Democrazia cristiana

Enciclopedia delle scienze sociali (1992)

Democrazia cristiana

Francesco Traniello

L'ambito semantico

Prima che, nel corso del XX secolo, numerosi partiti politici europei e latino-americani, in varia misura radicati nei rispettivi mondi cattolici, assumessero la denominazione di democratico-cristiani o di cristiano-democratici, l'espressione 'democrazia cristiana' fu ampiamente utilizzata per designare un insieme di movimenti di natura prevalentemente sociale, sorti nell'ultimo scorcio del XIX secolo, in parte avallati e incoraggiati dalla istituzione ecclesiastica e dal papato. La stessa espressione, tuttavia, si trova attestata, con un ampio spettro semantico, in precedenti fasi della storia europea.

In senso generale la storia della Democrazia cristiana costituisce, per un verso, un capitolo centrale del processo di modernizzazione dell'universo cattolico, avvenuto sotto la spinta delle trasformazioni strutturali e culturali delle società europee, e, per altro verso, una delle risposte del cattolicesimo ai fenomeni di secolarizzazione ideologica e politica connessi con lo sviluppo dei sistemi capitalistici, delle forme costituzionali e rappresentative dello Stato moderno, dei movimenti socialisti. Ciò spiega la difficoltà di offrire una rappresentazione sommaria, univoca e lineare di un fenomeno che investe variamente la storia religiosa oltre che la storia politico-sociale.

Variazioni sul tema religione-democrazia

Un aspetto controverso riguarda, in primo luogo, la questione delle origini della Democrazia cristiana. A grandi tratti si sono confrontate sull'argomento due principali linee interpretative, guidate principalmente da due diversi modi di inserire la storia della Democrazia cristiana nella storia della democrazia moderna, sia in relazione ai suoi aspetti ideologici e teorici, sia in relazione alle sue proiezioni nell'ordine politico e sociale. La prima corrente storiografica ingloba nella storia, o almeno nella protostoria, della Democrazia cristiana i momenti in cui si è posto, in maniera più stringente, il problema dell'incontro tra il cristianesimo nella sua forma cattolica e la democrazia moderna. La seconda stabilisce una cesura netta tra le vestigia democratiche presenti nella storia del cattolicesimo fino a metà del XIX secolo e la Democrazia cristiana di fine secolo.

La prima prospettiva, a lungo prevalente nella storiografia più accreditata, si dispiega su un lungo periodo e risulta polarizzata dagli atteggiamenti mentali e dai fattori di innovazione culturale e religiosa connessi con i diversi tentativi di acclimatare i valori e i modelli democratici nel contesto della dottrina e della prassi dei mondi cattolici europei.

Sotto questo profilo la vicenda della Democrazia cristiana porterebbe in sé, fin dalle sue origini, il segno di un confronto in positivo, sebbene soggetto a specifiche condizioni di natura religiosa e dottrinale, sia con talune delle componenti teoriche della democrazia moderna (nella sua duplice veste di democrazia politica e di ugualitarismo sociale), sia con le sue espressioni istituzionali e normative. In questa linea sarebbero da annoverare tra le matrici originarie della Democrazia cristiana tutte le tendenze che nel contesto o nei contesti del cattolicesimo europeo si sono poste in un atteggiamento di attenzione e di assimilazione nei riguardi del sistema di valori propri della democrazia moderna, anche quando ne venivano rifiutati i fondamenti ideologici ritenuti incompatibili con il complesso dottrinale e istituzionale cattolico.

Le prime significative tracce di tale atteggiamento andrebbero pertanto reperite nel grande crogiolo della Rivoluzione francese, con particolare riferimento all'area del tardo giansenismo democratico (v. Plongeron, 1973), e in ambito italiano nel cosiddetto triennio giacobino: quando prese forma, in relazione ai nuovi ordinamenti politici, una vasta pubblicistica, dal profilo molto frastagliato, il cui senso complessivo poteva essere sintetizzato dal titolo di un opuscolo anonimo, edito nel 1797, La religione amica della democrazia. Lo studioso che, utilizzando un'espressione coeva, ha definito questi gruppi di opinione come "cattolici democratici" (v. Giuntella, 1990), ha posto in luce non solo il loro rilievo minoritario, per non dire marginale, ma anche le profonde differenze e reciproche diffidenze che li percorrevano: incominciando da quella che contrapponeva i nuclei di matrice giansenista, più legati agli analoghi ambienti rivoluzionari francesi, ad altri di orientamento tomista e scolastico, caratterizzati da una propensione decisamente antigiurisdizionalista. Si potrebbe aggiungere che, già allora, i vari progetti di conciliazione tra democrazia e cristianesimo tendevano a muoversi su piani diversi, secondo che la democrazia venisse considerata semplicemente come una delle forme di governo, connotata dal metodo elettivo, in sé non conflittuale con i principî cattolici (e anzi sotto vari aspetti preferibile per la Chiesa rispetto all'assolutismo giurisdizionalista dei sovrani settecenteschi), ovvero si reperisse nell'originario messaggio cristiano il più valido fondamento etico dell'ugualitarismo (onde la rappresentazione di Gesù come il "modello più perfetto di democratica eguaglianza"), oppure si adombrasse nell'adesione ai principî del cristianesimo predicati e garantiti dalla Chiesa la condizione basilare per il corretto funzionamento di un ordine politico democratico.

Da un analogo punto di vista, diretti prodromi storici della Democrazia cristiana sarebbero rappresentati dai movimenti di opinione e dalle correnti di cultura che nella prima metà del XIX secolo svilupparono l'idea di una nuova alleanza tra Chiesa e popolo, in alternativa alla tradizionale alleanza fra trono e altare, prospettando per questa via la definitiva fuoriuscita dal quadro politico-religioso d'ancien régime.

Di fatto, nel terzo e quarto decennio del XIX secolo e in particolare durante le due congiunture rivoluzionarie del 1830 e del 1848, ritornò in circolazione in diversi ambienti cattolici europei il termine 'democrazia', assumendo un significato molto estensivo, vicino, per non dire identico, a quello, carico di significati simbolici ma intrinsecamente ambiguo, di 'popolare': ciò implicava, in ogni caso, un superamento del pensiero cattolico controrivoluzionario, incentrato sull'opposizione speculare tra lo spirito e i principî della democrazia e le verità immutabili e dogmatiche del cattolicesimo. In questa direzione si qualificarono talune delle correnti che alimentavano la costellazione del cattolicesimo liberale, nel cui ambito si vennero delineando posizioni tendenzialmente democratiche e posizioni più marcatamente liberali, distinte tra loro da una diversa considerazione del ruolo politico e sociale della religione.

