DESIGN PER TUTTI

XXI Secolo (2010)

Design per tutti

Renato De Fusco

Il titolo è in primo luogo un auspicio, quello che in futuro si abbia una maggiore qualità diffusa dei beni di consumo nella sfera sociale più vasta, vale a dire nella loro massima quantificazione. Ma non si tratta solo di un augurio: se in futuro il design non sarà veramente per tutti, potrà somigliare a molti altri fenomeni – dalla moda alla pubblicità, dalla comunicazione visiva all’ultimo ritrovato della tecnica, dal lusso sfoggiato a quello represso, dalla specialità gastronomica, il cosiddetto food design, ai ‘balocchi e profumi’ – ma non sarà veramente design. Con questo termine, malgrado le sue varie interpretazioni, è da intendere un sistema di produzione e consumo che è ormai tempo di realizzare proprio in quanto tocca gli interessi di tutti, al pari dei generi di prima necessità. Gli indispensabili riferimenti alla situazione attuale servono quali indizi per avanzare alcune ipotesi sul design nell’incerto futuro.

Il futuro va inevitabilmente preso in considerazione, perché la domanda «Che cosa si venderà?» è basilare per la produzione, specie quella del design, che richiede laboriose ricerche e spesso ha alti costi. I modi per rispondere a tale domanda sono ormai numerosi, dalle ricerche di mercato alle indagini motivazionali e al calcolo del rapporto fra le richieste del pubblico e il loro soddisfacimento da parte del produttore. Ma, per non cadere nella pura fantasticheria o in improbabili proposizioni, è indispensabile legare la dimensione del futuro al processo storico, ovvero riconoscere fino a che punto le ipotesi previsionali si legittimano, sia pure in parte, storicamente.

In un saggio non recente ma ancora attuale di Raffaello Franchini, in merito a una storiografia interessata al futuro si legge: «Tutta la conoscenza, come conoscenza di, come rivolgersi a, è un trascendere-prevedere, un proiettarsi e un proiettare verso qualche cosa. […] Per rendersi conto di codesto carattere progettante e previsionale del giudizio storico, anche quando suo oggetto sono eventi tutti accaduti, occorre correggere l’illusione ottica che proviene dal suo dirigersi verso eventi non futuri ma passati, non più prevedibili perché già accaduti. Eppure il giudizio si rivolge verso il non essere degli eventi accaduti, che è per l’appunto il loro futuro, cioè l’acquisizione progressiva di sempre nuovi, più ricchi e profondi significati raggiunti appunto attraverso l’indagine storiografica. Il giudizio, insomma, nel corso di quest’ultima, non fa che prevedere, anticipare, cioè in fondo creare, gli eventi presi in esame, rendendoli futuri nell’atto stesso che li qualifica come passati» (Teoria della previsione, 1964, pp. 133-34). La logica di una teoria interpretativa e in pari tempo prospettivistica della storia, non lontana da quanto abbiamo detto all’inizio, è quella per cui «rendere presente il passato, inoltrarsi nell’accaduto è già trasformarlo. [...] Il passato in prospettiva, lontano da noi di secoli e millenni, è il passato proiettato dal non essere verso il non essere ancora» (p. 158).

Qualità, quantità e basso prezzo

Assumiamo provvisoriamente il modello classico del design, al quale fa riferimento il titolo del presente saggio. Quando si cominciò a parlare di design (data non ancora precisamente definita), questo modello puntava a una logica lineare basata sul seguente trinomio: qualità (estetica, di durata, di rispondenza della forma alla funzione); quantità (indispensabile per rendere conveniente il costo di produzione); basso prezzo (necessario sia per il motivo precedente sia per rendere i prodotti accessibili al maggior numero di consumatori).

Questo programma, per una serie di cause, è rimasto irrealizzato. La grande maggioranza dei prodotti attualmente sul mercato non reca tracce di design perché molti oggetti sono: a) nati da una concezione e produzione meramente tecnologica; b) esemplari unici, sia per la loro complessità tecnica sia per il loro uso tanto straordinario da contraddire il concetto di serie; c) banalmente quantificati, tanto da ignorare ogni ricerca di qualificazione della forma; d) caratterizzati solo da operazioni di formalismo stilistico; e) copia degli stili del passato; f) frutto di un compromesso tra artigianato e industria. E l’elenco potrebbe continuare, con prodotti che restano comunque fuori dai tre capisaldi basilari del design storico.

Il più problematico di questi capisaldi è quello della qualità. Per ‘qualità’, la cultura del design intese una proprietà della forma che la rendesse coerente con la funzione ed espressiva di questa, mentre per ‘qualità degli oggetti’ il pubblico intese una proprietà della loro forma che li rendesse, oltre che rispondenti a una funzione (caratteristica data per ovvia), anche espressivi di qualcos’altro, così com’era avvenuto in passato. Notiamo per inciso che questa funzione ‘comunicativa’ è venuta di moda, al punto che non si parla oggi di design senza sottolineare questa valenza, o addirittura sostenere che l’informazione è la materia prima dell’architettura e del design. La maggioranza del pubblico è portata a preferire prodotti che siano copia degli stili storici o che comunque siano ricchi di una valenza simbolica, di un’abilità manuale, di una fantasia decorativa. Il pubblico in larga misura esige ancora che gli oggetti, anche se prodotti industrialmente, abbiano sempre l’apparenza di essere eseguiti a mano, essendo il valore collegato alla fatica, all’abilità, al tocco manuale. D’altra parte la componente ‘qualità’, in molti campi, si esaurisce nella capacità tecnologica. La stampa internazionale ha notato, per es., che in Italia il settore degli elettrodomestici è così avanzato dal punto di vista tecnico da costituire quello che per la Svizzera è il settore degli orologi (A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, 1993, pp. 174-75).

In generale si è perduto il criterio della qualità a causa dei continui e incomprensibili moti del gusto, e soprattutto perché non in tutti i campi si è raggiunta un’intesa fra la cultura del design e il pubblico; laddove entra in gioco il criterio di qualità, in gran parte legato ai fattori ‘gusto’, ‘artisticità diffusa’ e simili, il pubblico non ha aderito alle proposte della produzione industriale. Questo mancato incontro sta costringendo l’impresa a non puntare più solo sulla qualità, visto e considerato che essa non aiuta a vendere, poiché una produzione rivolta solo a un’élite è per sua natura all’opposto della quantificazione. Di conseguenza la produzione si è andata frazionando tra un’esigenza elitaria e una popolare e, a parte le strategie particolari, tale frazionamento non ha mai consentito che il prodotto, moltiplicandosi, avesse una riduzione di costi e di prezzi: questi ultimi restano in tal modo alti per tutti i ceti sociali. Ecco che il circolo, diventato vizioso, ha perso l’iniziale slancio, che era estetico quanto sociale, culturale quanto economico. E veniamo alle preannunziate ipotesi sul design del futuro.

L’ipotesi IKEA

Chi sembra aver realizzato il trinomio qualità-quantità-basso prezzo è la multinazionale IKEA, come dice esplicitamente la sua pubblicità. Questa azienda ha puntato molto sulla comunicazione del suo principio-base: l’offerta a basso prezzo del mobilio domestico. Ma anche sul fatto che, nonostante il variare delle tendenze, l’unione di un basso prezzo con un buon design funzionale non va mai fuori moda. Il nome IKEA è l’acronimo di Ingvar Kamprad (il fondatore dell’impresa), Elmtaryd e Agunnaryd (rispettivamente la fattoria e il villaggio svedesi nei quali egli viveva).

