DEBITO PUBBLICO

Enciclopedia Italiana (1931)

DEBITO PUBBLICO

Benvenuto GRIZIOTTI
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. Il debito pubblico è costituito dall'insieme dei debiti contratti dallo stato e comprende i debiti consolidati e perpetui, i debiti redimibili e il debito fluttuante. Nell'economia dello stato, come nell'economia privata, si presentano eventi che non possono essere previsti nei bilanci ordinarî, a cui non è possibile provvedere. Lo stato dispone di varî mezzi per procurarsi entrate straordinarie. Gli stati moderni ricorrono quasi esclusivamente al debito pubblico, ma si può anche usare, in momenti eccezionali, delle riserve auree del Tesoro e delle banche di emissione, si può ricorrere a imposte straordinarie e ad alienazione del demanio fiscale.

Nell'antichità si accantonavano a questo scopo i metalli preziosi. Nei tempi moderni ogni Tesoro, per quanto grande, non sarebbe sufficiente a sostenere, per esempio, le spese di una guerra, e per uno stato d'altra parte è troppo oneroso mantenere accantonata una forte riserva oltre quella destinata al cambio di biglietti, in attesa di possibili eventi. Il moderno sviluppo del credito ha superato questo sistema primitivo dei tesori.

Anche l'alienazione del demanio fiscale come mezzo per procurarsi entrate straordinarie, è caduta quasi in disuso, perché il demanio fiscale in tutti i paesi d'Europa, a eccezione della sola Germania che l'ha sempre accresciuto, si è ridotto sempre più, sicché le risorse che se ne potrebbero trarre non sono grandi; poi l'alienazione stessa non permette, fatta in momenti di grande urgenza, di realizzare un prezzo conveniente.

Altro mezzo per procurarsi entrate straordinarie è il ricorso a imposte straordinarie, da molti ritenuto preferibile all'accensione di debiti. Si contesta allo stato il diritto di concludere dei prestiti, cioè d'impegnare l'avvenire per il presente, e si ritiene preferibile che ogni epoca provveda ai proprî bisogni. Hume, Ricardo, Say, Smith, Gladstone, Montesquieu, si sono pronunziati in favore dell'imposta. Ma se si tratta di provvedere a bisogni straordinarî notevoli e urgenti, bisogna ricordare che l'imposta rende molto più lentamente del prestito. Ci sono momenti in cui il paese versa in contingenze politiche ed economiche tali che non solo non si può pensare a creare nuove imposte, ma diventa problematico continuare a ottenere il rendimento delle vecchie. Quando le forze contributive del presente, dice il Messedaglia, non reggono ai carichi pecuniarî dello stato, un'imperiosa necessità impone che si chiamino in sussidio di quelle le forze contributive dell'avvenire.

I precedenti storici del debito pubblico. - Il debito pubblico è un'istituzione moderna. Nell'antichità, come si è detto, si provvedeva ai bisogni straordinarî accumulando tesori imponenti in moneta metallica, che erano proprietà privata del principe che li custodiva. Troviamo negli scrittori classici notizie di questi tesori che spesso rappresentavano ricchezze imponenti. Si narra che il tesoro di Salomone raggiungesse la cifra di mille talenti d'oro e mille d'argento. I re di Persia accumulavano grandi tesori per le guerre usando specialmente dei proventi delle imposte. Ciro, a testimonianza di Plinio, aveva accumulato trentaquattro mila libbre d'oro, e il tesoro che Alessandro il Grande trovò in Ecbatana, a quanto dice Strabone, raggiungeva i trecento ottantamila talenti. Anche la Grecia tesorizzava le sue ricchezze, custodendole nel tempio di Delo. In Roma era famoso l'aurum vicesimarium (imposta di un ventesimo sulla manomissione degli schiavi) il cui provento con i bottini di guerra veniva custodito nel tempio di Saturno. Circa le spese di guerra, del resto, i Romani erano di un grande ottimismo: bellum se ipsum alit. Roma era decisamente contraria ai debiti pubblici, come attesta la legge Gabinia, che proibiva di contrarre prestiti con gli alleati e proibiva ai giudici di riconoscere la validità delle obbligazioni.

Nel Medioevo anche si ricorse in generale alla tesorizzazione e i tesori erano considerati proprietà del principe come tali trasmessi all'erede. Qualche volta i principi ricorsero al credito, ma obbligandosi di persona, o rinunziando a parte della loro sovranità. Le città italiane nel Medioevo ebbero un'economia di credito abbastanza sviluppata. Nei comuni prevalgono i prestiti forzati, dai Fiorentini detti prestanze, distribuiti secondo la ricchezza individuale, rimborsabili a termine fisso, con interessi garantiti su entrate stabilite. Cosa diversa erano le compere di S. Giorgio a Genova, da cui derivò il Banco di S. Giorgio (sec. XVIII). Il comune, per provvedere ai bisogni straordinarî creati dalle continue guerre, apriva dei prestiti detti "compere", che erano garantiti dal reddito di qualche gabella. Posteriormente fu creata una compera unica sotto l'invocazione di S. Giorgio, che doveva servire a estinguere tutte le compere precedenti. Questa, giunta a grande sviluppo, fu chiamata Banco di S. Giorgio e durò in vita fino al 22 marzo 1816, quando, con l'annessione della Liguria al regno di Sardegna, ne fu ordinata la soppressione. A Venezia uno sviluppato sistema di prestiti era fatto dai Monti, il Monte Nuovo e il Monte Nuovissimo, che vennero in seguito sostituiti dai Banchi di depositi presso cui i privati depositavano i loro capitali dietro rilascio di obbligazioni girabili come denaro. Anche la Lombardia ebbe i suoi Monti, tra cui quelli di S. Carlo, di S. Francesco e di S. Ambrogio: quest'ultimo fu il più importante e sopravvisse ai primi due. Nello Stato Pontificio i papi ricorrevano per bisogni straordinarî di danaro a prestiti detti vacabili. In seguito furono istituiti i Monti, e i più importanti furono il Monte della Farina, il Monte della Pace, il Monte Novennale. Nella Toscana, ebbero grande sviluppo in Firenze il Monte Comune, durato in vita fino all'aprile del 1809, e in Siena le Preste, anticipazioni forzose delle imposte, al pagamento delle quali in seguito si provvide con l'istituzione del Monte Comune, del Sale e dei Paschi. Dunque nei vecchi stati italiani i prestiti erano tutti o garantiti con alienazione di pubblica rendita, o con ipoteche, o con pegni.

