Dante Alighieri, Opere minori: Rime - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1995)

Dante Alighieri, Opere minori: Rime - Introduzione

Gianfranco Contini

Meglio che di Canzoniere, come si fa, sembra, sulle orme di Charles Lyell (1835), è prudente discorrere di Rime di Dante: poiché alla cinquecentesca accezione di «canzoniere» involontariamente s'associa, dopo l'esperienza petrarchesca, l'idea d'un'opera unitaria, dell'avventura organica d'un'anima, e si tende così a riportare al Duecento l'esigenza d'una cosciente costruzione psicologica almeno tanto quanto stilistica, chiusa nell'armatura d'una storia perspicua, e nella quale lo stile è, appunto, anzitutto quello sforzo perenne d'eliminazione e semplificazione. Anche in Dante ci furono tentativi d'unificazione, principalissimo quello della Vita Nuova:  ma si tratta d'unificazione sopraggiunta, fatta di cose del passato al chiudersi della giovinezza, e con l'intenzione di liquidare liricamente un periodo per prepararne un altro più splendido («io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna»); è dunque unificazione parziale, aneddotica, fatta con un presupposto di pluralità, e insieme unificazione trascendente, cercata in un sistema di razos e in uno schema narrativo. A prescindere dagli altri gruppi spontanei (ma quello designato da Parole mie è cosciente), un tentativo d'unificazione, assai meno saldo, è anche quello interrotto del Convivio: raccolta delle canzoni allegoriche più impegnative, nelle quali è costante l'intenzione che la bella forma sia, senza possibilità di distinzione, celebrazione delle grandi virtù morali. Per tal modo, il così detto Canzoniere dantesco gravita attorno all'assenza almeno della Vita Nuova, comprende i residui delle rime escluse e le molte novità successive allo stilnovismo puro, e si può definire per la più superba collezione di «estravaganti».

È constatazione ovvia che la storia della nostra lirica delle origini si fa ancora secondo schemi danteschi, corrispondenti certo a esigenze critiche generali dell'epoca, ma veramente esistenti dopo l'imperativo di Dante (costituzione di scuola siciliana, di dolce stile, limitazione sicula del guittonismo); e a maggior ragione quella della lirica stessa di lui. Non si tratta soltanto di definizioni nominali, come le «nove rime», o poesie della loda, e il «bello stile» che a Dante ha fatto onore, esemplato sull'alta Tragedìa di Virgilio, quello delle grandi canzoni, legittimamente isolate come applicazione, ognuna, dello stile tragico; ma soprattutto del fatto che il giudizio critico di Dante sui predecessori e i contemporanei, dai Provenzali a Cino, è in funzione della sua propria poetica. Quegli elementi di storia letteraria dantesca sono contenuti sì in un'opera teorica come il De vulgari eloquentia, che del resto vale come giustificazione del «bello stile» ora descritto, e sintomaticamente s'interrompe quando aifragmenta di stile tragico è successa in modo definitivo l'organicità del poema; ma si trovano almeno altrettanto nella Commedia, la quale nella sua ricchezza vitale è anche una somma stilistica. Pensiamo quanto siano essenziali allo stesso Convivio l'apologia del volgare e la giustificazione del banchetto ideale che, succedendo alla giovanile Vita Nuova, stringerà in unità le canzoni allegoriche dell'epoca virile; e sarà chiaro come una costante della personalità dantesca sia questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia, quest'associazione di concreto poetare e d'intelligenza stilistica. Ciò conferisce all'opera di Dante una singolare apparenza, non diciamo di discontinuità, ma di periodicità ritmata: non mai pace in lui, ma il tormento della dialettica. Meno dunque che per altri poeti è illegittimo in proposito di lui, proprio per quei residui d'una trascendenza poetica, il procedimento didascalico (certo privo d'un'opportunità universale) che consiste nel riconoscere nell'opera omnia d'un autore le tracce d'una cronologia ideale. Residui d'una trascendenza poetica; e quell'attuare lo stile non come una tensione assoluta, secondo il modulo che sarà dell'umanistico Petrarca e poi del platonico Rinascimento, bensì come una prova «locale»; quel senso non tanto d'un limite generale della forma quanto delle limitazioni particolari degli stili scolastici; quel suo degradare un'esperienza precedente, toglierle la sua finalità intrinseca, usufruirla come elemento dell'esperienza nuova. In questo senso le Estravaganti dantesche hanno una linea unitaria, ma che è lo stesso procedere inquieto di Dante di saggio in saggio; e il canzoniere non è frammentario soltanto per il ricercatore di fulgurazioni e d'intuizioni pure, ma in quanto serie di tentativi, come, scandalizzando mezzo il mondo umbratile dei dantisti, riconobbe uno dei loro, uno specialista acerrimo, il Parodi.