Fondata nel 1943 e specializzata nel campo dei mobili, degli elementi di arredo e dell’oggettistica per la casa, IKEA ebbe un inizio puramente commerciale: acquistando prodotti in grandi quantità a buon prezzo, poteva rivenderli sempre a un prezzo basso, ma realizzando comunque un buon profitto. Solo nel 1955 iniziò a progettare e produrre in proprio; e anche qui con efficaci trovate. Una delle prime fu quella di smontare le gambe di un tavolo; in tal modo l’ingombro di questo si riduceva fino a un volume facilmente imballabile in un pacco di modesto spessore, che poteva essere prelevato direttamente dal cliente e trasportato sulla sua automobile, mentre il tavolo poteva poi essere ricomposto a casa, con poco costo e con minimo danno durante il trasporto. Dopo il tavolo, molti altri mobili furono ridotti a pacchi, anzi appositamente progettati per essere trasformati in pacchi piatti, dal facile stoccaggio, dal facile trasporto sui camion e dalla più agevole distribuzione; l’idea consentì di ridurre ulteriormente i prezzi, a tutto vantaggio dei clienti. Una precisa filosofia aveva iniziato ad affermarsi in IKEA: trasformare i problemi in opportunità. Così, da un espediente all’altro – acquisto di pannelli prefabbricati, approvvigionamento di legnami nei Paesi più forniti, accesso diretto della clientela ai depositi, vendita per corrispondenza e simili – IKEA è presente con i suoi show rooms in quasi tutte le maggiori città del mondo, al pari di Coca-Cola o di McDonald’s.

Certo, nel suo catalogo non si trovano i modelli di Michael Thonet, né della Wiener Werkstätte, né ancora quelli che hanno reso famoso l’Italian style; tuttavia, chi ha creduto al vecchio trinomio del design e più recentemente ha intuito che architettura e design possono paragonarsi ai mass media, non può che simpatizzare con un’impresa che ha reso tanto popolare il design, traducendone in pratica i capisaldi classici, pur con tutto il divario fra le idee e le realizzazioni. Ma c’è qualcosa in più nell’ipotesi per cui quella di IKEA sarà anche la prospettiva futura del design: la consapevolezza della sua provvisorietà. Infatti, la multinazionale del prêt-à-porter del mobile, se per un verso segue il classico trinomio qualità-quantità-basso prezzo, per un altro non confonde arte, valore e durata. La lettura della critica mossa generalmente all’azienda è illuminante: acquistare sempre più cose, a un prezzo sempre più basso, da conservare per un tempo sempre più breve; in altre parole, le persone vogliono soluzioni economiche, talmente economiche che sono disposte a montarsi i mobili da sole, magari male, consapevoli che ciò che hanno acquistato non è proprio quello che volevano, consapevoli altresì che tra pochi anni dovranno ricomprarlo. Questa intesa tra l’azienda e il suo pubblico ci porta più o meno direttamente alla linea dell’usa-e-getta di cui si tratterà più avanti e che, anticipando una conclusione, è da ritenere quella destinata a prevalere nel prossimo futuro.

L’ipotesi del kitsch vincente

Al di là del trinomio sopra indicato, il design è stato visto come una sorta di ‘quadrifoglio’, ovvero un fenomeno unitario ma composto da quattro parti, fasi o momenti, il progetto, la produzione, la vendita e il consumo, ognuno intimamente legato con gli altri. Che questa unità di momenti differenti sia la struttura del design è dimostrato dal fatto che la si riscontra in ogni settore merceologico, dai prodotti della grande industria a quelli della media e della piccola.

Cosicché, grazie alla dicotomia ‘uno e quadruplo’ si riesce ad ammettere che i design sono tanti quanto le merceologie, e in pari tempo che queste sono unitarie pur nella loro diversità. Ipotizzare una crisi strutturale del design futuro, oltre a quelle contingenti, significa assumere, muovendo da indizi presenti, la dissoluzione di questa unità. Alcune delle componenti rimarranno così come sono o magari si rafforzeranno, come il consumo; altre saranno notevolmente modificate, come la vendita, per la quale s’impiegheranno sempre più capitali in pubblicità che in progetti e ricerche; la produzione forse resterà divisa fra artigianato e industria, mentre il progetto, nei limiti del possibile, tenderà addirittura a sparire. Premesso che la progettazione è obbligata per sua natura a produrre del nuovo (altrimenti si riproduce l’esistente), che cos’è infatti il kitsch se non qualcosa che non è progettato, ma derivato soltanto dal gusto dominante, generalmente di qualità molto bassa? Chi dubita che l’enorme quantità di sedie e poltrone di plastica presenti in tanti luoghi pubblici non sia l’imitazione di un ‘rustico barocco’? E chi non vede nelle scenografie delle soap opera televisive il contesto che mostra e diffonde il cattivo gusto nazional-popolare? Certo, va tenuta in conto la produzione di tanti oggetti anonimi, il cosiddetto design spontaneo di cose che sembrano esistere da sempre; ma come non vedere che questi umili prodotti sono stati utilizzati per oggetti e usanze derivati da certe tendenze del gusto recente? Si pensi a quella vasta produzione tanto amata dai giovani che va dai jeans sbrindellati ai piercings conficcati in ogni parte del corpo, dai tatuaggi ‘d’arte e cultura’ alle scarpe unisex. A sua volta, questo regno del kitsch più esibito si associa a un altro genere, il ‘mo-struoso nel design’. Il legame del design con tanti fatti e misfatti offerti dalla cronaca quotidiana non è certo riscontrabile direttamente, ma indubbiamente esiste. L’espressione di questo gusto va vista nei fumetti, negli effetti speciali filmici e televisivi, nell’iconografia degli UFO, degli animali preistorici, di molte specie di esseri viventi, scelti fra i più sgradevoli (come serpenti, rane e tartarughe), deformati, ingigantiti, resi più violenti e aggressivi di quanto non siano in realtà. Queste ripugnanti presenze, peraltro banalizzate dalla pubblicità, vanno forse spiegate come una sorta di vendetta dell’immaginario fantastico contro il razionale ipertecnologico, donde le loro forme sempre più voluminose, colorate, ridondanti, superdecorate; in una parola: barocchizzate. Il fenomeno non è nuovo: le decorazioni antico-romane, ribattezzate grottesche negli anni del Manierismo; le sculture delle cattedrali gotiche; l’opera di Hieronymus Bosch; il bosco di Bomarzo e altre manifestazioni appunto manieristiche; una componente dell’Espressionismo e del Surrealismo, e via via fino alla Body Art. Il luogo comune per cui ‘nulla è nuovo sotto il sole’ è solo parzialmente vero. Infatti, la differenza fra il vecchio e il nuovo manierismo, che hanno in comune il desiderio del-l’inusitato, sta nel fatto che quello cinquecentesco era opera di geniali quanto stravaganti artisti, operanti con una tecnica artigianale, mentre quello attuale è appannaggio di designer e decoratori che si avvalgono della tecnica industriale, della produzione in serie e dell’uso di nuovi materiali, segnatamente la plastica. Ma forse la prova più convincente del successo del neomostruoso sta nel fatto che esso informa il vasto campo dei giocattoli: è molto amato dai bambini, che saranno gli uomini di domani, e a costoro probabilmente risulterà caro ancora per qualche tempo, non foss’altro che come nostalgia della loro infanzia. Tutto quanto precede ci porta a ipotizzare che uno degli scenari del futuro design sarà con buona probabilità un misto di kitsch e mostruoso.