Anche gli stati europei più importanti dovettero presto ricorrere al debito pubblico per sviluppare la loro economia, e soprattutto per provvedere alle ingenti spese di guerra. Ricorse ai prestiti la Spagna nel secolo XVI per sostenere le lotte contro la Riforma, e nel sec. XVII l'Olanda per sviluppare la sua attività mercantile. Il debito pubblico in Inghilterra nel 1688, dopo la rivoluzione, era stimato a 1.054.925 lire sterline. Guglielmo III l'aumentò di molto con l'emissione dei buoni dello Scacchiere (Exchequer Bills). In seguito, la guerra contro la Spagna, la disastrosa guerra dei Sette anni e le guerre napoleoniche accrebbero costantemente il debito, che nel 1815 toccò la cifra massima di 861.049.049 sterline. In Francia i primi re accumularono tesori metallici. Durante il regno di Francesco I si ricorse per la prima volta ai debiti pubblici, garantiti dalla proprietà fondiaria. Nel 1561 il debito pubblico del regno ammontava a 174 milioni di franchi. Alla morte di Luigi XIV (1715), nonostante gli sforzi del ministro Colbert, per le enormi spese di guerre e specialmente per lo sviluppo del sistema delle "tontine", il debito ascendeva a 1.977.000.000 di franchi. E l'apice non era ancora toccato: dopo l'esperienza di Law il debito francese ammontava a 2.228.000.000 di franchi.

Gli Stati Uniti d'America e le repubbliche americane ricorsero anche essi abbondantemente al debito per sostenere le loro guerre d'indipendenza e per l'esecuzione delle prime opere pubbliche di urgente necessità.

Il 24 agosto 1793 la Francia istituì il Gran libro del debito pubblico (Grand Livre de la Dette publique) in cui dovevano essere trascritte tutte le passività a carico dello stato. Il Gran libro del debito pubblico francese fu il modello su cui fu creato quello italiano.

Nel regno di Sardegna esso fu istituito da Vittorio Emanuele I con regio editto del 24 dicembre 1819 e Carlo Alberto, salendo al trono nel 1831, aprì un primo prestito (editto 30 maggio 1831) con emissione di una nuova rendita per L. 1.250.000. Con questo s'inizia la numerosa serie di prestiti che fornirono al piccolo regno i mezzi per sostenere la campagna dell'unione italiana ma ne sovraccaricarono in modo impressionante il bilancio. Costituito il nuovo regno d'Italia, uno dei principali problemi da affrontare era l'unificazione e il riassetto delle finanze che gli antichi governi lasciavano in pieno caos. Con la legge 17 luglio 1861 fu regolato il debito pubblico, e con quella del 10 luglio 1861 fu costituito il Gran libro del debito pubblico e furono fissate le modalità per amministrare i titoli di credito. Il nuovo stato italiano con un atto di dignità e di onestà riconobbe tutti i debiti degli antichi stati. La legge 10 luglio 1861 è rimasta fondamentale nell'organizzazione del debito pubblico italiano. Apportarono modifiche le leggi 11 agosto 1870, allegato D, 18 settembre 1873, 27 aprile 1877, n. 3790 (serie II). Il r. decr. 17 luglio 1910, n. 536, completato dal regolamento generale del 19 febbraio 1911, n. 298, raccolse in un testo unico le leggi sul debito pubblico italiano.

Debito pubblico italiano.

La legge 10 luglio 1861, che regola il debito pubblico italiano, contiene alcune disposizioni che mirano a creare alla rendita dello stato una posizione di privilegio rispetto a ogni forma di proprietà. La disposizione che esenta le rendite iscritte nel Gran Libro, in ogni tempo e per ogni causa, da ogni "imposta speciale" fece sorgere molte discussioni quando, creata con la legge del 1864 l'imposta di ricchezza mobile, si trattò di decidere se dovevano o no le rendite considerarsi esenti da essa. La Corte di cassazione di Torino, con sentenza 28 settembre 1867, decideva per l'imponibilità, poiché nella legge del debito pubblico si parla di immunità da imposte speciali e non da imposte generali sul reddito, quale deve considerarsi l'imposta sulla ricchezza mobile. Altra condizione di privilegio è l'"insequestrabilità dei titoli", privilegio sanzionato in quasi tutte le legislazioni degli stati europei. Lo scopo è di rendere al massimo commerciabili le rendite di stato, senza ostacoli per eventuali opposizioni o sequestri, e per facilitarne l'amministrazione da parte della Direzione del debito pubblico.

Il debito pubblico italiano comprende due categorie di debiti: debito consolidato e debito fluttuante. Si dice debito consolidato quello che implica un carico duraturo sul bilancio dello stato e il cui esercizio viene regolarmente stanziato nel bilancio ordinario delle spese. Esso si distingue in redimibile, se è prevista la restituzione del capitale in un determinato periodo di tempo, e irredimibile, quando non è prevista la restituzione del capitale, ma solo il pagamento degl'interessi a tempo fisso.

Il debito redimibile comprende quei prestiti per cui lo stato corrisponde l'interesse stipulato e s'impegna di restituire i capitali in un certo numero di anni. Questi prendono di solito forma di prestiti a premio, annualità vitalizie, prestiti a scadenza fissa o periodica. Lo stato può convertire il debito redimibile in irredimibile con la consolidazione. La consolidazione è l'operazione per la quale una rendita ottiene un proprio servizio definitivo nel bilancio dello stato. Si può consolidare istituendo un separato servizio d'interessi per ogni prestito, oppure istituendo un solo servizio d'interesse e d'ammortamento per tutti i prestiti riuniti. La consolidazione riveste spesso l'aspetto di un prestito forzoso che pesa su una sola categoria di persone. Questa misura infatti è adottata dagli stati in momento di crisi, quando i rimborsi dei prestiti a breve scadenza rappresentano un peso che il bilancio non può tollerare. Ma la consolidazione forzata è molto pericolosa per l'economia di un paese, perché il capitale che s'investe in prestiti a breve scadenza è di solito capitale destinato ad altri investimenti e libero solo temporaneamente. È preferibile quindi che gli stati se ne astengano per non creare gravi ostacoli all'industria e al commercio e per non perdere il proprio credito.