Significativo, in proposito, l'approdo alla democrazia dell'abate francese Félicité Lamennais, il quale, partito da teorie radicalmente controrivoluzionarie e tradizionaliste, era giunto intorno al 1830 non solo a teorizzare l'accettazione, da parte cattolica, delle libertà moderne garantite dai sistemi costituzionali, ma a indicare nella democrazia la condizione necessaria per rivitalizzare il cattolicesimo e per restituirgli efficacia ai fini della ricostruzione di una società cristiana. L'idea democratica di Lamennais e di alcuni dei suoi seguaci, raccolti intorno al giornale "L'Avenir", abbracciava sia un progetto politico imperniato sull'applicazione delle libertà costituzionali, sul suffragio universale, sull'autonomia delle società o corpi intermedi tra individuo e Stato, sia un progetto sociale fondato sul diritto al lavoro e alla proprietà e sull'associazionismo operaio. La democrazia lamennesiana tendeva peraltro a configurarsi come alternativa alla 'democrazia assoluta' di tipo rivoluzionario, in quanto tesa a sostituire al 'dispotismo del numero' un'idea di sovranità popolare radicata nell'immutabile legge di verità e di giustizia trasmessa dalla tradizione cattolica e rappresentata dalla Chiesa. Per tale aspetto la democrazia lamennesiana appariva orientata, in ultima istanza, al compimento di un disegno che è stato definito di 'democrazia teocratica', cioè alla realizzazione di un ordine in cui la religione cattolica e la Chiesa avrebbero riguadagnato, nel crollo dell'assolutismo, una funzione direttiva volta all'instaurazione della "monarchia temporale del Cristo" (v. Verucci, 1963). Lo strumento per la realizzazione del nuovo ordine cristiano avrebbe dovuto essere, per Lamennais, la costituzione di un partito cattolico, attrezzato per competere con gli altri partiti nella società civile e politica.

Dal lamennesismo prese origine un movimento d'opinione, il quale sopravvisse alla condanna delle tesi dell'"Avenir" contenuta nell'enciclica pontificia Mirari vos del 1832, e alla successiva frattura tra Lamennais e la Chiesa cattolica. Da tale movimento provenivano molti dei personaggi, come Henri-Dominique Lacordaire, Henri Maret e Frédéric Ozanam, che all'epoca della rivoluzione del 1848 rilanciarono con maggior forza un messaggio di cristianizzazione della democrazia, come risposta alla questione sociale. Cristianizzare la democrazia assunse per loro il prevalente significato di riguadagnare al cristianesimo le masse scristianizzate, ma sposando la causa dell'emancipazione delle classi popolari, considerate alla stregua dei popoli barbarici che avevano abbattuto l'Impero romano e pagano, secondo la formula di Ozanam: "Passons aux barbares". Al fondo delle tesi sviluppate in special modo dal giornale "Ère nouvelle", e in Italia fatte proprie dal lamennesiano Gioacchino Ventura, si trovava una proclamata identificazione tra cristianesimo e democrazia ("Le christianisme c'est la démocratie"), che suscitava le proteste di un coerente cattolico liberale come Charles de Montalembert, ostile a ogni confusione o sovrapposizione tra ordine politico-sociale e ordine religioso.

Il tema dell'incontro, inteso come reciproca compenetrazione, tra cristianesimo e democrazia aveva avuto del resto, intorno al 1848, un ampio risalto anche in ambienti e in aree di cultura che avevano poco in comune con la scuola lamennesiana. Alexis de Tocqueville nella seconda parte della Démocratie en Amérique (1840) aveva osservato che "per uno strano concorso di circostanze, la religione si trova momentaneamente impegnata in mezzo alle forze che la democrazia travolge, e spesso le capita di respingere quell'eguaglianza che essa ama, e di maledire la libertà come fosse un nemico, mentre prendendola per mano potrebbe santificarne gli sforzi", aggiungendo che "l'istituzione e l'organizzazione della democrazia nel mondo cristiano è il grande problema politico del futuro". Camillo di Cavour, riferendosi alle prediche dell'abate Pierre Louis Coeur ascoltate a Parigi, aveva parlato nel 1843 di una nuova scuola cattolica e democratica "forse destinata a dominare il mondo".

Nella cornice del cattolicesimo liberale italiano, per quanto in generale assai critico nei riguardi delle dottrine lamennesiane, non erano mancati gli spunti di teorie democratiche su base cristiana che, sposandosi di solito con istanze di riforma ecclesiastica, indicavano nella religione la fonte morale indispensabile al funzionamento della democrazia per impedirne gli esiti anarchici o tirannici. All'indomani del 1848, Vincenzo Gioberti nel Rinnovamento civile d'Italia (1851) aveva tracciato il profilo di un ordine democratico incentrato su un equilibrato rapporto tra il ceto medio, destinato alle funzioni di guida politica, e le classi popolari, ma comunque basato sul suffragio universale e finalizzato al riscatto e all'ascesa del quarto stato, nell'alveo e con il sostegno di un cattolicesimo progressista e riformato. Cesare Balbo, nelle sue riflessioni riguardanti la Monarchia rappresentativa, aveva indicato nell'ordine democratico, sostanzialmente identificato con il sistema rappresentativo, un prodotto della civiltà cristiana e la ragione della sua rinnovata capacità espansiva (v. Traniello, Città..., 1990).

È vero però che dopo il 1848, anche in conseguenza degli orientamenti assunti dai vertici ecclesiastici, il filone democratico del cattolicesimo liberale tese ad attenuarsi e a inaridirsi. Il crescente timore del socialismo e la diversa collocazione nei confronti del Secondo Impero spaccarono in Francia il gruppo dell'"Ère nouvelle". In Italia i gruppi cattolico-liberali, salvo alcuni casi sporadici, ripiegarono su posizioni più conservatrici in campo sociale e religioso, o andarono ad alimentare il grande alveo del liberalismo moderato.