l maestri e gli amici di Dante mostravano già tutti una notevole latitudine di possibilità tecniche e di gusto. Non parliamo dei Siciliani, per i quali il problema della coerenza stilistica difficilmente potrebbe addirittura esser posto. Il primo Guido era stato un curiale guittoniano tanto docile da meritarsi, quando poi ebbe «mutata la mainera n, da parte d'un altro rimatore di stretta osservanza quale Bonagiunta, non soltanto rimproveri ad personam, ma la precisa obiezione critica che poesia non è scienza; sennonché la sua novità non era solo quella dottrinale (apparentemente) di Al cor gentil, e neppure si fermava al mito della donna salutifera, ma giungeva a includere l'aneddotica borghese di Chi vedesse a Lucia un var capuzzo e il primitivo «realismo» di Diavol te fera. Anche più disinvolto, il Cavalcanti sapeva rifare con un virtuosismo del resto freschissimo un po' tutt'i «generi» della lirica, il tema della pastorella transalpina (In un boschetto), la canzonetta siciliana (Fresca rosa novella), certo panismo naturalistico inventato dal Guinicelli (Biltà di donna); in fatto di rigore ed esoterismo dottrinale riusciva a battere i più sapienti (Donna me prega), l'analisi psicologica era capace di portarla fino alla parodia; né, benintesotutti questi erano modi da gran signore -, comprometteva mai la sua malinconia splenetica di gentiluomo un po' snob. Quanto a Cino, se si guarda bene, l'unità tonale di questo, secondo il luogo comune, precursore di Petrarca è un tantino involontaria, o diciamo psicologistica (il limite del suo petrarchismo avanti la lettera sta appunto qui); e fra tanti guai e lacrime e paura e senso della morte può aver luogo perfettamente, sulla stessa linea ma in fondo, un sonetto su motivo obbligato (Tutto ciò ch'altrui agrada), che oggi nessuno si sogna più d'intendere come un temibile documento romantico, ma si riconduce ai modi caricaturali d'un Cecco Angiolieri e del Trecento giullaresco. La varietà di Dante, che materialmente non è minore, fra la ballata della ghirlandetta o quella per Violetta e le rime petrose, fra il sonetto per la Garisenda e la canzone Tre donne o la montanina, ha un tutt'altro significato. Mai in lui un sospetto di scetticismo. Ci sono scherzi anche nella sua opera, ma remotissimi dai centri dell'ispirazione. In fondo, una serietà terribile: tutte le «imitazioni» sono lasciate depositare fino all'ultimo, giungono alle estreme conseguenze (alcuni frutti della lettura dei Siciliani dureranno indelebili nelle Rime), ma non deviano mai verso l'amplificazione un po' cinica da cui può uscire la parodia. In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell'ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall'ansia di perfezione. Vi è da una parte, in universale e nella ricchezza dei tentativi danteschi, una tecnica dolce, che vuol cancellare il suo sforzo, si risolve in un piano tessuto scrittorio modulato senza dislivelli - ma è poi lo stesso mondo della Vita Nuova, la rinunzia alla terra e l'ascrizione a una donna tanto più reale quanto meno si concede al poeta, quanto più si sottrae fino al suo saluto e al suo sguardo, e diventa realissima quando è fisicamente morta; lo stesso clima dove la vittoria sul peccato, ripetiamo: lo sforzo della vittoria sul peccato, tende a perdere d'eccezionalità e a normalizzarsi nell'accettazione quotidiana d'un ideale. E così (distinguiamo assai sommariamente questi due poli estremi d'ispirazione) v'è una tecnica aspra, che sottolinea lo sforzo, esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima- ma essa è una sola cosa col sentimento dell'amore e della vita difficile, dell'ostacolo, del superamento. Un esempio varrà in modo perentorio, per questa seconda accezione: e proprio uno nel quale Dante si trovi in contatto con uno dei suoi amici intrinseci. Un sonetto di Cino al marchese Malaspina è un lamento per le sofferenze recate da un nuovo amore, fatto su rime piuttosto facili, con un calembour sul nome del signore e qualche avanzo d'esoterismo guittoniano nell'inizio e nell'explicit. La risposta per le rime in persona di Moroello la scrisse Dante, insistendo sul motivo, che anche altrove ricorre, della volubilità di Cino, contrapposta da un lato all'incanto della sua poesia, dall'altro alla passione autentica del risponditore. Uno sguardo comparativo gettato sulle rime delle quartine basta a convincere dell'abisso di sapienza che separa i due artefici: Cino oro, inchina, spina, moro, ploro, fina, destina, dimoro; Dante tesoro, latina "chiara", disvicina, foro, poro, medicina (verbo), affina, discoloro. Qui è già la magnanimità lessicale della Commedia, e già piuttosto quella delle due ultime cantiche: fori come "ferite" rompono la persona di Jacopo del Cassero, il sole discolora l'erba metaforica della nominanza mondana nella comparazione di Oderisi, e sarà latino raffigurare Piccarda Donati; se medicinare è un fortunato provenzalismo, la bella litote ch'è in disvicinare ha lo stesso marchio inventivo delle creazioni verbali quali dismentare, immillare o indovare. Ed è istruttivo vedere questa robustezza di vocabolario risalire il corso del verso, propagginarsi a ritroso rispetto alla rima ch'è il «centro di difficoltà»: «ma volgibile cor ven disvicina»; oppure «ove stecco d'Amor mai non fe' foro»; o anche «del prun che con sospir si medicina». Se l'irradiazione muove dalla rima val quanto dire che il punto di partenza dell'ispirazione è l'ostacolo (quella che fu chiamata, più o meno propriamente, la «resistenza del mezzo»); e l'ostacolo è il nemico da vincere tutt'i giorni, lo stato permanente di guerra, la coscienza dell'eros pericoloso a cui cede, e in cui trova perfezione e gloria, il poeta. Analoghe osservazioni dovrebbero farsi circa le terzine (Cino conte "note", gioia, noia, moia, monte, fonte; Dante fronte, poia, croia, ploia, conte "abili", ponte in locuzione fortemente idiomatica); segnando la differenza che ivi Dante insiste, polemicamente, sulla controparte negativa opposta alla moralità del tormento accettato ogni volta, la disonestà dell'incostanza. Essenzialmente, il «mezzo» tecnico non è che strumento dell'indagine di sé stesso, e più esattamente è la stessa religiosa sete in atto; con che non si vuole escludere, in pratica, la caduta magari frequente nei pericoli dell'astratto tecnicismo. E se la corrispondenza di singole tecniche a singoli momenti dell'anima di Dante poteva da principio solo distruggere l'ipotesi d'un'eventuale equidistanza dalle singole esperienze e fondamentale disinteresse per loro (che non si può respingere per alcuni colleghi di lui), e con ciò sembrare appartenere alla storia del costume e al cerchio della vita morale, quella varietà apparisce poi invece evoluzione spirituale nella sua circolazione, e dunque fatto formale.