In quella ipotesi che, con termine inclusivo, abbiamo definito del kitsch vincente, va infine inclusa tutta la cattiva concorrenza fra nazioni con diverso orientamento sociale, produttivo ed economico; il plagio subito da aziende che investono in ricerche e sperimentazione da parte di altre che si limitano a copiare i prodotti altrui; la falsificazione degli articoli di marca, la loro diffusione capillare e così via. Contro questo malcostume produttivo e commerciale si vanno elaborando leggi e criteri repressivi, che sono però di difficile attuazione, data la molteplicità delle merceologie; tuttavia una politica protettiva di diritti e brevetti è fra le principali attese per il design del futuro.

L’ipotesi della funzione senza forma

La terza ipotesi sull’avvenire del design è quella dell’ipertecnologia. Non vi è chi non plauda alla telematica, che non usi il computer, la televisione, Internet e i telefoni cellulari, questi ultimi da considerarsi l’invenzione ai nostri giorni più diffusa. Ma avanziamo più di una riserva sulle conseguenze dello strapotere neotecnologico. Questo incide soprattutto in due modi: la perdita del rapporto forma-funzione e la crisi della valenza semantico-semiotica dei prodotti. Benché i due fenomeni siano collegati dalla miniaturizzazione, consideriamoli per ora separatamente. Tra i primi ad avvertire la scissione neotecnologica tra forma e funzione è stato Gillo Dorfles. Notando che, grazie all’impiego di microprocessori, sottili lastre di silicio grandi come un’unghia, è oggi possibile registrare, mettere in moto, ordinare ecc. interi meccanismi automatizzati, laboratori e fabbriche, e osservando che molti oggetti (come gli strumenti hi-fi, i registratori, gli amplificatori, la radio, i microfoni, le videocassette ecc.) sono ormai ridotti a minute scatolette nere che albergano solo qualche piccola lamina su cui sono stampati misteriosi circuiti, egli giunge alla conclusione che la forma non esiste più o è inventata di sana pianta, senza alcuna relazione con quanto essa ‘ricopre’ o nasconde, solo per dare all’utente il simulacro di un contenente che è in realtà privo di un contenuto morfologicamente corrispondente (Dieci anni tra due convegni, «Caleidoscopio», 1983, 29, p. 6).

Accostiamo questa accorata riflessione di un autore certamente non ostile al progresso tecnologico (come a qualunque altra innovazione artistico-culturale) con le dichiarazioni di un entusiasta profeta dello scenario di domani: William J. Mitchell, architetto e docente di architecture and media arts and sciences presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology). Questi sostiene (1995; trad. it. 1997, pp. 22-23) che le apparecchiature elettroniche diventeranno sempre più piccole, al punto da potersi inserire nel tessuto dei nostri abiti, o addirittura impiantare chirurgicamente nel nostro corpo, come già si fa con i pacemaker elettronici e gli impianti cocleari. Dopo una vasta esposizione delle potenzialità digitali, indubbiamente vere ma narrate con un compiacimento tra fantascienza e Body Art, Mitchell ‘lancia’ la paradossale connessione di tutto questo con l’architettura e il design: alcuni organi potranno essere incorporati nell’ambiente che ci circonda; è solo questione della loro collocazione: quelli ottici, tattili e acustici andrebbero posti nell’area della vista, del tatto, dell’udito. Così facendo, secondo l’autore, l’‘abitare’ assumerà un nuovo significato: non più quello di ‘parcheggiare’ il nostro corpo in un ambiente, quanto piuttosto quello di collegare il nostro sistema nervoso a organi elettronici che si trovano in prossimità. La nostra stanza e la nostra casa diventeranno parte di noi, e noi diventeremo parte di esse. Tralasciando il paradosso fantascientifico, quali conquiste comporterà questo nuovo modo di abitare? Quali sono le contropartite a un mondo da vivere così ‘facilmente’? La risposta chiama in causa il secondo punto lasciato sopra in sospeso, quello relativo alla crisi della valenza semantico-semiotica nei prodotti ipertecnologici.

Ricordiamo intanto che il principale significato di un oggetto di design è proprio una forma che evidenza una funzione. «La nostra impostazione semiologica riconosce così nel segno architettonico [e del design] la presenza di un significante il cui significato è la funzione che esso rende possibile» (U. Eco, La struttura assente, 1968, p. 200). La tecnologia informatica, alla quale vanno ovviamente riconosciuti grandi meriti, non sembra tuttavia tener conto di questi aspetti. Essa, infatti, punta essenzialmente sulle proprietà prestazionali, cosicché il nostro ambiente risulta affollato da telefoni cellulari, agende, dittafoni, videoregistratori, assistenti digitali personali, penne elettroniche, modem, calcolatrici, sistemi di posizionamento Loran, occhiali intelligenti, guanti, scarpe elettroniche da jogging che contano i nostri passi ed emettono segnali luminosi in caso di avvicinamento di veicoli, sistemi di monitoraggio medico, pacemaker, cuffie del lettore di compact disc, e tutte le altre apparecchiature che si possono indossare abitualmente oppure portare con noi occasionalmente. Tutto questo mondo di tecnologia digitale, sicuramente destinato a maggiori sviluppi in futuro, è dovuto, come abbiamo già visto, alla ‘miniaturizzazione’ che consente di progettare e produrre oggetti sempre più piccoli e leggeri, senza alcuna relazione fra il loro involucro e il meccanismo interno, predisposto a svolgere più funzioni; cosicché l’utente non percepisce alcun appiglio morfologico espressivo di tale relazione. In breve, la miniaturizzazione ha consentito la plurifunzionalità degli oggetti, che a sua volta li rende decisamente poco riconoscibili e di conseguenza poco azionabili.

Accanto a molti prodotti che conservano da vari decenni poche e consolidate parti da azionare – si pensi all’automobile, che ancora si guida manovrando quasi gli stessi comandi degli anni Venti – si vanno proponendo anno dopo anno altri oggetti che, specie se polifunzionali, richiedono un vero e proprio tirocinio. Così, spesso uno stesso tasto aziona più funzioni, o, al contrario, per ottenere una stessa funzione è necessario digitare contemporaneamente più tasti, donde l’esigenza di ricorrere alle istruzioni per l’uso, piene di neologismi e tecnicismi, difficili da decifrare e generalmente consultate solo in momenti di emergenza. Ne discende che, per evitarle, molti prodotti neotecnologici vengono utilizzati solo per una parte delle loro potenzialità. Naturalmente questa difficoltà di gestire i prodotti miniaturizzati è soltanto un aspetto pratico, ma niente affatto trascurabile. Si è calcolato quante prestazioni restano inutilizzate per l’inesperienza della maggioranza dei fruitori? Non resta vero l’assunto per cui non siamo noi a doverci adeguare alle proprietà dei fenomeni che vogliamo conoscere, bensì questi alle nostre possibilità conoscitive? Se ciò vale per la conoscenza della natura, a maggior ragione dovrebbe valere per quella degli artefatti. Non siamo noi a doverci adattare alla tecnologia, ma è questa che, per fini sia ideali sia pratici, dev’essere produttrice di oggetti riconoscibili alla percezione dell’uomo e quanto meno, grazie alla cultura del design, deve cercare un punto d’incontro fra le due diverse potenzialità.

