DERVENI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

DERVENI

P. Themelis
G. Calcani

Località della Macedonia, c.a 10 km a SO di Salonicco. Nel 1962, durante i lavori per la costruzione della strada Salonicco-Lankadà, venne fortuitamente scoperto a D. un gruppo di sette tombe. Il recupero dei corredi delle prime due tombe a cassone (A e B) avvenne in maniera affrettata: ulteriori lavori portarono alla scoperta della tomba «macedone» Γ, con copertura a volta, e di altre quattro tombe, tre a cassone (Δ, E, H) e una a fossa (Z). Queste tombe si aggiungono ad altre due di tipo «macedone», in passato scoperte nella stessa zona. Le tombe con copertura a volta erano state ripetutamente violate; al contrario, quattro del tipo a cassone (fa eccezione la tomba H) e quella a fossa si rinvennero intatte. La scoperta delle ricche tombe di D. costituisce, assieme agli scavi di Pella e delle tombe di Verghina, uno dei più rilevanti avvenimenti dell'archeologia macedone. È evidente che non si tratta di una necropoli cittadina organizzata, ma di tombe sparse, a intervalli non regolari, lungo un'arteria stradale di collegamento tra Salonicco (Therme) e Letè.

Le tombe a cassone di D., costruite con molta cura, ciascuna con una propria fisionomia, presentano sensibili differenze nelle misure interne e nel rapporto lunghezza-larghezza. Le tombe A, Β e Δ si distinguono anche per la ricchezza dei corredi; la Β può definirsi monumentale grazie anche alla perfezione delle sue proporzioni, la A è particolarmente stretta e allungata, mentre la Δ è quasi quadrata. Simile a quest'ultima, ma di più modeste dimensioni, è la tomba E, mentre la tomba H, più piccola e realizzata con quattro blocchi, si potrebbe piuttosto definire a cista.

Le tombe a cassone, particolarmente grandi, per l'esattezza veri e propri locali sotterranei, rare in area macedone, sono monumenti di notevole interesse. Le pareti delle tombe di D. sono costruite con blocchi rettangolari di un calcare compatto con inclusi fossili (denominazione locale «pòros rossiccio») per l'altezza di uno (H), due (A, E) o tre (Β, Δ) filari. Le tombe Δ e Ζ avevano una copertura di assi di legno, mentre le altre erano chiuse superiormente con uno (H), tre (E) o quattro (A e B) blocchi di pietra. La tomba A presentava, oltre ai blocchi di copertura, anche un tavolato. Il pavimento delle tombe era di solito in terra battuta; nella tomba A però era costituito da quattro lastroni rettangolari, mentre la E conservava parte di una pavimentazione in lastrine irregolari di calcare. Le pareti interne delle tombe erano intonacate con calce che, in diversi casi, ricopriva anche parte del pavimento. Le tombe erano preparate e intonacate al momento della sepoltura, poiché, come è chiaro nella tomba A, gli intonaci erano ancora freschi al momento della deposizione. Nella tomba E l'intonaco era rosso e rivestiva anche la superficie inferiore (interna) delle lastre di copertura. Nella tomba Δ l'intonaco mostrava una fascia azzurra a m 0,609 dal pavimento; nella tomba Β l'intonaco risultava diviso in due differenti zone di colore della stessa altezza (m 0,81), rossa sotto e bianca sopra, quest'ultima adorna di un fregio di ramoscelli di olivo a sviluppo orizzontale. L'intonaco bianco che rivestiva l'interno della tomba A presentava, a m 0,54 dal pavimento, una fascia alta m 0,36 con una ghirlanda di foglie e frutti di mirto, delimitata in alto da una fascetta gialla e in basso da una azzurra. Il fregio della tomba A è caratterizzato da una rigidezza che è in netto contrasto con la libera resa naturalistica dei ramoscelli di olivo della tomba B. Stando alle conclusioni della Gossel, la decorazione delle tombe macedoni, ispirata per lo più a dimore private, non avrebbe immediati rapporti, né per la forma né per il contenuto (sia strutturale, sia ideologico), con i veri e propri monumenti funerari e con il loro carattere ctonio; ciò in contrapposizione con le decorazioni delle tombe a camera dell'Italia peninsulare e della Russia meridionale, la cui tematica decorativa comprende rappresentazioni della vita del defunto, cerimonie funebri, ecc., nonché altre immagini dal chiaro simbolismo ctonio. Nel caso delle semplici decorazioni interne delle tombe di D., la scelta dei motivi ornamentali delle tombe A e Β (ramoscelli di mirto e di olivo) ha probabilmente un suo particolare significato: un riferimento simbolico, che è in rapporto con l'uso di quelle piante nelle varie fasi delle cerimonie funebri, come pure nel rituale del culto di diverse divinità. Un analogo significato hanno, verosimilmente, anche le corone di foglie di olivo, di mirto, di quercia poste sul defunto durante l'esposizione della salma (pròthesis).

