Detto d'Amore

Enciclopedia Dantesca (1970)

Detto d'Amore

Luigi Vanossi

. Poemetto attribuito a Dante; la storia esterna è per molti lati simile a quella del Fiore (v.). Esso ci è conservato, lacunoso, su quattro fogli membranacei legati, insieme ad altri frammenti di antichi manoscritti, nel codice Laurenziano-Ashburnhamiano 1234. Qui lo scoprì S. Morpurgo, che ne pubblicò una prima edizione sul " Propugnatore " del 1888. A lui si deve anche il titolo con cui il componimento è noto (il termine detto appare ai vv. 3 e 459).

I fogli sono della stessa mano che compilò l'unico manoscritto del Fiore (H 438 della facoltà di Medicina di Montpellier), di cui anzi essi dovevano originariamente far parte " come indica il numero delle righe e la generale somiglianza " (Parodi). I 480 versi superstiti " sono disposti assai regolarmente sopra sedici colonne di trenta linee l'una, e vergati di mano nitida ed abbastanza elegante " (Morpurgo). Anche la lezione appare nel complesso accurata, tenuto conto delle notevoli difficoltà linguistiche del poemetto. Il codice presenta un'iniziale colorata e rabescata al primo verso e altre due iniziali colorate al v. 125 e 167, al principio rispettivamente della risposta del poeta a Ragione e della descrizione della donna. Una lacuna, di ampiezza non determinabile, ma che (come risulta dall'economia complessiva) non dovrebbe essere troppo ampia, corre dopo il v. 360. È anche opinione prevalente negli studiosi che il poemetto sia incompleto, ma non è forse da escludere l'ipotesi di una chiusura ad libitum, com'era nel genere del componimento (cfr. il Detto del Gatto Lupesco: " Però finisco che fa bello "); che comunque la fine non fosse molto lontana è attestato dall'anticipazione: Mi' detto ancor non fino (v. 459), che di poco precede.

Che il poemetto sia opera di Dante s'inferisce anzitutto per vie indirette, sulla base dell'identità del suo autore con quello del Fiore, già sospettata dal suo primo editore e dimostrata con prove inconfutabili dal Parodi, nell'introduzione alla sua edizione dei due testi (Firenze 1922). Nella dibattuta questione del Fiore, il Detto pesò in effetti a svantaggio dell'attribuzione dantesca, date le forti riserve degli studiosi della scuola storica per l'artificio tecnico e l'astrazione formale, che sono tipici dell'operetta. E lo stesso Parodi utilizzò il gemellaggio dei due testi come argomento determinante a sfavore della paternità dantesca, sostenuta ad G. Mazzoni. È merito di G. Contini aver ripreso, fondandola su un ordine di ragioni principalmente interne, l'ipotesi della paternità dantesca dei due testi, fornendo anche un primo gruppo di corrispondenze tra il Detto e la maggiore produzione dantesca.

La tradizionale ostilità degli studiosi appare oggi largamente superata dalla stessa profonda revisione dei cardini critici e storiografici tradizionali, mentre l'alto esercizio tecnico del Detto, la rigorosa disciplina formale che si esprime nel serrato gioco di rime equivoche, non appare difforme dai caratteri più tipici di sperimentazione e ascetismo formale propri dell'arte dantesca. A un Dante giovane, probabilmente non ancora attratto nell'ambito cavalcantiano, si convengono in modo esemplare anche le caratteristiche culturali del poemetto. Accanto al preponderante influsso del Roman de la Rose, esso rivela infatti una conoscenza larga e approfondita della tradizione poetica nostrana: dai siciliani a Guittone e i suoi seguaci, a Monte, al primo Guido. A questi nomi va poi aggiunto quello del maestro per eccellenza di Dante, Brunetto, largamente rappresentato sia nel Tesoretto che nel Favolello, e che di questa prima riduzione del romanzo francese è forse il patrocinatore. Al duplice influsso degli ottonari baciati del Roman de la Rose e delle canzoni di tutti settenari, costruite su un complesso gioco di rime equivoche, il cui capostipite è la guittoniana Tuttor s'eo veglio o dormo, va anche riportato (come osserva il Contini) il metro del poemetto (coppie di settenari a rime equivoche o composte).

Il poemetto si può considerare come un'esauriente trattazione e quasi summula dell'amor cortese, condotta secondo un disegno originale e autonomo rispetto al Roman de la Rose, anche se di qui vengono tratti in larga misura i brani che lo compongono (in particolare gli episodi di Ragione e di Ricchezza, e i finali comandamenti di Amore). Esso si divide in due parti, di cui la prima (fino al v. 270) tratta degli aspetti psicologici di Amore, la seconda di quelli sociali. La prima parte si compone di un prologo (vv. 1-5) in cui, secondo un modo tipicamente dantesco, si ricongiunge l'atto di poesia all'imperativo trascendente di Amore, e di quattro ‛ tempi '. Il primo (fino al v. 74) è un atto di fede e assoluta dedizione ad Amore (vi risalta in particolare il tema della certezza della remunerazione amorosa). Su questa iniziale dichiarazione di fede si inserisce il momento antagonista rappresentato da Ragione (fino al v. 124), che cerca di distogliere il poeta da Amore, invitandolo a perseguire un bene razionale e teologico, che dà gioia sanza fine (v. 110), sottratto alle alterne vicende di Fortuna. Il terzo tempo (fino al v. 166) è rappresentato dalla risposta del poeta, che ribadisce, e innerva di nuova forza dialettica, la primitiva certezza nella bontà di Amore. Nel quarto, il poeta passa a cantare le lodi della donna, in un'articolata descriptio delle singole parti del corpo. La seconda parte del poemetto sembra riprodurre in qualche modo la struttura della prima: all'intervento di Ragione corrisponde quello di Ricchezza (vv. 277 ss.), mentre alla descrizione della donna corrispondono i comandamenti finali, in cui Amore è visto nella sua azione di abbellimento dei costumi.

