Danno da esposizione all'amianto e prescrizione

Libro dell'anno del Diritto 2015

Danno da esposizione all’amianto e prescrizione

Carmine Russo

La Corte europea dei diritti dell’uomo affronta la questione della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno alla salute causato dall’esposizione prolungata all’amianto. Le patologie tumorali generate dall’esposizione alle polveri di amianto sono, infatti, caratterizzate da un periodo di latenza molto ampio tra il momento in cui è cessata l’esposizione ed il momento in cui insorge il danno, periodo di latenza che può generare dubbi sulla persistente azionabilità del diritto. La Corte giudica della legge svizzera, che fa decorrere la prescrizione dalla cessazione del comportamento dannoso, propendendo per una soluzione che si avvicina molto a quella su cui si era già orientata la nostra giurisprudenza interna.

La ricognizione

È arrivata davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo la questione del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivato dall’esposizione prolungata all’amianto dovuta all’esercizio di attività lavorativa.

Il contenzioso creato dall’esposizione prolungata e professionale di alcune categorie di lavoratori all’amianto, avvenuta negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, quando ancora non erano noti gli effetti potenzialmente cancerogeni dell’inalazione delle polveri di amianto, presenta diversi aspetti estremamente complessi sul piano giuridico.

Le prime pronunce si erano soffermate sulla possibilità di ricostruire scientificamente un nesso di causa tra la esposizione all’amianto ed i tumori insorti a distanza di diversi anni, e sulla correlata possibilità di ricondurre in modo esclusivo la patologia insorta all’attività professionale svolta in presenza di eziologie potenzialmente concorrenti1.

Le decisioni delle Corti si sono poi concentrate sul problema logicamente successivo, che consisteva nella possibilità di attribuire a titolo colposo comportamenti avvenuti in anni in cui non c’era alcuna certezza scientifica in ordine alla potenzialità dannosa dell’amianto ed in cui non esisteva alcun divieto di utilizzo di tale materiale2.

A valle di questi due aspetti sostanziali relativi al nesso di causa ed alla imputabilità soggettiva, vi è, però, poi la questione processuale, affrontata adesso per la prima volta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, della individuazione del termine di decadenza o prescrizione (a seconda dei sistemi processuali di ciascuno Stato) dell’azione di risarcimento del danno, questione di primaria importanza, atteso che nella generalità dei casi si procede per comportamenti dannosi che sono cessati al più verso lametà degli anni ’70, quando il bando dell’amianto è divenuto generalizzato e le imprese hanno riorganizzato i processi produttivi e rimosso le cause dell’esposizione allo stesso.

La pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo ha riguardato un caso di diritto svizzero.

Nel nostro ordinamento, per il vero, il problema della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di risarcimento del danno da malattia professionale era stato già risolto in via giurisprudenziale con una soluzione, che si può ritenere conforme alla decisione adottata adesso dalla Corte europea, che ancora la decorrenza della prescrizione al momento della conoscibilità di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, che sono la condotta, il danno ed il nesso causale esistente tra condotta e danno, e che nega quindi che la prescrizione possa iniziare a decorrere fino a quando non è insorta la malattia, e fino a quando non è possibile sapere che la malattia dipende dall’esposizione prolungata all’amianto (cfr. Cass. civ., sez. lav., 8.5.2007, n. 10441, che aveva affermato che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale conseguenti ad asbestosi decorre dal momento in cui sia stata raggiunta la certezza della malattia e della sua origine professionale. La pronuncia era stata confermata subito dopo da Cass. civ., sez. lav., 18.9.2007, n. 19355 che aveva aggiunto che la prescrizione nei confronti del datore di lavoro per la responsabilità da insorgenza di malattie professionali decorre dalla conoscibilità della eziologia professionale della malattia, che rappresenta qualcosa di più rispetto alla semplice manifestazione della patologia ed è la possibilità che la origine professionale della malattia sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento).