Particolarmente ricchi sono i corredi delle tombe A e B. La prima era piena di vasi in bronzo, argento e ceramica, di suppellettili varie e di numerosi piccoli oggetti. Quasi al centro della tomba, rovesciato contro la parete N, si rinvenne un cratere bronzeo, con anse a voluta, contenente le ceneri del defunto, resti di una corona di foglie di quercia in oro e di un'altra con cerchio in legno, foglie in bronzo dorato e bacche in terracotta dorata, e due doppi spilloni d'oro; avanzi di tessuto aderivano all'orlo e alla spalla. Vicino al cratere, verso il lato S della tomba, erano un gruppo di vasi in bronzo di grandi dimensioni (bacino, lekàne, lebete) e un'anfora cipriota di terracotta. Verso l'angolo NO erano accatastati numerosi vasi metallici, tra i quali una situla (o kadìskos) che conteneva decine di astragali e un'altra con molti dischetti a forma di scudo, in terracotta dorata, e un brandello di pelle. Nello stesso gruppo si rinvennero ancora numerose suppellettili bronzee tra cui una pàtera con ansa fusa terminante con protome caprina, un oggetto traforato di forma ovale con presa gemina e base tripodata indipendente. Un altro gruppo di suppellettili e di vasi, presso il centro della tomba, comprende diverse ceramiche oltre a un colatoio bronzeo con pregevoli prese a chenisco. Dall'interno sono stati recuperati, tra l'altro, tre alàbastra di vetro policromo, frammenti di oggetti lignei, tra cui quelli di un cofanetto, molti strigili, resti di lance e spade, schinieri in bronzo, frammenti di cuoio, probabilmente di corazza, frammenti di figurine in avorio, molte lamine in bronzo dorato a forma di scudo con impressa la figura di Teti con le armi di Achille su un ippocampo o con rappresentazione di uno scudo macedone, una quantità di dischetti con la testa di Atena Parthènos o con una piccola stella e pendaglietti in terracotta dorata a forma di ghiande e di bacche di mirto. Tra i resti della pira relativa alla tomba A, il rinvenimento più sensazionale è rappresentato da un rotulo di papiro carbonizzato con testo orfico; di un certo interesse per il rituale funerario sono, inoltre, alcuni frammenti di capitelli fittili.

La maggiore ampiezza della tomba Β aveva consentito una più agevole disposizione del corredo in gruppi sicuramente distinguibili. In essa si rinvenne il grande cratere bronzeo (v. oltre) con iscrizione sull'orlo e raffigurazioni dionisiache a rilievo applicate sul corpo lavorato a martellatura, e con anse a voluta, base e orlo ottenuti per fusione. Sotto e intorno al cratere si rinvennero infatti le quattro figure sedute in bronzo fuso (due menadi, un satiro, un Dioniso adolescente) risultate pertinenti alla decorazione applicata sulla spalla del cratere. Collocato in origine sopra una base in pietra rinvenuta al centro della tomba, il cratere occupava una posizione dominante. Aveva un coperchio concavo traforato, al di sopra del quale era posta una corona d'oro, rinvenuta intatta. All'interno del vaso, cui aderivano in superficie resti di tessuto, oltre alle ossa carbonizzate del defunto erano tre doppi spilloni, un anello d'oro con castone privo di decorazione, un quarto di statere d'oro di Filippo II e frammenti di una corona dorata, con cerchio in legno, foglie in bronzo e frutti in terracotta. Presso la bocca del cratere, oltre a un'ampolla d'argento, erano numerosissimi vasi in bronzo, tra cui una bacinella con corpo emisferico e piede conico, un colatoio con prese ellittiche e chenisco, un vaso a forma di lebete. Nei pressi si trovava un lebete con due anse a cerchio sostenute da applicazioni a forma di uccello. Un secondo gruppo di vasi e suppellettili comprendeva numerosi manufatti in bronzo (tra cui un anforisco con coperchio convesso appeso a una catenella e con elaborata presa ad arco) e diversi vasi in argento (due kỳathoi, due kàntharoi, due piattelli, una piccola olpe con corpo decorato a palmette a sbalzo e baccellature, un bicchiere con foglie impresse e testa di Medusa sul fondo, una piccola pisside), nonché una coppetta vitrea a forma di calice. Verso il centro della tomba erano vasi in ceramica a vernice nera. Le armi del defunto (lance, spada, pugnale, schinieri, lamine in argento dorato e in bronzo e cerchi, probabilmente ornamenti di scudo ligneo, nastro d'oro, lamina d'oro con palmette traforate) si trovavano lungo la parete N. Verso il centro, si rinvenne una grande lekàne bronzea e lì vicino una pàtera in bronzo con presa desinente a protome caprina, sulla quale erano poste lamine bronzee perforate. Un grande numero di alàbastra venne scoperto nel settore O della tomba.

