Deh peregrini che pensosi andate

Enciclopedia Dantesca (1970)

Deh peregrini che pensosi andate

Eugenio Chiarini

. Sonetto del cap. XL della Vita Nuova, introdotto da una razo che ne precisa l'occasione e il sentimento e indica altresì il processo di trasposizione fantastica che diede forma di apostrofe ai pensieri del poeta. L'occasione è l'incontro a Firenze, in lutto per la morte di Beatrice, di alquanti pellegrini in viaggio verso Roma per vedere quella imagine benedetta [la Veronica] la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura (§ 1). Apparivano assorti, indifferenti al lutto de la dolorosa cittade (§ 3).Il poeta se ne meraviglia: gli par " che tutti dovessero conoscere la sua sventura, anzi la sventura della città, e, conoscendola, gli pare impossibile che non si pianga " (De Sanctis).

Di certo, pensa, piangerebbero essi pure se io li potesse tenere alquanto e dir loro parole di quella gentile. Ed ecco il ricorso all'apostrofe: Onde, passati costoro da la mia veduta, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avesse parlato a loro (§ 4; per analoghe ‛ trasposizioni ' v. Vn XIV 10, XXII 7-8; e per il ricorso all'apostrofe - che è, scrisse l'Auerbach, l'" espressione naturale della pienezza del suo spirito ", un " invito alla comunanza dell'intimo essere " che sempre avvince " con l'inaudita forza di suggestione della sua voce " -, vedi, si può dire, tutta l'opera di Dante).

Il testo critico è quello curato dal Barbi nella sua ultima revisione (1932): attendibile sia riguardo all'interpunzione della fronte, sia per le voci restaste e uscireste ai vv. 9 e 11, contese in edizioni antiche e recenti da restate e uscirete (del Barbi stesso, 1921; del Sapegno, 1931; di Barbi-Maggini, 1956) o restate e uscireste (in D.A., Tutte le opere, a c. di L. Blasucci, Firenze 1965).

Discussa è la data di composizione del sonetto. Da riportare, secondo i più (cfr. Rajna, Maggini, Foster), alla settimana santa del 1292, essendo esso inserito dopo l'episodio della donna ‛ pietosa ' (Dopo questa tribulazione, § 1) riferibile alla seconda metà del 1291, e suggerito da un incontro con romei in quello tempo che molta gente va per adorar la Veronica, che si esponeva in San Pietro durante la settimana santa.

Il Santangelo suppose che il sonetto fosse scritto in origine per piangere la pace (beatrice, v. 12) perduta in Firenze al tempo della caduta di Giano della Bella, e introdotto poi nel ‛ libello ' con mutato intendimento. Una proposta di datazione al 1300, anno del Giubileo, e la conseguente arbitraria correzione, nella razo, del citato va in andava furono respinte dal Rajna. In seguito il Nardi ha confutato la tesi del teologo Karl Stange, che scorge una ‛ bestimmte Absicht ', un secondo fine in rapporto al Giubileo, nel fatto che, delle tre categorie di ‛ peregrini ' elencate, al cap. XL, i ‛ romei ' siano menzionati ultimi in contrasto con l'ordine gerarchico stabilito dalla Chiesa del tempo, in cui figuravan secondi. Antesignano di Lutero, il poeta mirerebbe a colpire con tale degradazione la corrotta pietà della Chiesa papale di Roma! Va da sé che D. nomina ultimi i romei solo " perché, dovendo la notizia servire a chiarire il sonetto, questi cui si rivolge eran proprio ‛ romei ' ".

Osserva peraltro il Foster che l'insistita allusione ai ‛ romei ' in questo punto terminale della Vita Nuova fa ritenere " non improbabile che l'idea della Roma terrena simbolo di quella Roma onde Cristo è romano avesse già attraversato la mente " del poeta; e, nel va del paragrafo prosastico, l'Apollonio indica il riferimento a " una consuetudine replicata, a un uso appunto, che preparò anche storicamente la proclamazione del Giubileo; il quale si dispone pur nella fantasia di D. come un termine d'arrivo, un coronamento di tutta una liturgia quadragesimale, allo stesso modo che la Mirabile Visione si dispone a concludere la storia di questa leggenda dorata ".