Se nel parlare della lirica di Dante viene continuo il ricorso ai poeti della sua età, questa circostanza, come non dalla superstizione della storia letteraria, così neppure muove dal consueto artificio didattico della definizione per differenziazione e antitesi, risponde bensì alla natura del fatto trattato, è una riproduzione di essa nel critico. Il dolce stile è la scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un'opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che più ha il senso della scuola. È poco, e inesatto, pensare a un ideale stilistico comune, indipendentemente accettato da ogni adepto; ma ci sono in più, nel dolce stile, tutte le premesse sentimentali d'una congruenza di lavoro, e in primo luogo l'idea d'un'amicizia che ricorda, in questi signori decaduti e borghesi dell'alta cultura, la parità e la solidarietà dei cavalieri oitanici. Il sonetto Guido, i' vorrei  giustamente s'interpreta per solito come prodotto tipico del gusto stilnovistico, non però in quanto si estragga da questa lirica il motivo dell'evasione fatata verso esotiche lontananze, nel quale si può riconoscere senza soverchio sforzo la tradizione del plazer provenzale e giullaresco, ma in quanto quella fuga verso un mondo irreale si dovrebbe compiere affettuosamente fra amici stretti, con le loro belle, e in questa vicinanza, fatta più calda dalla sua natura immaginativa, i desideri sarebbero gli stessi e la voglia di stare insieme crescerebbe. Assoluta separazione dal reale che si converte in amicizia, questo è il contenuto autentico della lirica; e l'amicizia è l'elemento patetico definitorio di stil nuovo. Nella pratica del fatto poetico, la tendenziale indifferenziazione dei rimatori, il loro disinteresse o rifiuto a sottolineare la distinzione delle individualità, sono fatti un po' ostici alla comprensione della mentalità occidentale dopo l'esaltazione soggettivistica recata dal grande romanticismo europeo. Poiché non si tratta di quella equiparabilità involontaria che renderebbe aspramente difficile l'attribuzione delle opere, se anonime, anche dei minori romantici, dell'accezione sentimentale o storico-nazionale, e più tardi dei simbolisti minori e oggi dei surrealisti minori; e non si tratta solo della poetica oggettiva dei periodi «classici» (l'esigenza dell' Hic est l'afferma, nell'antichità, Marziale, proprio un autore d'epigrammi ...), ma di qualcosa di più risoluto, perché il classico crede da buon operaio a un canone di ars, lavorativo, e lo stilnovista crede a un'ispirazione assoluta, si tiene, secondo l'espressione dantesca, stretto con la sua penna al dittatore, Amore. L'intercambiabilità frequente delle attribuzioni nei manoscritti, il fatto che entro certi confini, in mancanza di sicure attestazioni documentarie, i dati stilistici non sarebbero sufficienti a una «perizia» distintiva circa alcune coppie d'autori, sono il pallido riflesso esterno d'un'intercambiabilità, prima ancora, teorica. Lo spartiacque fra Dante e Cino, per citare un caso tipico (e prescindendo dalle circostanze che resero possibile lo scambio, ma frattanto non avrebbero potuto agire così largamente fuori del medio evo), è tutt'altro che sicuro. Incertezza giuridica - è addirittura truistico sottolinearlo - che vale quanto inessenzialità della proprietà e dell'individuo.