La copertura lignea della tomba Δ era crollata all'interno determinando danni a gran parte del corredo. Tra gli oggetti erano una grande lekàne di bronzo e il puntale di una lancia in ferro, un lebete in bronzo contenente un recipiente tripodato in ferro (braciere). Il gruppo più ricco di offerte comprendeva ceramiche e soprattutto bronzi, tra cui situle di vario tipo con applicazioni, un colatoio con prese terminanti a chenisco, due kàntharoi, frammenti di almeno tre strigili dorati. Accanto si rinvennero principalmente alàbastra, al di sopra dei quali era una corona di foglie di bronzo dorato applicate a un cerchio ligneo e una seconda riproducente in oro un ramoscello di mirto. Da ricordare, infine, una spada di ferro, punte di lancia, alàbastra, una corona di bronzo dorato e una coppetta a vernice nera contenente una sostanza colorante rossa. Nella terra di riempimento vennero recuperati, assieme ad altri piccoli oggetti, uno spillone doppio in oro e una moneta d'oro di Alessandro Magno.

La tomba E non presenta un corredo particolarmente ricco. Si rinvennero frammenti di una corona in bronzo dorato con foglie di mirto e frutti in terracotta. Oggetti simili erano sparsi sul pavimento assieme a dischetti di terracotta dorata su cui era raffigurata la testa di Atena Parthènos ottenuta a impressione. Molte placchette, forse pertinenti a una cista lignea, recano figurazioni incise in cui si riconoscono le immagini di Afrodite e di Eros e anche un gruppo di grifi che dilaniano un cervo; sono stati trovati anche elementi in osso decorati a rilievo, pertinenti probabilmente alla stessa cista. Assieme a questi erano i frammenti di due piccoli busti femminili, in terracotta, di una divinità ctonia con pòlos e kalỳptra, recanti un fiore e una colomba, e un'ostrica. Vennero alla luce, infine, un tetrobolo d'oro di Alessandro Magno e un grano di collana d'oro a forma di anforisco.

Il corredo della tomba Ζ era costituito principalmente da suppellettili in bronzo e da gioielli in oro. Esso comprendeva un lebete in bronzo con anse a cerchio e applicazioni in forma di uccello e due phiàlai in bronzo, una situla in bronzo, un vaso d'argento privo di anse con una testina di sileno sul fondo, una grande lekàne di bronzo che conteneva due uova in terracotta dorata, alcuni vasi in ceramica, quattro fibule ad arco in oro, due collane d'oro, un pendaglio d'oro battuto con testa di Eracle, un paio di orecchini d'oro, un anello d'oro con iscrizione incisa sul castone: ΚΛΕΙΤΑΙ ΔΩΡΟΝ; ancora due anelli d'oro, uno con una sardonica incastonata e l'altro con scarabeo, sempre in sardonica, e infine una placchetta di bronzo martellata con una testa femminile, forse parte di specchio o di applicazione di vaso.

Nella tomba H, depredata in epoca recente, sono stati recuperati frammenti di un cratere a vernice nera con pampini di vite a rilievo dorato e di un'anfora attica a figure rosse con Afrodite, Eros e altri personaggi; inoltre un'anfora cipriota, le anse, la base e frammenti del corpo di un lebete bronzeo e parti di altri vasi in bronzo.

Lo studio dettagliato dei materiali fornirà una precisa cronologia delle tombe. Le monete d'oro rinvenute nelle tombe Β, Δ ed E, forniscono tuttavia un terminus post quem (tomba B: quarto di statere di Filippo II, zecca di Pella, 323/2-315 a.C.; tomba Δ: ottavo di statere di Alessandro III, zecca di Pella, 340-326 a.C. o 336-328 a.C.; tomba E: ottavo di statere di Alessandro III, zecca di Amphipolis, 340-326 a.C.).

Per il cratere della tomba Β sono state proposte, su basi stilistiche, le seguenti datazioni: 350 a.C. (Robertson, 1972); 340 a.C. (Schefold, 1965); 330-320 a.C. (Gioure, 1978); 320 a.C. (Bakalakis, 1967); 320-310 a.C. (Themelis, 1979).

È possibile che diversi oggetti siano più antichi di altri e certamente precedenti alla sepoltura: il fenomeno non è raro e in numerosi casi un oggetto-cimelio può certamente essere di decenni e anche di secoli più antico. Il cratere, comunque, non è più antico delle altre componenti dei corredi delle tombe ed è verosimile che sia stato eseguito ad hoc, cioè per un uso funerario. L'ipotesi (Makaronas, 1963) che le sepolture abbiano avuto luogo nell'ultimo venticinquennio del IV sec. a.C. pare la più attendibile.

