Danni da vaccinazione antinfluenzale e indennizzo

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

Danni da vaccinazione antinfluenzale e indennizzo

Alessandro Palmieri

L’amministrazione sanitaria lancia annualmente una campagna con cui promuove la vaccinazione antinfluenzale, consigliandola agli appartenenti a determinate categorie a rischio. In caso di patologie riconducibili a tale trattamento sanitario, la giurisprudenza di merito aveva in qualche occasione ammesso i danneggiati a fruire dei benefici concessi dalla legislazione concernente la tutela indennitaria per le menomazioni conseguenti alle vaccinazioni e alle trasfusioni di sangue. In tale contesto di estremo rilievo è la pronuncia con cui la Consulta, sulla scia dei propri precedenti relativi ad altre vaccinazioni raccomandate, ha sancito l’incostituzionalità dell’art. 1, co. 1, l. 25.2.1992, n. 210, nella parte in cui non prevede il diritto all’indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei confronti di coloro che si siano sottoposti a vaccinazione antinfluenzale.

La ricognizione

L’ormai pluridecennale storia dei benefici elargiti a quanti abbiano riportato gravi patologie in conseguenza di una vaccinazione ovvero abbiano prestato ai primi assistenza personale diretta, nonché agli eredi dei soggetti contagiati in caso di esito letale del processo morboso, è stata sin dall’origine contrassegnata da una serrata dialettica tra legislatore eCorte costituzionale. È stata quest’ultima, con una storica pronuncia del 19901, a rompere il ghiaccio, ravvisando la necessità di assicurare un indennizzo a quanti versassero in taluna delle predette situazioni in virtù dell’inoculazione del vaccino antipoliomielitico, cui erano tenuti a sottoporsi sin dal 1966 tutti i bambini entro il primo anno di vita. Sulla scia di tale intervento di carattere circoscritto, veniva costruita la disciplina legislativa contenuta nella l. 25.2.1992, n. 210, che apprestava una copertura estesa all’intera area delle vaccinazioni obbligatorie, introducendo misure di solidarietà sociale di natura assistenziale.

Era ancora una volta la Consulta ad allargare l’orizzonte, volgendo lo sguardo alle vaccinazioni che, pur essendo – quantomeno al tempo in cui vengono praticate – frutto di una scelta del singolo paziente (o di chi ne ha la rappresentanza legale), sono comunque in quel momento patrocinate dall’amministrazione sanitaria. La puntualizzazione cronologica testé effettuata non è superflua, in quanto più di una volta la vaccinazione che nel momento preso in considerazione non era obbligatoria, tale è divenuta in epoca successiva. Un siffatto canovaccio si è ripetuto per la stessa vaccinazione antipoliomielitica nel periodo in cui risultava ancora facoltativa2, per la vaccinazione antiepatite B3 e per quella contro il morbillo, la parotite e la rosolia (MPR)4. Non si può inquadrare in questo schema la vaccinazione antinfluenzale, che è sì oggetto di iniziative promozionali rivolte ad alcune fasce della popolazione, ma non è entrata nel catalogo delle vaccinazioni obbligatorie, né risulta che il suo ingresso in tale schiera sia (o sia mai stato) nell’agenda politica. Fatto sta che, quando è stata chiamata a focalizzare l’attenzione sulla vaccinazione contro l’influenza, sul finire del 2017 la Corte costituzionale ha adottato lo stesso metro di giudizio in passato sperimentato per le altre vaccinazioni raccomandate, ritenendo che l’indennizzo non possa essere negato anche in caso di lesioni attribuibili a tale vaccinazione5.

