Danza

Universo del Corpo (1999)

Danza

Cecilia Pennacini
Eugenia Casini Ropa

Indica l'insieme ritmico di movimenti del corpo eseguiti secondo uno schema individuale o un'azione concertata. Nelle società tradizionali la danza è connessa a funzioni cerimoniali e cultuali e segna i principali passaggi di status nella vita del singolo, svolgendo un ruolo importante nella costruzione e trasmissione dei valori condivisi dal gruppo. Oltre alla valenza sociale, alla danza vengono riconosciute in ambito antropologico qualità creative ed espressive, tipiche dei fenomeni artistici. La danza teatrale o d'arte nasce nella civiltà occidentale dalla stilizzazione di elementi rituali, coreutico-popolari, naturali o quotidiani del movimento, e tende alla rappresentazione dinamica, idealizzata e organizzata secondo precisi canoni estetici e comunicativi, della visione del corpo elaborata dall'ambiente culturale che la genera. Questo tipo di danza, volta a fini spettacolari e artistici, è comunemente definito balletto, termine derivato del tardo medievale 'ballo' o 'ballitto', che designa, più specificamente, le forme di composizione coreografica originatesi nel Rinascimento europeo e sviluppatesi fino ai nostri giorni, aventi a fondamento la tecnica codificata come accademica o classica. Nel Novecento, con l'affermarsi di una visione antropologica della danza e di stili liberi o soggetti a norme alternative, le performance teatrali vengono più spesso denominate 'creazioni' o 'pezzi' d'autore.

La danza in una prospettiva antropologica

di Cecilia Pennacini


l. Funzioni sociali

Nelle società studiate dagli antropologi la danza ricopre spesso ruoli estremamente importanti nella vita degli individui e delle comunità; essa è un'attività diffusa e ricercata sia per il piacere che provoca nei ballerini e nel pubblico, sia per le innumerevoli funzioni che svolge nel corso di molte occasioni rituali. Funzione, significato, stile e valore delle danze mutano notevolmente nelle diverse situazioni sociali, offrendo all'osservazione quella vasta gamma di possibilità caratteristica della varietà etnografica, che l'antropologia ha studiato perseguendo l'obiettivo generale di una definizione comparativa e universale della danza. Lo studio antropologico delle danze si avvale di differenti prospettive teoriche, ciascuna delle quali privilegia soltanto alcuni degli aspetti implicati: molte analisi tendono a dare risalto alla funzione sociale, altre sottolineano le valenze psicologiche e individuali, altre ancora considerano la danza un'espressione artistica o un sistema di comunicazione fondato sull'uso di un linguaggio non verbale. In ogni caso, i vari approcci hanno dovuto affrontare una difficoltà di fondo, e cioè l'assenza di un 'idioma' adatto a definire un fenomeno corporeo e non verbale qual è la danza. Questa mancanza rispecchia la visione sostanzialmente dualistica e gerarchica di mente e corpo, che ha ostacolato lo sviluppo di riflessioni sul corpo e sui suoi movimenti. Sebbene l'antropologia abbia tentato di contrapporre alla dicotomia una visione del corpo quale strumento culturale (Mauss 1950) o 'risorsa concettuale' (Farnell 1994), lo studio dei sistemi fondati sull'uso del corpo in azione - danza, rituali o, più in generale, comportamenti non verbali - ha ottenuto solo di recente lo status di vera e propria forma di conoscenza. Di conseguenza, l'antropologia è ancora alla ricerca di strumenti atti a esplorare e rappresentare adeguatamente tali sistemi cognitivi corporei. I primi studi antropologici relativi alla danza rispecchiano il paradigma sociocentrico che ha dominato la storia della disciplina a partire dalla riflessione di É. Durkheim, influenzando in senso funzionalista il successivo sviluppo dell'antropologia sociale. In quest'ambito, la danza è analizzata nei termini della funzione e del valore sociali che riveste nelle varie realtà; la tesi di fondo è che essa rappresenti uno dei meccanismi indispensabili alla costruzione di società stabili e ordinate. A.R. Radcliffe-Brown (1922) descrive le danze degli isolani delle Andamane come uno dei migliori esempi di attività sociale congiunta, cui i singoli individui devono assoggettarsi in virtù del potere 'vincolante' esercitato dal ritmo sul movimento corporeo: tramite il ritmo, la danza consente di percepire fisicamente, in maniera esemplare, l'armonia e l'ordine vigenti nel gruppo. E.E. Evans-Pritchard sviluppa ulteriormente questa tesi in un lavoro (1928) dedicato alla gbere buda, "danza della birra" (dalla birra di miglio preparata per la cerimonia), eseguita dagli azande del Sudan in onore degli spiriti dei morti.

