DELBERJIN

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

DILBERJIN

A. Santoro

Località dell'antica Battriana, situata 40 km a NO di Balkh (Afghanistan), ove è stato rinvenuto un vasto impianto urbano fondato in epoca greco-battriana (III-II sec. a.C.), giunto al suo apogeo sotto i Kuṣāṇa (I-III sec. d.C.) e abbandonato dopo l'invasione eftalita (V sec. d.C.).

Sistematiche campagne di scavo, condotte dal 1970 al 1977 dalla Spedizione Archeologica Afghano-Sovietica diretta da I. T. Kruglikova, hanno consentito di ricostruire la fisionomia d'insieme del sito che, fra l'altro, ha restituito una serie di pitture murali che non solo forniscono le più antiche testimonianze della produzione pittorica centroasiatica, ma permettono anche di seguirne l'evoluzione dal II-I sec. a.C. al V sec. d.C.

La città di D. ha una pianta approssimativamente quadrata (383 x 393 m), definita e difesa da una possente cinta muraria, spessa da 3 a 5 m, rinforzata con bastioni e torri rettangolari e dotata di gallerie percorribili. L'accesso principale è collocato sul lato S (D VIII), e presenta un sistema di fortificazioni modificate e potenziate più volte nella lunga vita del sito. Altri accessi secondari erano collocati sui lati O e N.

Al centro dello spazio delimitato dalla cinta muraria si eleva, su una piattaforma di pakhsā (argilla mista a: paglia, pressata), una cittadella di pianta circolare, difesa da un fossato e da un muro rinforzato con torri.

All'interno della cittadella sono stati scavati due quartieri di abitazione (S II e S III) risalenti al periodo più tardo.

Fra le mura e la cittadella gli scavi finora effettuati hanno portato alla luce nella zona NE un tempio (D I) e un tratto delle fortificazioni con un complesso religioso (D II); nella zona O un edificio abitativo (D III) e uno cultuale (D X); nella zona S una porta fortificata e un tempio (D VIII). Fuori delle mura a S sono state rinvenute due case (D V e D VII), un santuario buddhista (D VI) e un mausoleo (D IX).

Nel suo insieme la concezione urbanistica rivelata dagli scavi di D. presenta tratti profondamente diversi da quelli ellenistici: all'interno della cinta muraria erano collocati per lo più edifici religiosi e pubblici, laddove le abitazioni, una delle quali assai imponente, si elevavano nelle immediate vicinanze della città, senza alcuna difesa. Ugualmente lontana dai modelli classici è la cittadella che, con il suo impianto circolare, sembra piuttosto ispirarsi alle strutture difensive centroasiatiche di cui le più antiche testimonianze risalgono all'Età del Bronzo.

Fra i numerosi resti l'attenzione degli archeologi è stata particolarmente attratta dal «Tempio dei Dioscuri» (D I), di cui sono stati completati non solo lo scavo ma anche lo studio analitico (I. T. Kruglikova, 1986).

Nella lunga vita del santuario la Kruglikova riconosce cinque fasi, distinte per alterazioni di pianta e variazione di culto, seguite da una fase di secondaria. Tale ricostruzione però, così come la collocazione cronologica dei diversi periodi, non è universalmente accettata. L'impianto originario comprendeva una cella cinta su tre lati da corridoi e preceduta, sulla facciata, da due stanze che si aprivano sul cortile che cingeva ai lati e anteriormente il tempio. Nella seconda fase (I sec. d.C.) la cella originaria diviene il vestibolo di accesso alla nuova cella, costruita ingrandendo il corridoio posteriore. Nella terza fase, databile all'epoca di Kaniṣka (v. KUṢĀṆA, arte), il tempio viene ampliato e circondato su tutti i lati da una sorta di corridoio che termina anteriormente con due locali cui si accede dalla facciata. A questa fase sono attribuibili i resti di un'iscrizione monumentale su blocco di marmo, in lingua battriana scritta con caratteri greci, il cui testo è troppo frammentario per poter essere interpretato. Nella quarta e nella quinta fase (datate dalla Kruglikova al III-IV sec. d.C.) la pianta del tempio non presenta sostanziali alterazioni, ma il livello della pavimentazione viene innalzato al punto che per accedere alla cella si rendono necessari degli scalini. In epoca eftalita infine (V sec. d.C.) il santuario perde la sua funzione religiosa e alcuni dei locali vengono adibiti ad abitazione.