Veramente, quanto Dante dice nell'episodio di Bonagiunta a cui pur ora si alludeva, è il testo fondamentale per la comprensione del dolce stile. Occorre però interpretarlo compiutamente; e intendere che l'ispirazione («Amor mi spira») non è ispirazione privata, occasionale, e neppur solo ispirazione dell'ordine amoroso[1] (anche le armi, riconoscerà il De vulgari, possono essere oggetto dello stile tragico, ma a questo punto si sarà già passati dalla considerazione d'uno stile «generale» a quella d'uno stile «particolare», tecnicamente inteso), bensì proprio ispirazione movente da un principio trascendente, deciso abbandono ad Amore. L'ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest'analisi non va già riferita all'individuo empirico, ma, di là da questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch'esso, oggettivo e assoluto. Questo spiega come la persona del nuovo trovatore, lungi dall'affermarsi, si dissolva nel coro dell'amicizia; e quest'amicizia, oltre a essere la possibilità generale di quella tale poesia, sia assunta addirittura in veste di motivo poetico iniziale. Al coro degli amici entro cui si perde il poeta, risponde dall'altra parte, come motivo poetico gemello, il fondo corale delle donne dal quale si stacca come regina, e come sede fondamentale del loro onore e fonte della loro bellezza, la beatrice. S'intende che, in questo clima di paradiso terrestre, anteriore alla storia, se dal lato di Adamo esistono alcuni uomini in carne ed ossa, la minor clientela femminile ha il solo compi to di sottolineare Eva, e vive per metafora di quegli amici attorno al poeta. Resta che, come costui, il personaggio che parla in prima persona, è l'«individuo assoluto», anche la donna perde ogni attributo storico, ogni possibilità di autentica pluralità. E se si estende man mano il campo d'osservazione, si constata che l'intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente. In un modo piuttosto elementare ed empirico (ma si parte proprio dalla terra classica dell'empirismo), questa verità è stata esposta come segue dal più illustre dei poeti inglesi d'oggi, non appena egli ha negato che il «romanzo» dantesco possa avere l'odierno significato di confessione: «È difficile concepire un'epoca, o più epoche, in cui degli esseri umani avevano qualche preoccupazione per la salute dell"'anima", ma non già l'uno per l'altro in quanto "personalità". Ora, Dante, io credo, aveva esperienze che gli sembravano d'una certa importanza; non importanti perché capitate a lui e perché lui, Dante Alighieri, fosse una persona importante che teneva occupati gli uffici di ritagli giornalistici; e perciò gli pareva che avessero certo valore filosofico e impersonale» [T. S. EuoT, Dante, p. 63 dell'edizione originale]. È sempre utile tener presente la nostra formazione romantica di moderni, educati al culto estetico di reazioni soggettive che s'offrono ignude; per misurare quanto, al confronto, lo stilnovista le rappresentasse, figurativizzasse. Un sistema, per così dire, plastico di rapporti tra cose è il solo modo col quale, per lui, tollerino di ordinatamente esprimersi gli oggetti del suo sogno: quello che recentissimi, e un po' eccentrici, lettori anglosassoni, partendo dalle premesse che si son lette, esprimono con la suggestiva formula del "correlativo oggettivo». Curandosi solo che la figurazione non sia irrelata e poco preoccupandosi del concreto soprasenso, tali estrosi interpreti saranno esegeticamente insufficienti; in pratica, tuttavia, un esercizio di traslitterazione della figurazione oggettiva stilnovistica negli schemi della rappresentazione soggettivistica di tipo «romantico» può servire, oggi, pedagogicamente a mostrare il significato di quell'incarnazione in termini plastici. Allorché Dante, nel sonetto Sonar bracchetti, si fa rivolgere, come da un folletto, da un «pensamento» (ossia preoccupazione) amoroso il rimprovero, o diremo il «gabbo», di sostituire le soddisfazioni borghesi della caccia al dovere cortese del joi d'amor, abbiamo presente l'«azione» esterna d'un interno rimorso: in luogo dei miti della coscienza, una piccolissima «sacra rappresentazione» (ma occorre non dimenticare che, da questo punto di vista, è un carattere generale dell'arte del medio evo l'intima drammaticità, anzi teatralità). E quando altrove (sonetto De gli occhi de la mia donna) Dante ritorna al più periglioso dei passi («e tornomi colà dov'io son vinto»), e innanzi agli occhi della donna i suoi si chiudono e il desiderio muore, questa mossa figurazione plurale e spaziale si tradurrebbe per: cedere alla tentazione e soccombere. Un uomo che cerchi di scacciare come poco virile i pensieri tetri, e non ne sia capace, e solo col sopraggiungere del desiderio d'amore riesca a precisare quell'inquietudine nel sentimento istante della mortalità dell'amata: questa è la versione di Un dì si venne a me Malinconia; la quale frattanto si lascia sfuggire il profumo fondamentale del sonetto, cioè il concretarsi del presentimento, privato, in visione, tangibile, insomma la realtà dell'angelo. Un ultimo esempio sarà il più chiaro come il più calato in favola, quello di Lisetta, diagramma della vittoria sulla tentazione in uomo forte: il desiderio è baldanzoso finché erri nella zona vaga delle velleità, ma non può incrinare la saldezza della decisione morale. È chiaro, data la mentalità che muove la poetica medievale, come non si tratti, in questo sonetto, d'un fatto fisico, d'un'autentica Lisetta respinta. E a questo punto, anzi, il frutto che Dante poteva ancora trarre dalla separazione siciliana della donna dalla sua immagine, dipinta nel cuore dell'amatore, è evidentissimo. Lisetta è reale (non si parla, che sarebbe troppo superfluo, del punto di vista assoluto, ma proprio della coscienza iniziale del poeta) in quanto fantasma della mente di Dante. Pertanto l'identificazione e distinzione, laboriosamente e discordemente operata, delle così dette donne amate da Dante, quando non miri a isolare chiaramente delle esperienze poetiche, com'è dichiarata allotria dalla critica estetica, è anche estranea alla stessa poetica dantesca. Un'altra conseguenza discende, importante questa, nell'ordine tonale: separati e fatti distanti i suoi avvenimenti interni, il poeta può spianare il cipiglio che nel romantico induce l'ossessione di sé (con la scappatoia ultima del grottesco), può passare per una serie d'intenerimenti o confusioni, di riprese di sé e sorrisi («prendo vergogna, onde mi ve n pesanza» ; «Amore f Io mira con pietà ...»; «"Che hai, cattivello?"»; «"Or ecco leggiadria di gentil core ..." »; «Passa Lisetta baldanzosamente»); e in Dante, serissimo circa il metodo, si delinea la possibilità germinale d'una sua «ironia».