Il debito irredimibile è la forma più importante di debito pubblico e si va sempre più estendendo negli stati moderni. Esso è costituito da rendite perpetue. Nella rendita perpetua occorre distinguere: la rendita propriamente detta, che rappresenta l'interesse del capitale; il principale, cioè il capitale nominale; la ragione della rendita, che è la proporzione tra la rendita e il capitale nominale. Si dice fondo o classe di rendita l'insieme delle rendite aventi la stessa ragione. Il 5, il 4 e il 3 per cento sono fondi che hanno tutti per capitale nominale 100. Corso della rendita o capitale effettivo è quello che la rendita costa sul mercato. La rendita si dice alla pari, sotto alla pari, sopra alla pari, secondo che il corso è uguale, inferiore o superiore al capitale nominale. Il prestito sotto alla pari si dice anche prestito a capitale fittizio, perché lo stato s'impegna per un capitale maggiore di quello che il prestito ha in realtà fruttato.

La rendita si dice nominativa, quando è iscritta nel Gran libro del debito pubblico a un nome determinato e il creditore è in possesso di un certificato comprovante la rendita; al portatore, quando l'obbligazione si trasmette con la semplice consegna del titolo; mista, quando i certificati d'iscrizione sono al nome di una determinata persona, corredati però da una serie di cedole che permettono il pagamento delle rate d'interesse al portatore.

Il debito fluttuante è destinato a sopperire a deficienze provvisorie delle entrate, a equilibrare le deficienze relative di un periodo dell'esercizio con le eccedenze di un altro, a mantenere in ogni tempo la cassa dello stato in efficienza nei confronti delle spese. Questa forma di debito non ha un esercizio ordinato in modo definitivo nel bilancio dello stato, e si dice perciò fluttuante. Quando non c'è corrispondenza tra le entrate e le spese, lo stato è eostretto, mediante operazioni di tesoreria, a prendere a prestito le somme necessarie per soddisfare i suoi debiti, oppure a soddisfare i crediti con promesse di pagamento fruttifere a breve scadenza. La forma tipica del debito fluttuante è il buono del Tesoro (o dello Scacchiere; v. buono).

Nei casi in cui lo stato ha grande urgenza di procurarsi danaro, il debito fluttuante offre una realizzazione più rapida del debito irredimibile. Esso permette d'investire una grande quantita di capitale nazionale temporaneamente libero, e destinato in seguito ad altri investimenti, e costa allo stato meno del consolidato, perché la breve scadenza rende conveniente un interesse più basso. Infine il debito pubblico fluttuante impegna solo il presente e non crea carichi fissi sui bilanci dell'avvenire. Il Messedaglia lo definisce il nerbo finanziario dei tempi difficili, quello che sostituisce presso gli stati moderni i tesori dell'antichità. Ma anche per il debito fluttuante non bisogna superare i limiti fissati dal più stretto bisogno, per non creare serî imbarazzi al bilancio dello stato. Il debito fluttuante presenta un carattere giuridico diverso dal debito consolidato: infatti ogni controversia che si determini su di esso è rimessa alla giurisdizione ordinaria.

Emissione del prestito. - I prestiti possono essere emessi sul mercato nazionale o sui mercati esteri. Lo stato può emettere prestiti sul proprio mercato con varî procedimenti. Vi sono, rispetto al modo di emissione, due forme di prestiti: prestiti forzati e prestiti volontarî o ordinarî che comprendono anche i prestiti detti patriottici.

Il prestito forzoso si ha quando lo stato, per procurarsi le somme necessarie ai suoi bisogni straordinarî, impone l'acquisto di titoli a tutti i capitalisti, a tutti i proprietarî, a tutti i contribuenti in genere, in proporzione della loro ricchezza presente, basandosi sui dati di contribuzione di ciascuno. Questa forma di prestito ha molti inconvenienti evidenti: in primo luogo, mancando allo stato una base certa per fare un'equa ripartizione del prestito fra i cittadini, esso compie delle grandi ingiustizie che colpiscono la coscienza pubblica. Inoltre un prestito forzoso non può realizzarsi con la rapidità che le circostanze richiedono, perché si urta contro la cattiva volontà dei cittadini che tentano con ogni mezzo di sfuggire alla contribuzione e versano tardi e a malincuore nelle casse dello stato. La storia dei prestiti forzosi in tutti gli stati d'Europa dimostra concordemente la loro impopolarità e il loro insuccesso.

È preferibile dunque in ogni caso per lo stato ricorrere al prestito volontario, anche pagando un tasso d'interesse più alto. Vi sono due forme di prestito volontario: l'una in cui lo stato fa appello all'interesse dei capitalisti e offre loro un prezzo di rendita che è quello corrente sul mercato; l'altra, in cui lo stato fa appello all'amor patrio dei cittadini, al loro senso del dovere e, per fronteggiare situazioni gravi, offre un tasso d'interesse inferiore a quello che il mercato dà per operazioni che presentano eguale rischio. Questi ultimi sono detti prestiti patriottici. Lo scopo che il prestito patriottico si propone influisce sul pubblico; tuttavia se questi prestiti patriottici sono emessi a condizioni poco vantaggiose, non sono quasi mai coperti. Citiamo come esempio il grande prestito francese del 1831 al 5%, che produsse soli 20 milioni e mezzo su 100 che se ne domandavano, e il prestito nazionale del 1848 di 100 milioni di rendita al 5% alla pari che diede soli 26 milioni di franchi. Questi prestiti hanno anche il grave difetto di rivolgersi esclusivamente al mercato nazionale, escludendo i capitali stranieri, e producono una breccia più grande nel capitale circolante del paese. Bisogna dunque concludere che i migliori prestiti sono i prestiti volontarî in cui lo stato si rivolge all'interesse dei privati, offrendo un tasso eguale a quello del mercato e le migliori condizioni di garanzia.

