Democrazia

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Democrazia

Luciano Pellicani

di Luciano Pellicani

Democrazia

sommario: 1. La terza ondata. 2. Capitalismo e democrazia. 3. Le nuove sfide. 4. Verso la democrazia elettronica. □ Bibliografia.

1. La terza ondata

Il "secolo breve" si è concluso con quella che il politologo americano Samuel P. Huntington (v., 1993) ha chiamato la "terza ondata", durante la quale ben 29 paesi governati da regimi autocratici hanno imboccato, quasi sempre senza spargimento di sangue, la via della democrazia liberale. Iniziata con la caduta della dittatura in Portogallo (1974), la grande ondata di democratizzazione è proseguita sino a investire, fra il 1989 e il 1991, i paesi dell'Europa Orientale, ponendo così fine alla guerra ideologica fra l'Unione Sovietica e l'Occidente che per oltre quarant'anni aveva dominato la scena mondiale.

Quando, nel 1989, il muro di Berlino crollò, travolto dall'indignazione di un popolo che era stato costretto a vivere sotto l'implacabile regime della Stasi, Jürgen Habermas coniò l'espressione "rivoluzione recuperante" per sottolineare il significato di quell'evento: il recupero, per l'appunto, "di ciò che aveva separato la parte occidentale della Germania dalla sua parte orientale" (v. Habermas, 1990; tr. it., p. 179). Ma, in realtà, il 1989 merita di passare alla storia come una "rivoluzione recuperante" per una ragione ben più importante di quella indicata da Habermas. Con il crollo del muro di Berlino, infatti, i popoli dell'Europa Orientale sono stati recuperati alla civiltà occidentale dalla quale l'Armata Rossa li aveva brutalmente separati.

Per intendere il significato storico di tale 'recupero' occorre tenere presente il modello di organizzazione sociale che i bolscevichi presero a costruire a partire dal momento in cui si impossessarono del potere con quel fortunato golpe passato alla storia sotto il nome di Rivoluzione d'Ottobre. Il principio animatore di tale modello fu da Lenin così formulato: "Noi non riconosciamo nulla di privato; per noi, nel campo dell'economia, tutto è diritto pubblico. Ammettiamo soltanto il capitalismo di Stato, ma lo Stato siamo noi. Bisogna quindi estendere l'intervento dello Stato nei rapporti di diritto privato, estendere il diritto dello Stato ad abrogare i contratti privati" (v. Lenin, 1970, p. 487). Ora, se l'intera economia viene statizzata, l'esito inevitabile è la statizzazione integrale della vita sociale, essendo i mezzi di produzione le 'sorgenti della vita'. E, infatti, la cosiddetta 'espropriazione degli espropriatori' non portò all'emancipazione della classe operaia, bensì all'espropriazione totale della società civile. Questa, spossessata dei mezzi di produzione, fu privata di ogni autonomia a fronte dello Stato onniproprietario e assoggettata alla volontà insindacabile di quella che Michail Bakunin, in una lucida previsione degli esiti della rivoluzione marxista, aveva chiamato la "burocrazia rossa". In tal modo, furono estirpate le radici della "politica operaia liberale" che Lenin considerava una "grave malattia", essendo il suo obiettivo la "europeizzazione della Russia" attraverso l'universalizzazione delle libertà borghesi. Risultato: il marxismo fu 'asiatizzato' e la sua devastante critica del capitalismo fu utilizzata non solo per combattere l'imperialismo delle potenze coloniali, ma anche per contestare i valori e le istituzioni della 'società aperta' e impedirne la diffusione. In breve: l'Ottobre bolscevico fu l'inizio della 'reazione asiatica' contro l'Occidente, nonché della guerra permanente contro la società civile, bollata come il regno dell'egoismo e dello sfruttamento.