È appunto la descritta mancanza di «lirismo» nella lirica di Dante che spiega meglio come, a uno sguardo storico generale, non appaia in essa uno «sviluppo» stilistico chiaro e distinto, ma un processo d'inquietudine permanente. La prima svolta che si possa individuare in una formula, è costituita dalle nove rime». Di abbandono del guittonismo per lo stilnovismo non è infatti il caso di parlare in senso proprio, perché, dal punto di vista della scuola, le rime guittoniane di Dante sono galanterie, scommesse, peccata iuventutis, e quella presunta conversione è solo uno scivolare d'amicizia in amicizia (s'è visto che significhi l'importanza dell'amicizia), da quella per l'omonimo da Maiano, per Lippo, forse per Chiaro Davanzati e Puccio Bellondi, a quella per Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, e mettiamo anche Guido Orlandi e Meuccio Tolomei. Dal punto di vista dell'esercizio, invece, il Dante guittoniano che spacca in più modi una parola come parla per moltiplicare le rime equivoche, e fa rimare ch'amato colo raro camato (quasi un ἅπαξ λεγόμενον!), e indulge alle replicazioni («ciò che sentire l doveano a ragion senza veduta, l non conobber vedendo»), permarrà per qualche traccia nel Dante della Commedia, che, dopo anni di astensione da simili procedimenti nel clima «tragico n delle grandi canzoni morali (le «distese» della silloge boccaccesca), metterà, poniamo, un non ci ha in bocca a mastro Adamo a rimare con oncia e sconcia, e Pier della Vigna farà lamentare della meretrice che infiammò contro lui gli animi tutti, e gl'infiammati infiammarono Augusto, e in una calda perorazione pregherà e ripregherà Virgilio, che il prego valga mille. I commentatori ripetono, e non hanno torto, che il falsario sta appunto bestemmiando la sua tremenda immobilità («potessi in cent'anni andare un'oncia»), e un'estensione umanamente ridicola gli s'amplia spaventosamente innanzi, fino all'angoscia della rima franta («e men d'un mezzo di traverso non ci ha»); ripetono, con ugual legittimità, che al ministro di Federico II ben si conviene un discorso da dittatore principe, e che nelle orazioni vanno dispiegate le veneri della retorica del secolo: così spiegano come il Dante guittoniano non passeggi più libero, ma sia incapsulato e messo a profitto, entro il Dante della Commedia; e come questi, parlando di Guittone con disprezzo, discorra d'un momento primitivo ben sopraffatto entro di sé. Il guittoniano che esistette, inesperto, allo stato puro, è ora subordinato e docile, in funzione di ben altra cosa che l'astratto esercizio. È certo che va distinto anche entro Guittone; e lo storico, il quale dev'essere pio senza sforzo ai grandi caduti nella lotta per la gloria, ha l'obbligo di riconoscere che qualcos'altro, e ben più essenziale, passato attraverso Dante nella massima coscienza e tradizione letteraria italiana, la costruzione lirico-saggistica, moverà culturalmente da un'iniziativa che non spetta ad altri che a Guittone, a Frate Guittone. La vena eloquente ed energica che correrà da Poscia ch'Amor a Doglia mi reca è ovviamente nel solco della sua canzone morale. L'ingratitudine di Dante verso il vecchio maestro, non diversamente dall'antidannunzianesimo di parecchi nostri contemporanei, è appunto il segno, anche, d'averlo battuto sul suo terreno più proprio, di estremo merito, d'aver saturata e varcata l'ambizione suprema in lui.

