TROISI, Dante

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

TROISI, Dante (Gerardo, Beniamino). – Nacque a Tufo (Avellino)

Pasquale Beneduce

, il 21 aprile 1920, nella casa di via Pescara da Antonio, di mestiere calzolaio, e da Federica di Marzo, casalinga.

Borsista presso l’istituto Pietro Colletta di Avellino fino alla prima liceo, si diplomò a Parma presso il convitto nazionale Maria Luigia, a lezione, fra gli altri, da Francesco Squarcia, italianista e critico letterario, allievo di Attilio Momigliano.

Giovane aderente ai Gruppi universitari fascisti (GUF) – suoi due articoli apparsi nel Corriere dell’Irpinia del 1938 e del 1941, inneggianti al razzismo e alla guerra –, volontario allo scoppio del secondo conflitto mondiale, fu allievo ufficiale di complemento alla scuola militare di Avellino. Laureatosi in diritto penale alla facoltà di giurisprudenza di Bari nel giugno del 1942, raggiunse a settembre, con il grado di sottotenente, l’Africa settentrionale. Al comando di truppe libiche, a 550 km da Tripoli, in pieno deserto, al confine con Algeria e Tunisia, presso l’Oasi di Gadames – evocata negli anni Trenta dalle tavole coloratissime di Marcello Dudovich, poi, con i nomi di Sidaien e Gad, nei primi racconti autobiografici di Troisi – si distinse per episodi di valore, con riconoscimenti ‘al merito di guerra’. Dopo lo sbarco alleato nel novembre del 1942, catturato a Capo Bon, in Tunisia, il 13 maggio 1943 e trasferito a Casablanca, fu deportato negli Stati Uniti, a Hereford (Texas), nel luglio dello stesso anno. All’indomani dell’armistizio, prigioniero ‘non cooperante’ per il suo rifiuto di collaborare con gli americani e di far parte dell’ISU (Italian Service Unit), restò recluso nel ribattezzato Fascists’ Criminal Camp fino al ritorno in patria il 27 febbraio 1946.

La materia dei suoi racconti prendeva forma lentamente fra questi due luoghi spiazzanti: il deserto di sé e di un’intera generazione in terra d’Africa – «sono io e tutti quelli che ho conosciuto un bosco di ulivi piantato nella sabbia [...] ma la sabbia non cresce ulivi» (L’ulivo nella sabbia, Firenze 1951, p. 156) – e il campo dei “NON”, cui giungeva senza essere «più nulla né fascista, né antifascista, solo un soldato stufo della guerra» (La Gente di Sidaien e altri racconti, Milano 1957, pp. 66 s.).

A Hereford, fra monarchici e liberali, fascisti nostalgici e repubblichini, comunisti e socialisti, metafora di una italianità divisa, Troisi coltivò una radicale metamorfosi nell’incontro con coloro che divennero poi, nella nuova Italia del dopoguerra, giornalisti, artisti e scrittori: Ervardo Fioravanti, illustratore della rivista manoscritta Argomenti, fondata da Troisi fra le baracche del campo, il pittore Alberto Burri, Gaetano Tumiati, Giuseppe Berto, Aurelio Manzoni, giornalista e avvocato.

Con i suoi compagni di deportazione, Troisi partecipò al Giornale parlato promosso dal Comando italiano, accostandosi al gruppo cosiddetto dei collettivisti, capeggiati dal comunista Giosuè Ravaglioli, ideatore di seminari su Karl Marx e Antonio Labriola. Scrisse commedie interpretate da Tumiati, Berto e Burri – Speriamo la vita fece ‘slacrimare’ i compagni, sulla «speranza di cambiare la faccia del mondo al nostro ritorno» (cfr. Beneduce, 2016, appendice, p. 278).

Tornato in Italia, entrò in magistratura nel 1947 – Togliatti ministro di Grazia e Giustizia – con un concorso per soli titoli e fu assegnato alla pretura di Mede Lomellina (Pavia). Iscritto al Partito comunista italiano (PCI) dal 1947 al 1950, partecipò in Lombardia alle elezioni del 1948, come presidente del locale Blocco del popolo.