Paradossalmente, questo rischia di verificarsi oggi solo nella logica dell’usa-e-getta. È noto infatti che macchine fotografiche, telefoni cellulari, persino computer diventeranno presto, a causa della loro diffusione a basso prezzo, tutti oggetti rispondenti a questa logica. Con l’affermarsi dell’usa-e-getta sarà inevitabile per i prodotti suddetti una semplificazione, l’abolizione della plurifunzionalità, una riduzione del volume d’ingombro; passando infine dalle ‘misteriose’ funzioni molteplici al monofunzionale esplicito, ci libereremo anche dalle istruzioni per l’uso. Queste diventeranno necessarie per i prodotti di alta tecnologia, e interpretarle richiederà forse una specializzazione universitaria, ma non accompagneranno più l’oggetto d’uso quotidiano, che nella sua ‘rozza’ strumentalità ritornerà a essere, come gli antichi manufatti, riconoscibile.

L’ipotesi dell’usa-e-getta

I limiti di quel fenomeno per cui risulta più economico e funzionale buttare via alcuni oggetti dopo averli usati che conservarli con cura, sono noti a tutti: assenza di qualità, spreco di risorse naturali, produzione di rifiuti, incremento delle discariche urbane, danno ecologico. All’inizio si è affermata l’idea moderna che ogni oggetto fosse riducibile a un apparato funzionale, una protesi la cui qualità stava nella capacità di svolgere una determinata funzione nel modo più efficace e rapido. Successivamente, quando si è concepita la categoria dell’usa-e-getta, l’oggetto non è stato più percepito come un prodotto in senso proprio, bensì come una sorta di momentanea materializzazione della funzione che svolge: un sacchetto o una bottiglia di plastica esistono soltanto nel momento in cui svolgono la loro funzione; al di là di questo sono rifiuti (E. Manzini, Oltre il mondo dell’oggetto, «Leggere», 1992, 40, pp. 42-44). Critici più severi hanno dimostrato che il mondo usa-e-getta è ormai entrato a far parte del-l’‘ordine naturale delle cose’, nel senso che tutto ciò che si produce non viene prodotto per durare. Si produce per sostituire, e logicamente tutto ciò che viene sostituito deve essere gettato via; in breve, per questi autori, la civiltà dell’usa-e-getta è il punto di approdo del consumismo, che ha i suoi presupposti tanto in un prelievo illimitato di risorse naturali, quanto in un accumulo illimitato di rifiuti (Viale 19952, p. 109).

La gran parte di questi rilievi si può condividere, non così l’idea (o l’ideologia) per cui ogni passività fa capo al consumismo, esso stesso soggetto a un processo di rapida modificazione, di imprevedibili trasformazioni, quindi di ‘consumo’ (ma su questo ritorneremo più avanti). In primo luogo gli stessi critici dell’usa-e-getta riconoscono come positivi molti tipi di prodotti appartenenti a questa linea: si pensi a quelli relativi al campo chirurgico, farmaceutico, igienico in generale. In secondo luogo vi sono le indiscutibili qualità di tutti gli articoli usa-e-getta: il loro basso prezzo; la loro immediata riconoscibilità; il poco spazio che occupano prima di essere utilizzati, proprietà questa che li rende compatibili con la ridotta dimensione delle nostre case e con i nostri continui spostamenti da un luogo all’altro; la loro rapida eliminazione, che cancella appunto, per definizione, il problema della loro conservazione. Menzioniamo ancora alcuni modi di sentire la questione non avvertiti da tutti gli utenti, ma di cui bisogna tener conto: l’indifferenza al senso del possesso duraturo, il piacere di padroneggiare quanto ci occorre hic et nunc, la coincidenza con il gusto per l’effimero, il rifiuto per ciò che suscita ricordi.

Una volta accennato agli aspetti negativi e positivi del fenomeno, è opportuno dichiarare qual è il suo maggiore limite. Questo non è la bassa qualità di piatti, bicchieri e posate di carta o di plastica, che è sempre passibile di miglioramento; né il fatto che nel produrre imballaggi, scatole e oggetti fabbricati con resine sintetiche s’inquina l’aria, problema risolvibile con più efficienti sistemi di filtraggio; né infine il fatto che la sovrabbondanza di rifiuti si traduce in discariche non biologicamente degradabili, dato che anche per questo possediamo sistemi tecnologici che limitano il danno all’ambiente. Il rischio maggiore è un altro. Esso consiste nel fatto che, dopo aver gettato tutto ciò che si è usato, corriamo l’alea di avere una civiltà che non lascia dietro di sé alcun segno della sua cultura materiale, praticamente alcuna testimonianza di buona parte della nostra storia. E questa assenza di segni è tanto più grande quanto più vasta è la massa dei prodotti che dovrebbero essere portatori di tali segni. Infatti, nelle culture del passato, lo scarto fra ciò che si distruggeva e ciò che si conservava, oltre a riguardare meno articoli e un minor numero di ciascuno di questi, era una più lenta e decantata selezione naturale. Oggi, evidentemente, malgrado le opportune iniziative di raccolte differenziate, dobbiamo sbarazzarci più rapidamente dei rifiuti, farlo meccanicamente e senza sottilizzare sulle possibilità di riuso di un genere di articoli piuttosto che di un altro.

È possibile porre rimedio a questo rischio di vanificare la nostra storia, che ci sembra il maggior prezzo da pagare alla logica dell’usa-e-getta? Si potrebbe indicare come positiva alternativa la necessità che gli stessi prodotti usa-e-getta divengano oggetti addirittura privilegiati della cultura del design (come ora avviene, per es., per il packaging). A questo rimedio progettuale ne andrebbe affiancato uno storico: soltanto il collezionismo, com’è avvenuto in passato, potrà conservare alcune testimonianze significative della nostra cultura materiale. Ma qui è necessario svolgere altre considerazioni.

Notiamo anzitutto che, quando parliamo di usa-e-getta, non ci limitiamo alla merceologia ‘povera’ degli oggetti di carta, plastica e vetro, anche se essa costituisce il modello di riferimento, ma estendiamo l’esame all’intero mondo della produzione industriale, ivi compresi gli oggetti costosi e di lusso. Infatti, dato per scontato che il sistema industriale ha bisogno di produrre incessantemente, di incentivare costantemente la domanda, talvolta di incrementare la produzione al fine di ridurre costi e prezzi, risulta proprio della sua logica il costruire articoli programmati per durare il meno possibile. A questo punto, qual è la differenza fra una merceologia di lusso, ricca e di lunga durata, e un’altra povera, che si consuma appena svolta la sua unica prestazione? In realtà quasi nessuna; anzi la logica dell’usa-e-getta costituisce addirittura un modello che senza ipocrisia ci fa conoscere in anticipo quale sarà la sorte del nostro nuovo computer, della nostra auto nuova fiammante, dell’elemento d’arredo appena acquistato. L’esperienza quotidiana ci insegna che esistono una lunga e una breve durata, ma una riflessione appena più attenta ci dice che la nozione di durata è molto relativa e che, con buona pace di Fernand Braudel, la longue durée è solo un paradigma storiografico: tutto quanto appartiene al mondo dei viventi, ivi compresi gli utensili, è destinato a una durata breve.