Le tombe di D., non molto distanti cronologicamente l'una dall'altra, dimostrano una coesistenza dell'inumazione e della cremazione, non solo sul piano topografico. Ma anche in senso cronologico, benché la cremazione sembri maggiormente praticata. Le tombe attestano altresì che questi riti venivano effettuati indifferentemente per individui di sesso maschile e di sesso femminile.

Nella pira della tomba A, dispersa sui blocchi di copertura, si rinvennero numerosi piccoli oggetti, tra cui il citato rotolo di papiro carbonizzato; esso è finora l'unico esempio del genere scoperto in territorio greco ed è il più antico esempio noto di scrittura greca su papiro, occupando pertanto un posto preminente tra le migliaia di manoscritti del genere. Il testo appartiene alla letteratura orfica: l'autore commenta un poema di contenuto cosmogonico e teologico; un tema, dunque, che rende probabile l'ipotesi che il defunto della tomba A fosse un seguace dell'orfismo (Kapsomenos, 1964).

Di particolare importanza è anche un altro reperto: i frammenti di almeno sei capitelli anneriti dal fuoco (alt. m 0,35) che appartengono a un manufatto di sagoma rettangolare probabilmente a forma di monoptero, sul quale fu posta la klìne con il defunto. Come nel Sarcofago delle Piangenti e soprattutto come nel carro funebre che trasportò la salma di Alessandro da Babilonia ad Alessandria (Diod. Sic., XVIII, 26-27), il tempietto funerario períptero assume qui un significato simbolico. Apprestamenti affini e di uso analogo sono attestati in diversi contesti funerari macedoni (tomba 11 di Verghina, Tumulo di Prodomi di Thesprotia), ma anche in altre regioni (c.d. Cenotafio di Salamina di Cipro, della fine del IV sec. a.C.).

Il cratere come vaso cinerario venne realizzato, a quanto risulta, proprio per questo specifico uso. Il programma decorativo sembra determinato dalla sua destinazione propriamente ctonia: il «dramma divino» della «passione» di Dioniso, è rappresentato in scene raffiguranti lo scempio del suo corpo, la rigenerazione e la ierogamia, ed esprime simbolicamente il desiderio e la speranza dell'immortalità dell'anima (Gioure, 1978). Un analogo carattere simbolico si potrebbe supporre anche per il rotulo dalla pira della tomba A, indipendentemente dal fatto che il defunto fosse o no un seguace della dottrina orfica. La tematica dei vasi apuli di uso funerario è frequentemente in rapporto con Orfeo, il cui culto fiorì a Taranto nel IV sec. a.C.

L'esatta localizzazione delle pire non è stata individuata: come in altri casi queste dovevano tuttavia trovarsi a breve distanza dalle tombe.

Bibl.: In generale sulla topografia della zona e sulla tipologia delle tombe: G. Bakalakis, Ανασκαφή Στρυμης, Salonicco 1967; Ph. Petsas, Alexander the Great's Capital (Institute of Balkan Studies), Salonicco 1978; Β. Gossel, Makedonische Kammergräber (diss.), Berlino 1980, pp. 143, n. 6, 136, n. 13; S. Miller, Macedonian Tombs: Their Architecture and Architectural Decoration, in B. Barr-Sharrar, E. N. Borza (ed.), Macedonia and Greece in Late Classical and Early Hellenistic Times, Washington 1982, pp. 153-171; F. Papazoglou, Les villes de Macedoine a l'epoque romaine (BCH, Suppl. XVI), Parigi 1988, p. 213.

Scavo, problemi particolari e specifici rinvenimenti: Ch. Makaronas, in ADelt, XVIII, 1963, B' Chron., pp. 193-196; S. Kapsomenos, Der Papyrus von Dement, in Gnomon, XXXV, 1963, pp. 222-223; id., Ο ορφικος πάπυρος της Θεσσαλονίκης, in ADelt, XIX, 1964, A' Mel., p. 17 ss.; id., The Orphic Papyrus Roll of Thessaloniki, in BAmSocP, II, 1, 1964, p. 3 ss.; M. Robertson, Monocrepis, in GrRomByzSt, XIII, 1972, pp. 39-48; E. Gioure, Ο κρατήρας του Δερβενισυ (Βιβλιοθηκη της Αρχαιολογικής Εταιρείας, 89), Atene 1978; Κ. Schefold, Der Basler Pan und der Krater von Derveni, in AntK, XXII, 1979, pp. 112-118, figg. 33-37; P. Themelis, Σκύλλα Ερετρικη, in AEphem, 1979, p. 125 ss., fig. 2; AA.VV., Θησαυροί της αρχαίας Μακεδονίας (cat.), Salonicco 1979, pp. 57-71, figg. 24-36; AA.VV., Μέγας Αλέξανδρος, Ιστοριακαι Θρύλος στην τέχνη (cat.), Salonicco 1980, figg. 42-48; L· Loukopoulos, M. Β. Chatzopoulos (ed.), Φίλιππος βασιλεύς Μακεδόνων, Atene 1982, pp. 88, fig. 5; 103, figg. 65-67; 106, figg. 71-73; 189; figg. 122-123; AA.VV., H Μακεδονία απο τα μυκηναικα χρονιά ως τον Μέγα Αλέξανδρο (cat.), Salonicco 1988, ηn. 172-184; AA.VV., Αρχαία Μακεδονία (cat.), Atene 1988, pp. 280-293, nn.· 230-241.