Nell’estate del 1950, dopo essersi unito in matrimonio a Napoli con l’insegnante Ardelia Pascucci da cui ebbe due figlie, Lucia e Federica, si trasferì come giudice a Cassino: appena liberata dalle macerie, la città della nebbia, immobile fra «gli argini eterni» dell’abbazia e del palazzo di Giustizia (v. Dante Troisi l’uomo e lo scrittore, 1991, p. 156), appariva agli occhi di Troisi come la nuova periferia di una stessa provincia originaria. Vi esercitò una «integrazione dolorosa» fra il mestiere di giudice e di scrittore: «la difficoltà di trovare nel prossimo che si avvicina al banco dei giudici la ragione di una condotta, è la stessa che si incontra nel voler definire un personaggio» (Intervista RAI Tv a Troisi, in Beneduce, 2016, appendice, p. 285).

La prosa fulminante e scarnificata per figure e ambienti, lo stile diaristico, la confessione pubblica, in prima e terza persona, per dire il conflitto fra giudicanti e defraudati, si sedimentarono in uno stile – «più che scrittore», rivendicava Troisi, «mi sento cronista e testimone del mio tempo» (ibid.) – frutto delle sue esperienze di collaboratore a giornali e riviste della nuova Italia.

Fra le principali collaborazioni giornalistiche si ricordino quelle con Sud, diretto da Pasquale Prunas, La Voce di Mario Alicata, Il Mondo di Mario Pannunzio, Il Ponte di Piero Calamandrei, Tempo presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. A quei fogli Troisi consegnò brani e anticipazioni dei suoi romanzi: mentre sul Mondo, a partire dal 1953, pubblicava frammenti di storie, poi confluiti nel Diario di un giudice (Torino 1955) per i Gettoni della Einaudi, al termine di una ruvida interlocuzione, avviata nel 1952 con lo stesso editore e i suoi collaboratori: Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini e poi Carlo Fruttero, Franco Lucentini e Guido Davico Bonino.

«Forse Lei ricorda il mio cognome», scriveva nell’ottobre del 1952 a Calvino, responsabile del Notiziario Einaudi, inviandogli una raccolta di quattro racconti lunghi. I commenti di Calvino e poi della Ginzburg, gli giungevano, rispettivamente a febbraio e a maggio del 1953. I racconti, scriveva Calvino, erano pensati «a freddo», non sperimentati sulla carne viva. La contaminazione fra la Resistenza e l’attuale situazione politica produceva una «mistura che non tiene», sopraffatta da «suggestioni metafisiche»: il modo «con cui Lei dice “politica” o “partito” indica che Lei non ha mai avuto un vero contatto con questi fatti: però [...] le stanno a cuore; cerchi davvero di vedere cosa significano». Dal canto suo la Ginzburg, li riteneva «troppo poco inventati schiacciati dai pensieri che ci son sopra» (cfr. Carte Troisi , in Beneduce, 2016, appendice, n. 2, pp. 188-190).

Nel febbraio del 1955, Vittorini inviava a Torino il Diario «con proposta di pubblicazione». Nel mezzo c’era stato il lungo lavorio di autoinchiesta di Troisi sul corpo della scrittura. I ragionamenti si svolgevano adesso non più dentro un fondale staccato dalla realtà, ma aderivano a un luogo scenico preciso, l’unità di tempo e di luogo del palazzo di Giustizia, ritrovando nella vita quotidiana e nelle storie a verbale l’assurdità del mestiere di giudicare.

La polemica dissacrante verso la verità dei processi e l’ingiustizia delle pene, già presente nelle prime opere – «Giovanni Tenda guardò il crocefisso sospeso dietro il seggio più alto e la scritta che vi era sopra la legge è uguale per tutti [...] gli parve che [...] fossero stati combinati per finzione» (L’ulivo nella sabbia, cit., p. 152) – qui si mostrava attraverso il trattamento ironico e perturbante dello spettacolo giudiziario e del ‘sacro ordine’ dei giudici. La giustizia equivaleva a vendetta: «sospetto di essere strumento di vendetta [...] di un uomo contro un altro uomo, del cosiddetto Stato contro il resto degli uomini inermi» (Diario di un giudice, cit., p. 31); «condannare è come uccidere [...] io ho sempre avuto una divisa e [...] fatto e patito violenze: la divisa di soldato, di prigioniero, di giudice» (p. 25). E ancora, a proposito del lavoro di giudice: «i più arrivano a questo mestiere giovanissimi, [...], convinti di esercitare una missione [...] attraverso il potere di condannare e assolvere» (p. 100). Infine, il paragone fra i giudici del tribunale e i monaci del convento, entrambi «deformati dai peccati e dai reati» (p. 109).