Alla luce della concezione leninista della rivoluzione - l'annientamento implacabile delle istituzioni e dei valori della 'società aperta' - diventa trasparente il significato storico dell'occupazione sovietica dell'Europa Orientale. Questa fu strappata alla civiltà occidentale e costretta a vivere dietro la 'cortina di ferro' elevata per impedire che la 'infezione borghese' la contagiasse. E diventa parimenti trasparente il significato storico del crollo del muro di Berlino: i popoli europei sequestrati dal totalitarismo comunista sono stati finalmente 'liberati' e 'recuperati' alla civiltà dei diritti e delle libertà, basata sulla dialettica Stato-società civile. Non a caso il tema della società civile, per decenni negletto, è ritornato, proprio a partire dal crollo del muro di Berlino, ad attirare l'attenzione degli studiosi di scienze sociali. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che la "rivoluzione recuperante" altro non è stata che la rivolta della società civile contro la tirannia ideocratica che definiva se stessa "socialismo realizzato". Utilizzando il lessico di Marx, essa può essere definita la "negazione della negazione", vale a dire il movimento spontaneo che ha abbattuto la forma di dominio che negava alla società civile ogni forma di autonomia in omaggio al principio leninista secondo cui tutto doveva essere pubblico e nulla privato. Talché, con il collasso del totalitarismo comunista, i popoli dell'Europa Orientale sono rientrati nella linea di sviluppo della civiltà occidentale, dalla quale erano stati allontanati dalla 'reazione asiatica' iniziata con l'Ottobre bolscevico.

2. Capitalismo e democrazia

Una delle conseguenze più rilevanti della bancarotta planetaria del comunismo è stata la scomparsa del progetto fondamentale dei partiti e dei movimenti che si richiamavano all'idea socialista: la costruzione di un modello di società alternativo a quello centrato sul mercato. Il rovinoso collasso delle capacità produttive dei paesi che avevano imboccato la via del collettivismo ha corroborato la tesi di quanti - come Pierre-Joseph Proudhon, Ludwig von Mises, Max Weber, Friedrich von Hayek, Milton Friedman - avevano sostenuto essere il mercato una insostituibile istituzione per garantire tanto l'impiego razionale delle risorse scarse quanto lo sviluppo economico. Talché, non fa specie il fatto che la "terza ondata" sia stata accompagnata da una vera e propria rivincita del mercato e di tutto ciò che a esso è collegato: la proprietà privata, la libera iniziativa, la concorrenza e lo spontaneo gioco della domanda e dell'offerta. Inoltre, il mercato è risultato essere di decisiva importanza per garantire l'articolazione pluralistica della società civile e la sua autonomia rispetto allo Stato: due requisiti senza i quali una democrazia liberale è impossibile e persino impensabile. Se la democrazia liberale è - per citare la classica definizione di Joseph Schumpeter (v., 1942; tr. it., p. 257) - "una configurazione istituzionale tesa al conseguimento di decisioni politiche, nella quale gli individui acquisiscono il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare", allora essa è inscindibile dalla istituzionalizzazione del mercato politico. Il quale, a sua volta, è strettamente legato al mercato economico. Infatti, in un sistema centrato sul controllo monopolistico delle sorgenti della vita verrebbe a mancare non solo l'autonomia della società civile, ma anche la possibilità di garantire la competizione politica fra una pluralità di minoranze organizzate - i partiti - per l'acquisizione del diritto di esercitare il potere di comando. In breve, i catastrofici esperimenti compiuti nei paesi dove il marx-leninismo si è fatto Stato hanno confermato che la democrazia liberale esige che la logica pluralistico-competitiva operi non solo nella sfera politica, ma anche in quella economica.

Tutto ciò significa che capitalismo e democrazia liberale sono legati a doppio filo, sia storicamente che logicamente. È vero che, come la storia mostra ad abundantiam, è possibile una mistura di liberismo economico e di autoritarismo politico, ma non c'è un solo esempio di mercato politico in presenza del monopolio delle sorgenti della vita. Talché è legittimo definire il mercato economico una condizione necessaria, ancorché insufficiente, della istituzionalizzazione della democrazia liberale.

Il che, poi, non significa che fra capitalismo e democrazia liberale esista un rapporto armonico. Tutt'altro. Pur essendo strettamente legati l'una all'altro, la convivenza fra democrazia liberale e capitalismo è sempre stata conflittuale. E tale continua a essere, se è vero, come è vero, che nei paesi dove ha prevalso il laissez faire, uno dei principî costitutivi della democrazia liberale - l'eguaglianza delle opportunità - è stato gravemente intaccato.