Uomini, donne e bambini partecipano schierati in cerchi concentrici che marcano la separazione dei ruoli e degli status; il pericolo che l'ordine degeneri in abusi sessuali oppure in conflitti aperti è scongiurato dalla separazione e dalla presenza di un leader della danza. Così, durante la crisi provocata dalla morte di un membro, il gruppo riscopre attraverso la danza il senso dell'integrità della comunità e anche delle regole che la governano. Il modello funzionalista subisce, negli anni Cinquanta, un processo di dinamizzazione a opera soprattutto degli autori della scuola di Manchester, che introducono le variabili del conflitto e del cambiamento nell'analisi delle organizzazioni sociali. Un esempio di questa tendenza è lo studio di C. Mitchell (1956) sulla kalela, danza diffusa presso le popolazioni dell'Africa centrale; deriva dalla danza mbeni (trasformazione fonetica dell'inglese band), sviluppatasi nelle regioni centroafricane dopo la Prima guerra mondiale, quando molti indigeni furono arruolati negli eserciti coloniali. Essa consiste nella parodia di una parata militare, ove i ballerini fanno simbolicamente propri i ruoli, l'organizzazione e il prestigio dei militari bianchi. Nel caso specifico trattato da Mitchell, la danza è eseguita da un gruppo di bisa emigrati in un contesto urbano e multitribale; vestiti alla maniera occidentale, i bisa ostentano la loro unità etnica in contrapposizione a quella dei gruppi tribali con i quali vivono in stretto contatto. Paradossalmente, tale unità si esprime attraverso l'ostentazione di una immagine di sé che non ha nulla di tradizionale, perché interamente modellata su quella dei bianchi, divenuti simbolo di potere e successo. Se la kalela può essere considerata come l'espressione dei conflitti intertribali in atto in una società in rapido cambiamento, all'interno delle singole etnie sussistono altre forme di ostilità strutturali che emergono nei contesti rituali. Presso i samburu del Kenya, le danze di matrimonio scadono sovente in risse e combattimenti aperti tra i giovani guerrieri - che intrattengono tradizionalmente rapporti amorosi con le ragazze - e gli uomini maturi con cui queste ultime verranno unite in matrimonio. Lo scontro, ineliminabile, tra i gruppi generazionali scaturisce dalle stesse regole matrimoniali e finisce con il trovare un canale di espressione nelle danze, al termine delle quali la situazione potrà tornare, almeno provvisoriamente, a un relativo equilibrio. La danza offre dunque una sorta di arena per la competitività che attraversa costantemente la società samburu (Society and the dance 1985).

2.