Come per tutte le altre ipotesi nelle quali è allo stato configurabile la tutela indennitaria, ciò non preclude l’innesco del tradizionale rimedio risarcitorio, il cui successo è evidentemente condizionato alla ricorrenza dei suoi specifici presupposti. È dunque pienamente ammissibile l’esperibilità di un’azione fondata sulla responsabilità, a seconda dei casi contrattuale o extracontrattuale, delle strutture o del personale sanitario. Nella recente casistica si rinviene, a tale proposito, una sentenza della Cassazione che ha definito una lite instaurata con l’obiettivo di ottenere il ristoro di tutti i danni, patrimoniali e non, connessi alla poliomielite contratta da un bambino a seguito della vaccinazione antipolio che si sosteneva effettuata senza controlli e analisi preventive6. Nella parte motiva di tale sentenza, che ha confermato la condanna inflitta in appello all’unità sanitaria locale e alla regione, è stata avallata la ricostruzione operata dai giudici di merito i quali, disattendendo la tesi della imprevedibile tragica fatalità, avevano riscontrato una serie di condotte negligenti e imprudenti del personale sanitario, ponendo l’accento sul fatto che la preparazione e somministrazione del vaccino venne eseguita da un operatore non abilitato, anziché – come richiesto – da un medico, e senza aver espletato i necessari accertamenti sulle condizioni di salute e anamnestiche del bambino.

La focalizzazione

Con cadenza annuale il Ministero della salute, in sintonia con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, preoccupata del verificarsi di fenomeni pandemici, lancia una campagna per esortare una parte degli assistiti a sottoporsi alla vaccinazione contro l’influenza. L’amministrazione individua alcune categorie di soggetti che, per le loro condizioni personali, corrono un maggior rischio di complicanze nell’eventualità in cui contraggano l’influenza: a costoro la vaccinazione antinfluenzale viene offerta attivamente e gratuitamente nel corso della stagione epidemica. Ai fini del raggiungimento di elevate percentuali di copertura, le aziende sanitarie possono servirsi dei medici di base per la somministrazione dei vaccini; e questi ultimi, in virtù dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, sono tenuti a eseguire il trattamento ai loro pazienti appartenenti alle categorie individuate dall’amministrazione7.

La facoltatività quale fattore ostativo alla tutela?

Proprio l’adesione all’invito a vaccinarsi, da parte di una persona rientrante nel target della campagna promozionale, rappresenta il retroterra della controversia che ha condotto alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 1, co. 1, l. n. 210/1992, vale a dire della disposizione che delimita l’area entro la quale può essere riconosciuto l’indennizzo. Lo sfortunato protagonista della vicenda aveva sviluppato infatti una rara patologia del sistema nervoso periferico, la cui insorgenza attribuiva al vaccino inoculatogli. La conseguente istanza all’amministrazione per l’ottenimento dell’indennizzo veniva respinta facendo leva sulla non obbligatorietà della vaccinazione. Veniva a questo punto adita l’autorità giudiziaria e in primo grado si registrava una decisione favorevole al ricorrente8. Il giudicante aggirava l’ostacolo preliminare, ossia la natura solo facoltativa del trattamento, con quella che al momento appariva come un’inedita forzatura rispetto ai precedenti ampliamenti, che non erano mai avvenuti in via ermeneutica, ma soltanto a colpi di pronunce additive della Consulta. Fatto sta che nella circostanza si era ritenuta percorribile la strada del meccanismo dell’interpretazione costituzionalmente orientata, valorizzando le finalità preventive di tutela della collettività assegnate alla vaccinazione antinfluenzale. Tuttavia, anche questa scelta indubbiamente coraggiosa non era di per sé sufficiente a dare il via libera al beneficio, occorrendo altresì superare lo scoglio del nesso di causalità.