Questa codificazione dell'amore cortese avviene ordinando i vari momenti del culto amoroso in un diramato sistema di rapporti teologici, per cui basti citare le nozioni di credenza, ‛ fede ' (v. 111), adorazione (v. 32), penetenza (v. 60), o, ai vv. 138-139, la metafora del convento / d'Amor (a rappresentare la comunità dei fedeli). Si tratta di una teologia metaforica e poetica, come quella della Vita Nuova sarà poi analogica e cristiana, ma che alla seconda sembra trasmettere importanti strutture concettuali.

Nella produzione giovanile dantesca, il Detto rappresenta un momento di trapasso dai modi lirici tradizionali alla nuova poetica stilnovistica. Il trapasso si attua di fatto sotto il magistero del Guinizzelli (cui il Dante della Commedia riconoscerà poi il privilegio di padre nella sua formazione poetica). La lezione del primo Guido si esprime nella particolare interpretazione dei temi euristici tradizionali, come nell'intenzione stessa della lode che occupa il centro del poemetto, e nella rappresentazione della donna come centro di un miracolo (o meglio ‛ incanto ') di natura (cfr. i vv. 239-245).

Con la successiva produzione dantesca il Detto intrattiene molteplici rapporti, variamente anticipandone temi e motivi formali. In particolare, una parafrasi fedele della prima parte del poemetto sembra doversi leggere, in trasparenza, nella redazione prosastica della battaglia de li diversi pensieri del cap. XIII della Vita Nuova, nella quale si confrontano appunto quattro pensieri, che corrispondono ai quattro tempi del Detto. Appare anzi che, mentre per i primi due pensieri c'è un sostanziale sincronismo tra il sonetto Tutti li miei penser (Vn XIII 8 ss.) e il commento prosastico, e tra questo e il poemetto, per i due ultimi pensieri la prosa riproduce assai più fedelmente lo svolgimento del poemetto che non quello del sonetto. Si cfr. allora il terzo pensiero (L'altro era questo: lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: Nomina sunt consequentia rerum, XIII 4), con questi versi della risposta del poeta a Ragione, in cui alla refutatio dell'interpretatio nominis ‛ amore-amaro ' subito succede l'elenco delle virtuose operazioni di Amore: Tu mi vuo' trar d'amare / e di' c'Amor amar è: / i' 'l truova' dolce e fine... (vv. 141 ss.).

Ancora qualche esempio di riprese dal Detto nella successiva produzione dantesca: l'immagine che apre la descrizione della donna (Cape' d'oro battuto / paion, che m'han battuto / quelli che porta in capo, vv. 167-169) sarà svolta in Rime CIII 62 ss. sì come quelli / che ne' biondi capelli/ ch'Amor per consumarmi increspa e dora / metterei mano, e piacere' le allora. / S'io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e forza... Il distico: seminati son chiari / i buon' amici chiari (vv. 467-468), trova riscontro in Cv IV XXV 1 e la maggiore parte de l'amistadi si paiono seminare in questa etade prima. Infine il passo: I' per me non suggello / della sua 'mprenta breve, / ch'è troppo corta e breve / la gioia e la noia lunga (vv. 92-95), in cui Ragione definisce l'instabilità dell'amore che ha per suo fine un oggetto materiale, sarà ripresa, per antitesi, nella terza cantica della Commedia: Ciò che da lei sanza mezzo distilla / non ha poi fine, perché non si move / la sua imprenta quand'ella sigilla (Pd VII 67-69), dove non è tanto rilevante la ripresa dell'immagine (diffusa nella tradizione patristica), quanto l'esatta riproduzione linguistica.

Bibl. - S. Morpurgo, Detto d'A., antiche rime imitate dal Roman de la Rose, in " Il Propugnatore " n.s., I (1888) 18-61 (con introduzione, testo con interpretazione continua, glossario e indice analitico delle figure allegoriche); A. Mussafia, Proposta di correzioni al ‛ Detto d'A. ', ibid. 419-427; A. Gaspary, in " Zeit. Romanische Philol. " XII (1888) 574; L.F. Benedetto, Il ‛ Roman de la Rose ' e la letteratura italiana, Halle 1910 (" Beihefte zur Zeit. Romanische Philol. " 21)107-121; E.G. Parodi, Il Fiore e il Detto d'A., Firenze 1922 (con prefazione, testo, nota al testo e glossario); G. Bertoni, Ancora del ‛ Fiore ' e del Detto d'A. ', in " Giorn. stor. " LXXIX-LXXX (1922) 220-223; L.F. Benedetto, Di alcuni rapporti tra il ‛ Detto d'A. ' e il ‛ Fiore ', ibid. LXXXI-LXXXII (1923) 76-92; G. Contini, Stilemi siciliani nel Detto d'A., in Atti del Convegno di Studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 83-88; L. Vanossi, Tradizione e struttura nel ‛ Detto d'A. ', in Cornell Dante Studies, Ithaca 1970. Si vedano anche le principali voci bibliografiche del Fiore.

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