La danza come espressione artistica e comunicativa

Orientato all'individuazione degli aspetti funzionali della danza, l'indirizzo sociocentrico tralascia di analizzare le specifiche modalità con cui essa si esprime, tramite le quali può perseguire gli obiettivi sociali, siano essi orientati alla costruzione dell'ordine o piuttosto all'espressione del conflitto. Scarsa attenzione è riservata agli aspetti formali, all'articolarsi delle figure coreutiche, del ritmo, della musica e dei canti così come ai significati sottesi. A metà degli anni Sessanta del 20° secolo, tuttavia, è stata elaborata una metodologia nuova, basata su sistemi di notazione di derivazione coreografica idonei alla trascrizione e analisi puntuale delle componenti gestuali della danza. Tra i metodi di trascrizione il più utilizzato è il labanotation, ideato da R. Laban per analizzare e annotare tutte le componenti gestuali di qualunque tipo di danza (Hutchinson 1970). Associando questa metodologia alle registrazioni fotografiche, audiovisive e cinematografiche, è stato possibile isolare le unità minime che compongono la danza in quanto sistema di segni. L'approccio semiologico ha consentito indagini approfondite delle strutture coreutiche, alla ricerca non più di generiche funzioni sociali, ma dei significati specifici che la danza veicola come sistema di comunicazione non verbale. Nelle società tradizionali le danze vengono eseguite per lo più all'interno di contesti rituali, caratterizzati dalla compresenza e dall'articolazione di vari codici espressivi che, oltre alla danza, comprendono la recitazione, il canto, la musica, l'organizzazione dello spazio, l'uso simbolico di oggetti, costumi e colori. Se la prospettiva funzionalista tendeva a sottolineare le caratteristiche ripetitive e coercitive presenti nel rituale e nella danza - funzione vincolante del ritmo sull'individuo, riproduzione e trasmissione nel tempo di moduli e figure coreutiche fisse, rispetto dei ruoli e rapporti sociali prestabiliti -, gli orientamenti di tipo comunicativo o semiotico attribuiscono invece maggior valore agli aspetti 'performativi'. Il rito e la danza vengono interpretati in quanto complesse rappresentazioni teatrali composte di diversi codici comunicativi, la cui efficacia sul piano del mutamento sociale e culturale è connessa principalmente alle qualità simboliche ed estetiche (Turner 1966, 1986; Tambiah 1985). Alla danza viene così riconosciuta anche in ambito antropologico la valenza creativa ed espressiva tipica dei fenomeni artistici. In quest'ottica il lavoro di J.L. Hanna (1979), orientato a sviluppare una vera e propria 'teoria comunicativa della danza', costituisce forse l'esito più compiuto e articolato. L'autrice si avvale di numerosi esempi etnografici, analizzati secondo il metodo della labanotation; facendo riferimento al repertorio delle danze degli ubakala della Nigeria, propone interessanti ipotesi riguardo a singoli movimenti e figure coreutiche. Le danze dei guerrieri ubakala, per es., si distinguono da quelle eseguite dalle madri in occasione della nascita di un bambino per l'ostensione di movimenti rapidi, 'contrastivi', e di una disposizione spaziale lineare. Al contrario, le danze delle madri mostrano un ritmo lento, l'assenza di tensione nel movimento e un'organizzazione spaziale di tipo circolare. Nel primo caso, le figure coreutiche sono considerate metafore delle distinzioni sociali e del conflitto insito in esse. Nel secondo, si esprimerebbe la solidarietà paritaria (immagine del cerchio) esistente tra le donne e la netta distinzione nei confronti dei ruoli maschili. Approfondendo ulteriormente l'analisi dello stile dei movimenti, emergono altri fattori sociali, come la gerarchia o la struttura patrilineare rappresentate dalla presenza dei leader e dai loro tipici movimenti. La danza, in questo caso, viene vista come un mezzo capace di comunicare le principali categorie culturali, favorendone altresì il processo di socializzazione. Il modello teorico alla base di questa interpretazione considera, dunque, la danza come un linguaggio che si differenzia dalla lingua per le sue caratteristiche di espressione gestuale, multisensoriale e polisemica, dotato inoltre di una valenza artistica e creativa che lo rende efficace soprattutto all'interno di quei particolari laboratori culturali costituiti dai rituali. Il riconoscimento del valore artistico delle danze porta a un'ulteriore riflessione sui contenuti emotivi dei simboli coreutici e sulla funzione psicologica che possono assolvere. S. Ottenberg (1989) analizza la danza delle novelle spose dell'etnia dei limba della Nigeria quale manifestazione artistica dei sentimenti di paura e ostilità provati dalle ragazze al momento del matrimonio, contratto con uomini maturi e spesso sconosciuti. La danza funziona qui come un''arte-terapia', capace di ridimensionare lo stress del matrimonio attraverso la ricchezza e il potere evocativo delle immagini. Una performance artistica riuscita è in grado di trovare un canale per l'espressione del flusso di sentimenti, che in tal modo possono essere elaborati e dominati.

3.

