stanford 1990.

B.G. Link, J.C. Phelan, Conceptualizing stigma, in Annual review of sociology, 2001, 27, pp.363-85.

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