Usi e rituali funerari: Κ. V. Muller, Der Leichenwagen Alexanders des Grossen, Lipsia 1905, p. 25 ss.; P. J. Ucko, Ethnography and Archaeological Interpretation of Funerary Remains, in WorldA, I, 1962, p. 266; D. C. Kurtz, J. Boardman, Greek Burial Customs, Londra 1971; R. Garland, The Greek Way of Death, Londra 1985, p. 139 s. e nota 29.

(P. Themelis)

Cratere di D. - Recenti pubblicazioni e studi consentono oggi di comprendere meglio la problematica iconografica del cratere di D. e la sua collocazione storica (v. vol. VII, p. 936 s.v. toreutica). È un cratere a volute di bronzo dorato, con intarsi d'argento, alto m 0,91 (m 0,70 escluse le anse), decorato in parte a sbalzo, in parte con elementi lavorati separatamente e applicati, interamente rifinito a freddo con il bulino. Le volute delle anse sono decorate da quattro teste barbate, due delle quali sicuramente identificabili, rispettivamente, con Eracle e con Acheloo. Intorno alle anse sono posti due serpenti, uno per lato, le cui code si attorcigliano a spirale, sporgendo verso l'esterno, mentre le teste si affacciano sull'orlo del cratere. Una fila di perline, seguita da una di ovuli e da un kỳma lesbio, decora il margine superiore del vaso. Il collo del cratere è diviso in due registri: in quello superiore sono applicate figure di animali, mentre quello inferiore è occupato da un serto di edera, realizzato in argento. Elaborate palmette sono poste quale raccordo fra le anse e il collo del vaso. Sulla spalla, caratterizzata da un'ampia baccellatura, sono applicate quattro statuette, alte m 0,30, che rappresentano Dioniso, due menadi e un satiro. Al di sotto della spalla è disposto un tralcio di vite in argento, che circonda l'intero corpo del cratere. Lo spazio residuo è quasi interamente campito dalle figure di Dioniso e di Arianna, poste al centro del lato principale del vaso, e da quelle del loro seguito. Del tutto unica è l'iconografia della coppia divina, con Dioniso raffigurato seduto su una roccia, con il braccio destro posto sul capo in posizione di riposo e la gamba destra sovrapposta a quella sinistra di Arianna. Quest'ultima è rappresentata nel gesto tipico delle spose, mentre scosta il velo che le copre la testa. Alla danza in onore di Dioniso, che si svolge su un terreno roccioso (il Monte Citerone, secondo il mito), prendono parte menadi, satiri e un personaggio maschile armato di lancia e di spada. Segué infine una serie di animali rapaci sbalzati a basso rilievo. Il piede del vaso, di forma circolare, è ornato da un kỳma ionico.

Accertato il carattere dionisiaco del tema iconografico che decora il cratere, la ricerca sul significato dei particolari figurativi ha seguito due percorsi paralleli. Da un lato vi è una linea interpretativa che trova la migliore espressione in un articolo di R. Bianchi Bandinelli (1974-1975), tendente a considerare genericamente decorativa la figurazione presente sul cratere, visto come un prezioso vaso da banchetto, non specificamente realizzato per l'uso funerario. Sul versante opposto è la lettura in chiave escatologica dell'oggetto e della sua decorazione, codificata nella monografia dedicata al cratere dalla Gioure (1978). Nell'ambito di questa seconda tendenza si registra una varietà di interpretazioni che investe soprattutto una delle dieci figure del thìasos, e cioè il personaggio maschile armato di lancia e spada. La proposta più credibile lo identifica con Penteo (Gioure, 1978, p. 19 ss.) anche se non priva di interesse è l'ipotesi di riconoscervi lo stesso defunto, Astion, figlio di Anaxagoras di Larisa - il cui nome è scritto in lettere d'argento, applicate sulla cornice di ovuli sull'orlo del vaso - rappresentato come iniziato al culto di Dioniso e addirittura assunto nel suo thìasos (Greifenhagen, 1980, p. 145 ss.).