In quest’ottica, la linea dell’usa-e-getta è la sintesi di tutto il design del Novecento; una linea emblematica di una mentalità e di una cultura proprie del nostro tempo, e suscettibile di miglioramenti, di riqualificazione, persino di consentire (come abbiamo appena ricordato), tramite una più attenta progettazione e il collezionismo, la conservazione di tracce che rischiamo di perdere, ma non di essere considerata un fenomeno marginale. Anzi, essa è tale da coinvolgere non solo gli aspetti materiali della produzione, ma anche quelli psicologici che determinano il consumo dei prodotti. Interessanti considerazioni sono state svolte da alcuni studiosi in ordine alla durata degli oggetti di design o dei beni di consumo in generale. A determinarne la sostituzione non è il loro deterioramento fisico, quanto piuttosto il loro invecchiamento estetico, legato ai moti del gusto. Lo stesso sistema industriale che, nella logica della produttività, tende a un rinnovamento continuo del campionario, tuttavia, poiché non può certamente agire sul piano della deficienza fisica (andrebbe contro l’idea stessa di qualità), tende a intervenire sul contenuto comunicativo. La domanda da porre, dunque, non è «quanto durano le cose?» bensì «per quanto si usano?» (S. Pizzocaro, La lunga durata dei prodotti, «Modo», 1991, 136, pp. 46-50).

Pur riferendo gran parte delle riflessioni contenute in questo testo al paradigma dell’usa-e-getta, non vogliamo trascurare la maggioranza dei prodotti ‘normali’ destinati a una più lunga durata. Quest’ultima varia naturalmente da prodotto a prodotto e da Paese a Paese: le auto durano mediamente 10 anni nei Paesi ricchi e 35 in quelli del Terzo mondo, e gli elettrodomestici bianchi (frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, forni, piani cottura) dai 15 ai 20 anni, ma sono gli articoli che costituzionalmente o programmaticamente hanno un uso più breve a porre i maggiori problemi di durata ai fini della riduzione dei rifiuti. Sono sorte con questo obiettivo significative istituzioni, quali, nel 1982, l’Institut de la durée/Product-life institute di Ginevra (httpp://www.product-life.org), diretto da Max Börlin, Orio Giarini e Walter R. Stahel. Per raggiungere il fine suddetto, esso proponeva di puntare sulla longevità dei prodotti e dei loro componenti, intervenendo fin dalla progettazione e mirando al prolungamento della durata di un prodotto (ottenibile tramite il riuso, la riparazione, il ripristino, l’aggiornamento tecnologico) e poi al recupero e alla riutilizzazione dei suoi componenti quando questo ha concluso il suo ciclo di vita. Appare evidente che per attuare tale programma occorre il concorso non solo delle aziende, ma anche della tecnologia, del commercio e soprattutto di una volontà economico-politica. Per prolungare la durata dei prodotti sono state proposte anche altre strategie. Una di queste muove dalla considerazione già esposta per cui, nel vasto campo degli articoli miniaturizzati, dato il divario fra le potenzialità dei prodotti polifunzionali e l’incapacità dei fruitori di utilizzarli pienamente, nascerebbe una disaffezione per tali articoli e quindi un rifiuto nei loro confronti, con il relativo accumulo nell’ambiente e l’aumento del degrado di quest’ultimo. Donde la strategia di una produzione che, riducendo la quantità delle prestazioni, riporterebbe gli oggetti alla qualità tradizionale dei rassicuranti oggetti monouso. Si tratta, a nostro avviso, di una delle tante contraddizioni del voler conciliare informatica ed ecologia. Un’altra proposta tendente a ridurre gli inconvenienti della produzione di massa è quella della rent line, cioè di una strategia che per quanto riguarda i prodotti privilegia il prestito o l’affitto rispetto alla vendita. In pratica, la valorizzazione dell’‘usato’ da un lato farebbe salva l’‘informazione’, concetto che, a nostro avviso, è stato ipostatizzato, mentre dall’altro dovrebbe portare alla riduzione del ‘nuovo’.

Dette proposte, già discutibili teoricamente, non coincidono affatto con l’esperienza della produzione, e suscitano non pochi dubbi sulla loro reale efficacia. Costruire articoli di lunga durata comporta numerosi vantaggi, ma fino a che punto può offrire quel profitto che è la molla di ogni impresa? Chi garantisce quest’ultima che il più effimero moto del gusto non renda antieconomico un costoso impianto per produrre un genere duraturo di manufatti? Donde una conferma della nostra tesi per cui tanto la merceologia più ricca quanto la più povera rientrano comunque, prima o poi, nella logica dell’usa-e-getta. Con buona pace di tutto l’ecologismo – spesso non sempre appropriato alla cultura del design e associato a essa con qualche forzatura – sia l’industria (per così dire) pesante sia quella leggera sono costrette a puntare sul consumo, a effettuare previsioni di durata sempre più breve, ad assecondare il potenziale tecnologico, di cui, a quanto pare, non possiamo più fare a meno. Fino a che punto? Qual è il limite del famoso ‘sviluppo sostenibile’? Ci sembra che tale espressione – finora vista soprattutto in un’ottica tecnicistica – abbia un più alto senso se riferita al concetto di valore-interesse, che è alla base della interest theory of value sviluppata dalla scuola pragmatica statunitense. Secondo tale teoria, un valore è la proprietà di soddisfare o portare a termine un atto che richiede per il proprio compimento un oggetto con tale proprietà. C’è un interesse per il cibo fino al momento in cui esiste un’attività di ricerca degli oggetti che fanno cessare la fame; il valore non deve venir localizzato negli oggetti separati dagli interessi, e neppure negli interessi (e quindi non negli aspetti ‘emozionali’ degli interessi durante il processo del soddisfacimento) separati dagli oggetti che permettono il soddisfacimento degli interessi medesimi. I valori sono proprietà soddisfattive di oggetti o situazioni che rispondono al compimento di atti interessati. Parlare di valore, pertanto, è considerare le cose sotto l’aspetto dell’interesse (Ch.W. Morris, Esthetics and the theory of signs, «Erkenntnis», 1939, 8, pp. 131-50; trad. it. in «Nuova corrente», 1967, 42-43, pp. 113-19).

Trasferito nel nostro discorso, lo sviluppo sostenibile sarebbe un fattore regolativo del rapporto tra il potenziale tecnologico e i valori-interessi dei consumatori, presso i quali la proprietà soddisfattiva degli interessi non danneggerebbe gli altri valori, la salute, l’ambiente e così via. A questo punto va ribadito che i valori non consistono mai o raramente in qualcosa che è, per così dire, in re, bensì in qualcos’altro che trascende i fatti, le opere, gli oggetti. Altrimenti identificheremmo fatti e valori.