Un esempio particolarmente vistoso del conflitto fra capitalismo ed eguaglianza è dato dai risultati ottenuti dalla Russia a partire dal momento in cui essa si è liberata della olocrazia comunista. Il mercato si è imposto con le sue impersonali leggi ed esse hanno portato all'emergere di due società: una, formata dalla neoborghesia, incredibilmente ricca e altezzosamente soddisfatta; l'altra povera, abbandonata ed esposta. Contemporaneamente, il tasso di violenza e di criminalità è cresciuto vertiginosamente. Secondo stime attendibili, almeno un terzo del prodotto interno lordo della Russia è legato in qualche modo al crimine organizzato e decine di migliaia sono le imprese controllate dalla mafia.

Di fronte a questi fenomeni, non può suscitare sorpresa che la parola naglost′ - che significa 'tutto va in modo sfacciato' - abbia sostituito il termine glasnost′. Né che i neocomunisti e i neonazionalisti abbiano ottenuto significativi successi elettorali. Con la loro demagogia anti-occidentale, essi hanno dato voce al risentimento e al disagio di milioni di individui condannati a una vita di stenti, mentre i nuovi ricchi ostentano in maniera insolente la loro opulenza. Ciò è tanto vero che, pochi anni dopo l'irruzione di quello che Aleksandr Solzíenicyn ha chiamato il "capitalismo selvaggio", il primo ministro Viktor Cíernomyrdin non ha potuto esimersi dal dichiarare pubblicamente: "Il periodo del romanticismo di mercato è finito; il trasferimento puramente meccanico dei metodi economici occidentali sul suolo russo ha fatto più danni che bene" (cit. in Barber, 2001; tr. it., p. 238). Ancora più pessimistica la prognosi degli osservatori esterni, a giudizio dei quali in Russia ci sarebbero molte delle precondizioni strutturali del fascismo: disoccupazione di massa, iperinflazione, corruzione, corpi militari irregolari, delusione e risentimento nei confronti della democrazia e, last but not least, nostalgia della Russia imperiale e persino della Russia comunista.

Che un eccesso di mercato autoregolato e di individualismo economico possa minacciare le fondamenta della 'società aperta' è una preoccupazione che è stata espressa non solo nei confronti della Russia postcomunista, ma anche nei confronti degli Stati Uniti. In particolare, George Soros (v., 1998) ha insistito con grande vigore sul fatto che i principî su cui poggia la 'società aperta' - di cui lo Stato di diritto e la democrazia liberale costituiscono la naturale cornice politico-istituzionale - sono minacciati dall'imperialismo del capitalismo globale e dalla cieca fiducia, tipica dei 'fondamentalisti del mercato', nelle virtù taumaturgiche del laissez faire. E per varie ragioni. Prima di tutto, perché le multinazionali e i mercati finanziari internazionali hanno usurpato poteri che in passato erano riservati allo Stato ed esercitano tali poteri con una discrezionalità che non può non suscitare forti preoccupazioni. In secondo luogo, perché l'ossessione per l'efficienza deteriora il primato della democrazia sull'economia e minaccia la possibilità stessa che i governi possano correggere in qualche modo l'iniqua distribuzione delle opportunità, tipica del mercato autoregolato. In terzo luogo, perché l'economia globale è costitutivamente amorale: non funziona come una comunità, bensì come un sistema dominato esclusivamente dalla caccia al profitto, nel quale i valori sociali - la solidarietà, l'equità, ecc. - sono considerati degli impacci di cui occorre liberarsi. Infine, perché lo strapotere della logica catallattica ha prodotto un doppio, inquietante fenomeno: la concentrazione della ricchezza nelle mani delle oligarchie plutocratiche e l'espansione dell'area della povertà e dell'esclusione. Non può destare sorpresa, pertanto, che il dominio sempre più incontrastato del mercato autoregolato - a dispetto della scomparsa della possibilità stessa di concepire un modo di produzione alternativo a quello capitalistico - abbia suscitato negli ultimi anni critiche e opposizioni di varia natura e provenienza; né che numerosi siano, oggi, gli studiosi impegnati a rivalutare quella istituzione - lo Stato sociale - che i 'fondamentalisti del mercato' alla fine del XX secolo avevano messo in stato d'accusa presentandola come la "via della schiavitù e della miseria".