Che l'intera decorazione sia da interpretare in senso escatologico sembra ormai certo, tanto più considerando che il soggetto prescelto è realizzato con motivi iconografici particolari che rendono unico il cratere, nonostante provenga da una zona dove il tema dionisiaco è notoriamente diffuso. È interessante rilevare che alcuni dettagli figurativi si spiegano solo in relazione al testo di una tragedia, le Baccanti di Euripide (vv. 750-755). Così la figura di una delle menadi del thìasos, che solleva dietro alle sue spalle un bambino, tenendolo per una caviglia, non ha riscontri iconografici ma è descritta solo in quell'opera. Alla luce di un altro brano dello stesso testo (Bacch., 677 ss.; 1079 ss.) che, è utile ricordare, fu scritto a Pella, presso la corte del re Archelao di Macedonia ed era dunque ben noto localmente, è stata spiegata anche l'azione che investe le quattro figurette applicate sulla spalla del vaso. Il gesto di Dioniso avrebbe il senso di comunicare il risveglio alle menadi per spronarle a una nuova celebrazione del rito. Alcuni dettagli della figura femminile posta sullo stesso lato dove si trova Dioniso consentono di precisarne meglio l'identità e, di conseguenza, di chiarire il senso della scena. Colpisce il fatto che, a differenza delle altre menadi, essa sia raffigurata con il seno coperto e in assoluta compostezza e tranquillità; inoltre, la mano sinistra è coperta dalla veste che avvolge e nasconde l'intero braccio. Se i primi due dettagli conferiscono alla figura un'iconografia «di rispetto», indicando un personaggio femminile di rango diverso da quello delle menadi raffigurate sullo stesso vaso, la mano velata ha, tra gli altri significati, il ruolo funesto di comunicare l'idea del dolore, del compianto funebre. In uno dei brani sopra citati (Bacch., 1079 ss.) Dioniso richiama dal sonno Agave, la figlia del re di Tebe Cadmo, sorella di Semele, che, invasata dal dio, ucciderà insieme alle sue compagne il proprio figlio Penteo. Sarà questa la vendetta di Dioniso sui parenti calunniatori della propria madre, Semele. Se è dunque con Agave che possiamo identificare la statuetta femminile applicata sul lato principale del cratere, avremmo qui la rappresentazione del risveglio della coscienza. La mano velata preannuncia la sciagura e nello stesso tempo il dolore che proverà Agave quando tornerà in sé (Eurip., Bacch., 913 ss., 1165 ss.).

Un adattamento dell'iconografia dionisiaca alle consuetudini locali è costituito dalla presenza dei due serpenti, animali che, come ci informa Plutarco {Alex., 2), furono introdotti nelle confraternite dionisiache in Macedonia e in Tessaglia da Olimpiade, la moglie di Filippo II, che seguiva il rito trace. La lettura di quest'ultimo brano plutarcheo può farci superare lo scetticismo circa il rito funerario riscontrabile nel gruppo di tombe di D., del quale fa parte anche la tomba B, dove fu rinvenuto il cratere. L'incinerazione connessa con la fede dionisiaca, il cui cardine è la promessa del ritorno in vita, e la presenza di un frammento di papiro iscritto con formule orfiche (tomba A) avevano suscitato dubbi sull'effettivo significato che determinati oggetti funerari potevano assumere; anche queste apparenti contraddizioni si superano in base ai costumi religiosi connessi con l'area di ritrovamento del complesso funerario. Se la saga tebana del mito di Dioniso, che vede Semele prima incinerita da un fulmine e poi risuscitata per opera del figlio divino, spiega la deposizione di ceneri entro contenitori «dionisiaci», la contemporanea iniziazione al rito dionisiaco e a quello orfico è esplicitamente testimoniata da Plutarco (Alex., 2).

La pregnanza dell'apparato decorativo del cratere di D. investe anche i due fregi con animali (uno sul collo, l'altro verso il fondo del vaso), nei quali forse si intese raffigurare gli animali realmente uccisi in onore del defunto, visto che anche la pira monumentale eretta a Babilonia per le esequie di Efestione era decorata, tra l'altro, con fregi di animali eseguiti in oro (Diod. Sic., XVII, 115, 3-4).