Quest’approdo interpretativo, emerso nella giurisprudenza di legittimità, era stato avallato dalla decisione delle S.U. civ. della Cass., 11.1.2008, n. 576, pronunciatesi in un’altra situazione in cui il danno alla persona era emerso a distanza di diversi anni dal momento in cui si erano verificati i fatti causativi del danno, ovvero la responsabilità del Ministero della salute per contagio con virus HBV, HIV e HCV conseguenza di emotrasfusioni o assunzione di emoderivati prodotti con sangue infetto.

Nella decisione n. 576/2008 le S.U. affermarono, in effetti, che il termine di prescrizione per l’azione di risarcimento del danno decorre non dal giorno in cui il terzo tiene il comportamento che determina poi a distanza di anni il danno, e neanche dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui la malattia può essere percepita, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, come un danno conseguenza del comportamento del terzo.Non è, pertanto, sufficiente la mera consapevolezza da parte della vittima di stare male, bensì occorre che quest’ultima da un lato sia consapevole di aver sviluppato una malattia irreversibile o comunque duratura, dall’altro lato, sia altresì consapevole di cosa ha determinato la sua malattia, e quindi del fatto che a monte della stessa vi sia stato un fatto illecito.

Qualora, invece, non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, che in astratto potrebbe essere ancora ritenuta una tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il “fatto” che l’art. 2947 c.c., co. 1, individua quale dies a quo della prescrizione.

In effetti, l’interpretazione dell’art. 2947 c.c. proposta da quest’orientamento giurisprudenziale, che ha ricevuto l’avallo delle S.U. n. 576/2008, trova conferma anche nelle scelte operate dal legislatore in alcune normative speciali:

a)in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi l’art. 23, l. 31.12.1962, n. 1860, dispone che «le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell’identità dell’esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza»;

b) in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, l’art. 13, d.P.R. 24.5.1988, n. 224, recante attuazione della dir. CEE n. 85/374 relativa al riavvicinamento delle legislazioni sul punto, dispone che «il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile».

Dopo la decisione delle S.U. n. 576/2008, la tesi della decorrenza della prescrizione dalla conoscibilità della esistenza del danno e della sua eziologia è stata seguita anche dalle pronunce successive, come Cass. civ., sez. VI, 2.7.2013, n. 16550, sempre in punto di responsabilità per contagio da HCV, ma è stata riproposta anche fuori dell’ambito del danno biologico alla persona, ed estesa al diritto dei contratti da Cass. civ., sez. III, 17.9.2013, n. 21255 (fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da lesione della libertà negoziale - conseguente alla stipulazione di un contratto di transazione a condizioni economiche deteriori, per la parte vittima di reato di corruzione in atti giudiziari - dovesse farsi decorrere non dal momento della consumazione del reato, ma da quello della notifica, alla stessa, della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati).

La focalizzazione

Questa giurisprudenza interna, che ha lavorato quindi sulla interpretazione della espressione “fatto” contenuta nell’art. 2947, co. 1, c.c. (e che, pertanto, in astratto, avrebbe potuto essere rovesciata in futuro da una diversa lettura della regola generale contenuta nell’art. 2947 appena citato, atteso che la lettera della norma autorizzava, per l’appunto, più opzioni interpretative), è stata adesso, in un certo senso, blindata dalla decisione C. eur. dir. uomo 11.3. 2014,Howald Moor ed altri c. Svizzera, che ha avuto ad oggetto una norma nazionale sulla decorrenza della prescrizione che, al contrario della nostra, individuava chiaramente il dies a quo nella cessazione del comportamento dannoso, e che non lasciava gli spazi interpretativi consentiti dal nostro art. 2947 c.c.

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è trovata, infatti, a giudicare del ricorso presentato dagli eredi di una persona che tra il 1964 ed 1978 era stata a contatto continuativamente con l’amianto nello svolgimento della sua attività lavorativa come dipendente di un’azienda privata, presso cui aveva comunque continuato a lavorare con altre mansioni che non comportavano contatto con le polveri di amianto fino al 10.11.2005, data del suo decesso.