Il tempio, costruito in mattoni crudi, ha restituito frammenti di statue d'argilla appartenenti alla terza e alla quinta fase. Più numerosi e in migliori condizioni i resti di pittura parietale. I più antichi, risalenti per la Kruglikova al periodo compreso fra il II e il I sec. a.C., erano collocati ai lati dell'accesso alla cella. Si tratta di due figure maschili, nude a eccezione di un mantello e di un berretto «frigio», che tengono in mano le briglie di due cavalli bianchi. Il fondo della pittura è rosa, il corpo dei due giovani è rosso scuro, i mantelli sono bordati da una fascia nera. Al di sopra delle due figure corre un fregio di cui restano solo pochi frammenti (gambe di puttini?). Iconograficamente l'immagine richiama da vicino le raffigurazioni numismatiche greco-battriane dei Dioscuri. I. T. Kruglikova, pur con alcune cautele, propone di identificare i due giovani protettori della soglia con i divini gemelli della tradizione greca e avanza l'ipotesi che, nella prima fase di vita del tempio, l'edificio fosse loro consacrato. Ma non è improbabile (P. Bernard, 1987) che i Dioscuri fossero divinità secondarie del tempio, come sembra suggerire la collocazione della loro immagine all'ingresso della cella. Qualunque fosse la destinazione cultuale della fase più antica, la pittura con i Dioscuri costituisce, a tutt'oggi, la più antica testimonianza pittorica dell'Asia centrale.

Altri resti pittorici, collocati sulla parete O della cella e raffiguranti la coppia Śiva-Pārvatī, sono attribuiti dalla Kruglikova alla terza o quarta fase di vita del tempio (III sec. d.C.): tuttavia la tipologia della composizione, assai lontana dalle immagini šivaite di epoca kuṣāṇa e paragonabile solo con iconografie indiane di epoca assai più tarda, suggerirebbe una data più bassa.

Il dio Śiva è raffigurato assiso insieme alla sua compagna Pārvatī, sul dorso del toro Nandi, abituale vāhana («veicolo») del dio nella iconografia indiana. La coppia è affiancata a destra da un personaggio maschile, di notevole altezza, abbigliato con il tipico costume centroasiatico (pantaloni e caftano): a sinistra rimangono tracce di una figura simile. In basso la composizione è completata da quattro personaggi di proporzioni ridotte. La gamma cromatica è notevolmente più ricca di quella attestata nella rappresentazione dei Dioscuri: al fondo rosso vivo e al bianco e giallo si aggiunge qui il blu (abito di Śiva, collare del toro). L'importanza di Śiva all'epoca di Väsudeva era già nota dalle testimonianze numismatiche: la pittura di D. conferma la diffusione del suo culto in epoca kuṣāṇa in zone geografiche ben lontane dall'India. Non è necessario supporre, come fa la Kruglikova (1976, 1986), che Śiva fosse adorato come divinità secondaria inserita nel buddhismo: assai più ragionevole è l'ipotesi di P. Bernard (1979, 1987) che il «Tempio dei Dioscuri» fosse, già in epoca kuṣāṇa, divenuto un tempio dedicato a Śiva.

L'angolo NE della città venne modificato, nel I-II sec. d.C., aggiungendo al muro di fortificazione un insieme di ambienti con funzioni cultuali. È da questo complesso che provengono altri resti di pitture parietali, che coprono cronologicamente il periodo compreso fra il III e il V sec. d.C.

Fra le immagini merita di essere ricordata la composizione collocata sul muro di fondo dell'ambiente 12, giunta a noi in discrete condizioni e databile al IV-V sec. d.C. Il pannello è dominato al centro dalla raffigurazione di una divinità femminile seduta, a ginocchia divaricate, su un trono, vestita con tunica, caftano e mantello; il capo, ricoperto da un elmo, è cinto da un alone; la mano sinistra poggia su un piccolo scudo, nella destra rimangono le tracce di uno specchio. La affiancano tre figure, due maschili e una femminile (?) di minori proporzioni; in basso a destra è una figuretta di proporzioni miniaturizzate. Tecnicamente la pittura è realizzata preparando la parte centrale (quella su cui è raffigurata la divinità) con un fondo bianco; la gamma cromatica comprende rosa, rosso, giallo, blu, marrone e nero. Quanto alla identificazione della dea, che iconograficamente presenta una combinazione di elementi greci e iranici (I. T. Kruglikova, 1974 e 1976; P. Bernard, 1979), non è improbabile che in essa si esprima, attraverso i due attributi (scudo e specchio), la duplice funzione di divinità protettrice della giustizia e dispensatrice di bellezza (F. Grenet, 1987).