Se per Dante lo stilnovismo è, come s'è detto, essenzialmente fedeltà al («dittatore», e dunque poetica dell'aggettivazione dei sentimenti, il suo culmine e insieme il suo punto d'innovazione è costituito dall'istante in cui l'organizzazione dei fedeli d'Amore si fa completa fino a includere la giustificazione della parola. Il mito è certo fra i più belli che annoveri la storia delle poetiche (Vita Nuova, XVIII): se la felicità non sta più neppure nel minimo di cosa esterna all'amante, il saluto di madonna, che finora era la causa finale della vita di lui, essa consisterà in qualcosa di permanente, «in quelle parole che lodano la donna» sua; e poiché - tema del «coro» femminile e tema dell'«aggettivazione» del rimorso insieme - le gentili donne lo rimproverano d'avere usate altre parole che le volte a quella lode, propone «di prendere per matera de lo» suo «parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima». È dunque un'esigenza d'unità e totalità quella che muove la mente di Dante e determina le «nove rime» (la razo di Donne ch'avete ci fa altresì assistere al rapporto fra l'ispirazione, l'est deus in nobis, da cui trae origine il «cominciamento», «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa ... », e il lavoro, il pensiero di «alquanti die»). È la stessa esigenza che ispira l'estensione della poesia amorosa alla poesia morale, e dalle «nove rime» fa uscire il «bello stile». Un tal passaggio è allegorizzato nel sonetto Due donne in cima de la mente mia, in cui l'unicità d'amore si scinde dapprima negli aspetti di bellezza e virtù, e poi torna a comporsi nella solidarietà primitiva, proclamata, si noti bene, da Amore in quanto «fonte del gentil parlare», in quanto «dittatore» insomma. Rimane sempre, s'intende, il rischio che quest'unità s'incrini, il rischio della poesia allegorica. Fin qui non si trattava di allegorismo, nel senso corrente (dualistico) di questa parola, anzi la poetica oggettiva che s'è descritta è press'a poco l'inverso dell'allegorismo, come tutta presa dalla preoccupazione eminentemente unitaria della presentazione sensibile di fatti interni. L'allegorismo s'inizia col divorzio dei significati; e allora Voi che 'ntendendo si chiuderà sulla patetica esclamazione «Ponete mente almen com'io son bella», e il Convivio (n xi 4) glosserà: «la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa». Da un lato, dunque, pluralità di sensi, duplicità di piani che slittano l'un sull'altro, interferendo, non mai combaciando perfettamente; d'altro lato, possibilità che l'esposizione filosofica, la «prosa» della definizione idealistica, rimanga solitaria e squallida - e il caso estremo è in un'altra delle canzoni del Convivio, Le dolci rime. In quest'epoca Dante, per giustificarsi il vario e progressivo isolamento dei temi morali, costruirà tutta una mitologia, fondata sull'abbandono, provvisorio almeno, di Amore, nella sua accezione dilettosa e dolce. Ma alla base resta pur sempre Amore come fonte di bene, e la beltà a vertù solamente formata», di cui parlerà la canzone Doglia mi reca: il cantar rectitudinis esce dal cantore d'Amore. E quell'abbandono a parte obiecti diventa pure un abbandono a parte subiecti, cioè l'amore umano trova un concorrente nell'amore della virtù e, per via di quella poetica «oggettiva», la concorrenza è rappresentata come rivalità di donne, sicché nella sua fase iniziale è resa possibile un'esitazione esegetica fra interpretazione letterale e interpretazione allegorica (si pensi al caso della pargoletta). Donna reale? simbolo? L'imbarazzo dei commentatori ha senso e serietà esclusivamente in rapporto a quel momento di «transito» poetico.