L'inizio richiama la ‛ lamentanza ' del cap. VII per la partenza della prima donna schermo, che si fregia delle parole di Geremia: " O vos omnes, qui transitis per viam " (Lament. 1, 12) risolte nel verso O voi che per la via d'Amor passate; ma il sonetto più strettamente si rifà all'attacco del cap. XXVIII: " Quomodo sedet sola civitas " (Lament. 1, 1) che ne costituisce ‛ la spinta segreta ' (De Robertis), tanto più significativa, nell'itinerario dell'amore per Beatrice, in quanto sopravviene a chiudere e distanziare l'episodio della ‛ pietosa '. Il sonetto punta dunque " ancora sull'analogia Beatrice-Cristo con l'immagine della città dolente e col suo stesso ridisegnarsi secondo l'incontro di Emmaus: " Tu solus peregrinus es in Jerusalem et non cognovisti quae facta sunt in illa his diebus? "; e " trae colore dalla particolare situazione poetica ", e intensità e soavità inconfondibile di tono dall'urgenza dell'apostrofe, che, articolandosi nel primo periodo di otto versi in quattro tempi o respiri mirabilmente contrappuntati e suggellandosi, al v. 12, nel patetico annuncio Ell'ha perduta la sua beatrice, allarga indefinitamente (De Robertis: " all'umanità errante, da ogni parte della terra ") il cerchio della nostalgia e del compianto.

Sul merito della nostalgia, vedi la finissima analisi condotta dal Contini ravvicinando i peregrini della razo, che forse pensano de li loro amici lontani (§ 2) a quelli del sonetto (pensosi... / forse di cosa che non v'è presente, vv. 1-2: " cosa vale creatura ") e, infine, al novo peregrin di Era già l'ora, il cui disio e amore è senza dubbio da congiungere ai dolci amici di cotesto grande attacco, proprio sulla scorta esplicita della razo e su quella più generica del sonetto. " Rispetto alla traduzione in chiaro si vede come già la poesia della Vita Nuova proceda sfumando; e la Commedia intensifica la dissolvenza ": soppresso il riferimento agli amici lontani, disio e amore risultano " obbiettivamente deviati verso il valore, in sé anacronistico, di nostalgia ".

Accogliendo ai vv. 9 e 11 i condizionali restaste e uscireste della lezione Barbi 1932, che prolungano l'intimità dolorosa della fronte, anche i due versi di chiusa, dopo l'annuncio del v. 12 risolutivo di tutta la tensione precedente, suonano non tanto come una giunta inerte (Sapegno: " la forza nativa dello spunto poetico... dopo il dodicesimo verso è già esaurita "), quanto come una conferma " in minore " ma irrefutabile della gravità di quell'enunciato. Se pure non si voglia, col Foster, attribuire al v. 13 il significato pregnante di iperbole finale nella " variazione sul topos encomiastico ", e spiegare: anche " le sole parole " dette di lei dopo la sua scomparsa hanno un potere irresistibile; per cui i due ultimi versi " dovrebbero esser letti come una climax non come un'anticlimax... come un avanzamento nella sfera del miracoloso ", che già caratterizzava le rime dei capitoli XXI e XXIV.