3. Le nuove sfide

La storia del XX secolo ha confermato la profezia formulata da Ernest Renan nel 1885: dopo "molte alterative di anarchia e di dispotismo", la democrazia liberale è riuscita finalmente a imporsi in tutta l'Europa. Ma ciò non ha posto fine alle preoccupazioni circa il suo futuro. Al contrario, il XXI secolo si è aperto con il raffreddamento degli entusiasmi suscitati dalla "terza ondata"; contemporaneamente, si sono moltiplicate le diagnosi pessimistiche sullo stato di salute della democrazia liberale. Il quale è sicuramente molto migliorato rispetto ai decenni durante i quali la libertà era stata minacciata dai movimenti totalitari di massa, ma, altrettanto sicuramente, è alle prese con nuove e insidiose sfide strettamente legate all'espansione planetaria della logica catallattica.

L'economia globale, sempre più caratterizzata dalla mobilità transnazionale del lavoro, sta facendo emergere un tipo antropologico sui generis: l'apolide, vale a dire un attore sociale che, sentendosi svincolato da qualsiasi legame, mina, con la sua stessa presenza, uno degli elementi essenziali del buon funzionamento della democrazia: il 'patriottismo costituzionale'. A ciò si deve aggiungere il fatto che il 'mercato senza frontiere' rende talmente difficile l'individuazione dei centri di decisione economiche - e si tratta spesso di macrodecisioni che coinvolgono flussi imponenti di capitali - che non pochi studiosi hanno annunciato addirittura la fine della sovranità statale e la nascita di un sistema planetario caratterizzato da quella che è stata definita governance without government. In un sistema dominato dalle multinazionali, le quali dividono fra numerosi paesi le differenti fasi della produzione di una merce, la localizzazione del valore aggiunto si è fatta problematica. Il risultato è che l'imposta non è più una decisione sovrana e i governi si trovano in concorrenza con il mondo intero. Questa concorrenza fiscale non può non ridurre le risorse degli Stati. Di qui le crescenti difficoltà che essi incontrano nel finanziare i servizi sociali e le politiche di welfare. Il che significa che la base del tacito patto di solidarietà sul quale poggiano le democrazie moderne è minacciata. Ed è minacciata altresì la stessa idea di nazione. Storicamente, il nazionalismo è stato sia una forza di esclusione che una forza di inclusione e di integrazione. Grazie a esso, i popoli europei sono usciti dal feudalesimo e dalla logica tribale. Ma negli ultimi anni è apparsa una nuova forma di nazionalismo: il nazionalismo etnico, che ha come principale bersaglio proprio lo Stato-nazione, così faticosamente forgiato, e come obiettivo la creazione di isole di solidarietà e di fratellanza centrate sulla 'terra patria'.

La riemergenza del tribalismo etnico ha creato il terreno favorevole al nuovo populismo. Questo celebra la 'terra patria' come unità organica che rivendica, a fronte della comunità nazionale, la sua irriducibile e inassimilabile identità storico-culturale. Coltiva il sentimento di diversità, ma anche il risentimento nei confronti delle istituzioni, dei partiti e degli apparati burocratici. Il che fa del neopopulismo un tipico movimento di protesta, che esprime un forte e diffuso sentimento di disaffezione nei confronti della politica e che contesta frontalmente le oligarchie dominanti e la stessa democrazia rappresentativa, di cui denuncia, in forme particolarmente aggressive, le disfunzioni e le inadempienze.

È appena il caso di sottolineare che le indagini giudiziarie sul finanziamento illegale della politica - un fenomeno di vecchia data, ma che nell'ultimo decennio ha assunto in molti paesi della Comunità Europea enormi dimensioni - ha offerto ai movimenti neopopulisti efficaci argomenti per condannare, di fronte al 'tribunale dell'opinione pubblica', i partiti e l'intero establishment della democrazia rappresentativa. Ma è stata soprattutto l'invasione pacifica del proletariato esterno alla civiltà occidentale che ha potentemente alimentato la protesta neopupulista. L'esaltazione della 'terra patria' e delle virtù del 'popolo', di fronte alla presenza di milioni di immigrati portatori di religioni e culture aliene, ha assunto caratteri razzisti o, quanto meno, xenofobi. E quando ciò non è avvenuto, la retorica neopupulista ha attinto al serbatoio di idee del culturalismo. Il culturalismo è un'interpretazione delle differenze di mentalità e di comportamenti che caratterizzano i vari popoli, che, prima facie, si pone in netta antitesi alla teoria razziale. Laddove questa presume che l'eredità biologica condanni i popoli a essere quello che sono, il culturalismo sottolinea con il massimo vigore la forza plasmatrice e la cogenza normativa delle tradizioni. Ne deriva una sorta di determinismo culturale. Vero è che, mentre la razza è un fattore rigido e immodificabile, la tradizione è, ex definitione, una realtà plastica, che può assumere forme diverse e può persino metamorfizzarsi. Sennonché, dal momento che i mutamenti culturali veramente significativi si collocano sull'asse della lunga durata, nel breve periodo le differenze culturali risultano essere non meno rigide delle (supposte) differenze razziali. Accade così che, in nome della propria specifica identità culturale, una determinata collettività possa rivendicare il diritto alla non-contaminazione e, pertanto, esigere che tutti coloro che sono portatori di valori, atteggiamenti e comportamenti 'altri' siano tenuti a debita distanza. Il che significa che non c'è bisogno di richiamarsi alle dottrine razziali per invocare il diritto alla separazione e per giustificare le politiche di rigetto. Il culturalismo offre ai movimenti neopopulisti una base teorica sufficiente a legittimare il rifiuto di convivere con i 'diversi'.