Quando lo stato non trova sul proprio mercato capitali disponibili, o può trovarne a condizioni più vantaggiose sui mercati stranieri, ricorre ai prestiti esteri. Il prestito estero si può presentare sotto due forme: come pagamento differito di cose e servizî acquistati all'estero, oppure come prestito di un capitale da spendere sul mercato nazionale. Nel primo caso il prestito non avviene sotto forma d'importazione di moneta, ma d'importazione di merci e servizî esteri. Lo stato paga ratealmente le cose e i servizî acquistati e il prestito si riduce a una politica di maggiore importazione del paese mutuatario dal paese mutuante fino ad esaurimento del ricavato del prestito. Quando s'inizia il pagamento degli interessi e la fase di ammortamento del debito, il processo si rovescia e allora lo stato debitore accresce le esportazioni a titolo di rimborso verso il paese creditore. Questa forma di prestito, detta prestito mercantile, è la più comune ed è la forma tipica di prestito in tempo di guerra, quando i paesi belligeranti hanno bisogno, per la ridotta produzione e il cresciuto consumo di certi generi, di ricorrere in maggiore misura all'importazione, e vi ricorrono a credito non avendo possibilità di pagare in contanti. Questa forma di prestito non crea spostamenti nella bilancia dei pagamenti e, non essendovi alcuna uscita immediata di danaro, non provoca ripercussioni sfavorevoli sui cambî. Il paese mutuatario potrà adoperare le merci importate come fattori di nuova produzione: in questo senso il prestito estero aumenta la produttività del paese che lo contrae e ne accresce quindi le esportazioni. In una seconda fase però l'equilibrio interno si rompe; la domanda di lavoro, aumentata per le cresciute esportazioni, farà aumentare i consumi, e i prezzi interni cresceranno causando di conseguenza il rialzo dei cambî. I prestiti esteri possono considerarsi da questo punto di vista come acceleratori di crisi economiche.

Quando le disponibilità di credito all'interno sono esaurite, lo stato, le provincie, i comuni, per procurarsi il danaro occorrente alla sistemazione del loro bilancio o alla realizzazione dei loro programmi, sono costretti a ricorrere all'estero. In questo secondo caso il ricavato del prestito in valuta estera sarà speso all'interno per merci e servizî nazionali. La trasformazione della valuta estera in moneta nazionale avviene a mezzo della banca di emissione che è costretta, per mantenere la stabilità dei cambî, ad acquistare tutta la valuta estera proveniente dal prestito lanciato sul mercato. Il processo d'assorbimento della valuta estera da parte della banca di emissione, avviene in due modi: o con la contrazione delle operazioni di credito, per poter disporre, senza aumentare l'emissione, di circolante sufficiente per fronteggiare le richieste di cambio di valuta estera in moneta nazionale, o con un aumento di circolazione di biglietti di banca, vale a dire con l'inflazione. Sia la contrazione del credito sia l'inflazione causano di solito gravi turbamenti in tutta l'economia nazionale. Può anche darsi il caso però che la valuta estera sia assorbita dalla banca centrale sotto forma di pagamento di effetti da essa in precedenza scontati o a rimborso di anticipazioni da essa fatte: in tal caso la valuta va ad accrescere le riserve della banca senza influire sull'equilibrio monetario interno.

Gli economisti discutono molto sull'opportunità di contrarre prestiti esteri. Non si può negare o affermare la loro utilità in modo assoluto. I prestiti sono opportuni quando l'utilità definitiva che da essi si ricava è superiore al sacrificio che il pagamento degli interessi impone. Ci sono prestiti che convengono perché contribuiscono ad accrescere la produttività nazionale, migliorano lo stato del credito interno, permettono l'attuazione d'importanti riforme, la costruzione di grandi opere pubbliche. Ma si può obiettare che i prestiti esteri creano sempre una dipendenza politica ed economica del paese debitore verso il creditore che va di solito oltre i limiti del prestito stesso; portano ad accrescere le spese e ad aumentare i consumi, a spendere quindi il danaro con più celerità. I prestiti hanno inoltre un'immediata influenza sui prezzi e sui cambî, modificano il saggio d'interesse, poiché l'esportazione del capitale causa nel paese creditore un aumento del saggio d'interesse con vantaggio dei risparmiatori e dei capitalisti, e nel paese debitore una diminuzione, conseguenza dell'aumentata offerta di capitale non proporzionale agli altri fattori di produzione.

Tutte le argomentazioni contro i prestiti esteri cadono quando li si considera come mezzo di finanziamento della guerra. In periodo bellico, venendo a mancare ogni provento dall'esportazione e aumentando l'importazione specialmente di materiale da guerra, non potendosi intaccare le riserve auree delle banche di emissione, già insuffiecienti per l'aumento inevitabile di circolazione cartacea, esauriti i crediti verso l'estero ed esaurite le divise estere per i pagamenti all'estero, c'è un solo mezzo che permetta alla nazione di sostenere lo sforzo che la difesa nazionale le impone, ed è il ricorso ai prestiti esteri per mitigare la crisi economica che inevitabilmente con la guerra si presenta.

Collocamento del prestito. - Lo stato può collocare un prestito in rendite perpetue con due mezzi: l'aggiudicazione e la sottoscrizione o colletta. Nel primo caso aggiudica ai banchieri tutta la quantità di rendita emessa, lasciando al rischio di questi il collocamento delle cartelle presso il pubblico. Nel secondo è lo stato stesso che colloca presso i privati il suo prestito a mezzo di sottoscrizioni aperte a questo scopo. La convenienza dell'uno o dell'altro di questi due sistemi di collocamento dipende dalle circostanze. Le sottoscrizioni in alcuni momenti dànno ottimi risultati e presentano anche il vantaggio di eliminare ogni intermediario fra stato e capitalista e, "quando siano spontanee, dice il Messedaglia, sono un voto di fiducia che la nazione decreta al proprio governo". Ma anche il metodo della aggiudicazione ha i suoi vantaggi: lo stato realizza subito a mezzo dei banchieri la somma richiesta, ed ha assicurato l'integrale collocamento del prestito anche sui mercati stranieri.

La rendita. - Lo stato emettendo un prestito consolidato deve fissare la rendita, cioè l'interesse che intende corrispondere al capitale nominale. In linea generale lo stato non deve offrire un effettivo saggio d'interesse superiore a quello che si paga sul mercato per investimenti che presentano uguale sicurezza. Vi sono però circostanze di assoluta necessità in cui, per allettare i capitalisti, può essere costretto a offrire un saggio d'interesse superiore al normale. In tali casi conviene non consolidare subito e, appena le condizioni lo permettano, operare la conversione. Di solito conviene, per l'elasticità del mercato, emettere varî tipi di rendita che presentino diversi motivi di convenienza, ma l'eccedere in questo senso può generare inutili complicazioni.

