DEMOCRAZIA CRISTIANA

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1948)

DEMOCRAZIA CRISTIANA

Luigi STURZO

. Sia come elaborazione teorica sia come realizzazione pratica, la Democrazia cristiana è dentro il quadro della democrazia moderna quale fu definita da Th. Jefferson: "governo di popolo, dal popolo e per il popolo".

Alla parola "popolo" nel concetto di democrazia è dato il significato della totalità dei cittadini resi uguali dinanzi alla legge e resi egualmente capaci dei diritti politici. All'epoca delle rivoluzioni del secolo decimottavo, la parola popolo indicò l'opposto delle classi privilegiate e delle gerarchie politiche che caratterizzavano la società feudale e quella dell'ancien régime.

La partecipazione completa del popolo alla politica di un paese è stata storicamente una conquista lenta e spesso contrastata; solo da poco si è arrivati, e non in tutti i paesi a regime democratico, al suffragio universale dei maggiorenni di ambo i sessi. Ma la nozione di popolo come universalità di cittadini è sempre implicita in quella di democrazia, anche se nella concretizzazione degli istituti politici di un dato paese non si sia arrivati ancora alla identità numerica fra popolo politico e cittadini maggiorenni. Dal punto di vista sociologico le differenze dipendono dalla incompletezza e dalla dinamicità nella formazione della coscienza collettiva la quale, nella sua espressione politica, comprende anche i cittadini non elettori solo quando questi ultimi, nell'affermare i loro diritti, non escludono che gli elettori in atto li possano realmente rappresentare.

Connessa alla nozione di popolo, nella democrazia moderna, è quella di rappresentanza elettiva per lo più a tipo parlamentare, insieme con quella di governo responsabile direttamente verso le assemblee elette e, mediatamente, verso il popolo. Simile struttura politica esige per sussistere le garanzie di libertà, per lo più precisate in libertà di opinione, di parola e stampa, di riunione e di voto. Qualunque sia la struttura politica nella quale si concretizza una democrazia, senza le libertà politiche essa sarebbe vuota di realtà, democrazia nominale o piuttosto pseudo democrazia, perché mancherebbe di anima, che le viene soltanto dalla libera partecipazione del popolo come liberi individui formanti una volontà collettiva.

Queste premesse valgono per ogni regime democratico, compresa quindi la democrazia cristiana, la quale non si differenzia per il carattere schematico della struttura politica, ma per il contenuto della volontà popolare che agisce nello schema del quadro politico.

La qualifica di "cristiana" apposta a democrazia appartiene al contenuto della volontà popolare e non è quindi una specificazione di democrazia nel senso che si tratti di una democrazia a tipo religioso.

Se la forma democratica di governo di popolo si è potuta introdurre nel mondo, ciò è avvenuto per una maturazione secolare dei valori cristiani inseriti nella società. L'unica democrazia antica, quella ateniese, e certi elementi democratici della struttura romana, rappresentavano solo il tentativo di democratizzazione della classe dominante, mentre una parte dei lavoratori, tenuta schiava, era tagliata fuori da siffatte società privilegiate; senza la partecipazione completa dei lavoratori non c'è vera democrazia. Il Cristianesimo, elevando il lavoratore a fratello, ha preparato il passaggio dallo schiavo al cittadino; ogni democrazia moderna ha qui la sua radice.

La qualifica di cristiana data a democrazia ebbe originariamente un carattere polemico, per contrapporla alla democrazia della rivoluzione francese presentata come un regime non solo laico e naturalistico ma negatore, in parte, dei valori tradizionali del Cristianesimo. Ebbe anche un significato polemico per quei cattolici del periodo della Restaurazione che ritenevano il Cristianesimo legato ai regimi monarchici assolutisti; nonché per controbattere le affermazioni del socialismo del secolo scorso che la Chiesa fosse dal lato delle classi privilegiate. Questi dati polemici accompagnavano un'affermazione sostanziale del pensiero dei cattolici democratici, cioè che la vera democrazia dovrebbe avere carattere sociale.

Quel "sociale" è un aggettivo che va assumendo significati sempre più pregnanti, dal giorno in cui i cattolici, rifiutando la qualifica di "socialisti" perché già presa da un partito che si era dichiarato marxista, avevano accettato l'aggettivo "sociale" per indicare il loro interessamento ai problemi delle classi lavoratrici. Come si parlava mezzo secolo fa di questione sociale, così si parlò anche di cattolicesimo sociale e simili. Democrazia cristiana significò, per i cattolici democratici, non soltanto una democrazia basata sui valori morali della civiltà cristiana, ma una democrazia in cui i lavoratori fossero non solo elettori (si era verso la fine del secolo decimonono e il suffragio universale maschile era ancora largamente avversato), ma economicamente protetti da leggi sociali e messi in condizione di parità con i datori di lavoro per mezzo dei loro sindacati riconosciuti e legalizzati.