Il tipo di deposizione, e cioè l'uso di un vaso prezioso quale cinerario, è particolarmente documentato nelle regioni della Grecia del Nord (Tracia, Tessaglia, Macedonia) e rimanda a un costume funerario ispirato al mondo epico. È nell’Iliade (XXIV, 74), infatti, che si narra dell'anfora d'oro, opera di Efesto, donata da Dioniso a Teti perché vi deponesse le ceneri di Achille. Questo richiamo al testo omerico e la particolare iconografia dionisiaca ben si collocano nel clima ideologico che accomuna la Tessaglia e la Macedonia tra l'età di Filippo II e quella di Alessandro. Un sicuro termine cronologico per la deposizione nella tomba Β di D. è costituito, come è noto (v. sopra), da un tribolo d'oro con l'effigie di Eracle, recante il nome di Filippo II, trovato all'interno del cratere. Anche la creazione del vaso-cinerario è collocabile fra gli anni finali del regno di Filippo e i primi di quello di Alessandro. Che si trattasse di un ufficiale tessalo che aveva preso parte alle campagne di Filippo II, lo testimonia la scelta di deporre, tra gli elementi significanti per l'identità del defunto, una moneta con il nome di quel sovrano.

Se il profilo del committente emerge con sufficiente evidenza dagli elementi fin qui raccolti, altrettanto non si può dire della figura del toreuta che realizzò il cratere, nonostante dovette trattarsi di una personalità di spicco. Infatti il tentativo di avvicinarne la progettazione alla scuola di Lisippo, o allo stesso bronzista sicionio, non ha un'obiettiva base di riscontro. Colpisce un passo di Plinio (Nat. hist., XXXIII, 156) del quale si è forse a torto sminuita l'importanza (cfr. vol. I, p. 436, s.v. Antiphatros, 2°), dove tra i toreuti celebri, è nominato un Antipatro, personalità altrimenti sconosciuta da ascrivere probabilmente al IV sec. a.C., del quale «si disse che aveva messo sopra una tazza, più che cesellato, un satiro oppresso dal sonno» («Antipater quoque Satyrum in phiala gravatum somno conlocavisse verius quam caelasse dictus est»). L'analogia della descrizione con una delle statuette applicate sulla spalla del cratere di D. sembrerebbe completa. Alla luce del passo pliniano si potrebbe rileggere anche il monogramma graffito sul fondo di una situla compresa nel corredo della tomba di Filippo II, ora nel Museo Archeologico di Salonicco, formato dalla congiunzione delle lettere capitali A, Ν e T. Circa l'ambiente di produzione del cratere qualche informazione utile ci è suggerita dalle caratteristiche stilistiche. L'uso di figure sbalzate con forte aggetto, l'applicazione di elementi lavorati a parte, anche a tutto tondo, richiamano esemplari trovati in gran numero nei corredi funebri in Tracia.

L'anfora d'oro del Tesoro di Panagjurište, della fine del IV sec., decorata sul corpo con la scena della spedizione dei Sette contro Tebe e caratterizzata da due statuette di centauri lavorate a tutto tondo e applicate come anse, costituisce un esempio pressoché parallelo al cratere di D. per livello tecnico e raffinatezza stilistica. Altri confronti con materiale trovato in Tracia si possono stabilire per l'analogia del tema figurato, visto che l'iconografia dionisiaca è particolarmente rappresentata in questa regione periferica del mondo greco. Satiri danzanti che recano crateri a spalla, sbalzati sullo sfondo di tralci di edera, decorano il collo di un rhytón proveniente dal Tumulo di Rozovec, realizzato in argento nel IV sec. a.C. La ierogamia di Dioniso e Arianna, contornata dal thìasos di menadi e satiri danzanti, è realizzata a sbalzo sulla brocca d'argento del Tesoro di Borovo, datata nella prima metà del IV sec. a.C. Un altro confronto che costituisce un precedente iconografico, seppure di tono minore, per la decorazione del cratere di D., è offerto dalla situla bronzea proveniente da Pästrovo (Plovdiv), datata nella prima metà del IV sec. a.C. L'imboccatura è ornata da un kỳma lesbio e gli anelli laterali che fissano i manici alla situla sono rifiniti da palmette e mascheroni, particolari che pure sono presenti nel cratere di Derveni. Il principale motivo d'interesse è costituito dalla decorazione del corpo del vaso, poiché mostra già la figura di Dioniso giovane, seduto di tre quarti su una roccia con un tralcio di vite che si dispone all'altezza della sua testa.