È nelle rime morali di Dante lo zelo del neofita entrato da poco fra le disputazioni dei filosofanti. Un pari entusiasmo troviamo nel Dante amatore di poesia e studioso di letteratura che questi stessi anni vengono elaborando (entusiasmo scientifico e morale ed entusiasmo d'occitanista sono contemporanei, nel De vulgari). Dante giovane aveva conosciuto un provenzalismo di seconda mano e, diciamo così, specializzato, ossia manierato, attraverso i guittoniani e i Siciliani; e anche i precedenti provenzali del dolce stile, dunque gl'irresponsabili antenati del Dante della Vita Nuova, sono stati indicati in autori secondari singolarmente disertati dalla grazia, il noioso Guilhem de Montanhagol, magari Guiraut Riquier, che furono astuti amministratori di poesia nella generale decadenza inaugurata dalla morte di Falchetto (trascuriamo naturalmente, nel parlar così, l'unico poeta vero del periodo, il grande arcaizzante Peire Cardinal, perché non fu caposcuola). Occorre dire che un occitanismo tanto indiretto non poteva che spettare ai temi astratti, essere rituale? «Se volemo cercare in lingua d'oco» dice la Vita Nuova (xxv 4) «noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni». E su questa estensione limitata, e compatta, non è grandissima varietà esteriore, poiché l'anima provenzale è sottilmente raccolta sul mestiere; ma se precisamente Dante si destinava a raccoglierne l'insegnamento essenziale, lo stile, doveva pur risalire quel breve corso d'un secolo e mezzo, differenziare le generazioni. Intelligenza di questa filologia a nutrimento di poesia! È così che il provenzalismo dantesco di prima mano si chiama: incontro con i trovatori del periodo aureo, quelli della Commedia: Guiraut de Bornelh, Bertran de Born, Folchetto, Sordello (cronologicamente sfasato, questo, come autore periferico); sopra tutti, Arnaut Daniel. Entro le Rime codesto provenzalismo autentico è rappresentato dall'esperienza delle petrose: l'esperienza che resterà, degradata, nella Commedia come verbalità del difficile, dell'ostacolo, come presa di possesso del reale non pacifico, secondo la descrizione che s'è fatta sopra. Questo ricorso interpretativo che si fa alla Commedia non è un mero artificio didattico, né riguarda lo scadimento a precedente e a materia che si suoi far subire dagli autori alla propria poesia già raggiunta, ma spetta alla necessaria integrabilità di quelle liriche immobili, alla mancanza d'una piena autosufficienza. La legittima ammirazione corrente per questa serie suggestiva[2] deve pur lasciar chiaro come, innanzi ai «frammenti» di poesia petrosa che s'articolano nella Commedia (per esempio, il cerchio dei traditori), l'ispirazione delle petrose appaia, essa, radicalmente «frammentaria».

Accanto al sentimento del reale difficile in sé, quale oggetto, che presentano le petrose, la tenzone con Forese offre un reale conosciuto attraverso una gamma di risentimenti e la deformazione violenta della caricatura. E la rappresentazione n'è già ricca e tecnicamente spiritosa. Un solo esempio, nella prima quartina del secondo sonetto: si sa come il culmine dell'artificio stilistico, provenzalmente, sia la sestina, il cui verso inclina con violenza verso la fine, destinata a ospitare le parole più determinate, e pertanto lo spettacolo della più cruda realtà; è con un simile procedimento che i «petti de le starne», con la carnalità specificata del loro aspetto tentatorio, si presentano in clausola, e succedono in tale funzione al fortemente idiomatico e allusivo «nodo Salamone»; mentre, sùbito sotto, l'ingegnosa collazione delle sorti della carne, sepolta nella fisiologia dell'ingordo, con quelle della pelle, convertita in pergamena per registrarne i debiti rovinosi, s'off re in un nobile aspetto tra d'indovinello e di trobar clus («ma peggio fia la lonza del castrone, /ché 'l cuoio farà vendetta de la carne»). La minaccia incombente acquista una concretezza fisica nell'incalzare delle rime alternate (in rima è «San Simone», il carcere, e l'«an-darne», la dolorosa, e con feroce gioia enunciata, necessità della fuga): perché Dante sa variare con sapienza fino gli schemi, e riserba il tipo a rime chiuse per la fine tranquilla e tanto più trionfale. E pagano il loro tributo, nella tenzone, tutte le scienze dell'enciclopedia, dalla fisiologia (gli omor vecchi, nell'uso del matrimonio) alla mineralogia (l'origine del cristallo di rocca dal ghiaccio, evocata proprio in una petrosa): sieti raccomandato il mio Tesoro ... Siamo remoti dallivellamento ascetico (e, come ogni ascesi, rinunciatario) della Vita Nuova; e il nuovo senso del reale postula un tessuto più ricco, complementi e componenti che non si rintracciano nel canzoniere del secondo periodo: ancora una volta, rotta quella prima stilnovistica unità (che ora appare provvisoria), ci troviamo in presenza di frammenti estremamente ragguardevoli, che certamente cospirano a un'unità; ma essa esiste fuori di lì, non ripeteremo dove, soltanto, essa si attui.