Democrazia, ma cristiana

La totale estraneità della Democrazia cristiana di fine secolo XIX nei confronti delle tendenze riconducibili al più largo alveo del cattolicesimo liberale è stata di recente affermata con particolare vigore: "Se si desidera oggi comprendere almeno in parte un concetto così carico di storia, bisogna cominciare con l'eliminare tutto ciò che connota per noi il termine 'democrazia' [...]. La democrazia cristiana si è innanzitutto definita nell'opposizione a questo modello - basato sui diritti dell'uomo e sulla rivendicazione delle sue libertà - e nella fierezza della propria anteriorità; nell'opposizione metodica a tutto ciò che ne derivava: liberalismo, socialismo, sovranità popolare, legge del numero, individualismo, ecc. [...]. La democrazia cristiana ai suoi inizi non doveva niente e non chiedeva niente alla democrazia nata dal 1789. Non se ne aspettava altro che mali; ne era l'antitesi e l'alternativa" (v. Poulat, 1977, pp. 154-155). Ciò la renderebbe strutturalmente e culturalmente estranea all'idea di partito: "Un partito democratico cristiano: si tratta sempre della democrazia cristiana mescolata ad altre correnti cattoliche". Tesi così perentorie, sebbene autorevolmente argomentate, sembrano nondimeno pagare un tributo forse eccessivo a una sottovalutazione delle dinamiche reali di movimenti storici difficilmente riducibili ai loro puri statuti ideali.

Questo appare, per taluni versi, il caso della Democrazia cristiana convenzionalmente, ma riduttivamente, designata come leoniana, dal nome del papa Leone XIII (1878-1903) che la legittimò. Largamente verificata dalla storiografia è la collocazione di questa 'seconda' Democrazia cristiana nell'alveo del cattolicesimo intransigente e integrale, e quindi nel solco dell'antiliberalismo cattolico. Nondimeno un'osservazione complessiva del movimento fa emergere non soltanto la sua natura composita, ma anche gli effetti, da essa prodotti, di forzatura del quadro dell'intransigentismo ottocentesco e, in qualche misura, dello stesso programma di Leone XIII. Di fatto, non è mai esistita una Democrazia cristiana allo stato di puro modello ideale. È vero, tuttavia, che la legittimazione dell'idea di democrazia realizzata da Leone XIII nel contesto cattolico, avvenne sulla base di una tendenziale identificazione tra la Democrazia cristiana e un'ordine etico-sociale concepito come indipendente dalle forme di governo e ispirato invece ai criteri e ai principî definiti dalla Chiesa. Sotto questo profilo si poté, per esempio, sostenere che l'idea di Democrazia cristiana era già presente nella cristianità medievale, e che, in ogni caso, i suoi riferimenti teorici non avevano nulla da spartire con quelli dominanti nella cultura moderna.

In realtà, lungo una certa fase storica collocabile tra l'ultimo decennio del XIX secolo e la prima guerra mondiale, la storia della Democrazia cristiana su scala europea assunse i tratti di una tensione immanente, e in talune situazioni emergente, tra una cornice dottrinale definita dal magistero ecclesiastico e le sollecitazioni provenienti dal rapporto via via più ravvicinato tra i movimenti cattolici nazionali e le dinamiche strutturali e culturali delle diverse società in cui essi operavano. Tale tensione si è principalmente manifestata tra un'accezione della Democrazia cristiana come principio e modello universalistico di ordine sociale e una sua proiezione come specifico movimento politico tendente ad assumere la forma di partito.

Una tensione di questa natura era percepibile nello stesso magistero di Leone XIII, connotato dal tentativo, sviluppato all'interno di una teologia politica d'impronta neotomistica, di tener rigorosamente separate le questioni relative alla costituzione degli Stati e alle forme di governo (verso le quali veniva asserito il principio di indifferenza della Chiesa, con la conseguente ammissione del metodo elettivo per la designazione del 'principe', purché ciò non implicasse il conferimento dei 'diritti del principato': v. enciclica Diuturnum, 29 giugno 1881) dai problemi concernenti la definizione di un ordine sociale giusto, cioè cristiano, in presenza e come risposta alla moderna questione operaia (enciclica Rerum novarum, 15 maggio 1891). Il punto più delicato della costruzione leoniana consisteva nel fatto che il rilievo accordato ai poteri e alla funzione degli Stati in ordine alla questione sociale, seppur in funzione sussidiaria e regolatrice, non si saldava con il riconoscimento della democrazia come la forma politica più adeguata, in termini storici, a consentire allo Stato lo svolgimento di quelle stesse attribuzioni. L'idea di democrazia risultava così assunta all'interno di un programma d'azione rivolto bensì prioritariamente 'verso il popolo', ma presieduto e guidato dalla Chiesa. Il concetto di bene comune, individuato come criterio ultimo di valutazione della legittimità dell'esercizio del potere, era fatto dipendere in maniera diretta da una visione organica, gerarchica e tendenzialmente aconflittuale dell'ordine sociale e politico, concepito come riflesso e applicazione di un sistema oggettivo e 'naturale' di diritti, sulla cui definizione la Chiesa rivendicava prioritaria competenza (v. Scoppola, 1972). In altri termini, il dilemma del magistero leoniano riguardava l'impossibilità di accordare la definizione di una metafisica sociale che aveva sullo sfondo l'immagine della cristianità medievale con la legittimazione della democrazia politica come metodo di regolazione e di governo dei conflitti tra individui e forze sociali in libera competizione.

In questa luce si venne a collocare l'ultimo e decisivo intervento di Leone XIII in materia di Democrazia cristiana, in cui era rilevato che la stessa definizione manteneva "un che di ambiguo e pericoloso" se copriva il fine politico di "portare al potere il popolo", se nascondeva "il proposito di sottrarsi alle legittime autorità dell'ordine civile ed ecclesiastico". Per essere realmente cristiana la democrazia doveva avere "per sua base i principî della fede e tutelare le diverse classi, membra necessarie di una società ben costruita", onde non era lecito darle "un senso politico". Perché, "sebbene la parola democrazia, per chi guarda all'etimologia e all'uso dei filosofi, serva a indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo" (enciclica Graves de communi, 18 gennaio 1901).