Passaggi di status, terapia, trance

Nelle società tradizionali le danze si svolgono in occasione dei riti che segnano i principali passaggi di status nella vita individuale. Le cerimonie hanno un'importante funzione psicologica nei confronti del singolo e costituiscono momenti fondamentali nel processo di costruzione sociale di ogni cultura. È infatti nel corso dei riti che le categorie culturali vengono fondate, rigenerate e trasmesse. I rituali di passaggio, in particolare quelli iniziatici, prevedono generalmente una fase di segregazione seguita da un momento pubblico e spettacolare, spesso interamente delegato alla danza. Tramite il gesto e le formule ritmiche, essa fornisce una rappresentazione metaforica dei contenuti culturali del rito. A. Schaeffner (1990) descrive in questa chiave i riti di iniziazione dei kissi della Guinea: gli adolescenti trascorrono un lungo periodo di segregazione nella foresta, durante il quale vengono sottoposti a impegnative prove fisiche e a una complessa educazione musicale e coreutica; poi mettono in scena uno spettacolo, esibendo di fronte alla comunità le danze che hanno imparato. Allo stesso modo i giovani maschi dell'etnia dei nande del Congo apprendevano, nel corso dell'iniziazione in foresta, una danza (munde) che veniva eseguita pubblicamente al termine della segregazione e, successivamente, ogniqualvolta si volessero palesare e riconfermare i contenuti profondi della concezione della virilità (Pennacini 1996). Una serie di figure coreutiche codificate allude, nel munde, alle prerogative essenziali del ruolo maschile, quali la capacità sessuale e riproduttiva, il diritto alla trasmissione ereditaria del potere politico e della ricchezza, il rapporto privilegiato con gli antenati defunti. Per i kissi e i nande, come per molte altre popolazioni africane, la danza comunica pubblicamente i temi culturali elaborati durante il rito iniziatico, che attengono a valori e interrogativi profondi. La danza sembra avere una funzione centrale nei riti iniziatici di tipo puberale, siano essi maschili o femminili, ove è associata ai ruoli sessuali e alle relazioni di genere. Poiché lo strumento di comunicazione privilegiato dalla danza è proprio il corpo nella diversità delle sue caratteristiche biologiche, il linguaggio coreutico appare particolarmente adatto a significare i modelli culturali connessi a tali differenze e, più in generale, a rappresentare in una cifra sublimata l'erotismo e la sessualità (Hanna 1988). La danza è presente in altri riti di passaggio, come nelle cerimonie organizzate per sancire e festeggiare la nascita 'sociale' di un bambino, nei rituali di matrimonio e in quelli funerari, e in altre situazioni ancora. In tutti questi casi, il significato profondo del rito, che riguarda di volta in volta l'ordine sociale, politico o cosmologico di quella cultura, è espresso dalle figure gestuali della danza. Un'altra grande categoria di rituali utilizza il linguaggio della danza: i riti terapeutici. Spesso i guaritori usano la danza per entrare in quello stato di dissociazione psicofisica denominata trance, che consentirà loro di ottenere la guarigione del paziente. La concezione terapeutica dei boscimani kung del deserto del Kalahari, in Botswana, vede nella danza eseguita dal guaritore la tecnica più adatta a 'estrarre' la malattia dal corpo del malato (Marshall 1969). Tale danza è detta n/um tshxai, dove il termine n/um indica il potere sovrumano di curare, una forza invisibile diffusa nell'universo che il guaritore riceve dentro di sé sotto forma di trance. I boscimani ritengono che nel corso della danza questo potere si riscaldi, risalga all'interno della colonna vertebrale del guaritore raggiungendo la testa e provocando in tal modo la perdita di coscienza. Il mutamento di stato avviene nel corso della danza, accompagnata dal suono ritmico del battito dei piedi dell'intera comunità. Raggiunta la condizione di trance, il guaritore mette in scena una 'aggressione' nei confronti della malattia, allo scopo di arrivare infine alla sua espulsione. La danza è in questo caso un meccanismo generatore, il motore che innesca lo stato di trance. Molti autori riconoscono in essa, e nella musica, una tecnica mirante a scatenare la crisi morbosa, spesso considerata l'esito ultimo della trance. In tal senso D. Carpitella ed E. De Martino (1994) interpretano il 'ciclo coreutico' del tarantismo pugliese: le donne che ritenevano di essere state colpite dal morso simbolico della tarantola venivano curate con una terapia musicale, che induceva in loro una danza frenetica e liberatoria. Allo stesso modo J. Rouch (1960) individua nella danza l'elemento che scatena - in senso fisiologico - lo 'strano meccanismo' della trance dei songhai del Niger. Su un versante opposto, altri interpretano la relazione intercorrente tra danza e trance in senso simbolico. La danza è l'espressione simbolica dello stato di 'entusiasmo' raggiunto dal protagonista del rito, cioè la rappresentazione codificata di tale stato a fini espressamente comunicativi. S. Rasmussen (1994) ha descritto la possessione delle donne tuareg, ritenuta dalle stesse protagoniste del rito una specifica forma d'arte denominata danza della testa. Presentando sintomi depressivi considerati come il segno della possessione spiritica ereditata per via materna, le donne eseguono un rito esorcistico. Al coro delle donne e al suono dei tamburi, la paziente inizia a danzare seduta, producendo un movimento ondulatorio della testa e del collo chiamato ramo oscillante. Secondo Rasmussen questa figura, ricorrente anche in altri codici estetici tuareg, esprime in una forma visuale, cinestetica, verbale e 'aurale', le pulsioni devianti avvertite da molte tuareg, che consistono nel conflitto tra uomo e donna e tra membri di status differenti. La danza della testa viene vista, dunque, come la proiezione esterna del concetto di sé della donna, dei suoi sentimenti di autostima o di inferiorità; in definitiva, essa è una 'versione pubblica della persona' messa in scena attraverso una forma artistica apprezzata e ricercata dall'intera comunità.

