Destra storica italiana

Dizionario di Storia (2010)

destra storica italiana


Denominazione assunta nel Parlamento del regno d’Italia sin dal 1861 dal raggruppamento politico-parlamentare nato nel 1852 nel Parlamento subalpino dalla grande alleanza centrista di C. Cavour e U. Rattazzi, passata alla storia col nome di «connubio». Si era avuta allora l’emarginazione delle ali estreme dello schieramento politico attraverso la confluenza della parte più liberale della destra moderata e dell’ala moderata della sinistra democratica in una nuova maggioranza parlamentare che aveva permesso a Cavour di assumere la guida del governo, sulla base di un programma che prevedeva una più energica politica interna di riforme economiche e civili e un più deciso impegno, anche militare, del Piemonte nella ricerca dell’unità nazionale. Al nucleo originario si erano aggregate personalità del liberalismo e della democrazia di varie parti d’Italia che si riconoscevano nel programma politico di Cavour e di casa Savoia. Ai piemontesi Sella, Lanza, Rattazzi, Ponza di San Martino erano venuti ad affiancarsi i lombardi Casati, Visconti Venosta, Jacini, gli emiliani Minghetti e Farini, i toscani Ricasoli, Peruzzi, Cambray Digny, i meridionali Bonghi, Spaventa, Scialoja, Pisanelli. Erano uomini di formazione culturale eterogenea, che andava dal liberalismo individualista inglese al neo-heghelismo, dal laicismo più rigido al riformismo religioso, che formavano un gruppo molto omogeneo sul piano della provenienza sociale (alta borghesia terriera, aristocrazia imprenditrice imborghesita, alta finanza, industriali, diplomatici, liberi professionisti e intellettuali) e in ordine alla visione del modello di Stato da costruire e del tipo di società civile da promuovere. Uno Stato costituzionale e liberale guidato da un’élite moralmente irreprensibile, votata alla difesa dell’unità, dell’indipendenza, dell’ordine e delle libertà conquistate col Risorgimento, proteso altresì alla rapida modernizzazione delle strutture economiche e civili del Paese, senza cedimenti a spinte settoriali o localistiche interne e senza chiusure di tipo protezionistico nei rapporti commerciali con l’estero. Di fronte alle sfide lanciate dall’industrializzazione e dal processo complessivo di modernizzazione fu quindi decisa una politica commerciale ampiamente liberista, tesa a inserire organicamente l’economia italiana nell’area di libero scambio franco-inglese, quale fornitrice di prodotti agricoli, materie prime e semilavorati. Di fronte ai pericoli di disgregazione dell’appena raggiunta unità e di sovversione dell’ordine sociale esistente, furono abbandonate le originarie tendenze di tanta parte del moderatismo toscano, piemontese, emiliano alla costruzione di un ordinamento amministrativo decentrato di tipo inglese e fu costruito invece un ordinamento burocratico e amministrativo centralizzato di tipo francese. Di fronte ai pericoli di sovversione politica e sociale di matrice democratico-repubblicana e cattolica, e di possibili ritorni borbonici, nel Mezzogiorno fu attuata una rigida politica di controllo dell’ordine pubblico in tutta la penisola e una dura repressione del brigantaggio meridionale. Dopo aver impedito a Garibaldi di occupare Roma con la forza, non furono perse le occasioni del 1866 e del 1870 per acquisire il Veneto, Roma e il Lazio e regolare unilateralmente nel 1871 i rapporti con la Chiesa mediante la legge delle guarentigie basata sul principio della netta separazione tra Stato e Chiesa. Il costo della guerra del 1866 e del ventennale sforzo di ammodernamento delle strutture civili fu fronteggiato attraverso il ricorso all’indebitamento pubblico, alla vendita di una mole ingente di beni dell’asse ecclesiastico, all’introduzione del corso forzoso e soprattutto a un aumento del carico fiscale che permise nel 1876 di raggiungere, per la prima volta dal 1861, il pareggio del bilancio; cosa che ribadì definitivamente di fronte all’opinione pubblica interna e internazionale la tenuta dello Stato unitario. Fu tuttavia proprio la politica fiscale, gravando soprattutto sui ceti più deboli e comunque su un’economia prevalentemente agricola e arretrata, ad alienare alla destra una parte decisiva del consenso che l’aveva sempre sostenuta e spianare la strada all’avvento al potere della sinistra, che, significativamente, avvenne nello stesso 1876.

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