La presenza simultanea di motivi afferenti a diversi ambiti culturali del Mediterraneo è la caratteristica saliente dei manufatti sopra nominati, e lo stesso si può osservare del cratere di Derveni. La forma di alcuni vasi e la decorazione animalistica e floreale dipendono infatti dal mondo microasiatico (non sono frutto di un attardato repertorio orientalizzante, ma di un rapporto ininterrotto con l'Oriente), il soggetto è aggiornato ai costumi religiosi locali, la costruzione delle figure risente, infine, della grande plastica greco-continentale. Una tale convergenza di influssi culturali per il materiale trovato in Tracia è stata spiegata con la localizzazione dei centri di produzione nelle colonie greche sorte, fin dall'età arcaica, sul litorale tracio del Mar Nero e della Penisola Calcidica. Non è da escludere che anche il cratere di D. fosse stato lavorato in uno di quei centri costieri della Tracia, regione che entrò a far parte del Regno di Macedonia, insieme alla Tessaglia, per opera di Filippo II. In particolare si potrebbe pensare alle colonie greche sorte in prossimità del Monte Pangeo, sede delle miniere d'oro e d'argento che fornivano la materia prima per tali manufatti. Tra i centri maggiori di quella zona è sicuramente Anfipoli, la fondazione attica conquistata dai Macedoni nel 356 a.C., di cui è ben nota la produzione monetale e che ha restituito gioielli di notevole impegno tecnico. Un'altra concreta possibilità è offerta da Crenide, fondata dai coloni di Thasos proprio per sfruttare i giacimenti auriferi del Pangeo e che sarà ribattezzata Filippi dopo la conquista macedone.

Bibl.: Ch. Makaronas, Τάφοι παρα το Δερβενι, in ADelt, XVIII, 1963, p. 193 ss.; C. Picard, Usages funéraires grecs récemment relevés en Macédonie et Scythie Mineure, in RA, 1963, 1, pp. 179-194; J. Bousquet, L'inscription du cratère de Derveni, in BCH, XC, 1966, p. 281 ss.; Ch. Makaronas, in AA, 1966, c. 532 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Il cratere di Derveni, in DArch, VIII, 1974-75, pp. 179-200; E. Gioure, Ο κρατήρας του Δερβενιου (Βιβλιοθηκη της Αρχαιολογικής Εταιρείας, 89), Atene 1978; Β· Barr Sharrar, Towards an Interpretation of the Dionysiac Frieze on the Derveni Krater, in Bronzes hellénistiques et romains. Actes du Ve Colloque International sur le Bronzes Antiques, Lausanne 1978, Losanna 1979, pp. 55-59; K. Schefold, Der Basler Pan und der Krater von Derveni, in AntK, XXII, 1979, pp. 112-118; Α. Greifenhagen, Astiouneios. Forschungen und Funde, in Festschrift B. Neutsch, Innsbruck 1980, pp. 145-148; Κ. Rhomiopoulou, in The Search for Alexander, an Exhibition (cat.), Boston 1980, p. 164 s., n. 127; Β. Barr Sharrar, Dionysos and the Derveni Krater, in Archaeology, XXXV, 1982, pp. 13-19; M. Andronikos, The Krater of Derveni, in Thessalonike Museum. A New Guide to the Archaeological Treasures, Atene 1983, pp. 16-17; Μ. B. Sakellariou (ed.), Macedonia. 4000 Years of Greek History and Civilisation, Atene 1983; C. Gasparri, in LIMC, III, 1986, p. 486, n. 755, s.v. Dionysos; M. Henry, The Derveni Commentator as Literary Critic, in TransactAmPhilAss, CXVI, 1986, pp. 149-164, con bibl. prec. (papiro con formule orfiche); G. Calcani, Derveni: necropoli, in AA.VV., Gli ori dei Greci, Novara 1992, n. 4. 1. - Sulla situla di Verghina: M. Andronikos, The Royal Graves at Vergina, Atene 1978, pp. 52-53, fig. 31; id., Vergina. The Royal Tombs and the Ancient City, Atene 1984, p. 158.

Arte toreutica in Tracia: I. Venedikov, T. Gerasimov, Tesori dell'arte tracia, Bologna 1979, p. 365, figg. 105-107 (situla da Pästrovo, Museo Archeologico di Plovdiv, n. 1847); AA.VV., Traci. Arte e cultura nelle terre di Bulgaria dalle origini alla tarda romanità (cat.), Milano 1989, pp. 154-155, n. 118/4 (rhytòn dal Tumulo di Rozovec, Museo Archeologico di Sofia, n. b 49), pp. 181-184, n. 144/4 (brocca dal Tesoro di Borovo, Museo Storico di Ruse, n. II, 361), p. 231, n. i82/i (anfora dal Tesoro di Panagjurište, Museo Archeologico di Plovdiv), con bibl. prec. - Sulla situazione dei centri urbani in Macedonia e in Tracia: The Black Sea Litoral in the Hellenistic Times. Materials of the 3rd, All-Union Symposium on the Ancient History of the Black Sea Litoral, Tsgaltuvo 1982, Tbilisi 1985; Πολις και χωρα στην αρχαία Μακεδονία και Θράκη. Μνημη Δ. Λαζαριδη. Πρακτικα Αρχαιολογικού Συνεδρίου, Καβαλα 1986, Salonicco 1990. - Sulla monetazione di Anfipoli: C. C. Lorber (ed.), Amphipolis the Civic Coinage in Silver and Gold, Los Angeles 1990.

(G. Calcani)