Mentre l'azione socialista a tipo marxista si è andata svolgendo sulla lotta di classe, sia come concezione dinamica della società, sia come metodo organizzativo, l'azione democratica cristiana ha avuto per concezione fondamentale la cooperazione fra le classi ed ha ammessa la lotta solo come fatto contingente, non mai come metodo generale per un conflitto insanabile con un avversario da eliminare. Il finalismo dei due movimenti è stato opposto, mentre il marxista mira alla formazione di una società senza distinzione di classi e a carattere collettivista, il democratico cristiano tende a una società libera, nella coesistenza delle classi in un'armonia sociale basata sulla giustizia dei rapporti economici. Dati, però, i contrasti di bene e di male inerenti all'uomo, è impossibile concepire una società definitivamente stabilizzata; la soluzione di un problema crea sempre nuovi problemi; l'eliminazione di un contrasto, altri ne produce.

Nelle polemiche che destò verso la fine del secolo scorso il movimento democratico cristiano in Italia, in Francia e nel Belgio si delineò fra i cattolici una netta opposizione per la democrazia politica. Allora in Europa, di stati democratici, non esisteva che la Svizzera; in Inghilterra mai si parlò di democrazia avanti la prima Guerra mondiale; l'Italia andava provando i governi di reazione e gli stati di assedio; la Francia difendeva le istituzioni repubblicane con la persecuzione contro le scuole libere e le congregazioni religiose; nessuna reale tendenza verso la democrazia nell'Europa centrale; i paesi scandinavi erano usciti da poco da regimi paternalisti. In queste condizioni sembrava audace l'affermazione dei cattolici a favore di una democrazia politica qualificata come cristiana, tanto più che i cattolici italiani sottoposti al non expedit non potevano partecipare direttamente alla vita politica. Fu in questo clima che Leone XIII (enciclica Graves de communi, gennaio 1901) pur ammettendo che cattolici si appellassero democratici cristiani, precisò che il significato veniva limitato da un'azione sociale a favore del popolo ispirata agli insegnamenti della Chiesa e nel quadro delle organizzazioni e delle attività cattoliche.

Il documento leoniano segnò un punto di arresto per la democrazia cristiana e diede luogo a successive revisioni di programma e di posizioni, fino a che si poté riprendere l'organizzazione sindacale. Solo nel 1918 fu formata in Italia la Confederazione italiana dei lavoratori che in due anni raggiunse il milione di aderenti e arrivò nel 1921 a un milione e duecentomila. Verso la fine del 1918 da un gruppo di promotori fu deliberata la costituzione del Partito popolare italiano con programma democratico cristiano; questo fu reso pubblico il 18 gennaio 1919. A poca distanza furono creati partiti consimili che presero il nome di popolare o popolare democratico in Cecoslovacchia, Iugoslavia, Polonia, Lituania, Baviera; in Spagna nel 1920, in Francia nel 1924. In Austria e in Ungheria si ricostituirono nel 1920 a base democratica i partiti cristiano-sociali già esistenti nei parlamenti dell'impero. L'antico partito cattolico belga costituì nel 1919 una sinistra con la Lega democratica; quello cattolico di Olanda accentuò il carattere sociale pur non volendo prendere il nome di democratico; così anche quello del Lussemburgo; il partito conservatore della Svizzera si orientò più decisamente verso la tendenza sociale (nel Canton Ticino conservò la denominazione di Democrazia cristiana), pur mantenendosi nello equilibrato orientamento dei partiti tradizionali di governo. Recentemente ha preso il nome di Partito cattolico popolare.

Nel 1925 si costituì a Parigi un segretariato internazionale dei partiti democratici d'ispirazione cristiana che durò fino al luglio 1939.

Nel 1931 si costituì a Londra il Gruppo di popolo e libertà; questo promosse nel 1940 la costituzione dell'Unione internazionale democratica cristiana, che durò fino al 1945. Altre formazioni si ebbero negli S.U. (Gruppi di popolo e libertà), nell'Argentina e nel Brasile. Nell'Uruguay e nel Chile i partiti d'ispirazione democratica cristiana hanno già un loro nome e una loro storia.