Ora, dal momento che le tendenze demografiche in atto - l'enorme espansione della popolazione del Terzo Mondo e la contemporanea riduzione delle nascite nelle società opulente - fanno crescere a vista d'occhio la composizione multietnica e multireligiosa della Comunità Europea, la protesta neopopulista - che mina alle radici uno dei valori centrali della 'società aperta', ossia la tolleranza e l'accettazione dei 'diversi' - potrebbe risultare un fenomeno tutt'altro che passeggero. Tanto più che l'integrazione degli 'alieni' nelle comunità ospitanti pone problemi di convivenza inediti quanto potenzialmente esplosivi. Non di questo avviso sono i fautori del multiculturalismo. Per essi, le diversità culturali vanno incoraggiate e istituzionalizzate. Ma è legittimo chiedersi sino a che punto la 'società aperta' possa accogliere nel proprio seno etnie portatrici di valori profondamente estranei ai suoi valori di base o addirittura incompatibili con essi. Questo è l'interrogativo che oggi è al centro del dibattito sul futuro della democrazia pluralistica, al quale Giovanni Sartori (v., 2000) ha risposto in termini nettamente negativi. La sua tesi è che il multiculturalismo - il quale, oltre a essere una dottrina, è anche un programma - anziché essere un'estensione 'fisiologica' del pluralismo ne rappresenta la negazione. Nella misura in cui difende il diritto alla secessione culturale, il progetto multiculturale potrebbe portare, una volta che fosse calato nella realtà, alla scomposizione della società in una molteplicità di microcomunità ermeticamente chiuse e persino ostili fra di loro; dunque, a un neotribalismo. In effetti, c'è da chiedersi come possa sopravvivere una società spezzata in sotto-comunità che arrivano a rifiutare le regole fondamentali della democrazia liberale. Non è forse l'alterità il necessario complemento dell'identità? Ed è mai concepibile un 'noi' comunitario senza un preciso confine culturale?

Certo, la potenza assimilatrice della civiltà occidentale è grande. Ma è parimenti grande la resistenza che l'Islam oppone alla secolarizzazione. Nell'islamismo non è dato trovare una distinzione fra la sfera del sacro e la sfera del profano. Il diritto islamico è Kalām Allāh, parola di Dio; come tale, è un diritto sacro e immutabile. Ed è un diritto che contempla una serie di norme e di doveri che sono in aperto conflitto con le istituzioni della democrazia liberale. Contempla, soprattutto, il rifiuto della laicità dello Stato e dei diritti fondamentali del cittadino, che percepisce come tipiche espressioni di una società 'materialistica' e 'pagana'. È per questo che la presenza di milioni di musulmani nella Comunità Europea costituisce un problema. Tanto più che, a partire dalla rivoluzione iraniana (1979), è apparsa sulla scena mondiale una versione dell'Islam - quella fondamentalista - che proclama alto e forte essere suo obiettivo non solo la restaurazione, nella dār al-Islām, della piena vigenza normativa della Legge Sacra - la sharī'a -, ma anche l'annientamento della 'satanica' civiltà occidentale. Di fronte a una siffatta dichiarazione di guerra, si capisce agevolmente come persino uno scienziato sociale che ha dedicato tutta la sua vita allo studio empatetico delle culture travolte dalla marcia imperialistica dell'Occidente - Claude Lévi-Strauss - abbia fatto in una intervista questa significativa dichiarazione: "Ho cominciato a riflettere in un momento in cui la nostra cultura aggrediva le altre culture, di cui perciò mi sono fatto testimone e difensore. Adesso ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia sulla difensiva di fronte alle minacce esterne e in particolare di fronte alla minaccia islamica. Di colpo, mi sento etnologicamente e fermamente difensore della mia cultura".