Evidentemente, il concetto di valore-interesse presenta una componente che, se da un lato non comporta rinuncia agli interessi, dall’altro presuppone, con la presenza del valore, una componente etica. Che un fenomeno così utilitario e dispersivo come l’usa-e-getta abbia un risvolto etico appare strano, e tuttavia è possibile individuarlo. Anzitutto è positivo che i prodotti di cui ci occupiamo siano alla portata di tutti, e richiesti dal pubblico senza distinzione di classe e di cultura. In secondo luogo, come abbiamo già detto, la corrispondenza in essi della forma con la funzione – un binomio spesso attaccato dalla critica, ma di fatto molto difficile da smentire – esprime tutto lo sforzo del Movimento moderno volto a produrre degli articoli tanto utili quanto a basso prezzo. Inoltre gli oggetti usa-e-getta si presentano per quello che sono e per ciò che servono, senza rimandi simbolici e semantici; anzi, dal punto di vista della cultura figurativa, sono autoespressivi. Restando ancora nell’ambito artistico-culturale, lo stile dell’usa-e-getta è il più affine a quello del Minimalismo, vale a dire la tendenza più ‘sincera’ dell’arte, dell’architettura e del design contemporanei.

Si parla attualmente e con insistenza di un ‘design dei servizi’ che, grazie alla smaterializzazione prodotta dalla tecnologia digitale, andrebbe sostituendosi a un ‘design dei prodotti’, secondo il motto «senza tempo, senza spazio, senza materia». Per alcuni settori telematici è possibile impiegare questo trinomio, ma non certo per il design, che è per sua natura l’espressione più emblematica della cultura materiale. Questo tema offre un ulteriore spunto per l’etica dell’usa-e-getta. I prodotti rientranti in questa categoria costituiscono uno dei pochi casi in cui ha senso la prevalenza del servizio su quella dell’oggetto. E ciò grazie alla modestia dell’oggetto stesso, che resta comunque materiale, rispetto alla prestazione che esso è in grado di offrire. Secondo i teorici del ‘design dei servizi’, quest’ultimo non si riferisce solo a un prodotto fisico, definito da materiali, forma e funzione, ma si estende al sistema prodotto, vale a dire all’insieme integrato di prodotti, servizi e comunicazione con cui le imprese si presentano sul mercato (Manzini, Vezzoli 1998, p. 13). Un’ulteriore specificazione contribuisce a rendere più chiara la nozione di design dei servizi. La natura dei servizi, non qualificandosi come proprietà, differisce notevolmente dai beni materiali, i quali, viceversa, inducono all’acquisto, al possesso e alla proprietà. Inoltre, fornendo tali servizi direttamente nella casa o nell’ufficio degli utenti, le aziende stabiliscono un contatto diretto con il cliente; ciò consente di realizzare una fornitura di servizi che lo accompagna per l’intera durata di vita del prodotto. Nella logica di vendere sempre più servizi ed esperienze che beni (soprattutto in settori dove la quantità dell’offerta e l’uniformità di modelli e prezzi hanno saturato i mercati), la sfida consiste nell’attrarre i clienti attraverso l’offerta di un plusvalore. Per conquistare sempre maggiori quote di mercato, le aziende offrono gratuitamente i prodotti della prima generazione, allo scopo di ‘fidelizzare’ il cliente in una relazione di lungo termine basata sull’erogazione di servizi sempre più innovativi (Sbordone 2006, pp. 19-20).

Pur riconoscendo che evidentemente esiste un problema dell’organizzazione dei servizi – problema tipicamente economico/amministrativo – non si capisce perché si debba coinvolgere il design, che ha poco o nulla a che vedere direttamente con tale problema. L’espressione design dei servizi si addice a un genere di prestazione e non alla funzione specifica dei singoli prodotti: sarebbe come confondere la pratica della ristorazione con i piatti, i bicchieri e le posate, ovvero con oggetti della cultura materiale, che va difesa come propria del design.

Un altro punto significativo riprende l’argomento della popolarità dei prodotti usa-e-getta, stigmatizzata dai critici radicali del costume, che magari appoggiano e giustificano quella della televisione e di altri mass media. In ogni caso essi non hanno fatto tesoro di quanto ebbe a suggerire Theodor W. Adorno per l’architettura (ma il discorso vale anche per il design o per qualunque altra forma d’arte applicata): «Proprio perché l’architettura, oltre che autonoma, è anche, effettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uomini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo. Se scavalca gli uomini tel quel, si adatta a un’antropologia e magari a un’ontologia discutibili; non a caso Le Corbusier inventò degli uomini modello; ma gli uomini viventi, anche i più arretrati e schiavi delle convenzioni, hanno diritto al soddisfacimento dei loro pur falsi bisogni. Se per investire il bisogno vero, oggettivo, il pensiero passa sopra senza riguardo al bisogno soggettivo, si ribalta, come ha sempre fatto la volonté générale contro la volonté de tous, in oppressione brutale. Persino nel falso bisogno dei viventi sussiste un moto di libertà: ciò che la teoria economica ha chiamato valore d’uso in contrapposizione all’astratto valore di scambio. Perché si rifiuta di dare agli uomini ciò che così fatti – e non altrimenti – essi vogliono e di cui hanno magari bisogno, l’architettura legittima appare loro necessariamente nemica» (Ohne Leitbild. Parva aesthetica, 1967; trad. it. Parva aesthetica. Saggi 1958-1967, 1979, p. 121).

Ma il culmine dell’etica dei prodotti usa-e-getta sta nel fatto che la loro breve durata li affranca, come s’è già accennato, dall’ossessione del possesso, che da sempre s’è manifestata in maniera negativa. Ancora Adorno, rifacendosi a Friedrich Nietzsche, il quale si riteneva fortunato di non possedere una casa, a sua volta dichiarava che fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria (Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951; trad. it. 1954, pp. 28-29). Il che va inteso nel senso di un’apertura verso nuovi orizzonti, di incremento del valore d’uso al posto del valore di scambio. E veniamo al punto conclusivo sull’etica dell’usa-e-getta; un’etica che paradossalmente tocca l’incremento dei consumi. Lavori socialmente più redditizi e la piena occupazione non si ottengono solo con il turismo d’arte e di natura – come pretende tanta demagogia politico-sociologica – ma soprattutto producendo oggetti che si consumano. Quanto al rapporto fra questa complessa fenomenologia dell’utilizzo e il consumismo, è necessario finalmente sgombrare il campo dall’ideologismo e dal moralismo che continuano ad accompagnare quest’ultimo. Con il tempo abbiamo acquistato la consapevolezza che lo si può correggere ma non eliminare, perché deve coesistere con la produttività. Ci piaccia o no, questa è la condizione della società attuale, e tale sarà certamente anche in futuro. L’abbandono di questa via è inconciliabile con lo sviluppo, e produrrebbe una disoccupazione più grave di quella che già oggi registriamo come uno dei maggiori problemi sociali e quale principale pericolo imputabile alla tecnoscienza. Accennavamo sopra allo stesso consumo del consumismo, prima per indicare che si tratta di un fenomeno non statico, bensì a sua volta soggetto alle diverse condizioni del mercato, ai valori-interessi condivisi dalla mutevole massa di utenti, poi perché molti sostengono il prevalere dell’informazione sull’uso di oggetti materiali. E ognuno dovrebbe sapere che certe idee sono ancor più inquinanti di tanti oggetti dismessi. Come che sia, il consumismo, un’organizzazione economico-sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione dei beni, ha il solo difetto di non essere esteso all’intera sfera sociale e a tutti i Paesi del mondo. Se-condo Octavio Paz (1999, p. 49), le società democratiche sviluppate hanno raggiunto un livello invidiabile di prosperità; al contempo, però, sono isole di abbondanza in un mare di universale miseria.