Da altri locali dello stesso complesso cultuale provengono numerosi frammenti, grazie ai quali è possibile delineare le linee di evoluzione della scuola pittorica di D. per il periodo compreso fra il III e il V sec. d.C. In particolare i resti dell'ambiente 16 permettono di ricostruire tre fasi, differenziate tecnicamente, per soggetto e composizione. Mentre la prima fase è documentata solo da pochi e poveri frammenti, la seconda (III-IV sec. d.C.) è assai meglio conservata, tanto che è stato possibile ricostruire almeno in parte il soggetto. Si tratta di un gruppo di donatori, variamente atteggiati (stanti, assisi, recumbenti), disposti in due file sovrapposte: i costumi, tutti tipicamente centroasiatici, sono resi con una cura minuziosa dei dettagli. Assai ricca la gamma cromatica, che fa uso abbondante del blu. Nell'ultima fase, testimoniata anch'essa da numerosi frammenti, il blu scompare totalmente e la tavolozza si restringe al rosso, bianco, nero e giallo. Quanto al soggetto, il centro della composizione doveva essere costituito da una figura in trono (divina o regale) e da un secondo personaggio assiso su un uccello - entrambe le immagini sono pervenute in condizioni frammentarie - vicino ai quali sono rappresentati numerosi personaggi maschili inginocchiati a offrire libagioni.

La ricca produzione pittorica di D. costituisce senza dubbio il motivo di maggior interesse del sito: ma non è certo il solo. Ugualmente eccezionale è l'arricchimento delle conoscenze per quel che riguarda l'architettura dell'Asia centrale. Nell'ambiente centrale della cisterna della casa patrizia D V, collocata come si è detto fuori le mura, sono stati trovati i resti di una copertura a cupola, del tipo detto balkhi, di cui gli esempi più antichi conosciuti risalivano all'XI-XII sec. d.C.

Un'interessante testimonianza della presenza del buddhismo è offerta dal santuario D VI, collocato fuori le mura della città. Si tratta di un edificio a pianta rettangolare nel cui ambiente centrale rimangono i resti di uno stūpa con basamento quadrato. Le pareti del santuario erano decorate da pitture, di cui rimangono solo poverissime tracce; resti di una statua raffigurante il Buddha provengono dall'ambiente con lo stūpa.

I diversi edifici cultuali e le immagini di divinità provenienti da D. testimoniano la complessità del panorama religioso della Battriana in epoca kuṣāṇa. Un panorama in cui trovano collocazione non solo il buddhismo e culti locali connessi con il mondo iranico, ma anche divinità rigorosamente indiane come Śiva. A conferma e completamento della composita realtà cultuale merita di essere ricordato un santuario dedicato a Eracle (o a una divinità locale a lui assimilabile) inserito in uno dei due bastioni che difendevano la porta d'accesso S (D VIII). Qui, collocata entro una nicchia, è stata ritrovata la statua in terra cruda policroma di una divinità maschile acefala, nuda, raffigurata con il braccio poggiato sulla clava, secondo un modello iconografico ben noto nella tradizione classica e più volte riproposto nella numismatica greco-battriana e kuṣāṇa. Sotto i resti della statua sono stati trovati i piedi di una più antica immagine: in uno di essi è stata rinvenuta una moneta di Vāsudeva (v. KUṢĀṆA, arte), che fornisce così un prezioso terminus post quem per la datazione del secondo Eracle, collocabile nel III-IV sec. d.C. L'immagine di Eracle, collocata non a caso presso la porta d'accesso alla città quale protettore, testimonia la persistenza nei secoli della componente greca.

Nella storia delle scoperte archeologiche della Battriana greca e kuṣāṇa D. occupa un posto di eccezionale importanza, sia per le preziose indicazioni relative alla persistenza e coesistenza di correnti e tendenze religiose di diversa origine, sia perché fornisce non solo la più antica testimonianza di una scuola di pittura centroasiatica, ma permette anche di seguire l'evoluzione tecnica, compositiva e di soggetto di questa stessa scuola, colmando così, e non solo cronologicamente, il vuoto sul quale si ergevano i grandi capolavori della pittura della Sogdiana e dei centri della «via della seta».

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