Danza teatrale o d'arte

di Eugenia Casini Ropa


l. I caratteri

Nel momento in cui da manifestazione umana spontanea, che modifica e dilata attraverso il ritmo il movimento nel tempo e nello spazio, si fa consapevolmente arte, la danza elabora e assume norme e progettualità estetiche, espressive e comunicative. Da un lato, si rendono necessari la conoscenza e l'uso cosciente del suo strumento esclusivo - ovvero il corpo retto da leggi fisiche - e del suo rapporto privilegiato con gli elementi primari nei quali si muove, il tempo e lo spazio; dall'altro lato, come arte performativa, teatrale, se ne esplorano e istituiscono gli elementi di significazione. Alla luce della moderna storiografia e utilizzando il metodo di indagine dell''antropologia teatrale', disciplina recente che studia il comportamento fisiologico, extraquotidiano e preespressivo dell'uomo in situazione di rappresentazione organizzata (Barba-Savarese 1991; ed. it. 1996), è possibile individuare due costanti di questo processo. A livello fisiologico, le tecniche che la danza teatrale elabora per la costruzione del suo corpo scenico si fondano su alcuni principi di base, transculturali, di controllo e vitalizzazione del corpo, come l'infrazione degli automatismi quotidiani del movimento, l'alterazione dell'equilibrio e l'uso energico e oppositivo delle tensioni dinamiche. A livello formale e rappresentativo, le particolari tecniche, forme e significazioni che la danza assume, in epoche e contesti diversi, sono invece intimamente connesse alla concezione estetico-filosofica e a quella socioculturale dell'uomo e del corpo proprie degli specifici ambiti in cui si genera. Nelle diverse manifestazioni dell'arte coreutica agiscono - in senso armonico, dialettico o conflittuale - le due vocazioni insite nella danza fin dall'origine dell'uomo: quella astratta, che ricerca il puro piacere e la bellezza nelle linee e nell'azione armonica del corpo in movimento, e quella imitativo-pantomimica, che persegue propositi narrativo-comunicativi attraverso una gestualità misurata, sintetica o simbolica. La valenza più propriamente spirituale, emozionale ed espressiva della danza, sempre presente nel fare artistico e nella riflessione teorica, assume particolare importanza con l'avvento e l'evolversi delle 'scienze umane', che demoliscono la secolare visione dualistica, neoplatonica e cristiana, dell'essere umano, per affermarne quella unitaria, olistica, in cui il movimento acquista un ruolo di grande rilevanza relazionale tra corpo e mente (o psiche).