Il nesso causale: l’esigenza di accertamenti rigorosi

La logica indennitaria, se consente di prescindere dall’accertamento della colpevolezza in capo al singolo operatore come pure all’amministrazione sanitaria, non è aliena dalla necessità di dimostrare in maniera rigorosa il legame eziologico tra vaccinazione e conseguenze pregiudizievoli. A riprova di siffatta esigenza, basti leggere le pronunce nelle quali il Supremo Collegio è stato di recente chiamato a occuparsi delle doglianze di quanti aspiravano a ricevere l’indennizzo a fronte di sindromi autistiche asseritamente scaturenti da vaccinazioni obbligatorie9. Particolarmente significativa, ai fini del profilo in esame, è l’ultima tra le decisioni di questo gruppo. Con tale sentenza è stata infatti confermata la pronuncia di merito che aveva respinto la domanda proposta dal genitore di un ragazzo autistico, giustificando il diniego di tutela proprio in virtù dell’assenza del nesso di derivazione causale tra vaccinazione e malattia. Per approdare a tali conclusioni era stata decisiva la relazione del consulente tecnico d’ufficio, il quale aveva tenuto conto sia dello stato della letteratura scientifica in materia, che qualifica di incidenza non comune o rara le reazioni avverse a carico del sistema nervoso ai vaccini somministrati in quella circostanza, sia delle caratteristiche del caso concreto, che non consentivano di ritenere ipotizzabili tali reazioni, sulla scorta di diversi fattori. Segnatamente, era rilevante la risonanza magnetica dell’encefalo, che, seppure seguita a distanza di anni, era risultata del tutto negativa; come pure il fatto che non vi era stato alcun ricovero, né una visita neurologica, per asserite reazioni allergiche ai vaccini. Né poteva trascurarsi che la diagnosi di sindrome autistica era stata effettuata almeno due anni dopo. Vi era dunque stata una valutazione di convergenza tra la determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (probabilità quantitativa) e gli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (probabilità logica), sicché l’eziologia ipotizzata dal ricorrente era rimasta allo stadio di mera possibilità teorica. Ciò si armonizza ai principi generali in tema di accertamento del legame causale nel giudizio civile, secondo cui la regola della “certezza probabilistica” non può essere ancorata esclusivamente alla probabilità quantitativa, ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto10. Del resto, le modalità in cui è impostata la valutazione circa la sussistenza del nesso eziologico non appaiono dissimili da quelle che si riscontrerebbero in un giudizio risarcitorio imperniato sui medesimi fatti. Che le cose stiano così lo si evince dalla linea seguita dalla Cassazione nel quadro di alcune controversie risarcitorie avviate da persone contagiate a seguito di trasfusione sanguigna, situazione presa in considerazione, ai fini dell’indennizzo, dalla medesima legge che si occupa delle vaccinazioni. Degna di nota è l’affermazione secondo cui il verbale, con esito favorevole, della commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 4 l. n. 210/1992, costituisce, nel giudizio risarcitorio, un elemento presuntivo sulla sussistenza del nesso causale tra le trasfusioni e la patologia, di modo che il giudice, ove intenda disattenderlo, ha l’obbligo di indicare nella motivazione le ragioni di tale scelta11. In maniera ancora più incisiva, si è poi affermato che l’accertamento della riconducibilità del contagio a un’emotrasfusione, compiuto dalla predetta commissione medica nell’ambito del procedimento volto al riconoscimento dell’indennizzo, non può essere messo in discussione dall’amministrazione sanitaria nel giudizio di responsabilità, dove tale riconducibilità si ha così per dimostrata12. In quest’ultima occasione i giudici della legittimità hanno posto l’accento sul fatto che la commissione che ha appurato il rapporto di causalità è un organo dello Stato e, dunque, l’accertamento è da ritenere imputabile all’amministrazione convenuta per il risarcimento del danno. Resta il fatto che gli elementi su cui si basa l’accertamento prodromico all’indennizzo sono evidentemente ritenuti più che sufficienti per corroborare il convincimento circa la sussistenza di uno dei pilastri dell’illecito aquiliano. La vertenza di cui stiamo ripercorrendo le tappe approdava quindi in appello, dove la Corte ambrosiana ha respinto le censure dell’amministrazione che si appuntavano sul difetto del nesso eziologico13. Al riguardo, si sono reputate persuasive le considerazioni che aveva svolto il consulente tecnico d’ufficio designato in primo grado, ad avviso del quale tra la somministrazione del vaccino e la patologia di lì a poco insorta poteva ravvisarsi una correlazione causale, o quantomeno concausale, in termini probabilistici, tenuto conto della cronologia di comparsa dei sintomi, del fattore di rischio rappresentato dalla vaccinazione stessa e dell’assenza di altri fattori suscettibili di rappresentare una valida alternativa sul piano causale. Sennonché il collegio giudicante assumeva un atteggiamento più prudente, arrestandosi al cospetto delle pronunce della Corte costituzionale relative alle vaccinazioni solo consigliate, che, sia pure sorrette da argomentazioni di ampio respiro, erano tuttavia confinate, quanto agli effetti pratici, ai singoli trattamenti di volta in volta presi in esame. Perciò, lungi dal disapplicare il precetto di legge, i sospetti sulla non conformità (per motivi che traevano linfa proprio dalle argomentazioni appena ricordate) ad alcuni principi cardine della Carta fondamentale (segnatamente, il diritto-dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.) della mancata previsione dell’indennizzo in caso di danni derivanti dalla vaccinazione antinfluenzale, suggerivano di rivolgersi nuovamente alla Consulta, affinché fosse quest’ultima a colmare il gap.