La legge sul debito pubblico italiano dà per il pagamento delle rendite le massime garanzie. E prescritto dall'art. 4 della legge 1861 che la prima assegnazione da farsi nel bilancio di ciascun anno sia per il pagamento delle rendite che costituiscono il debito pubblico. Il pagamento delle rendite viene effettuato in rate uguali semestrali o trimestrali, nel regno, dalle sezioni di tesoreria provinciale e, in alcuni casi, dalla tesoreria centrale; all'estero da case bancarie estere particolarmente incaricate, corrispondenti del Tesoro italiano, o da agenzie estere di banche italiane. Il pagamento delle rate degl'interessi sulle rendite al portatore o miste si eseguisce alle scadenze stabilite dietro semplice presentazione o consegna delle cedole relative; il pagamento degl'interessi sulle rendite nominative avviene dietro esibizione dei certificati d'iscrizione e contro quietanza da rilasciarsi dall'esibitore. La prescrizione che colpisce le rate d'interesse sulla rendita è quella regolata dall'art. 2144 cod. civ., in base al quale si prescrivono col decorso di cinque anni le annualità delle rendite perpetue o vitalizie. L'iscrizione della rendita invece è soggetta a prescrizione trentennale. Le rate di rendita colpite da prescrizioni quinquennali e le rendite colpite da prescrizione trentennale, sono devolute al Tesoro dello stato.

Il Gran Libro del debito pubblico. - Il Gran Libro del debito pubblico comprende: 1. le iscrizioni dei debiti consolidati e redimibili; 2. le iscrizioni dei debiti separatamente inclusi all'atto della sua istituzione, o successivamente mandati per legge a iscrivere in esso separatamente. Si compone di registri raggruppati per ogni debito, in tante serie quante sono le categorie del consolidato e le varie specie d'iscrizioni.

L'amministrazione del debito pubblico è posta sotto la vigilanza di una commissione composta di tre senatori e tre deputati nominati dȧlle rispettive camere in ogni sessione, di tre consiglieri di stato nominati dal presidente del consiglio, di un consigliere della Corte dei conti, nominato dal presidente della corte stessa, di un presidente o di un vicepresidente di uno dei consigli dell'economia del regno e del segretario generale della Corte dei conti. Il direttore generale dell'amministrazione del debito pubblico deve presentare a questa commissione di vigilanza i conti trimestrali, e un conto riassuntivo in fine d'anno accompagnato da una relazione. La commissione di vigilanza si convoca di regola ogni trimestre per esaminare le situazioni trimestrali e in principio d'anno per deliberare sulla relazione del direttore generale, e inoltre ogni qualvolta lo creda opportuno il presidente o lo richiedano concordemente tre commissarî. Per tutte le controversie che sorgono tra lo stato e i suoi creditori sull'interpretazione dei contratti di prestito pubblico e delle leggi relative a tali prestiti, decide definitivamente il Consiglio di stato.

Operazioni sulle iscrizioni del debito pubblico. - Sulle iscrizioni del debito pubblico possono eseguirsi le operazioni di riunione, di divisione, di tramutamento e di traslazione delle rendite, di annotaziome o di cancellazione d'ipoteca o di altro vincolo, di modificazione, rettificazione sulle intestazioni e sulle annotazioni. L'operazione di riunione di rendita è quella che riunisce più iscrizioni in un'iscrizione unica; l'operazione di divisione invece è quella che divide un'iscrizione unica in due o più iscrizioni di rendita minore. Tali operazioni possono compiersi solo su iscrizioni della medesima categoria e dello stesso consolidato.

Con l'operazione di tramutamento si converte una rendita nominativa in rendita mista o al portatore, e viceversa. Si effettua annullando la primitiva iscrizione e creandone una nuova. Le rendite nominative o miste possono tramutarsi in rendita al portatore per volere del titolare, per decreto del giudice, o in caso di successione. La legge italiana considera il tramutamento come un'alienazione (art. 27 decreto 19 febbraio 1911). Si può chiedere il tramutamento solo per quelle iscrizioni di cui il titolare abbia piena disponibilità e che non siano soggette a vincoli di ipoteche, e sottoposte a opposizioni e impedimenti.

Il trasferimento o traslazione è l'operazione con la quale un'iscrizione nominativa o mista viene trasferita ad altra persona con la creazione di una nuova iscrizione in suo favore. Operazioni di annotazione e di cancellazione d'ipoteca o di vincolo sono quelle con le quali si assoggetta una rendita a un vincolo o a un'ipoteca, o si cancella un vincolo o una ipoteca precedentemente annotati. Le rendite al portatore e miste non possono essere sottoposte a vincolo o ad ipoteca. Le rendite nominative invece, pur essendo beni mobili, possono subire annotazioni. Una rendita può essere assoggettata a un solo vincolo o a una sola ipoteca; è però consentito alle rendite già annotate, di essere gravate di usufrutto, e a quelle gravate di usufrutto, di essere annotate di vincolo o d'ipoteca. Ipoteche e veicoli possono essere convenzionali, giudiziali o legali, a seconda che derivino dalla volontà delle parti, da decisione dell'autorità giudiziaria o dalla legge. Per ottenere l'annotazione di vincolo o d'ipoteca, l'istante deve presentare domanda corredata dall'atto di consenso o dal provvedimento giudiziale relativo, e dal certificato d'iscrizione. Il vincolo d'usufrutto può avere origine da convenzione, testamento, o legge.

La cancellazione e riduzione delle annotazioni può avvenire o per consenso o rinunzia del creditore, o per deliberazione dell'autorità competente, o per sentenza. Le rendite ipotecate sono liberate per prescrizione quando entro trent'anni non sia stata domandata la rinnovazione dell'ipoteca, salvo nei seguenti casi: ipoteche per cauzioni imposte dalle leggi nell'interesse pubblico, per cause dipendenti dall'esercizio di uffici o di professioni, ipoteche a favore dell'erario per cauzioni da prestarsi dai contabili dello stato, ipoteche in favore della moglie su rendite del marito a garanzia della dote, le quali ultime non hanno bisogno di rinnovazione durante il matrimonio e per un anno successivo allo scioglimento di esso. Le ipoteche e gli altri vincoli si estinguono con l'estinguersi dell'obbligazione, con lo spirare del termine a cui furono limitati, col verificarsi della condizione risolutiva che vi fu apposta, quando si verifichi la cessazione della loro causa nei casi ammessi dalla legge, quando il diritto inerente al vincolo si consolidi o confonda col diritto di proprietà della rendita.