2.

L'era del balletto: la danza accademica

Diversamente da ciò che si verifica nelle civiltà orientali, in Occidente la danza come arte partecipa al processo di divisione e istituzionalizzazione dei 'generi' teatrali che ha luogo a partire dal Rinascimento. L'unione classica con la musica e la poesia, ancora viva nelle 'canzoni a ballo' dei trovatori nelle corti medievali, perde via via la propria compattezza, nonostante i molti tentativi di ricongiunzione operati successivamente. La danza, come arte muta del corpo, rimane così indissolubilmente unita per alcuni secoli solo alla musica, della quale viene spesso considerata emanazione minore, assai più legata alla sfera dell'intrattenimento e del virtuosismo che a quella dell'arte e della cultura. Attività ludica ed educativa privilegiata nelle corti italiane del Quattro e Cinquecento, la danza costituiva uno dei passatempi privati preferiti dai nobili e un'importante manifestazione autocelebrativa nelle feste di corte. I primi trattatisti-maestri di danza italiani definiscono per i dilettanti cortigiani norme, posture e passi del ballare cortese già dalla metà del 15° secolo. Compongono inoltre per loro 'balli' (in tempi variabili e con vaghi accenni tematici) e 'moresche' (balli pantomimici di lotta o di corteggiamento di origine medievale), dalla cui confluenza ed elaborazione prendono vita dapprima 'intromesse' e 'intermedi' danzati per banchetti e commedie, e infine, in Francia, il ballet de cour, che può essere considerato il progenitore coreograficamente organizzato del balletto teatrale professionistico. Nel 17° secolo la crescente complessità della tecnica orchestica e coreutica in costante evoluzione, e la necessità crescente di ballerini professionali correttamente uniformati, esigono una riconosciuta codificazione, che segna convenzionalmente il passaggio dalla danza nobile a quella più prettamente teatrale. Il compito di codificare definitivamente la danza come specifica forma artistica del movimento spetta ai francesi, attraverso l'istituzione, nel 1661, della Académie de Danse. L'Académie detta i principi generali e fissa i passi e le posture di base della 'danza accademica' (ora detta anche 'classica'), che costituisce la più completa, radicata e duratura tradizione tecnica della danza d'arte occidentale, ben viva ancora oggi, tanto nella conservazione museale dell'antico repertorio quanto, pur con evidenti modificazioni stilistiche, nel 'balletto moderno'. La danza accademica deriva dunque da un progetto aristocratico di controllo del corpo e della sua presenza sociale, finalizzato all'affermazione della supremazia di classe, che imponeva criteri di erezione, leggerezza, nobiltà del portamento e misura del gesto; e si definisce quindi di conseguenza, nutrendosi esteticamente dell'amore per la simmetria e la decoratività geometrica delle linee proprio dell'epoca. Suoi principi posturali di base, precisati via via dai maestri nel corso dei secoli successivi, sono: l'apertura en dehors delle anche (che facilita la mobilità delle gambe in ogni direzione e la frontalità pretesa dal teatro di corte e da quello all'italiana); l'irrigidimento della muscolatura addominale-renale (che compensa lo squilibrio dell'en dehors e richiama l'uso centenario di bustini e giustacuori steccati); la tensione verso l'alto della colonna e l'allungamento del collo, insieme con l'abbassamento e arretramento delle spalle (che generano scarsa mobilità ma grande evidenza della parte superiore del corpo e sono chiaramente eredi del portamento cortese). L'insieme di questi elementi è dominato dal principio dell'aplomb, il perfetto equilibrio della persona, da raggiungere e mantenere mettendo in atto strategie energetiche oppositive anche sull'appoggio di una sola gamba e limitando la superficie a terra del piede. Il corpo si muove nello spazio con l'uso di numerosi passi strettamente codificati, elaborati in sequenze che hanno termine con posture decorative fermate spesso in equilibrio precario (attitudes, arabesques). Le linee del corpo e quelle formate dagli spostamenti degli ensembles creano disegni armoniosi in cui predomina il carattere simmetrico e l'organizzazione spaziale bidimensionale. Nel balletto tradizionale l'espressività e l'azione drammatica sono delegati ai momenti pantomimici, in cui, pur mantenendosi l'impostazione corporea di base, sono concessi gesti aneddotici e allusivi, derivati per stilizzazione da quelli della realtà. La 'pura danza', in a solo, coppia o gruppo, esalta invece particolari atmosfere emotive o ha funzione meramente spettacolare. Tra la fine del 18° e l'inizio del 19° secolo, la spinta illuminista verso la 'verosimiglianza' scenica e l'ambizione del balletto di gareggiare come spettacolo totale con l'opera e il dramma, inducono alcuni grandi maestri-coreografi a privilegiare l'azione scenica rispetto alla danza astratta. Il ballet d'action di J.G. Noverre e il 'coreodramma' di S. Viganò accentuano le modalità narrativo-pantomimiche dello stile accademico, tentando di limitarne l'insorgente tendenza a esibire un'abilità tecnica fine a sé stessa. Il virtuosismo della danza accademica conosce, tuttavia, il suo apice nell'Ottocento, col trionfo del 'balletto romantico', la cui tecnica corporea è ben rappresentata nel trattato di C. Blasis (1820). La spinta all'elevazione si esalta con l'adozione delle 'punte', che, insieme a salti e a pirouettes sempre più complessi, paiono sfidare la forza di gravità. L'immagine della ballerina-silfide, lieve e incorporea nel caratteristico tutù bianco, ben rappresenta l'ideale femminile del romanticismo, fragile, misterioso e inafferrabile. Per quanto riguarda l'organizzazione ritmica, nel balletto il rapporto con la musica, appositamente composta da specialisti, si è fondato per secoli sulla stretta osservanza della misura musicale nella costruzione delle frasi di movimento, coincidenti in tal modo con la battuta. Soltanto nel Novecento, con il 'balletto moderno', la relazione musica/danza ha trovato impostazioni meno costringenti, più dialettiche e creative.