Democrazia cristiana e forma-partito

All'interno di questi limiti il magistero leoniano conseguì taluni rilevanti effetti: agì come fattore propulsivo nei riguardi di quei settori e ambienti del cattolicesimo sociale di fine Ottocento che si venivano distaccando, per forza propria, dal corpo più conservatore del cattolicesimo europeo; offrì una base comune di orientamento dottrinale all'insieme dei movimenti sociali cattolici; emarginò in una certa misura le tendenze più marcatamente medievaleggianti, legittimistiche e di corporativismo integrale, lasciando aperti spazi di azione e di intervento dei cattolici in campo sindacale, pur in un'ottica rigidamente confessionalistica e di collaborazione tra le classi regolata da reciproci doveri morali e mediata dalla Chiesa.

Assai più complesso e problematico fu viceversa il sistema di relazioni tra la Democrazia cristiana d'impronta leoniana e i partiti cattolici europei. In proposito si rendono necessarie alcune distinzioni e precisazioni.

La prima è che in talune aree europee (Germania, Belgio, Paesi Bassi) la nascita di partiti cattolici aveva preceduto lo sviluppo delle tendenze democratico-cristiane: tali partiti, come il Centro tedesco e la Destra parlamentare e poi il Partito cattolico belga, avevano già risolto, nella prassi, il problema dell'inserimento dei cattolici in contesti politico-istituzionali di tipo rappresentativo e pluralistico.

La seconda precisazione riguarda, invece, la sostanziale ostilità manifestata dai vertici ecclesiastici sino alla prima guerra mondiale, e in coerenza con le concezioni teologico-politiche sopra delineate, alla figura stessa del partito cattolico, percepito come fattore di potenziale frattura dell'unità ecclesiastica e di autonomizzazione nei confronti dell'autorità religiosa. Questo atteggiamento, che concedeva al partito tutt'al più una funzione strumentale e subordinata alla Chiesa, valeva in maniera particolare nell'ambito delle 'nazioni cattoliche', per le quali veniva indicato come prioritario l'obiettivo di ricostruire, insieme e attraverso un riconquistato ordine sociale cristiano, uno Stato cattolico, non un partito cattolico.

Una terza osservazione riguarda il fatto che nel corso degli anni novanta, in competizione con i partiti socialisti europei, i movimenti cattolici avevano ampliato in misura ragguardevole la propria base associativa popolare sul terreno sociale ed economico, e prodotto nel contempo una cultura sociale relativamente omogenea, a struttura corporativa e solidaristica, contrapposta, in linea teorica, sia alla cultura liberal-liberista, peraltro ovunque in declino, sia alla cultura socialista.

In Italia la proliferazione di società operaie cattoliche di tipo mutualistico (se ne annoveravano quasi 800 nel 1897), di casse rurali di tipo cooperativo (più di 700 nello stesso anno), di testate giornalistiche (circa 300 intorno al 1895) indicava la crescente penetrazione del movimento, in specie nelle aree agricole pedemontane e collinari del Nord a prevalente mezzadria o a piccola proprietà coltivatrice, ma con significative propaggini in direzione dei centri urbani, nelle cui amministrazioni i cattolici tendevano a esercitare una più diretta incidenza, sino a dar luogo a un vero e proprio 'movimento municipale'. In parallelo prendeva forma un corpus di teorie sociali e di istanze programmatiche collegato a un circuito culturale sovranazionale, e dotato di propri centri di elaborazione e di divulgazione, come l'Unione cattolica per gli studi sociali, fondata nel 1889, e la "Rivista internazionale di scienze sociali" che iniziò le pubblicazioni nel 1893. Il convergere di questi aspetti associativi e culturali alimentava un movimento ch'era, per così dire, alla ricerca di una propria forma-partito, sotto l'impulso della crisi politico-istituzionale di fine secolo, delle richieste di estensione del suffragio, dei movimenti riformistici, dell'accelerata espansione del socialismo.

A misura che i movimenti democratico-cristiani acceleravano e davano nuovo alimento alle strutture e alle istituzioni del cattolicesimo sociale, e tendevano a dotarle di meglio definiti programmi prendendo le distanze, anche dal punto di vista culturale e della mentalità, dai modelli arcaici di azione caritativa e localistica, essi finivano per muoversi in direzione politica e per operare, là dove non esistevano partiti cattolici, come forme embrionali di partiti. In questo loro procedere erano costretti a misurarsi con le regole e la cornice istituzionali degli Stati in cui agivano, seppure con l'obiettivo di riformarli in senso cristiano, cioè cattolico; e la democrazia che stava scritta nei loro programmi, per risultare credibile ed efficace, non poteva sottrarsi al confronto con le altre idee democratiche circolanti per l'Europa, e non tradursi, di fatto prima che di diritto, in concezione e azione politica. Sotto questo riguardo la Democrazia cristiana, convalidata da Leone XIII come sinonimo di azione popolare volta a ricreare un ordine cristiano di carattere globale, tendeva di fatto a entrare nel circolo delle società moderne e degli Stati rappresentativi come loro 'parte' dinamica. Ma in questo suo cammino incontrava, pur in mutate circostanze, molti dei nodi storici che in precedenti epoche avevano segnato l'incontro fra cristianesimo e democrazia.

Queste precisazioni consentono di leggere la contrastante e contrastata storia della Democrazia cristiana sino alla prima guerra mondiale, nelle diverse aree europee. Dove già esistevano partiti cattolici, le tendenze democratico-cristiane ne risultarono inglobate. In Belgio la Ligue Démocratique, sorta nel 1891, venne a imprimere al Partito cattolico, nato nel 1884 dalla fusione tra la Destra parlamentare e le associazioni religiose ed elettorali cattolico-ultramontane, una più accentuata fisionomia nel campo della politica sociale, contribuendo a trasformarlo da partito parlamentare in partito di massa, in grado nel 1894, grazie all'introduzione del suffragio universale, di imporsi come partito maggioritario. Nel Reich tedesco, i gruppi dichiaratamente democratico-cristiani non cambiarono in maniera sostanziale la natura articolata, pragmatica, in prevalenza parlamentare, del Centro, pur allargandone la presa elettorale, ma senza mutarne le predisposizioni conservatrici in campo politico e istituzionale. In Austria l'Unione dei cristiano-sociali sorta negli anni novanta, che si segnalava ideologicamente per il suo integralismo corporativo, anticapitalistico e antisemita, ma che realizzò con il sindaco di Vienna Karl Lüger un impegnativo programma di riforme su scala municipale, dopo aver contrastato il Partito popolare cattolico conservatore lo aveva assimilato in un unico Partito sociale cristiano, che si era qualificato come rappresentanza di prevalenti interessi agrari e per una presa di distanza dai referenti democratici in campo politico.