La sconvolgente azione terroristica condotta l'11 settembre 2001 dai militanti della Guerra Santa contro i simboli della potenza americana ha costretto il mondo intero a prendere atto che il fondamentalismo islamico è una minaccia per l'Occidente. E si tratta di una minaccia particolarmente insidiosa per le istituzioni della 'società aperta'. La storia, infatti, ci dice che quando la sicurezza nazionale è a rischio, le libertà civili e i diritti dei cittadini - che costituiscono il cuore assiologico della 'società aperta' - corrono grave pericolo. Sul punto, le autorevoli parole pronunciate da William J. Brennan - già giudice della Corte Suprema - durante un simposio internazionale tenuto all'Università Ebraica di Gerusalemme, ancorché rivolte al passato, suonano come una preoccupante prognosi: "Sebbene il mio paese sia stato adamantino sul tema delle libertà individuali in tempi di pace, esso ha tuttavia una lunga storia di fallimenti nella tutela delle libertà in tutti i momenti nei quali fu percepito un pericolo imminente per la sicurezza nazionale. Se ci soffermassimo a riflettere sul modo con il quale sono state trattate le libertà civili negli Stati Uniti durante periodi di guerra e di crisi, ci sarebbe ben poco di cui andare fieri e, invece, molto di cui imbarazzarsi" (cit. in Grossman, 1995; tr. it., pp. 248-249).

4. Verso la democrazia elettronica

Il collasso delle grandi ideologie rivoluzionarie che opponevano all'assetto istituzionale della 'società aperta' - Stato costituzionale, articolazione pluralistica del sistema politico, mercato, proprietà privata, ecc. - modelli di organizzazione sociale radicalmente altri, se da una parte ha posto fine allo stato ossidionale in cui per generazioni sono vissute le democrazie liberali del Vecchio Continente, dall'altra ha contribuito a creare una situazione caratterizzata da una crescente disaffezione per la politica e da un diffuso disincanto. Di qui il declino del voto di appartenenza e la crescita, talvolta massiccia, dell'astensionismo. Di qui, altresì, la crisi dei partiti di massa, i quali, da potenti agenzie di socializzazione e partecipazione politica, hanno preso ad assumere le forme e le funzioni tipiche dei comitati elettorali. Contemporaneamente, la progressiva espansione dell'area di influenza dei mass media - della televisione e di Internet, soprattutto - ha modificato l'habitat della democrazia liberale in modo così radicale che non pochi studiosi hanno ritenuto di poter affermare che il mondo occidentale è alla vigilia di un 'salto di paradigma epocale'.

In realtà, il ruolo dei mass media è stato sempre di decisiva importanza per l'esistenza storica delle democrazie pluralistiche. Tant'è vero che, già alla fine del XVIII secolo, Alexander Hamilton formulava la seguente fulminante previsione: "Questo paese sarà quello che sarà la sua stampa". A maggior ragione, nella 'società dell'informazione' il futuro della democrazia liberale è strettamente legato ai mezzi di comunicazione di massa, sempre più potenti e pervasivi. Dire democrazia liberale significa dire una forma di dominio nella quale i governanti sono sottoposti al permanente controllo dell'opinione pubblica. Il fatto decisivo, quindi, è che il demos - la totalità dei cittadini - sia adeguatamente informato sulla gestione della cosa pubblica. Nelle antiche poleis il cittadino raccoglieva le informazione recandosi nell'agorà. Nelle società moderne il sistema mediatico ha sostituito l'agorà. E si tratta di un sistema nel quale la televisione ha assunto un ruolo egemonico di tali proporzioni che si può parlare senz'altro di transizione dal 'mondo delle cose lette' al 'mondo delle cose viste', dominato da parte a parte dalla videocultura e dal videopotere. Per la prima volta nella storia dell'umanità, la realtà non è più raccontata, bensì mostrata in diretta. Il che, poi, non significa che la realtà mostrata sia la realtà oggettiva, senza alcuna aggiunta estranea. Tutto il contrario: è una realtà, quella che scorre davanti allo sguardo del telespettatore, selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che ha solo la parvenza dell'oggettività. È vero che, in via di principio, il consumatore di immagini può integrare i messaggi televisivi con altre fonti di conoscenza. Sennonché, a motivo della straordinaria onnipervasività della televisione, si può già intravvedere all'orizzonte la sostituzione quasi completa dell'homo sapiens con quello che Giovanni Sartori (v., 1997) ha chiamato homo videns. Il che annuncia l'avvento di un tipo antropologico la cui vita non è più intessuta di concetti, bensì di immagini. Un tipo antropologico, quindi, particolarmente manipolabile: l'esatto contrario del cittadino che partecipa alla vita pubblica con un sufficiente bagaglio di informazioni e, soprattutto, con un adeguato spirito critico.