Circa la componente religiosa del sonetto, osserva il De Robertis che l'analogia Beatrice-Cristo, ribadita nel sonetto e, più, nella razo introduttiva, dove tutto il passaggio di lei " su questa terra assume quasi (in una ‛ anamnesi ') un unico significato (la cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna, § 1) ", rovescia ‛ radicalmente ' il rapporto tra i due termini, piegando la liturgia sacrale e cristiana (romei, incontro di Emmaus, " maeror civitatis ") a servizio di una beatrice più alta di ogni creatura ma, in effetti, termine essa di beatitudine non ancora tramite a Dio. Anche il Montanari dice D. " mosso dall'idolatria di Beatrice ". Solo che, aggiunge, " tale idolatria non è ancora criticamente mediata, bensì praticata in un'effettiva innocenza di cuore che, giovanilmente, santifica Beatrice perché di lei sia detto più di quanto sia stato mai detto d'alcuna ". Per l'Apollonio, il richiamo a una meditazione sacrale e l'intenzione di ricondurre " Beatrice al suo significato religioso e il lutto di Beatrice al tema del pellegrinaggio cristiano " sono di per sé indici evidenti e non trascurabili di un orientamento psicologico-religioso, che approderà più tardi alla lucida consapevolezza del poema. Così, secondo il Singleton (il cui Saggio sulla Vita Nuova offre più di uno spunto alla valutazione storico-critica del sonetto: v. specialmente pp. 35-36), la sospirosa mestizia del tema - inedito della morte dell'amata, che sopravviene a turbare la felicità autosufficiente della ‛ lode ', già implica il sospiro che nel sonetto terminale (Oltre la spera), salendo dal cuore dell'amante alla gloria celeste di lei, dà propriamente inizio alla " nuova vita " allusa nel primo capitolo. Decisiva, infine, la segnalazione offerta dal Branca, di uno dei tanti schemi e stilemi canonici dell'agiografia umbro-toscana del '200 che, rispecchiandosi nelle filigrane dell'intera Vita Nuova, la configurano in una vera ‛ Leggenda di Santa Beatrice ': quello, appunto, della commozione e del pianto che subito dilagano per la morte di Chiara o di altra santa, " dai fedeli e dai devoti... a tutta una folla dolente, a tutta la città che si sente sola e deserta "; e " traboccano anche su chi non l'ha conosciuta, sugli estranei, sui ‛ peregrini ' (" multi alii peregrini cum lacrimis et tremore suam vitam exponebant "). La stessa presenza del nome come semplice appellativo (beatrice, colei che beatifica) riflette la consuetudine etimologizzante delle pie

‛ legende ' dell'epoca, e si rifà all'idea centrale dell'opera: Beatrice speculum Christi, alla sua dominante atmosfera di miracolo.

Certo è che il topos poetico dei pellegrini, riaffiorante nel peregrino spirito del citato ultimo sonetto, lievitò incomparabilmente nell'itinerario etico-religioso-fantastico della Commedia: cfr. specialmente Pg II 65, VIII 4, XIII 96, XXIII 16, XXVII 110, Pd XXXI 43 e 103-108 con l'accenno alla Veronica nostra, che il Petrarca rimodulò nel suo " vecchierel canuto et biancho ".

Bibl. - Oltre alle generali indicazioni bibliografiche date sotto la voce Vita Nuova, Si vedano più particolarmente: P. Rajna, Per la data della " Vita Nuova " e non per essa soltanto, in " Giorn. stor. " VI (1885) 113-156; S. Santangelo, La composizione della Vita Nuova, in " Atti Acc. Scienze Lettere Arti di Palermo " XVII (1932) 167-219; D. De Robertis, Cino da Pistoia e la crisi del linguaggio poetico, in " Convivium ", nuova racc., I (1952) 1-35; F. Montanari, L'esperienza poetica di D., Firenze 1959, 45; D. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, ibid. 1961, 56, 123-124; B. Nardi, rec. a K. Stange, Beatrice in Dante's Jugenddichtung, Gottinga-Berlino 1959, in " Giorn. stor. " CXXXIX (1962) 68; E. Auerbach, Studi su D., Milano 1963, 33-34; M. Apollonio, D. - Storia della Commedia, ibid. 19653, 501 e 503; G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca, in " Atti Accad. Lincei " CCCLXII (1965) vol. VII, 32; C.S. Singleton, Saggio sulla " Vita Nuova ", Bologna 1968, 10, 31-33, 35-36, 129, 137, 144, 154-155 (trad. di An Essay on the " Vita Nuova ", Cambridge, Mass. 1958); V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella " Vita Nuova ", in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze 1966; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, II, Oxford 152 ss.