Le confederazioni sindacali cristiane dei varî paesi europei formarono nel 1919 una Confederazione internazionale cristiana con sede a Utrecht in Olanda; questa ebbe a Ginevra, nell'ufficio internazionale del lavoro, una costante rappresentanza.

Dopo la seconda Guerra mondiale i partiti democristiani hanno preso una posizione eminente nella politica europea, specialmente in Italia (v. appresso) e in Francia; si sono affermati anche in Germania e in Austria per quel che consente lo stato di occupazione alleata. Fino a che non prese il sopravvento il comunismo in Ungheria e in Cecoslovacchia, i partiti popolari sopravvissero. Il partito cattolico belga si chiamò partito sociale cristiano, modificando programma, orientamenti e quadri. Altre modifiche a tendenza sociale si ebbero in Olanda e Lussemburgo.

Varie sono state le riunioni internazionali dal 1946 in poi per un'intesa di partiti da un lato e un'intesa di organizzazioni a tipo sociale dall'altro. Le relative organizzazioni sono in sviluppo con alcuni centri attuali in Francia e in Svizzera.

Il partito della democrazia cristiana.

È la prosecuzione, sotto altra denominazione, ma con sostanziale identità di ideali, di programmi, di simboli e, in molta parte, anche di dirigenti, del Partito popolare italiano (v.), che don L. Sturzo aveva fondato nel gennaio 1919 e al quale, come ad ogni altro partito, il governo fascista, dopo il colpo di stato del 3 gennaio 1925, dopo il fallimento dell'opposizione aventiniana, aveva reso la vita impossibile. Il PPI non poté, per la sua stessa natura di partito non rivoluzionario, a differenza dal Partito comunista, sopravvivere come organizzazione clandestina. Una parte, ma non la maggiore, dei suoi dirigenti aderì al Fascismo; altra si tenne in disparte e subì anche persecuzioni dal Governo fascista, come l'ultimo presidente del gruppo parlamentare, on. A. De Gasperi. In genere, si può dire che gli elementi più ardentemente e attivamente cattolici si strinsero ora piuttosto attorno ad organizzazioni facenti professione di estraneità alla politica, come l'Azione cattolica italiana e, se giovani intellettuali, alla FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana); di fronte al Partito nazionale fascista, anche se ad esso formalmente iscritti, si mantennero piuttosto passivi e spiritualmente vigilanti; atteggiamento che subì degli alti e bassi, a seconda che la coscienza cattolica reagiva a certi eventi in un periodo che vide la Conciliazione e il Concordato con la Santa Sede (1929), ma anche un aspro contrasto del Pontefice col fascismo circa l'Azione cattolica (1931); la spedizione di Etiopia, la partecipazione alla guerra civile di Spagna, ma anche l'alleanza del fascismo col nazismo pagano e l'adozione del razzismo (1938) e infine la seconda Guerra mondiale. Via via che la "guerra fascista" volgeva a catastrofe e i vecchi partiti rinascevano dalle ceneri e, occultamente ancora, riannodavano le file, anche vecchi dirigenti del PPI come A. De Gasperi, G. Rodinò, G. Gronchi, G. Micheli, S. Iacini, A. Grandi, ecc., ai quali intanto si erano aggiunte nuove leve di giovani, come G. Gonella, M. Scelba, G. Andreotti, ecc., riprendevano l'organizzazione; sicché la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e poi l'occupazione tedesca ed alleata trovarono il nuovo partito, battezzato significativamente, con l'accento sul carattere sociale-liberale di esso, "Democrazia cristiana", già più che in embrione. Presente autorevolmente, fino dagli inizî, nei CLN, sia nell'Italia liberata, sia nell'Italia occupata dai nazi-fascisti, partecipò lì agli eventi che portarono alla formazione del primo governo di Brindisi (aprile 1944); qui alla resistenza partigiana, anche con proprie formazioni, specialmente fra Emilia e Liguria, nella Lombardia e nel Veneto, dando un contributo di ardimenti e di sangue che si aggira su 60.000 partigiani in armi e circa 2.000 uccisi. La riorganizzazione della D.C. fece rapidissimi passi: al tempo del primo congresso nazionale del partito a Roma (24-28 aprile 1946) gli iscritti erano 1.054.000, di cui 253.000 donne: cifra notevole ma inferiore a quelle vantate da altri partiti e molto inferiore anche al numero effettivo dei seguaci del partito, come dimostrarono le elezioni del 2 giugno 1946. Il nuovo partito, ispirandosi agli ideali della vita cristiana, alla saldezza e sanità della famiglia, ai diritti di essa sull'educazione dei