Il successo del libro – tremila copie la prima edizione – fu costellato da ripetute censure nei confronti del magistrato e dello scrittore. La realtà bruciante, registrata attraverso il filtro delle storie a verbale dei rapporti di polizia e delle risultanze istruttorie, affiorava in pagine-documento che interferivano con il racconto inventato. Nella nuova edizione del 1962, per i Coralli, Troisi si volle liberare, in una sorta di curiosa autocensura, di quelle pagine sperimentali percepite già nel 1955 come «un appesantimento (con l’effetto di deviare l’attenzione) e un ingombro (che scadeva nella cronaca)» (Carte Troisi, in Beneduce, 2016, appendice, p. 216).

Nel 1956, con l’azione disciplinare sollecitata al ministro di Grazia e Giustizia, Aldo Moro, da un parlamentare missino, Titta Madia – «è bastato che un fascista si sentisse offeso per far sorgere il bisogno di chiedergli scusa» (Carte Troisi, in Beneduce, 2016, p. 199) –, Troisi veniva incolpato per le diciotto pagine del libro nelle quali aveva compromesso il prestigio dell’ordine giudiziario. Nonostante la difesa di Alessandro Galante Garrone e la solidarietà di intellettuali e colleghi come Calamandrei, Arturo Carlo Jemolo e Raffaello Ramat, gli venne inflitto l’ammonimento e, in appello, nel 1957, la censura: al magistrato in quanto artista non era vietato l’esercizio della letteratura, ma gli era imposto di arrestarsi di fronte al dovere «di salvare il prestigio dell’ordine a cui appartiene» (Quale giustizia, 1977, nn. 38-39, p. 227).

La censura metteva sotto accusa, ancora una volta, Troisi che in un testo teatrale offendeva i nuovi poteri che si volevano affrancati dal passato recente. Se più tardi Il vizio dell’innocenza (1972) fu allestito per il terzo programma di Radio Rai, con la regia di Andrea Camilleri, al contrario, nel 1958, per Chiamata in giudizio, trasposizione teatrale di L’ulivo nella sabbia, l’Ufficio censura imponeva il taglio di una scena che mostrava una prostituta nella cella dei prigionieri. Nella riscrittura del dialogo, rifiutata da Troisi (che ritirava il testo), sarebbe dovuto risultare che i fatti risalivano al periodo transitorio dell’immediato dopoguerra, senza ordine né legge, e non al presente (cfr. La Libera Stampa, Lugano, 11 febbraio 1961). Nel 1962 fu autore, insieme con Berto, del soggetto e, con Leonardo Sciascia e altri, della sceneggiatura per il film La smania addosso di Marcello Andrei, con le sequenze memorabili sul grottesco di un processo di ambientazione siciliana.

A Cassino fino al 1968, Troisi scriveva i romanzi del ‘ciclo di Vallea’: ‘nuovi referti morali’ nei quali il conflitto si espandeva dalle aule di giustizia verso una dimensione universale.

In essi si ricalcava lo schema diaristico e quello della confessione pubblica, con l’invenzione di personaggi che si sdoppiavano e si consumavano in presa diretta nell’illusione di uscire dalla gabbia del quotidiano, ma senza più la speranza collettiva di un Nuovo Ordine: «oggi c’è una contumacia ostinata». Il secondo bersaglio era il campo letterario contemporaneo: «oggi è il fallimento che si respira nella maggior parte dei libri» dove i personaggi, seppure sembrano straziarsi in qualche dolore, «stanno attenti a farlo con il rispetto delle formule in voga» (cfr. I bianchi e i neri, Bari 1965, p. 49; finalista al premio Campiello).