3.

La danza moderna e contemporanea

Con l'avvento del 20° secolo, la rivoluzione del pensiero sull'uomo e sul corpo, favorita dallo sviluppo delle scienze umane, si riflette con forza sulla concezione della danza. L'affermarsi di una concezione unitaria dell'uomo, in cui corpo e spirito (inteso come psiche e intelletto) sono strettamente connessi e interagenti, rivaluta il corpo e i suoi mezzi espressivi (movimento, voce, parola) come imprescindibile mezzo di manifestazione esterna dell'interiorità. Il movimento si fa di per sé 'espressione', o meglio, autoespressione, e nella danza raggiunge un livello poetico sentito come linguaggio artistico non verbale privilegiato, per la sua capacità di restituire l'organicità ontologica dell'interprete. Questa visione si lega al progetto ideale della cultura borghese avanzata e progressista di costruzione di un 'uomo nuovo' a partire da un ritorno alle origini, preconizzato da I. Duncan, come recupero delle leggi fisiche e psichiche naturali e della loro libera espressione individuale. In questa nuova prospettiva socioantropologica, validata anche da visioni filosofiche (F. Nietzsche), la danza d'arte rifonda i suoi principi a partire da un corpo 'naturale' ed 'espressivo', rifiutando le codificazioni convenzionali a priori e moltiplicando all'infinito le possibilità creative. La 'danza libera' e quella 'espressiva' centroeuropee (R. Laban, M. Wigman, K. Jooss) e la modern dance americana (I. Duncan, R. Saint Denis, M. Graham, D. Humphrey), si fondano su principi di base opposti a quelli della danza classica: massima aderenza al terreno favorita dal piede nudo e posizione naturale delle anche; completa liberazione e mobilità del tronco sentito come fulcro dell'energia motoria che si irradia ugualmente verso l'alto e verso il basso; uso libero ed espressivo di braccia e testa. Il movimento danzato è inteso come flusso continuo, regolato da una pulsazione energetica che si modella sul respiro e dotato di valenze 'metacinetiche', ossia in sé rivelatore degli impulsi interiori che lo generano (Martin 1933). Si evitano i parallelismi e le simmetrie decorative per privilegiare le più espressive e drammatiche opposizioni, le spezzature e gli squilibri corporei, senza esitare di fronte alle cadute e ai robusti contatti con il terreno. Il corpo del danzatore (i termini balletto e ballerino vengono respinti), ora pienamente cosciente della forza di gravità cui è sottoposto e del proprio peso, si muove tridimensionalmente nello spazio con nuova, scientifica consapevolezza, interagendo con esso come un partner e modellandolo attraverso il proprio movimento (Laban 1950). Il rapporto con la musica, benché sia sempre rilevante, diviene facoltativo e assume caratteri disparati: adesso è la danza a dettare i propri ritmi e la musica viene spesso composta contestualmente alla coreografia da musicisti d'avanguardia. Tra le diverse tecniche 'moderne' che vengono elaborate nei primi decenni del 20° secolo, le più complete e durature sono quella americana di M. Graham e quella tedesca di K. Jooss