L’ipotesi di nuove tipologie

È certamente da mettere in conto nel futuro del design l’affermarsi di nuove tipologie o la modifica di quelle esistenti, specie se, come in questa sede, pensiamo a una sua diffusione sempre più ampia, a un design per tutti, che si espanda non solo nei Paesi industrialmente più avanzati (dove ha una sua tradizione e dove non a caso è elevato il numero di giovani che vi si dedicano), ma anche e forse soprattutto – intendendo la nostra disciplina in un certo modo – in quelli in via di sviluppo.

Comunque, è certo che il benessere economico passa per il settore manifatturiero, e nessuno fa più distinzione tra quello prevalentemente industriale e quello artigianale. Il ‘certo modo’ cui accennavamo sopra sta a indicare anzitutto la mancata distinzione appena menzionata, e subito dopo l’esigenza di nuove tipologie: il nuovo ruolo del design non è più soltanto quello di risolvere problemi estetici, ma quello di inventare nuovi prodotti, nuovi mercati e nuove economie (Branzi 2007).

Quanto alle nuove tipologie, se si studia la produzione dei designer italiani più giovani si nota che il loro maggiore interesse – più da inventori che da stilisti – non sta nel campo del furniture design. Essi non ci propongono l’ennesimo modello di seggiole, divani e poltrone, armadietti e tavolini, bensì un’eterogenea tipologia di oggetti, alcuni dei quali del tutto inediti. Essi dicono che non c’è più bisogno di nuovi tavoli o di nuove sedie dal bel disegno. Oggi, e probabilmente ancor più domani, sarebbe giusto che i designer concentrassero tutte le energie nel cercare di inventare nuove tipologie di oggetti che diano risposte adeguate ai nuovi modi di vivere; dovremmo saper interpretare con sempre maggiore prontezza quelli che saranno i nuovi bisogni del domani (Lo stupore inventivo, 2005). Abbiamo definito la loro produzione ‘il design che prima non c’era’ appunto perché si tratta di oggetti quasi totalmente inediti, oppure di prodotti che ‘migliorando l’esistente’ costituiscono il contributo più utile alla linea di un design per tutti.

La produzione di un design diverso dalle tradizionali tipologie ebbe inizio tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo quando, a eccezione delle opere più pazzesche – ‘il sonno della ragione genera mostri’ – si pose il problema di cosa fare in un mondo saturo di merce, segnatamente di mobili. La crisi si rese visibile anche per la scomparsa di alcuni tra i maggiori maestri, che non lasciarono una scuola fortemente caratterizzata e riconoscibile. Nello stesso periodo assistemmo all’affermazione su scala mondiale della citata IKEA e alla più problematica concorrenza cinese che, in forza dell’imitazione, del modesto costo della sua forza lavoro e della sua stessa organizzazione, cominciò a insidiare l’instabile equilibrio commerciale del design occidentale. Oltre a tali motivazioni economiche, un notevole cambiamento si verificò nel periodo citato a causa del gran numero di diplomati usciti dalle scuole di design e dalle facoltà di Architettura. Si aggiunga che il prevalere dell’offerta sulla domanda – nonostante il mito dell’Italian style e la presunzione che il design salvasse il mondo – generò una serie di assurde teorizzazioni, sia quelle prima citate di Mitchell sia altre ancor più immerse nella realtà virtuale, molte delle quali non avevano molto in comune con la cultura materiale del design.

Contro questo orientamento ha reagito la produzione del ‘design che prima non c’era’, cui ci riferiamo, inizialmente espressa dalle opere dei diciannove che, durante le giornate milanesi del Salone del mobile del 2005, hanno partecipato alla mostra Design alla Coop, allestita da Gabriele Pezzini nell’area di ingresso del supermercato di via Arona 15 a Milano: Enrico Azzimonti, Matteo Bazzicalupo, Fabio Bortolani, Carlo Contin, Antonio Cos, Lorenzo Damiani, Delineodesign (Giampaolo Allocco), Odoardo Fioravanti, Emmanuel Gallina, Ilaria Gibertini, Giulio Iacchetti, il gruppo Joe Velluto, Kazuyo Komoda, Raffaella Mangiarotti, Miriam Mirri, Donata Paruccini, Gabriele Pezzini, Matteo Ragni, Paolo Ulian. I loro oggetti, generalmente di uso domestico, non fanno impazzire di piacere estetico, né risolvono i grandi problemi del design contemporaneo; tuttavia forse solo nelle loro proposte esiste il senso del ‘design come arte delle cose amabili’, per usare un’espressione di Ezio Manzini detta in altre circostanze. Aggiungiamo che i prodotti del ‘design che prima non c’era’ presentano una piccola dimensione, una vena ironica, il ready-made modificato, il minimalismo, il funzionalismo ritrovato, una notevole componente concettuale, il che non è poco con i tempi che corrono.

Produttività e rifiuti

I termini sembrerebbero inconciliabili: non possiamo rinunciare alla produttività e in pari tempo dobbiamo far fronte allo smaltimento dei rifiuti; da un lato si invoca il consumo in nome della produzione, della necessità occupazionale e dell’aumento del PIL; dall’altro, quando genera difficoltà nelle gestioni delle risorse e dei rifiuti – come tutti fenomeni viventi – lo si bolla di consumismo. Beninteso, non si tratta qui di parlare dei ‘massimi sistemi’ ecologici (cambiamenti climatici causati dall’aumento di diossido di carbonio in atmosfera e simili), ma soltanto di dare un’adeguata sistemazione a quel che avanza materialmente dall’uso dei beni di consumo; solo in questo caso il problema riguarda il design, inteso come progettazione industriale, mentre le grandi questioni ecologiche riguardano, invece ed esclusivamente, le direttive politiche degli Stati, il rapporto tra il loro diverso grado di sviluppo e così via.

Notiamo intanto che, osservando oggi un cumulo di rifiuti, non si trovano facilmente quelli derivanti dalla cultura del design: una poltrona di Marco Zanuso, una lampada di Achille Castiglioni, una sedia di Enzo Mari. Ma non vogliamo limitare l’ambito del design a oggetti eccezionali, anzi vogliamo estenderlo alla maggior parte dei prodotti merceologici, ivi comprese le famigerate buste di plastica che si dicono distruggibili solo dopo molti anni. Secondo la visuale più tecnologica, i due fenomeni della produttività e dello smaltimento dei rifiuti non sarebbero altro che due fasi dello stesso processo, tant’è che si ricavano vantaggi economici sia producendo sia distruggendo la merce o, meglio, i suoi residui. E tale processo, già largamente in atto, sarà una politica sempre più adottata negli anni futuri.