A questa persona nel maggio 2004 era stato diagnosticato un mesotelioma alla pleura causato dall’esposizione professionale e prolungata all’amianto, patologia che ne aveva poi cagionato la morte all’età di 58 anni.

Un mese prima di morire, nell’ottobre 2005, il lavoratore aveva convenuto in giudizio la azienda con una azione di risarcimento del danno patrimoniale e morale, causa che era stata riassunta dagli eredi dopo la sua morte.

Le varie fasi del giudizio davanti al Tribunale circondariale, il Tribunale cantonale ed il Tribunale federale avevano dato nella sostanza un esito conforme, in quanto le varie Corti del sistema confederale elvetico avevano sostenuto che, ai sensi dell’art. 20 della legge federale sulla responsabilità, era intervenuta perenzione per le pretese formulate relativamente a fatti interiori al 1995, e, quindi, siccome nel 1995 l’esposizione all’amianto era cessata già da 17 anni, avevano respinto la domanda del ricorrente.

L’art. 20 della legge federale svizzera sulla responsabilità civile dispone effettivamente che la domanda di danni deve essere introdotta entro un anno decorrente dal giorno in cui vi è conoscenza del danno, ed, in ogni caso, entro dieci anni dal comportamento dannoso.

In casi come questi, in cui vi è una scissione molto ampia tra la data in cui cessa il comportamento dannoso e la data in cui il soggetto passivo ha cognizione di aver subito un danno, lo sbarramento decennale previsto dall’art. 20 della legge svizzera sulla responsabilità civile rischia di risolversi, peraltro, in un sostanziale diniego di giustizia. La Corte europea dei diritti dell’uomo, a maggioranza, e con la dissenting opinion di uno dei giudici, riconosce che nel caso di specie le norme vigenti nella Confederazione elvetica hanno determinato la violazione del diritto ad un equo processo, garantito dall’art. 6, § 1, della Convenzione. La Corte motiva la propria decisione sulla base del seguente percorso logico-argomentativo:

a) il diritto ad un processo equo comprende al suo interno il diritto di accesso ad una corte, ovvero il diritto a che l’ordinamento metta a disposizione della parte una azione giudiziaria effettiva attraverso cui poter portare davanti ad un giudice le proprie pretese3;

b) il diritto di accesso ad una corte non è assoluto e può essere sottoposto a limiti dalle legislazioni nazionali, limiti che possono essere stabiliti dai singoli Stati con un certo margine di apprezzamento4;

c) deve esistere, però, un rapporto di proporzionalità tra le limitazioni introdotte nella possibilità di accesso alla corte e lo scopo perseguito nell’introdurle5;

d) queste limitazioni nell’accesso ad una corte non possono, in ogni caso, essere tali da svuotare nella sostanza l’effettività del diritto di accesso6;

e) tra queste limitazioni al diritto di accesso ad una corte vi sono anche quelle che fissano termini di decadenza o di prescrizione entro cui deve essere introdotta l’azione giudiziaria;

f) l’introduzione di termini di decadenza o prescrizione è già stata scrutinata favorevolmente dalla Corte perché è conforme all’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici, impedendo che si possa essere esposti senza limiti di tempo al rischio di una azione, da cui potrebbe essere anche difficile difendersi a molta distanza di tempo dai fatti7;

g) ma in un caso, quale quello di specie, in cui il danno insorge a lunga distanza dal comportamento dannoso, questa circostanza deve essere prevista dal legislatore nella fissazione del termine di decadenza o di prescrizione, perché, in caso contrario, il diritto di accesso ad una corte rischia di essere svuotato nella sostanza8;

h) la legge svizzera, non attribuendo rilievo alla circostanza che, in casi come quello oggetto del processo, la diagnosi della malattia può avvenire a distanza di molto tempo da quando è stato tenuto il comportamento dannoso, ha svuotato in casi come quello in esame la possibilità di accesso alla corte.

