CASTIGLIONE, Dante

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CASTIGLIONE, Dante

Paolo Malanima

Nacque a Firenze da Guido di Dante di Bernardo e Alessandra Tornabuoni il 1º giugno 1503.

Il padre, dei Signori nel 1498 e nel 1527,era giudicato dai contemporanei come uno di quei "popolani alla scapestrata" (G. Busini, p. 153), che avevano contribuito all'allontanamento dei Medici dalla città nel 1527. Oltre al padre, altri membri della famiglia parteciparono, nel periodo dell'ultima Repubblica, alle vicende politiche parteggiando per la fazione antimedicea. Un fratello del C., Lorenzo, era di tendenze repubblicane. Ma soprattutto uno zio del C., Bernardo di Dante, acquistava fama in Firenze, fra il 1527 e il 1530, come uno dei più risoluti esponenti del partito antimediceo degli Arrabbiati. Bernardo, nato nel 1457, dei Signori nel 1496, era considerato, negli anni dell'ultima Repubblica, uno degli "stiettissimi popolani" e di coloro "che amorno la libertà per se stessa" (ibid., pp. 57, 152). Seguace del Carducci, manifestava più volte la sua ostilità contro il partito del Capponi e contro coloro che, durante l'assedio, desideravano venire a patti col nemico. Occupò anche alcune cariche di rilievo. Nel 1528 e nel 1530 era dei Dieci di libertà e pace. Nel settembre 1529 venne inviato ambasciatore presso il principe d'Orange. La missione si risolveva con un nulla di fatto per l'opposizione di Bernardo ad ogni accordo che prevedesse il rientro dei Medici in città. Alle proposte dell'Orange rispose che "il papa non era per avere altrimenti Firenze che ridotta in cenere" (B. Segni, p. 206). Nel dicembre dello stesso anno riuscì fra i vincitori nel primo scrutinio per l'elezione del nuovo gonfaloniere. Insieme a Francesco Carducci fu una delle prime vittime dopo il rientro dei Medici. Venne infatti subito imprigionato e dopo poco, nell'ottobre 1530,giustiziato.

In una famiglia di repubblicani che, secondo i genealogisti, contava, nel corso del Cinquecento, ben otto ribelli, il C. rappresentò, fra il 1527 e il 1530, l'esponente di maggior rilievo. Ancora prima dell'allontanamento dei Medici dalla città, nel 1526, nel periodo d'incertezza seguito alla morte di Giovanni dalle Bande Nere, aveva occasione di manifestare le sue tendenze politiche e un modo di agire impulsivo e poco prudente, rimproveratogli dai contemporanei. Con un gruppo di giovani antimedicei "non meno nobili che animosi" (B. Varchi, I, p. 93), guidato da Piero d'Alamanno Salviati, si opponeva ad alcuni sbirri che intendevano disarmarli e ne uccideva alcuni. Il periodo di debolezza che attraversava il regime mediceo impediva alla giustizia di intervenire prontamente. Gli eventi che seguirono, e in particolare la partecipazione ai tumulti del 1527, culminati nella cacciata dei Medici, permisero al C. di evitare la condanna pronunciata tardi e mai applicata. Una delle prime decisioni della nuova Repubblica fu infatti quella di concedere l'assoluzione a diciotto cittadini giudicati negli anni precedenti. Il C. era fra quei diciotto.

Un altro avvenimento che portò il C. alla ribalta, immediatamente dopo l'allontanamento dei Medici, si verificò nel giugno 1527. Insieme a Piero Salviati, al fratello Lorenzo e ad altri giovani, il C. penetrava nella chiesa della SS. Annunziata in cui venivano conservate le statue di cera di alcuni membri della famiglia de' Medici, e distruggeva a colpi d'asta quelle di Leone X e di Clemente VII. La vicenda, che rendeva molto più difficile l'opera di conciliazione interna tentata dal Capponi, secondo le parole del Varchi, era "molto, e per mio giudizio con molta ragione, dagli uomini buoni e prudenti biasimata" (I, p. 256).

Il giudizio che i contemporanei davano del C., ritenuto come una testa calda al servizio degli esponenti del partito degli Arrabbiati politicamente più prestigiosi e più influenti, veniva riconfermato dagli avvenimenti a cui egli partecipò negli anni seguenti. Nel 1528 era sospettato di voler tramare l'uccisione di Ottaviano de' Medici. Nello stesso anno si impegnava per promuovere la creazione di una guardia armata al palazzo della Signoria con l'intento di esercitare un controllo sugli ambienti più moderati. Secondo il C. l'eliminazione della guardia, prospettata dai moderati, sarebbe stata un "inganno" che avrebbe provocato il ritorno dello "stato nelle mani de' Medici, e per conseguente sotto l'antica tirannia" (ibid., I, p. 358).