Dove, viceversa, si era venuto sviluppando un movimento sociale organizzato ma in assenza di un partito cattolico, come in Francia e in Italia, l'emergere di movimenti democratico-cristiani sul finire del XIX secolo agì quale fattore di sollecitazione e di accelerazione del processo politico immanente nei movimenti cattolici nazionali.

Tale processo risultò particolarmente contrastato in Italia, in ragione del persistente conflitto tra Chiesa e Stato, delle prescrizioni ecclesiastiche avverse alla partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche e dell'esistenza, dal 1875, di un'organizzazione cattolica nazionale, l'Opera dei Congressi, che aveva fatto della propria estraneità e opposizione agli ordinamenti liberali la propria bandiera. Nel 1897 uno dei padri del cattolicesimo sociale italiano, Giuseppe Toniolo, intervenendo su Il concetto cristiano di democrazia, l'aveva definita, anticipando la Graves de communi, come "ordinamento civile" prescindendo da una sua determinazione politica. Nondimeno alle soglie del nuovo secolo vari nuclei di giovani cattolici, tra cui molti sacerdoti, avevano fatto propria la denominazione di democratico-cristiani, utilizzandola in senso polemico nei riguardi dei vecchi intransigenti dell'Opera dei Congressi. I circoli o fasci democraticocristiani produssero nel loro insieme, e seguendo una complessa traiettoria, un rilevante mutamento della cultura politica in quattro principali direzioni. Superarono l'avversione di principio al metodo della libera competizione politica, scorgendo in esso la via obbligata per una riconquista cristiana della società e dello Stato. Affermarono, staccandosi da Toniolo e poi incorrendo nelle censure ecclesiastiche, l'inseparabilità della democrazia sociale dalla democrazia politica. Acclimatarono l'idea di partito come soggetto politico collettivo nella cultura cattolica italiana che l'aveva tradizionalmente demonizzato. Misero a punto programmi d'azione che, pur nell'ottica persistente di un sociologismo corporativo, investivano temi e questioni spiccatamente politici: per esempio il programma dei democratico-cristiani di Torino del 1899 prevedeva, tra l'altro, "la rappresentanza proporzionale dei partiti", l'istituto del referendum, un decentramento amministrativo volto a realizzare un sistema di autonomie locali, una riforma tributaria basata sul principio della progressività, la tutela delle libertà civili e politiche, la libertà e l'allargamento del suffragio.

L'azione e le idee dei nuclei democratico-cristiani produssero effetti dirompenti sulla vecchia struttura del cattolicesimo intransigente, nella quale si trovavano intimamente mescolate istanze religiose ed ecclesiastiche con programmi e istituzioni economico-sociali. Lo scioglimento dell'Opera dei Congressi da parte di Pio X nel 1903 servì a confermare l'indisponibilità della Chiesa ad accettare che un'organizzazione cattolica subordinata alla gerarchia subisse una metamorfosi in senso politico, e a convalidare la persistente avversione ecclesiastica, specie nella situazione italiana, nei riguardi di un ipotetico partito cattolico. Da allora risultò meglio definito il confine tra il campo dell' 'azione cattolica' come l'intendeva la Chiesa istituzionale, disegnato nell'enciclica Il fermo proposito del 1905, e il campo dell'azione politica cui propendevano i democratico-cristiani.

Questi, da parte loro, s'incamminarono in tre diverse direzioni. Filippo Meda e il suo gruppo milanese assunsero come modello di riferimento il Centro tedesco, adeguandosi per altro verso a temporanee alleanze elettorali e amministrative con i settori moderati del liberalismo e puntando alla costituzione di un gruppo parlamentare di 'cattolici deputati'. Il più radicale Romolo Murri teorizzò il principio dell'autonomia dei fedeli in campo politico, recuperando taluni aspetti della tradizione del cattolicesimo liberale ma in senso antimoderato, e accostandosi a idee di riforma religiosa analoghe a quelle moderniste, come condizione di un incontro non strumentale tra cristianesimo e democrazia: su questa linea sorse nel 1904 un movimento politico-culturale, la Lega Democratica Nazionale, che si trovò in parte coinvolto nella condanna del modernismo cattolico, sanzionata nel 1907 dall'enciclica Pascendi di Pio X, e nella successiva scomunica di Murri. Infine, Luigi Sturzo, nel discorso di Caltagirone del 1905, pur riconoscendo che "per virtù del movimento democratico cristiano" si era diffuso il convincimento che i cattolici dovessero entrare nell'agone politico in competizione con gli altri partiti, prospettava come indilazionabile una netta distinzione tra le "ragioni ecclesiastiche" e le ragioni politico-sociali che si erano trovate frammiste nel movimento cattolico; e indicava in queste ultime il fondamento programmatico di un partito democratico radicato nelle istituzioni del cattolicesimo sociale. Tale partito avrebbe però dovuto abbandonare sia la denominazione cattolica, perché non si sarebbe configurato come partito della Chiesa né come partito di tutti i cattolici, sia quella democratica cristiana, per sottrarsi agli equivoci che essa aveva sino allora alimentato, sollevando l'ostilità della gerarchia ecclesiastica. Nell'ottica sturziana la sopravvivenza dei contenuti politici della Democrazia cristiana richiedeva dunque una cesura formale nei riguardi delle sue composite radici dell'età leoniana.