Le operazioni di modificazione e di rettifica delle annotazioni e delle intestazioni d'ipoteche e di vincoli modificano l'intestazione del certificato per adeguarla alle mutate condizioni del titolare quando avvenga un cambiamento nella capacità giuridica o nello stato civile di un titolare di una rendita. Con la rettificazione si correggono gli errori incorsi nella intestazione dei certificati o nelle annotazioni d'ipoteca o di vincolo.

L'operazione di convalidazione è necessaria quando i titoli al portatore o quelli nominativi, o le cedole esibite per il pagamento, per essere logorati o mancanti di qualche segno caratteristico, o non concordanti con le relative matrici, hanno bisogno di una dichiarazione per cui possano ritenersi validi a ogni effetto.

Con la rinnovazione l'amministrazione del debito pubblico, in caso di smarrimento di un titolo, procede al suo rinnovo, cioè rilascia un nuovo titolo con una rinnovata iscrizione, trascorsi sei mesi dalla pubblicazione di una diffida, per tre volte consecutive, sulla Gazzetta Ufficiale del Regno.

Conversione. - È l'operazione con cui si propone ai portatori di una rendita la conversione del loro titolo in una rendita di classe inferiore, oppure il rimborso del titolo alla pari. Quando, per condizioni speciali dell'economia, il tasso d'interesse offerto dallo stato è superiore al tasso offerto dal mercato per investimenti che presentano la stessa sicurezza, lo stato riduce il proprio interesse, offrendo ai portatori di rendite che non accettino la nuova condizione, la possibilità di ottenere la restituzione del capitale prestato alla pari. La conversione non è un'operazione impopolare, quando sia fatta al momento opportuno e quando corrisponda alla reale situazione del mercato. Bisogna convertire sempre un titolo che sia alla pari in un altro titolo di rendita che dia un interesse inferiore, ma emesso ugualmente alla pari.

Il primo esempio di conversione fu quello attuato in Inghilterra dal cancelliere dello scacchiere sir Robert Walpole nell'anno 1715 (conversione del 6% in 5%).

In Italia la prima conversione fu tentata dal Cavour, che, ministro delle Finanze del regno Sardo, presentò il 13 febbraio 1853 un progetto di conversione posto in atto con r. decr. del 6 marzo successivo. Esso autorizzava a emettere due milioni di lire di nuova rendita al 3% e questa doveva essere il tipo modello per la conversione di tutto il debito. Ma l'operazione non riusci e la rendita rimase quasi tutta invenduta presso la casa bancaria a cui era stata integralmente alienata. Si ritentò l'operazione nel 1854 ancora senza fortuna.

Nel regno d'Italia le conversioni risalgono alla legge 21 dicembre 1903 che operò la riduzione dal 4,50 al 3,50%. Molto più importante fu la conversione ordinata dalla legge 29 giugno 1906, riguardante un debito capitale di oltre 8 miliardi di lire. Un consorzio estero diretto dalla casa Rotschild mise a disposizione del Tesoro italiano 400 milioni di lire per fronteggiare le domande di rimborso, e la Banca d'Italia mise a disposizione del Tesoro un capitale di 700 milioni. Questa conversione riuscì molto bene e le domande di rimborso furono scarsissime. Venne convertito un capitale di lire 8.095.745.140 con un beneficio annuo per il Tesoro di lire 20.239.462 fino al 1° gennaio 1912 e di una somma doppia a partire da quella data.

Particolare importanza ha la conversione effettuata in Italia nel 1926 con r. decr. 6 novembre 1926, n. 1831, convertito in legge 23 dicembre 1926, n. 2235. Fu autorizzata l'emissione di un prestito nazionale per provvedere al consolidamento del debito fruttifero a breve termine, con lo scopo di difendere la valuta nazionale, che le continue domande di rimborso di buoni del Tesoro ponevano a grave rischio. Il nuovo prestito fu chiamato Prestito del Littorio, e per esso fu creato un nuovo titolo di debito pubblico da inscriversi nel Gran libro, fruttante l'interesse annuo del 5%, esente da ogni imposta presente e futura e non soggetto a conversione sino a tutto l'anno 1936. Lo stesso decreto estese a tutto il 31 dicembre 1936 il termine d'inconvertibilità dei titoli del consolidato 5% precedentemente emessi e ancora in circolazione a quella data. Furono sottoposti a conversione i buoni del Tesoro ordinarî, e quelli quinquennali e settennali in scadenza dall'11 novembre 1926 e tutti i buoni che a quella data non erano stati ancora presentati per l'incasso.

Col r. decr. legge 5 maggio 1931, n. 450 è stata operata la conversione facoltativa dei buoni novennali, scadenti al 15 novembre 1931, in nuovi buoni novennali del Tesoro emessi in 4 serie per pubblica sottoscrizione dal 5 al 26 maggio 1931. La sottoscrizione è stata largamente coperta. Il prezzo di emissione dei nuovi buoni è stato di L. 95 per ogni L. 100 di capitale nominale da versarsi in contanti o in cedole della rendita 3,50% e del consolidato 5% di scadenza al 1° luglio 1931. Essi fruttano l'interesse annuo del 5% pagabile in due semestralità e concorrono all'estrazione di cospicui premî. I buoni novennali in scadenza al 15 novembre 1931, presentati per la conversione in nuovi buoni novennali, sono stati valutati alla pari, ma per ogni L. 100 di capitale nominale è stato pagato in contanti un compenso di L. 5.

Ammortamento. - Con l'ammortamento si procede all'estinzione integrale del debito pubblico. Vi sono due metodi per l'ammortamento del debito: lo stato può ricomprare in borsa come un privato le rendite al prezzo corrente sul mercato, man mano che nel bilancio si presentano degli avanzi, e distruggerle; oppure instituire una cassa autonoma la quale acquisti cartelle di rendite, ne percepisca e capitalizzi gl'interessi e proceda gradualmente all'estinzione del debito. L'estinzione del debito a mezzo della cassa d'ammortamento può attuarsi in due modi: la cassa può acquistare, con i capitali che le vengono destinati, una certa quantità annua di rendite e distruggerla, alleggerendo il bilancio dello stato del carico degl'interessi; oppure accantonare le rendite e gl'interessi e usarli per l'acquisto di altri titoli fino all'estinzione totale del debito. Quest'ultimo sistema, che è il più antico, fu seguito dall'Inghilterra che per prima istitui un fondo di ammortamento.