È certo tuttavia che la poetica del risentimento s'innesta singolarmente sulla poetica della vita morale, quando quel risentimento si fa sdegno per la viltà della generazione presente, e le virtù diventano donne lacere e dispette come la Povertà del canto francescano. È il loro maltrattamento la garanzia della fedeltà di Dante, ma soprattutto della loro stessa esistenza poetica: e per esso la vita morale acquista una realtà figurativa, come avevano avuto una realtà figurativa le convenzioni iperboliche del culto amoroso irremunerato, o piuttosto autoremunerato. Il cantar rectitudinis e il vendicatore di sé abitano insieme, e in convivenza ancora con l'esercitato disegnatore di composizioni simboliche, nella canzone Tre donne: dov'è il danno climaterico di tutto un secolo, proprio etimologicamente il disastro («e dolgasi la bocca f de li uomini a cui tocca»), nel tempo medesimo del fatto personale («E io, che ascolto nel parlar divino...»). Su Tre donne parrebbe dunque concludersi, nel nostro veloce riassunto, il diagramma della poesia di Dante, ma torna a verificarsi il divario delle due cronologie, ideale e letterale, poiché un superstite avanzo di preoccupazione biografica ci fa notare come quella canzone si collochi nei primissimi tempi, anzi mesi, dell'esilio e le rime dell'esilio, ora che l'argomento astronomico ha sottratto loro le petrose, hanno aspetto di tutt'altro che organicità stilistica. Non parliamo della corrispondenza con Cino (e, per la parte sua meno incerta ma sempre problematica, di quella con Giovanni Quirini), la quale, pur essendo lontana dall'invariabilità dell'amico, è sempre variegata di tecnicismo, e da questa costante ricava un qualche aspetto di antica fedeltà. E non parliamo del sonetto per Lisetta, semmai arcaizzante per davvero (del resto è molto sorridente, è in fondo uno scherzo), che fu attribuito a quest'epoca per merissima ipotesi. Ma ragioni storiche provano ben posteriori a Tre donne due grandi canzoni, Doglia mi reca, per il congedo allusivo a una donna dei conti Guidi, e la montanina, Amor, da che convien, per l'epistola a Moroello Malaspina. Ora, Doglia mi reca ha novità di sintassi sciolta e di sentenze ed enunciati entusiastici; ma, saltando Tre donne, per una tale ariosità di struttura si riconduce alle rime dottrinarie del Convivio, precisamente a Le dolci rime, dov'è alternanza similmente veloce di endecasillabi e settenari nella strofe lunga (si pensi, ivi, a mosse quali: «né la diritta torre l fa piegar rivo che da lungicorre»; «Ubidente, soave e vergognosa l è ne la prima etate ... »). E son certo in quella più vestigia della realtà figurativa delle virtù: il veloce operare della Discrezione nella seconda stanza, l'onesto uccellare nella sesta; si noti però che mancanza d'evidenza, in uno dei punti precisamente più suggestivi per la presenza di cose quotidiane realissime in rima («maladetto lo tuo perduto pane, / che non si perde al cane»). A tutto rigore, non restiamo dunque ancora sul cantiere? E addirittura non questioni d'atelier, ma di vecchie e lievemente neghittose convenzioni, presenta la montanina: che da un lato denunzia indubbiamente l'esperienza petrosa (ma conviene non esagerare: essa è irrigidita nel suo contenuto o «motivo»; e fecondità linguistica trova solo nell'apertura della quinta stanza, «Così m'hai concio, Amore ... » ); e pure ci ripiomba, per una larga zona e per il tono complessivo, a un sicilianeggiare sprovvisto degli antichi meriti d'ingenuità (dipintura dell'immagine, distinzione di donna e immagine). Costì il conflitto delle cronologie si fa indizio perentorio della crisi fondamentale delle Rime, quand'esse stanno (non indarno) per cessare. Uno dei più acuti ordinatori ideali di esse, senz'altro il più elegante, Ferdinando Neri, dichiara: «Questa canzone è un problema che anch'io rinunzio a spiegarmi: v'è dell'amor cortese, qualche mossa ciniana, qualche altra "pietrosa"». Di là dall'aneddoto, il «problema» è quello stesso generale dell'insufficienza del Canzoniere a giustificare sé stesso, dell'inesplicabilità iuxta propria principia. La montanina è la sola lirica di Dante a cui si riesca ad assicurare una data relativamente tarda, ed è su una linea involutiva, quasi d'errore. Può trovarsi migliore argomento a riconfermare, in conclusione, come l'ossessione della Commedia, nell'animo dell'esegeta delle Rime, non sia un vano fantasma agitato dal principio d'autorità? Solo in questo canone si vede placato il travaglio esplorativo di Dante e il furore dell'esercizio.

[1] Nella Vita Nuova (xxv, 6) Dante adduce argomenti «contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa».

[2] Qualche riserva è nel CROCE, La poesia di Dante, pp. 46-7.

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