figli, ecc., mentre si sentiva finalmente sciolto dalla "Questione romana" che tanto aveva gravato in passato sulla vita politica dei cattolici italiani, ereditava i problemi e le soluzioni che erano stati del PPI: rappresentanza proporzionale, voto alle donne, regionalismo, problemi della proprietà e del lavoro; ma si trovava anche di fronte a un problema nuovo: quello istituzionale. Il partito lo affrontò senza che esso divenisse motivo di scissione: nel ricordato Congresso di Roma una larghissima maggioranza di quasi 3/4 si pronunziò per la soluzione repubblicana. E benché il voto non si potesse considerare impegnativo per gli iscritti, ai quali si lasciava libertà di esprimersi secondo coscienza, non è dubbio che quella preferenza contribuì non poco a dare il tracollo alla monarchia nel referendum del 2 giugno 1946, come risulta dal fatto che in molte circoscrizioni (per esempio nella Venezia Tridentina) votazioni altissime per la D. C. si accompagnarono con votazioni altissime per la repubblica. Nei lunghi dibattiti sulla carta istituzionale, la D. C. si impegnò ardentemente per l'affermazione dei principî fondamentali dell'etica c ristiana (indissolubilità del matrimonio, libertà di insegnamento, ecc.). Riuscì assai spesso a imporre il proprio punto di vista, talora anche, occasionalmente, con l'appoggio del Partito comunista (p. es. sull'art. 7 relativo ai Patti Lateranensi), per il peso che il gruppo D. C. rappresentava nella Costituente (207 deputati) e che aveva fatto sì che la Democrazia cristiana fosse non solo sempre presente, con ministri suoi, in tutti i gabinetti formatisi dall'aprile 1944 in poi, ma con peso ognor crescente, sia per il polverizzarsi di partiti minori già ritenuti, erroneamente, molto efficienti prima della consultazione elettorale, sia per le scissioni nel Partito socialista; finché si giunse al 4° ministero De Gasperi (maggio-dicembre 1947) composto quasi esclusivamente di democratici cristiani (11 su 15): si venne, cioè, delineando la posizione della Democrazia cristiana in antitesi ai partiti di estrema destra, ma specialmente di estrema sinistra. Perciò nelle elezioni del 18 aprile 1948, anche in relazione alla situazione internazionale e all'adesione dell'Italia al piano Marshall, la D. C. si presentò come il partito o piuttosto blocco (benché presentasse dappertutto liste proprie, non in alleanza con altri partiti) suscettibile di raccogliere i voti di ouanti non seguivano il Fronte democratico popolare, capeggiato dal Partito comunista, né aderivano alle ideologie del "terzo partito" (più o meno rappresentato dal Partito repubblicano, dal P.S.L.I. e, in parte, dal Partito liberale) o anche aderendovi, temevano di sperperare il loro voto, dandolo a partiti intermedî di dubbia efficenza, mentre i veri termini della lotta erano, secondo essi ritenevano, Occidente ed Oriente e il complesso di sentimenti, di idee, di interessi che quei due nomi simboleggiavano. Così nelle elezioni del 18 aprile 1948 la D. C. ha raccolto un numero di voti certamente di non poco superiore a quello rappresentato dai suoi seguaci e militanti, cioè aderenti in tutto al programma democratico cristiano. Questa semplicizzazione della consultazione elettorale ha dato alla D. C. 306 deputati, la maggioranza assoluta (53,4%) alla Camera, e la maggioranza relativa, 148 senatori (43%) al Senato. Come in ogni partito, se l'intesa vige sulla linea generale e, si potrebbe dire nel caso della D.C., sul sentimento cristiano della vita, non è poi detto che anche nella D. C. non vi siano divergenze di accentuazione e di metodo. Vi si delineano tre tendenze in rapporto specialmente al programma sociale del partito, tre gradi di sensibilità ai problemi soprattutto sociali della vita aggregata: una tendenza più conservatrice di destra (S. Jacini, F. M. Dominedò, ecc.); una di sinistra rappresentata principalmente da elementi vicini alla vita sindacale cristiana (G. Dossetti, G. Lazzati, G. Rapelli, A. Fanfani, R. Cappugi, ecc.) e una di centro (De Gasperi, A. Piccioni, ecc.) che finora si è affermata come la più forte, anche di fronte a quella di sinistra, che recentemente ha posto termine alla convivenza con comunisti e socialisti nella Confederazione generale del lavoro, separandosene e dando vita ad autonomi sindacati cristiani.

TAG

Confederazione generale del lavoro

Partito nazionale fascista

Partito popolare italiano

Seconda guerra mondiale

Prima guerra mondiale