Nel sec. XVIII il ministro sir Robert Walpole istituì i primi fondi di ammortamento col ricavato di tasse speciali adibite al pagamento degli interessi e al rimborso della rendita. Nel 1786 il dottor Price presentò al grande ministro William Pitt un nuovo progetto di ammortamento fondato sull'interesse composto, che fu messo in atto nel 1792 con la creazione del Sinking Fund (fondo d'ammortamento). Il sistema di Price consisteva nell'accantonare, all'atto di emissione di ogni prestito, l'1% del suo valore nominale, che messo all'interesse composto, avrebbe dovuto essere sufficiente a estinguere il debito stesso. L'illusione che "il debito paga sé stesso" conquistò tutti gli animi e trascinò la finanza inglese su una china molto pericolosa.

L'Inghilterra si lanciò in questa avventura e praticò il sistema d'ammortamento di Price per 30 anni; dopo dolorosa esperienza finalmente si accorse dell'errore finanziario che minava tutto il sistema. Nel 1829 il governo decretò la soppressione della cassa d'ammortamento, perché il comitato parlamentare nominato nel 1826 per fare un'inchiesta su questo argomento, aveva constatato che sui fondi assegnati all'amministrazione dal 1792 al 1825, l'uso di 1540 milioni non si era potuto giustificare. A questo fu sostituito un sistema di ammortamento più semplice; le eccedenze dei bilanci annuali furono destinate all'acquisto delle rendite di stato che venivano distrutte.

In Italia per l'ammortamento del debito fu creato un Consorzio nazionale eretto in ente morale, riconosciuto con legge 6 maggio 1866 e approvato col decreto 14 giugno dello stesso anno, presieduto da S. A. R. il principe di Carignano. Il fondo di cui il consorzio disponeva era alimentato in gran parte da elargizioni dei comuni, delle provincie e di altri enti morali, e si accresceva con la capitalizzazione degl'interessi. Il consorzio era rappresentato da un comitato centrale, con sede in Torino, e da circa quattromila comitati provinciali e comunali; funzionò dapprima attivamente, poi, per lo stato delle finanze italiane, dovette ridurre di molto la sua opera di ammortamento. Il 31 dicembre 1929 fu soppresso e le sue attribuzioni furono devolute con legge 22 maggio 1930, n. 665 alla Cassa d'ammortamento del debito pubblico interno, istituita col r. decr. legge 5 agosto 1927, n. 1414.

Alla Cassa d'ammortamento italiana furono destinati come fondo di dotazione iniziale: gli avanzi effettivi di bilancio degli esercizî 1924-25, 1925-26, 1926-27; la somma di 500 milioni di lire stanziata nel bilancio 1926-27 per l'ammortamento del debito dello stato verso l'istituto di emissione per la circolazione per conto dello stato; la somma di 300 milioni di lire stanziata sui fondi relativi a spese per liquidazione di gestione di guerra. Un'assegnazione globale insomma di 2 miliardi di lire. In seguito fu soppressa l'assegnazione di 500 milioni di lire, essendo cessato, col r. decr. legge 21 dicembre 1927, il corso forzoso. Le risorse annuali della Cassa sono costituite: dagli avanzi effettivi di bilancio accertati annualmente alla chiusura dei conti, dagl'interessi da corrispondere in ciascun esercizio sui titoli acquistati per l'ammortamento; dall'ammontare delle rendite dei capitali di titoli di debito pubblico e di buoni del Tesoro colpiti da prescrizione, ecc. Alla Cassa autonoma per l'ammortamento è stato anche attribuito, a decorrere dal 1° gennaio 1929, il fondo costituito presso la Cassa depositi e prestiti per l'ammortamento del consolidato 3,50% creato con legge 12 giugno 1922. Un decreto ministeriale dell'8 febbraio 1928 istituì, presso la Tesoreria centrale del regno, un conto corrente infruttifero tra il Tesoro e la Cassa d'ammortamento del debito pubblico interno, al quale affluiscono tutte le assegnazioni ordinarie e straordinarie a favore della Cassa. Lo stesso decreto autorizza la Cassa a procedere all'acquisto di titoli da annullare, con fondi ricavati dall'emissione di obbligazioni temporanee, che non superino il terzo del credito globale della Cassa verso il Tesoro, per cui corrisponde i relativi interessi.

Notevoli modifiche nel riordinamento della Cassa d'ammortamento furono apportate col r. decr. legge 28 aprile 1930, n. 424; furono assegnati alla Cassa, dal 1° maggio 1930, 500 milioni del maggior reddito derivante dall'aumento dei prezzi di vendita dei tabacchi lavorati, a seguito del r. decr. legge 28 aprile 1930, n. 423; fu modificata la formazione del Consiglio di amministrazione della cassa; fu creato nel suo seno un comitato esecutivo di tre membri, e la presidenza del consiglio fu affidata al governatore della Banca d'Italia.

Altre importanti disposizioni dello stesso decreto sono: 1) la limitazione degli acquisti per l'ammortamento ai soli titoli del consolidato 5%; 2) la diminuzione negli stanziamenti del bilancio degl'interessi dei titoli ammortizzati dalla Cassa, a eccezione di quelli relativi al totale apporto del Consorzio nazionale di Torino che rimangono devoluti per sempre alla Cassa; 3) l'istituzione di un conto fruttifero da aprirsi a favore della Cassa d'ammortamento presso la Banca d'Italia, a cui, non oltre la fine di ciascun mese, sarà versata, a cura del direttore generale del Tesoro, una somma pari al 12% dei versamenti eseguiti nel mese precedente come provento della vendita dei tabacchi; 4) la devoluzione alla cassa delle eventuali disponibilità che sopravvanzassero alla cessazione - in esecuzione di nuovi accordi internazionali - della gestione degli uffici di verifica e compensazione e della Cassa autonoma d'ammortamento per debiti esteri, istituita col r. decr. 3 marzo 1926.

Col r. decr. 5 gennaio 1931 l'assegno di 500 milioni sul maggior reddito dei tabacchi, devoluto alla Cassa in base alla legge 28 aprile 1930, è stato ridotto a 300 milioni. A tutto il 30 giugno 1930 furono acquistati titoli di stato per un capitale nominale di L. 551.015.500 contro una spesa di L. 436.390.753,31; alla stessa data erano stati complessivamente bruciati titoli per l'ammontare di L. 693.675.100.