Anche in Francia il movimento degli abbés démocrates di fine secolo scavò un solco vistoso nei riguardi del cattolicesimo sociale a base legittimista e paternalista dal quale alcuni di loro provenivano, accogliendo l'invito al ralliement nei riguardi delle istituzioni repubblicane proveniente dalla Santa Sede, e collocandosi su un sottile crinale tra l'asserita 'applicazione' dell'insegnamento della Chiesa e l'adesione all'idea di riforma sociale realizzata "pour et par le peuple": il che esigeva l'accettazione di un 'governo popolare' e la delineazione di programmi che investivano il campo politico. Peculiari, tra questi, la richiesta del suffragio universale, ma su base familiare e professionale; la sottrazione allo Stato, in nome di un modello decentrato, delle opere di assistenza e d'insegnamento; la libertà di associazione sindacale. Dal punto di vista ideologico, le tendenze democratico-cristiane francesi si qualificavano per l'avversione al capitalismo finanziario, per un certo terrianisme contrapposto all'industrialismo, per un diffuso antisemitismo. Indeboliti dall'accusa loro rivolta di trasformare la Chiesa in una società di propaganda democratica, e, per altro verso, dal trovarsi schierati nel fronte antidreyfusardo, gli abbés démocrates si dispersero, entrando in parte nelle strutture della nascente Azione Cattolica francese, e in parte nel movimento fondato nel 1899 da Marc Sangnier intorno alla rivista "Sillon". Ponendosi, come in Italia la Lega Democratica Nazionale, a mezza strada fra l'educazione popolare e l'impegno politico, il movimento del Sillon fu per un decennio la punta più avanzata della Democrazia cristiana francese, ma anche il riflesso delle sue persistenti incertezze. La democrazia vi era concepita come "organizzazione sociale che tende a portare al massimo la coscienza e la responsabilità civica di ciascuno"; ma debole, se non inconsistente, era l'attenzione prestata dal Sillon agli aspetti istituzionali. La sua ambizione dichiarata era di raccogliere in un movimento aconfessionale tutti coloro che "coscientemente o incoscientemente" si alimentassero dello "spirito cristiano". Questi aspetti esponevano il Sillon agli interventi ecclesiastici, che culminarono nel 1910 in una lettera di Pio X all'episcopato francese, nella quale veniva riprovata la concezione sillonista dell'autorità che "risale dal basso", l'asserita connessione tra giustizia sociale e democrazia politica, e le tendenze a predicare e praticare il principio di autonomia del credente in materia politica. Di fatto la condanna del Sillon, che ne segnò praticamente la fine, era un'applicazione della più generale condanna del modernismo ai movimenti politico-sociali.

L'eclissi della Democrazia cristiana tra le due guerre

Tra la prima e la seconda guerra mondiale la denominazione democratico-cristiana sembrò quasi estinta nel lessico politico europeo, pur in presenza della proliferazione di partiti a base cattolica nel primo dopoguerra, determinata tra l'altro dalla frammentazione in nuove entità politiche dei grandi imperi multinazionali. Tale estinzione si produsse per motivi diversi, ma comunque attinenti alla persistenza di un nocciolo teorico e pratico non risolto, o risolto in maniera non univoca, circa i rapporti tra cattolicesimo e democrazia politica. L'eclissi della denominazione segnalò, implicitamente, la crisi o la metamorfosi del modello leoniano di Democrazia cristiana, e l'accertata impossibilità di arrestare l'impulso alla democrazia sulle soglie dell'ordinamento politico; ma ciò confliggeva tuttora con l'esplicita qualificazione 'cristiana', nella misura in cui essa implicava un diretto avallo della Chiesa, che manteneva invece ben ferma la distinzione scolastica, ripresa da Leone XIII, tra i fini e le forme degli Stati. Il principio di subordinazione delle forme politiche alla preservazione o alla promozione di un ordine cristiano, identificato con un sistema di diritti naturali e con un corpus dottrinale in materia sociale definiti dalla Chiesa, rendeva precario il collegamento tra i gruppi cattolici, ancorché minoritari, disposti ad accettare il terreno e il metodo della democrazia politica, e il loro retroterra sociale e religioso. Nella prevalente ottica ecclesiastica l'esistenza di movimenti o di partiti democratici a base cattolica continuava a presentare molte ragioni di rischio, dal punto di vista dottrinale e istituzionale, in quanto essi erano ritenuti un fattore di potenziale o effettivo cedimento da parte di settori più o meno estesi del mondo cattolico ai processi di secolarizzazione e di laicizzazione propri del mondo moderno. Di ciò si può trovare una controprova nella preponderante attenzione accordata, invece, dai vertici ecclesiastici tra le due guerre all'instaurazione di rapporti concordatari con gli Stati e al potenziamento del tessuto organizzativo e di massa dell'Azione Cattolica. Sotto vari profili, la Democrazia cristiana come l'aveva intesa e definita Leone XIII trovò dunque la sua continuazione e il suo inveramento nell'Azione Cattolica di Pio XI piuttosto che nei partiti a base cattolica. Inoltre pochi di questi si ricollegarono, di fatto, ai movimenti politici democratico-cristiani di fine Ottocento, e quasi nessuno si definì democratico-cristiano.

La scelta prevalente, da parte di tali partiti, della denominazione di 'popolare' rispose tuttavia a criteri contrastanti e, per taluni aspetti, opposti. Nel caso del partito fondato all'inizio del 1919 in Italia, il termine 'popolare', almeno nelle intenzioni di Luigi Sturzo, equivaleva, in sostanza, a democratico, ma nello stesso tempo adombrava un modello istituzionale di democrazia diversa da quella liberale o socialista. In altri termini, il Partito Popolare Italiano, mentre faceva proprio in maniera incondizionata il 'metodo democratico', proponeva della democrazia una rappresentazione non individualistica né classista, desumendone un progetto istituzionale fondato sulla teoria dei corpi intermedi, sull'autonomismo a base regionale, sul contemperamento della rappresentanza individuale con quella dei corpi professionali, sulla libertà della Chiesa nel quadro di un più vasto sistema di libertà civili e religiose. La denominazione di popolare non era comunque un riferimento a un'indistinta entità collettiva, di natura mistica o ideologica, ma a un insieme di ceti sociali, in prevalenza intermedi, individuati da specifici interessi e aspirazioni, e unificati da un comune substrato etico-cristiano: principali elementi di differenziazione, nell'ottica sturziana, nei confronti della borghesia liberale e del proletariato socialista. Il partito era chiamato a tradurre in termini programmatici e di cultura politica le istanze di riforma che si erano profilate sin dalla fine dell'Ottocento in quel contesto sociale e religioso. L'adesione al metodo democratico e la prospettiva riformista dovevano funzionare come fattore discriminante tra i cattolici e come elemento di individuazione dei 'popolari' sia nei riguardi dell'Azione Cattolica d'impronta necessariamente universalistica, sia, a maggior ragione, della Chiesa: onde la definizione sturziana del partito come aconfessionale e programmatico. Ma tanto bastava a fare del Partito popolare un partito minoritario anche tra i cattolici, e a sollevare all'interno e all'esterno del partito il dissenso delle tendenze confessionalistiche, attirandogli l'accusa di criptoliberalismo: ragioni non ultime della spaccatura del partito di fronte all'offensiva fascista e poi del suo rapido declino. Nondimeno il popolarismo italiano restò come esempio di partito democratico a base cattolica e come canale di formazione di una classe politica cattolica e democratica. Esso non restò isolato e fu ripreso dal Partito sociale popolare spagnolo, spaccatosi a sua volta di fronte alla dittatura di Primo de Rivera; e dal Partito democratico popolare francese, rimasto schiacciato dalla polarizzazione destra-sinistra caratteristica della situazione politica di quel paese. Analogie con il popolarismo italiano presentarono altresì il Partito popolare ceco e due piccoli partiti polacchi.