Di segno opposto sono le prognosi sul futuro della democrazia quando l'analisi si concentra sulla 'rivoluzione digitale'. Di fronte all'esplosione della information technology, a seguito della quale è sorta quella intricata rete di canali elettronici chiamata cyber-spazio, numerosi studiosi hanno avanzato la tesi che, con la formazione dell''agorà informatica', è alle porte un inedito tipo di democrazia, basato sulla possibilità che le telecomunicazioni interattive offrono ai cittadini di intervenire in tempo reale nelle varie fasi del processo di decision making. Il risultato sarà che i cittadini avranno l'opportunità di partecipare in modo diretto alla politica, determinando essi stessi l'agenda del governo e persino il contenuto delle leggi. Pertanto, nella democrazia elettronica, il 'quarto potere' non sarà più il sistema dei mass media, bensì il demos.

La cittadinanza, secondo questa lettura delle potenzialità democratiche della 'rivoluzione digitale', ne risulterà arricchita, se non proprio trasfigurata. La comunicazione verticale cederà progressivamente il passo alla comunicazione orizzontale e i governati, da spettatori silenziosi e passivi, diventeranno interlocutori attivi delle istituzioni e protagonisti permanenti della vita politica. Cesseranno, in altre parole, di essere semplici consumatori del mercato politico e assumeranno il ruolo di produttori di proposte. L'ideale della democrazia degli antichi - il governo dei governati - diventerà una corposa realtà e la distanza fra i semplici cittadini e i professionisti della politica si ridurrà ai minimi termini. Conseguentemente, il concetto di rappresentanza perderà il suo significato, dal momento che i tradizionali intermediari fra il demos e lo Stato - i partiti politici - vedranno scemare a vista d'occhio il loro potere di decisione autonoma e dovranno, per forza di cose, muoversi in sincronia con i desiderata dell'opinione pubblica, costituita da cittadini informati, attenti e attivi. Tant'è che sono già numerosi i casi in cui, utilizzando la posta elettronica e Internet, un esiguo numero di cittadini è riuscito ad attivare azioni collettive di dimensioni nazionali e persino planetarie, capaci di esercitare una forte pressione sui decision makers.

Che una inedita forma di democrazia possa affermarsi grazie alla diffusione dei nuovi media, è tesi largamente condivisa; ma non è condivisa l'idea che essa costituirà un sicuro progresso. Molti sono gli studiosi che si chiedono se la democrazia elettronica non risulterà essere una democrazia plebiscitaria, nella quale i demagoghi di ogni specie la faranno da padroni in virtù della loro disponibilità ad assecondare gli umori della 'gente'; o, addirittura, una torre di Babele di richieste frammentate e contraddittorie, sulla quale si infrangeranno tutti i tentativi di sintesi, trasformando così la politica in un 'gioco a somma zero'. Altri, pur non condividendo il pessimismo degli apocalittici, hanno messo in evidenza la natura bifronte dell''agorà informatica'. Per esempio Jeffrey B. Abramson, F. Christopher Arterton e Gary R. Orren, dopo aver sottolineato le grandi potenzialità democratiche dell'electronic commonwealth, hanno attirato l'attenzione sui pericoli che lo minacciano: "la corruzione della politica del bene comune in una politica di conformismo di massa; la corruzione della politica del pluralismo e della diversità in una politica di fazioni e di balcanizzazione; la corruzione della politica dell'individualismo in una politica di isolamento" (v. Abramson e altri, 1988, p. XVI).

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