Statistica dei debiti pubblici.

Al 30 giugno 1913 la situazione del debito pubblico all'interno era rappresentata da 15.125 milioni di lire, di cui 840 milioni di debito fluttuante; al 30 giugno 1928 da 86.446 milioni di lire, e precisamente da 71.604 milioni di debito consolidato, da 13.224 milioni di debito redimibile e da 1618 milioni di debito fluttuante.

Le necessità cui dovette obbedire l'Italia durante la guerra mondiale e il periodo finanziario susseguente spiegano il progredire del debito pubblico, mentre i provvedimenti governativi del novembre 1926, per la conversione forzosa dei buoni del tesoro in Prestito del Littorio, giustificano l'aumento, che si nota al 30 giugno 1926, del debito patrimoniale con sollievo di quello fluttuante.

Il debito all'estero dell'Italia può essere diviso in due categorie. Nella prima figurano i 100 milioni di dollari contratti nel 1925 col prestito Morgan e destinati ad accrescere le riserve auree della circolazione monetaria: questo debito al 31 gennaio 1931 era ridotto al capitale di 1.736.104.100 lire e alla rendita di 121.527.287 lire. Nell'altra categoria sono da porre i debiti bellici verso gli Stati Uniti e l'Inghilterra, che vengono amministrati ed estinti gradualmente dalla Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra con i proventi spettanti all'Italia per riparazioni di guerra. Il debito verso gli Stati Uniti venne sistemato con l'accordo di Washington (14 novembre 1925) nella somma complessiva di 2042 milioni di dollari da corrispondere in 62 annualità, che nel 1925 corrispondevano a un valore attuale di 433 milioni. Il debito verso l'Inghilterra venne regolato con l'accordo di Londra del 27 gennaio 1926, in 276.750.000 lire sterline che, scontate con riferimento al 1926, corrispondevano a 86 milioni di sterline. A tutto ottobre 1930 furono pagati agli Stati Uniti 25.139 mila dollari e all'Inghilterra 20.979 mila sterline. A tutto ottobre 1930 l'Italia riscosse per riparazioni dagli ex-nemici 687 milioni di marchi oro, che superano il valore di 536 milioni di marchi oro corrisposto dall'Italia agli Stati Uniti e all'Inghilterra. Nel 1925 (ultima data a cui si riferiscono le statistiche comunali) i mutui passivi dei comuni ammontavano a 5607 milioni; quelli delle provincie nel 1928 a 1326 milioni. La migliore valutazione del peso che esercita il debito pubblico, si ottiene ragguagliando gli oneri che il paese sostiene per il pagamento degl'interessi e il servizio dell'ammortamento, al totale delle spese pubbliche, al reddito nazionale e al numero degli abitanti. Bisogna poi tener conto della variazione nel potere d'acquisto della moneta, per stabilire un adeguato raffronto fra il debito pubblico attuale e quello prebellico, e a questo risultato si può approssimativamente arrivare dividendo i dati dell'esercizio 1929-30 per 421 e 451, che sono gl'indici dei prezzi all'ingrosso nel 1930 calcolati rispettivamente dal prof. Bachi e dalla Camera di commercio di Milano rispetto ai prezzi del 1913.

Dal 1913-14 al 1929-30 il debito pubblico è cresciuto quasi di 6 volte, mentre il potere d'acquisto della moneta è diminuito all'incirca di 4,5 volte, di guisa che il valore reale del debito rispetto all'anteguerra riguardo agl'interessi è cresciuto della metà e rispetto al capitale di circa un terzo. Il deprezzamento della lira ha così alleggerito il carico del debito, gravando però i possessori di averi espressi in lire di una perdita che si può rappresentare come un'imposta straordinaria di circa il 75% sui redditi non variabili e sui patrimonî, che consistevano di crediti pubblici o privati calcolati in lire. Sono cresciuti di 7 volte gl'interessi dei debiti, per il tasso più elevato che porta ora la rendita pubblica nel confronto dell'anteguerra, quando i titoli al 3 ½% erano quotati anche sopra la pari. Ma sono pure cresciute di 7 volte le spese pubbliche, sicché il servizio del debito interno rappresenta ancora come prima circa la quarta parte delle spese ordinarie (22,3%). Invece sono cresciute di circa 4 volte la ricchezza privata e il reddito privato, e perciò è aumentato da 14 a 22 il rapporto del debito alla ricchezza privata e da 3 a 5 quello degl'interessi al reddito privato. Quindi sull'economia italiana la gravezza dei debiti si fa sentire ora più che avanti la guerra, perché la ricchezza si è sviluppata meno dei debiti.

La pressione tributaria imposta dai debiti è salita dal 3,05% nel 1913-14 al 5,16 nel 1929-30. Ma è lecito tuttavia pensare che nell'avvenire, se non sorgeranno nuove cause d'indebitamento, con lo sviluppo della prosperità nazionale, con lo scemare dei debiti per opera della Cassa d'ammortamento del debito interno, e degl'interessi per effetto di conversioni della rendita, andrà decrescendo la pressione dei debiti sul reddito privato fino a toccare la misura di prima della guerra mondiale. Con l'aumento del reddito medio individuale e della popolazione, l'onere per abitante potrà essere anche più lieve che nel 1913.

I debiti pubblici all'estero. - Anche fuori d'Italia il debito pubblico ha seguito una parabola continuamente ascendente. Il debito più grande del mondo è quello dell'Inghilterra, che destinò, per una costante tradizione delle sue finanze, cospicue somme annuali all'ammortamento del suo debito, mentre vide svilupparsi la sua ricchezza in modo meraviglioso, di guisa che la parte del reddito nazionale assorbita dal servizio degl'interessi andò sempre scemando durante tutto il secolo scorso.

Un grande incremento del debito pubblico si è verificato durante il periodo della guerra mondiale e in quello immediatamente successivo di crisi finanziaria generale nei bilanci degli stati. L'indebitameuto si è verificato anche in molti paesi neutrali, per le ripercussioni che sulla loro economia e quindi sulle loro finanze produsse la rottura delle relazioni internazionali e dell'equilibrio economico mondiale. Naturalmenu merita di esser posto in particolare evidenza l'indebitamento dovuto alla guerra nei paesi belligeranti.

Nei principali paesi il debito pubblico è oggi notevolmente accresciuto, come appare dalla tabella a piè di pagina.

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