Natura sostanzialmente diversa ebbero nel panorama postbellico europeo i partiti che, almeno in linea di principio, intendevano realizzare l'unità politica dei cattolici sul piano nazionale, e le cui radici avevano una diretta attinenza con i temi della 'difesa confessionale' (v. Mayeur, 1980, p. 149). Essi comprendevano, in genere, anche tendenze democratiche, ma non consideravano né potevano considerare l'adesione al metodo democratico una pregiudiziale o un fattore di identità. Infatti si definivano, in genere, o cattolici o cristiano-sociali; il loro richiamo al 'popolo' assumeva, specie nell'area centroeuropea, il senso del tradizionalismo corporativo romantico, dell'unione organica di tipo culturale-religioso concepita in contrapposizione ai principî della democrazia rappresentativa di modello occidentale. La loro adesione al metodo democratico risultava perciò largamente condizionata dal contesto politico-istituzionale in cui operavano, ma essi non si qualificavano principalmente per l'intento di acquisire ai rispettivi sistemi democratici le masse cattoliche. Ciò contribuisce a spiegare la deriva autoritaria, corporativa e nazionalista che interessò molte delle formazioni politiche cattoliche e la loro base popolare nel corso degli anni trenta, quando parvero profilarsi nuovi modelli di 'Stati cattolici', come quello portoghese o austriaco o spagnolo; ovvero il graduale spostamento verso destra del partito tedesco del Centro, a detrimento delle sue correnti democratiche e interconfessionali ch'erano state tra le protagoniste della costituzione e del sistema politico di Weimar.Di fatto, come già era avvenuto con il Partito Popolare Italiano di fronte al fascismo, le formazioni politiche espresse a qualunque titolo dai mondi cattolici nazionali disparvero dal panorama europeo (salvo sporadiche eccezioni) nel corso degli anni trenta, sia perché inglobate nei nuovi 'Stati cattolici', sia, a maggior ragione, perché dissolte dai sistemi totalitari o dittatoriali. Ma per altri aspetti l'esperienza totalitaria si rivelò un passaggio cruciale nel restituire attualità, anche nei contesti cattolici, alle idee di democrazia radicate nel cristianesimo. Nel crogiolo culturale del terzo e quarto decennio si profilarono taluni dei presupposti di natura dottrinale e teorica, nonché delle disposizioni etiche, che consentirono, già durante il secondo conflitto mondiale, di alimentare una più diffusa propensione dei mondi cattolici nazionali a far propri i metodi e i valori della democrazia politica.

L'exploit delle Democrazie cristiane nell'Europa postbellica

Una delle maggiori novità nel panorama dell'Europa occidentale postbellica fu il ruolo politico di primissimo piano assunto da partiti nazionali a base cattolica che si definivano democratico-cristiani o cristiano-democratici, o che, pur con altra denominazione, si collegavano ai precedenti movimenti politici di Democrazia cristiana. Un fenomeno così rilevante, i cui effetti investirono sia gli assetti costituzionali e istituzionali, sia il ricambio delle classi politiche, sia gli orientamenti interni e internazionali di molti Stati, attende tuttora di essere indagato a fondo nella sua globalità: esso fu determinato da un complesso intreccio di fattori di varia natura, ma convergenti.

In primo luogo va rilevato il profilarsi nel cattolicesimo europeo, a partire dagli anni trenta, di un flusso di tendenze culturali e spirituali che, sollecitate dal confronto con le dottrine totalitarie del comunismo, del fascismo e del nazionalsocialismo, inducevano a ripensare e in taluni casi a rifondare, nella prospettiva del pensiero cattolico, la questione della democrazia. Ciò accadeva nel contesto della più ampia e composita 'cultura della crisi' e di una lettura dell'età dei totalitarismi, e poi della seconda guerra mondiale, come momento conclusivo della civiltà moderna in quanto contrassegnata dal prevalere di sistemi di valori integralmente secolari, a cui si attribuivano gli esiti storici totalitari. In quest'ottica, segnata da tratti apocalittici, la fine di un intero ciclo di civiltà apriva gli orizzonti storici alla rinascita di una 'civiltà cristiana'. La principale, sebbene non univoca, connotazione di siffatte tendenze del pensiero cattolico era il ruolo da queste assegnato alle prerogative della 'persona', vista come centro dell'insieme dei diritti naturali in alternativa teorica e antropologica all'individualismo liberale e borghese, al collettivismo classista del socialismo, allo statalismo onnicomprensivo di tipo totalitario, e secondo modelli formalizzati a varie riprese nei cosiddetti 'codici sociali' cattolici. Le tesi personaliste, variamente configurate, consentivano un riesame, dal punto di vista cattolico, dei fondamenti teorici della democrazia. Per esempio, il personalismo di Jacques Maritain, definito in Humanisme intégral del 1936 e in Christianisme et démocratie del 1943, individuava nella democrazia politica la condizione, propria di una società moderna e profana, per la realizzazione di un progetto di 'nuova cristianità', strutturalmente diversa da quella medievale, in quanto mediata non direttamente dalla Chiesa istituzionale, ma dall'azione in campo politico e sociale dei laici credenti.