Com’è noto, la possibilità di smaltire i rifiuti si attuava prima con gli inceneritori, che si limitavano al solo smaltimento; successivamente, nei Paesi più industrializzati del mondo, sono stati adottati i termovalorizzatori che, oltre a incenerire i rifiuti, sfruttano i contenuti potenziali di questi ultimi per generare calore, riscaldare acqua e infine produrre energia elettrica. L’impiego dei termovalorizzatori sembra essere una via di uscita dal problema delle discariche ormai stracolme. Riconosciuta l’importanza di questi impianti, ritorniamo al nostro tema specifico di un design per tutti, e poniamoci la domanda sul ruolo che esso può avere in un mondo diviso tra l’esigenza di produrre beni di consumo e quella di smaltire i rifiuti. Non può riguardare il design ciò che dicono i fanatici dell’ecologia, «proviamo a ridurre i consumi», cosa che, da quanto precede, li pone per così dire fuori tema. Essi cominciano invece a essere credibili e a consigliare qualcosa che è pertinente al design quando propongono di ridurre almeno la quantità degli imballaggi.

Certo il packaging è ancora un fiore all’occhiello del disegno industriale, per la sua aderenza al prodotto, per la sua funzione protettiva e persino per quella pubblicitaria; ma in futuro si porrà fra i suoi compiti, oltre a quelli citati, anche quello di essere il meno ingombrante possibile, più leggero, composto da materiali biodegradabili e così via. L’ideale sarebbe un prodotto che contenga anche il suo imballaggio, in modo da realizzare una produzione che non dia luogo a rifiuti.

Un esempio emblematico è dato dal designer L. Damiani che, con il progetto Packlight del 1995, ha ideato una lampada formata dagli elementi di imballo di una lampadina. Per descrivere la sua invenzione si possono utilizzare le parole stesse che accompagnano questo prodotto: «Comprando una qualsiasi lampadina Osram Dulux, imballata in una ‘commerciale’ confezione di plastica (blister), l’acquirente deve scegliere: buttare via, come sempre è accaduto fino ad oggi, la confezione ed utilizzare, montandola in un apposito paralume, la lampadina; oppure conservare la custodia che, restando sé stessa, muta identità, divenendo apparecchio illuminante, senza mai estrarne la lampadina. Solo grazie all’utilizzo di una lampada elettronica a risparmio energetico si evita il pericoloso surriscaldamento del packaging-apparecchio illuminante, rendendo possibile l’esistenza del progetto. I costi si riducono al prezzo della lampadina, con l’aggiunta di 4-5 euro per l’acquisto di spina, filo e interruttore; con tale modica spesa si ottiene una lampadina compresa di apparecchio illuminante» (http://www.newitalianblood.com/show.pl?id=3061; 19 genn. 2010). Packlight e la sua singolarità di prodotto senza rifiuti inducono a ipotizzare quale genere di design avrà maggiore possibilità di affermarsi nel prossimo futuro.

Riprendiamo il tema dell’usa-e-getta e il rischio che tale fenomeno cancelli i segni della nostra storia, almeno nei suoi aspetti di cultura materiale. Abbiamo già accennato al modo di evitare che ciò avvenga tramite due fattori tra loro relazionati: il collezionismo e la progettazione. Approfondiamo qui, come conclusione, questa idea. Gli articoli usa-e-getta, essendo distrutti senza scrupolo, in genere hanno l’aspetto e il carattere di cose brutte o quanto meno insignificanti. La maggioranza dei consumatori, indifferente al gradevole aspetto delle cose, le usa e poi se ne disfa senza problemi; la minoranza che è invece attenta al carattere estetico degli oggetti, non si serve di quelli usa-e-getta o, se li usa, ne conserva alcuni che considera significativi, dando inizio a una sorta di collezionismo. Da tale nesso deriva la necessità che anche il prodotto usa-e-getta richieda una maggiore cura progettuale, che rientri nella cultura del design, che richiami l’attenzione del designer, che diventi un prodotto d’autore. Non si tratta, per tutti i motivi già visti, di fermare un processo che va dalla nascita del prodotto alla sua fine tra i rifiuti, bensì di qualificarlo per il breve tempo della sua esistenza, in modo che, così qualificato, venga almeno in parte collezionato, cioè conservato come traccia di un tempo e di un costume. Se alle raccolte, alle collezioni, ai musei si deve la conservazione di tanta cultura del passato, non si vede perché lo stesso non possa valere anche per quella di oggi, intesa sia in senso tradizionale sia in quello antropologico. Né l’obiezione per cui un conto è collezionare opere d’arte, un altro prodotti d’arte applicata e un altro ancora oggetti di vario genere, gusto e natura, vale a smentire l’idea che il collezionismo sia un modo di correggere i rischi dell’usa-e-getta. Infatti, da Alois Riegl in poi, la teoria della critica non ha più operato distinzioni fra arti maggiori e minori, pure o applicate e così via; non solo, ma i nuovi modi di schedare, documentare, trasmettere a distanza le immagini degli oggetti ha allargato notevolmente il campo dei beni culturali. Pertanto, se ammettiamo oggi di considerare bene culturale qualsiasi cosa che sia portatrice di un significato storico e/o artistico, risulta legittima la proposta di affidare anche gli oggetti più poveri alla custodia di un museo.

In generale il collezionismo può intendersi come una sintesi di storia e di estetica. Il collezionista raccoglie l’oggetto che è bello (o anche solo curioso, interessante, non più in commercio); conservandolo, non solo si ricordano i segni del tempo in cui è nato, ma si conferisce durata, quindi storia, all’oggetto stesso: questo diventa storico in quanto è bello, e in pari tempo diventa apprezzabile in quanto storico. La produzione usa-e-getta, opportunamente migliorata (dalla creazione al consumo), sarà utilizzata con sensibilità nei confronti dell’ambiente, e in pari tempo conosciuta mediante la sua museificazione. Ciò che in passato era possibile a un’élite domani sarà possibile a tutti. Tale produzione, usata e conservata, ci renderà tutti in pari tempo rumorose cicale e silenziose formiche.

Bibliografia

W.J. Mitchell, City of bits. Space, place, and the infobahn, Cambridge (Mass.) 1995 (trad. it. Milano 1997).

G. Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Milano 19952.

E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo di prodotti sostenibili. I requisiti ambientali dei prodotti industriali, Rimini 1998.

O. Paz, Che cos’è la modernità?, «Casabella», 1999, 664, pp. 48-51.

M. Chiapponi, Le forme degli oggetti, «Il Verri», 2005, 27, pp. 17-34.

M.A. Sbordone, Design e Activity theory: il valore delle merci da reale a percepito, «Op. cit.», 2006, 126, pp. 18-30.

A. Branzi, Sette gradi di separazione, in The new Italian design, a cura di A. Branzi, Triennale di Milano, Milano 2007 (catalogo della mostra), pp. 1-10.

Si veda inoltre:

Lo stupore inventivo, intervista a P. Ulian a cura di G. Refini, «Ideamagazine», sett. 2005, http://www.ideamagazine.net/it/cont/cm0900a.htm (19 genn. 2010).

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