Dopo le Voci di Vallea (Milano 1969) e il trasferimento a Roma, come giudice presso la VI Sezione penale del Tribunale, per un intero decennio Troisi non pubblicò romanzi. Interruppe il silenzio con un soggetto per il cinema, Angela (1971), sorta di noir sociale scritto con lo sceneggiatore e produttore Sergio Amidei, e con le Tre storie di teatro (Milano 1972).

In esse si pubblicava anche un nuovo testo, Il frutto dell’albero, una riflessione, in forma di dialogo, dall’interno della sala delle udienze e della Camera di consiglio, fra personaggi che si arrovellano sui codici, tentati a ogni passo di «gettare la toga e andarsene».

Nel 1974, l’anno della morte della moglie, si dimetteva dalla magistratura, svuotato dalla tensione del mestiere: «i giudici ad un certo punto sono usciti dal loro chiuso recinto per venire allo scoperto. Cessata la loro sacralità si sono trovati come esposti» (in Beneduce, 2016, p. 148). Nel 1978 la RAI realizzava un film, adattamento del Diario, con Ilaria Occhini e Sergio Fantoni, che però tradiva l’immagine dell’antigiudice, propria del libro del 1955, trasfigurandolo in un eroe pensoso al tempo del terrorismo. Nel 1979 usciva per la Rai TV La mano sugli occhi, un giallo in tre puntate con Leopoldo Trieste e Massimo Mollica, sceneggiato da Troisi che adattava il primo romanzo dell’amico Andrea Camilleri, Il corso delle cose, pubblicato solo nel 1978 da Lalli.

Nel 1981 Rusconi pubblicava La sopravvivenza, storia d’amore scandita soltanto dai quattro tempi circolari dell’oggi - domani - domani ancora - ancora oggi, dove il protagonista assisteva la moglie morente immaginando per sé una dolorosa sopravvivenza.

Negli ultimi romanzi il ‘viaggio scomodo’ dello scrittore abbandonava gli scenari precedenti per i più ristretti orizzonti di una camera da letto, di un condominio metafisico, o di un concerto, protagonisti rispettivamente di La finta notte (Milano 1984), L’inquisitore dell’interno sedici (Pordenone 1986; finalista al premio Campiello nel 1987), e La sera del concerto (postumo, con una nota di M.T. Giuffrè, Venezia 1991).

Morì a Roma il 2 gennaio 1989.

Opere. Per una rassegna dei romanzi di Troisi, si rinvia a: Dante Troisi l’uomo e lo scrittore, a cura di C. Di Biase - M.G. Giordano, in Riscontri, XIII (1991), 3-4; C. Di Biase, Dante Troisi, viaggio scomodo di un giudice, Napoli 1991. Per teatro e cinema: La smania addosso (soggetto in collaborazione con G. Berto, sceneggiatura con L. Sciascia et al., 1962); Angela (soggetto per il cinema, cit.); Tre storie di teatro (cit.); Il fratello (cosceneggiatura in collab. con M. Mida - A. Saguera, Rai TV 1975); Diario di un giudice (sceneggiatura e coregia, Rai TV 1978); La mano sugli occhi (soggetto e sceneggiatura, Rai TV 1979), tratto dal romanzo di A. Camilleri Il corso delle cose.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Fondo Giulio Einaudi, Carte Troisi; Cassino, Archivio del Tribunale, Sentenze Troisi (1950-1968); www.teche.rai.it.

Su Troisi magistrato e scrittore si vedano almeno: G. Pellecchia, Incontri: Berto, Pomilio, Rea, T., Napoli 1966, ad ind.; Un caso esemplare: D. T., in Quale giustizia, 1977, nn. 38-39; G. Manacorda, D. T., in Storia della letteratura italiana, Novecento. I contemporanei, VIII, Milano 1979, pp. 7845-7865; A. Galante Garrone, Il mite giacobino, Roma 1994, pp. 40 s.; M. Luminati, Priester der Themis: richterliches Selbstverständnis in Italien nach 1945, Frankfurt 2007; A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna 2012, pp. 297-301; P. Beneduce, Pagine in causa. Processo alla giustizia e pratiche del perturbante nel «Diario di un giudice», Napoli 2016.

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