Da parte sua il magistero pontificio, a misura che si era venuto qualificando in senso antitotalitario, aveva posto le basi per un superamento della dottrina ecclesiastica concernente l'indifferenza della Chiesa nei confronti delle forme di governo, e aveva indicato, con i radiomessaggi natalizi di Pio XII in epoca bellica, l'intrinseca corrispondenza - in negativo - tra le ideologie oppressive dei diritti naturali e i regimi statolatrici, bellicisti e totalitari; e - in positivo - tra i sistemi politico-istituzionali aperti all'influenza e al controllo delle istanze popolari e un ordine di giustizia, interna e internazionale, radicato nei valori del cristianesimo. Sviluppando questo filo dottrinale, Pio XII aveva enunciato i tratti di una 'sana democrazia' popolare, contrapponendola alla democrazia di massa, e aveva mobilitato i cattolici a un'azione che investiva ormai in maniera diretta la sfera della politica, nella logica della ricostruzione di un ordine sociale, istituzionale e internazionale corrispondente ai principî cristiani e del diritto naturale, secondo l'insegnamento della Chiesa. In realtà, né il rinnovamento culturale cattolico, né la dottrina ecclesiastica, percorsa da tendenze molteplici e talora contraddittorie, contenevano come applicazione necessaria la figura del partito democratico d'ispirazione cristiana: si limitavano a renderlo possibile, nel senso di una sua definitiva legittimazione nella cornice dell'ortodossia e dell'ortoprassi cattolica.

Altri fattori più concreti spingevano, peraltro, in un'analoga direzione: il ruolo assunto dalle istituzioni ecclesiastiche nel collasso delle istituzioni statali in molte aree europee durante la guerra e nell'immediato dopoguerra, e quello di settori non più marginali dei mondi cattolici nazionali nei movimenti di liberazione e di resistenza; le attese diffuse di un nuovo ordine postbellico, che implicava una cesura nei riguardi dell'ordine prebellico e dell'ordine liberale, dal punto di vista economico-sociale e politico-istituzionale; gli effetti multiformi della vittoria bellica e poi delle nuove egemonie internazionali fondate, da un lato, su uno Stato democratico di modello anglosassone (nella cui tradizione politica e civile le radici cristiane erano ben più marcate che nella tradizione democratica continentale) e dall'altro su uno Stato comunista, portatore di un'ideologia antireligiosa: ragione non secondaria del prevalere della curvatura democratica nell'opinione cattolica europea occidentale, anche in senso schiettamente anticomunista.

Di fatto la nascita e gli sviluppi postbellici dei partiti democratico-cristiani seguirono traiettorie diverse, condizionate dalla situazione e dalla storia delle diverse nazioni europee, così come varie furono la fisionomia delle singole formazioni politiche a denominazione cristiana e la parabola della loro evoluzione. In generale esse poterono utilizzare un consenso assai più ampio, rispetto a quello dei partiti popolari del primo dopoguerra, nei rispettivi mondi cattolici e da parte della Chiesa istituzionale, proprio per il fatto che, in qualche misura, unificarono in sé sia il modello di partito cattolico sia il modello di partito democratico a base cattolica. In tal senso le Democrazie cristiane, a differenza dei partiti popolari, usufruirono dei processi di democratizzazione dei mondi cattolici nazionali e nello stesso tempo agirono come strumento di tali processi. Ma per le stesse ragioni, e segnatamente in Italia, i nuovi partiti democraticocristiani, che anche nel nuovo nome rimarcavano le proprie radici religiose, pagarono un prezzo maggiore al sostegno loro accordato da parte della Chiesa o delle organizzazioni di Azione Cattolica o similari, sicché il loro grado di effettiva autonomia politica fu tendenzialmente più ridotto di quello dei vecchi partiti popolari, con la vistosa eccezione dell'Unione cristiano-democratica tedesca (CDU) in cui prevalse la linea dell'interconfessionalismo. D'altra parte, il fatto che tali partiti, grazie al loro interclassismo e al loro proporsi come barriera anticomunista, raccogliessero un seguito, più o meno ampio secondo le circostanze, negli strati sociali che prima della guerra avevano costituito il nerbo dei partiti moderati costituì un limite obiettivo ai loro programmi di riforma ispirati alla dottrina sociale cattolica, riletta alla luce delle esperienze storiche e culturali del welfare, ma fu anche un contrappeso alle spinte clericali. Sotto questo profilo i tre principali partiti europei a denominazione cristiana, la Democrazia Cristiana italiana, l'Unione cristiano-democratica della Germania Federale e il Movimento repubblicano popolare francese, si caratterizzarono in maniera divergente, ma trovarono invece un solido punto di raccordo e di identificazione sovranazionale nella politica europeistica di cui furono convinti e attivi promotori, sotto la leadership dell'italiano Alcide De Gasperi, del tedesco Konrad Adenauer e del francese Robert Schuman.

In termini generali si deve constatare che l'emergere, pur tardivo rispetto alle origini, della Democrazia cristiana in forma di partito ha rappresentato nell'Europa continentale la modalità storica più diffusa e significativa dell'accesso di vaste aree cattoliche, sociali e d'opinione, alla democrazia politica e della loro partecipazione attiva alla vita degli Stati, che ne sono risultati, per così dire, riplasmati rispetto ai modelli democratici di origini rivoluzionarie. Difficile dire se, e fino a che punto, si sia con ciò realizzato l'auspicio di Tocqueville: constatabili invece sono, con l'eccezione del caso francese (dove il Movimento repubblicano popolare si è estinto nel 1967, dopo essere stato svuotato dal gollismo), la capacità di durata e la forza espansiva del modello di partito democratico-cristiano, del quale si intravvedono i sintomi di un rilancio nelle aree cattoliche dell'America Latina (dove la Democrazia cristiana ha già governato a diverse riprese in Cile) e in vari paesi dell'Europa orientale usciti nel 1989 dai regimi di socialismo reale. L'Unione internazionale democratico-cristiana, organo di collegamento internazionale, è giunta a raccogliere più di sessanta partiti e movimenti, di governo, di opposizione e, in taluni casi, clandestini; e nel Parlamento d'Europa il raggruppamento denominato Partito popolare europeo, composto per la maggior parte da eletti nelle liste democratico-cristiane o cristiano-democratiche nazionali, è il secondo come numero di rappresentanti, e si colloca a non molta distanza dal raggruppamento socialista maggioritario.

(V. anche Partiti politici).

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