Per effetto di questo ragionamento, la Corte ritiene, pertanto, che vi è stata violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione sul diritto a poter disporre di una via giudiziaria, ovvero del diritto di accesso ad una corte, species del più generale diritto ad un processo equo.

I profili problematici

Dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha, in un certo senso, blindato la giurisprudenza interna che fa decorrere il termine di prescrizione dell’azione di danni dal momento in cui la malattia si è rivelata all’esterno e ne è conoscibile la correlazione con la pregressa esposizione all’amianto, è rimasta, però, ancora aperta la questione dell’aggravamento della malattia.

Il danno risarcibile resta, infatti, in base ai principi generali, il danno che è stato già sofferto nel momento in cui si introduce la azione o nel momento successivo in cui in corso di causa si introducono domande accessorie; non si può risarcire un danno non ancora prodotto, e, pertanto, non si può risarcire il danno che deriverà dall’aggravamento della malattia, danno che diventerà risarcibile nel momento in cui si verificherà.

Il danno non ancora prodotto non è azionabile in giudizio, ma al tempo stesso, in punto di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di danno, la giurisprudenza interna ritiene che l’aggravamento della malattia sposta la decorrenza della prescrizione soltanto se non costituisce un mero sviluppo del danno già insorto, ma lamanifestazione di una lesione nuova ed autonoma. È soltanto a queste condizioni, infatti, che l’aggravamento dellamalattia costituisce il fatto nuovo che giustifica la qualificazione dell’azione di danni come diversa ed autonoma da quella originaria, soggetta, in quanto tale, ad un termine proprio di decorrenza della prescrizione.

Il principio è stato affermato da un’altra decisione delle S.U. civ. della Cass., la n. 580 dell’11.1.2008, secondo cui in materia di diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di un illecito che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal verificarsi delle medesime solo se queste ultime non

costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto, bensì la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile.

Questa decisione è stata seguita dalla giurisprudenza successiva, che ha specificato che nel caso in cui si passi dall’indebolimento permanente di un senso o di un organo alla sua perdita, l’ulteriore manifestazione dell’evento lesivo, in parte rimasto latente, supera la qualificazione come aggravamento e sviluppo della malattia, integrando un fatto nuovo (Cass. civ., sez. III, 21.3.2013, n. 7139).

1 Sul punto v. Cass. civ., sez. lav., 30.7.2013, n. 18267;Marino, G., Il dipendente è un fumatore: la responsabilità del datore non è automaticamente esclusa, in Dir. gius., 2013, 1058; Varvaressos, A., Riscontro epidemiologico e probabilità qualificata: nuove prospettive per l’accertamento in concreto dell’elemento causale nelle ipotesi di malattie non tabellate o ad eziologia multifattoriale, in Riv. it. med. leg., 2013, III, 1556; per la soluzione della stessa questione sotto il profilo della responsabilità di tipo penale v., invece, Paoli, M., Esposizione ad amianto e disastro ambientale: il paradigma di responsabilità adottato nella sentenza eternit, in Cass. pen., 2014, 1802.

2 V. Cass. civ., sez. lav., 14.5.2014, n. 10425.

3 Principio già affermato dalla C. eur. dir. uomo nella sentenza del 17.9.2013, Eşim c. Turchia, ma prima ancora nella pronuncia 12.11.2002, Běleš ed altri c. Repubblica ceca.

4 Principio già affermato nella pronuncia 15.2.2000, García Manibardo c. Spagna.

5 Principio già affermato nella pronuncia 14.10.2010, Pedro Ramos c. Svizzera.

6 Principio già affermato nella pronuncia della Gran Camera 17.1.2012, Stanev c. Bulgaria.

7 Principio già affermato nella pronuncia 22.10.1996,Stubbings c. RegnoUnito, e nella pronuncia 7.7.2009, Stagno c. Belgio.

8 Principio già affermato nella sentenza del 17.9.2013, Eşim c. Turchia, cit.

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