La crisi che colpiva il partito degli Arrabbiati negli ultimi mesi del 1528 finiva per coinvolgere anche il Castiglione. In particolare la condanna a morte comminata a Iacopo Alamanni, seguace di Baldassarre Carducci, compromesso per l'uccisione di un aderente del Capponi, gettava lo scompiglio nelle file degli Arrabbiati. In quest'occasione il C. progettava con altri il tentativo di un colpo di mano contro i moderati che sarebbe culminato nell'occupazione del palazzo. L'esiguità del numero dei partecipanti al complotto dissuase tuttavia gli Arrabbiati dall'effettuarlo. Il caso dell'Alamanni provocò anche contrasti fra il C. e lo zio Bernardo. Quest'ultimo infatti,che nel 1528 era dei Dieci di liberta e pace, pur condividendo le idee politiche del nipote, votò a favore della morte dell'Alamanni. Alla domanda del C. sulle motivazioni del voto di Bernardo, quest'ultimo rispose di avere acconsentito alla condanna di morte "perché e' non fussi disaminato, e dicesse cosa, onde tu portassi poi pericolo. Allora Dante... gli dette un calcio e gli disse villania" (G. Busini, p. 27).

Nei mesi immediatamente successivi l'ostilità che colpiva i più accesi degli Arrabbiati doveva indurre il C. ad abbandonare temporaneamente Firenze. Il Busini fornisce infatti la notizia secondo cui il C. sarebbe riparato a Venezia. Probabilmente in seguito all'elezione di Francesco Carducci alla carica di gonfaloniere nell'aprile 1529 e alla ripresa del partito più intransigente il C. rientrava in Firenze. Nel corso dello stesso anno fu al centro di alcuni avvenimenti che ebbero vasta risonanza in città. Per ordine del Carducci, almeno a quanto si diceva, minacciò Lorenzo Segni che, in un discorso nella Pratica, si era dimostrato favorevole ad un accordo col papa. Con altri partecipò poi all'incendio della villa medicea di Careggi.

L'avvenimento che doveva tuttavia portarlo alla ribalta facendogli risalire l'ondata di sfavore che lo aveva colpito e che doveva renderlo famoso anche in seguito si verificò nel marzo 1530. Lodovico Martelli, amico del C., sfidava a duello il fiorentino Giovanni Bandini, che si trovava nell'esercito nemico, accusandolo di tradimento. Il Varchi avanza l'ipotesi che la causa del rancore fra i due fosse piuttosto una donna (Marietta de' Ricci) che un sospetto di tradimento. Il C. si fece avanti come compagno del Martelli e si dichiarò pronto ad affrontare Bertino di Carlo Aldobrandi, che, come il Bandini, alloggiava presso le truppe nemiche. Scambiatisi i soliti cartelli di sfida (composti per il C. e il Martelli da Silvestro Aldobrandini) i quattro contendenti si incontrarono fuori di Firenze la mattina del 12 marzo 1530 davanti a un folto pubblico. Il Martelli, ferito a morte dall'avversario, si dichiarò vinto. Anche il combattimento del C. con l'Aldobrandi volse a sfavore del primo, che venne colpito alle braccia e alla bocca. Sembrava ormai sconfitto quando, impugnata con le due mani la spada, trafisse l'avversario alla bocca e lo colpì a morte. L'impresa procurò al C. una notevole fama e probabilmente costituì la causa della sua elezione nel luglio alla carica di capitano della Milizia.

All'arrivo dei Medici, insieme al fratello Lorenzo, detto Cencio, anch'egli noto appartenente agli Arrabbiati, il C. riuscì ad abbandonare Firenze in abito da frate. Veniva di lì a poco condannato in contumacia e bandito dalla città. Il capo di imputazione più pesante era l'incendio della villa medicea.

Non conosciamo con esattezza gli spostamenti del C. dopo l'abbandono di Firenze. Sembra che prima si dirigesse a Venezia e poi a Roma. Sappiamo tuttavia che, in contatto con gli altri fuorusciti, elaborava la proposta all'imperatore Carlo V di destituire il tiranno Alessandro de' Medici e di proclamare signore il card. Ippolito de' Medici. Fra gli esuli fu eletto dei sei procuratori incaricati di raggiungere il cardinale a Itri, vicino a Gaeta, e di seguirlo, con altri, presso l'imperatore, che si trovava a Tunisi, per convincere quest'ultimo a sostenere i progetti dei fuorusciti. L'iniziativa doveva venire abbandonata ancora prima di essere intrapresa. La morte del cardinale Ippolito il 10 ag. 1535, quando erano in procinto di partire per Tunisi, indusse i fuorusciti a ritornare indietro. Nel viaggio di ritorno verso Roma il C., insieme ad alcuni compagni, morì nell'estate del 1535 nei dintorni di Napoli "di febbri maligne e pestilenti; e dissesi allora pubblicamente, ch'eglino morirono tutti di quel medesimo veleno di che era morto il cardinale de' Medici, e che il capitano Pignata l'aveva portato di Firenze, mandato dal duca Alessandro, per farlo dare a loro e al cardinale" (B. Varchi, III, p. 95).

La figura del C., considerato dai contemporanei come un uomo d'azione privo dell'acume politico di cui erano dotati altri rappresentanti del partito degli Arrabbiati, venne rivalutata nei secoli successivi, per il duello combattuto nel 1530, e l'episodio fu considerato come uno degli esempi più luminosi di amor di patria. L'immagine del C. venne rappresentata dal Vasari in un affresco dedicato all'amor patrio in palazzo della Signoria insieme a Temistocle, Scipione l'Africano, Farinata degli Uberti, Lorenzo de' Medici. Altri aspetti della personalità del C. vennero trascurati e, ancora nel Settecento, D. M. Manni lo elogiava come fulgido esempio di "amante della libertà".

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