e S. Leeder. Queste e altre elaborazioni del movimento influenzano nel corso del secolo la danza accademica, rivitalizzandola e traendone a loro volta alimento, in una contaminazione reciproca. Nel secondo dopoguerra, la contestazione giovanile dell'arte come privilegio elitario e la mutata visione del suo ruolo culturale e sociale, raggiungono anche la danza. Si apre una nuova riflessione su un corpo 'democratico' come soggetto-oggetto del movimento e sull'essenza e il senso della danza come arte, che assume toni accesi, talvolta estremi. Il movimento americano della post-modern dance rifiuta negli anni Sessanta ogni tipo di tecnicismo e di teatralizzazione della danza, in un contesto di svalutazione dell'opera d'arte come permanenza e di identificazione, nel 'qui e ora' e nell'effimero, di arte e vita. Si privilegiano i corpi non addestrati, i movimenti 'inventati' o tratti dal quotidiano, l'improvvisazione e la casualità delle composizioni dei performer; si esplorano spazi inusuali e tempi reali o dilatati fino all'appiattimento e soprattutto si evidenzia il corpo nella sua fisicità ordinaria, sia statica sia dinamica. Camminate, corse, saltelli, cadute, rotolamenti, insieme a contatti fisici dolci e violenti con oggetti o persone, sono il materiale delle performance. Si rifiuta ogni significazione non autoreferenziale del movimento e si destrutturano ed esplorano in chiave minimalista (attraverso ripetitività e accumulazione) gli elementi di base del 'linguaggio' della danza. In Germania invece, dagli anni Settanta, il movimento del TanzTheater unisce tendenze postmoderne al recupero dell'espressività e della drammaticità ereditate dall'espressionismo. Sulla scena appare un corpo 'storico' ma straniato, che sorregge l'apparente quotidianità delle azioni con un perfetto addestramento nelle tecniche classica e contemporanea. L'improvvisazione su tema dei danzatori fornisce il materiale drammaturgico-coreografico (in cui non manca la parola) per il montaggio registico successivo. Movimento, parola e musica si trovano così di nuovo riuniti nella creazione di danza, ma la loro interazione è radicalmente mutata rispetto all'ideale classicista e forma una sorta di collage a volte disarmonico, dominato da un corpo vissuto, che parla di sé e dei suoi drammi esistenziali con la sua sola, svelata e imbarazzante presenza fisica. Negli anni Ottanta e Novanta, la danza contemporanea, in generale, privilegia un danzatore eclettico, addestrato in tecniche diverse e coreografo di sé stesso o capace di adeguarsi ai bisogni espressivi dei diversi 'autori' di danza. La vasta gamma delle creazioni attuali va dal più spinto virtuosismo acrobatico alle tecniche pure o miste dei maestri al minimalismo dei gesti 'trovati', e spesso fonde linguaggi artistici diversi o affronta l'ambito della multimedialità. L'interazione del corpo reale del performer con quelli virtuali del video o del computer è un campo di indagine aperto, che propone nuovi, interessanti approcci metalinguistici.

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