La preminenza delle istanze solidaristiche

Il ragionamento che ha portato all’ennesimo allargamento delle maglie dell’indennizzo affonda inevitabilmente le radici nella sentenza capostipite della Corte costituzionale, quella che guardava alle vaccinazioni dichiarate obbligatorie, in quanto da lì si è dipanato il filo che ha portato agli attuali sviluppi. Il nucleo fondamentale del ragionamento ruotava attorno allo spirito di solidarietà fra individuo e collettività. Per un verso, le istanze solidaristiche giustificano una limitazione dell’autodeterminazione dell’individuo, autorizzando il legislatore a rendere obbligatorie le vaccinazioni idonee a preservare lo stato di salute degli appartenenti alla collettività, quand’anche il trattamento sanitario importi un rischio specifico. La dimensione collettiva della salute va nondimeno bilanciata con quella individuale; e ciò non si riduce alla possibilità di ricorrere ai meccanismi della responsabilità extracontrattuale, destinati a operare quante volte «le concrete forme di attuazione della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del detto trattamento non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura»14. Il contemperamento sfocia nel mettere a disposizione une rete protettiva per i singoli che hanno subito la menomazione.

In altri termini, se il livello di salute non può essere più recuperato, interviene un rimedio che consiste nell’equo ristoro del danno patito. Com’è stato osservato da uno studioso particolarmente attento alla problematica, lo Stato era chiamato ad assumere il ruolo di assicuratore a fronte di rischi che possono incidere su situazioni soggettive di primaria importanza15. Questa è la base che si è rivelata così solida da permettere, con gli opportuni aggiustamenti, l’estensione della tutela supplementare della salute individuale anche al di fuori dello stretto ambito dell’obbligatorietà. L’elaborazione teorica si è andata man mano affinando. Nel primo step del lungo percorso intrapreso la Consulta ebbe a puntare sull’ineludibile esigenza di una parificazione tra trattamenti sanitari imposti per legge e quelli che, in base a una legge, vengono promossi dalla pubblica autorità in vista della loro diffusione capillare nella società; equiparazione discendente dallo stesso principio ispiratore della sentenza del 1990, alla stregua del quale non è tollerabile che il singolo esponga a rischio la propria salute per un interesse collettivo, senza che la collettività stessa sia disposta a condividere il peso delle eventuali conseguenze negative16. In altri termini, si è negato che sia razionale la differenziazione tra il condizionamento della libera determinazione individuale, su cui fatalmente incide il timore di subire una sanzione, e la risposta all’esortazione a cooperare in seno a un programma di politica sanitaria. In caso contrario, risulterebbero inopinatamente svantaggiati coloro che sono stati indotti a tenere un comportamento di utilità generale per ragioni di solidarietà sociale rispetto a quanti hanno agito anche (o soltanto) in forza della minaccia di una misura afflittiva. Si tratta allora di verificare, caso per caso, se la diffusione di una singola vaccinazione, sebbene non obbligatoria, sia stata legalmente incentivata dall’autorità sanitaria. Per la poliomielite l’appiglio decisivo lo offriva il legislatore che, con la l. 30.7.1959, n. 695, aveva decisamente incentivato la vaccinazione, arrivando a penalizzare quanti non vi si fossero sottoposti, decretando per questi ultimi una preclusione all’accesso agli asili, alle scuole e ad altre strutture dove si ritrovano gruppi di bambini. Mentre l’apertura relativa all’epatite B traeva linfa da una circolare ministeriale, che dava impulso a una campagna per allargare la platea dei vaccinati, affidando alle strutture sanitarie pubbliche il compito di cimentarsi in un’opera di responsabilizzazione e di sensibilizzazione verso i rischi che tale malattia infettiva comporta per sé e per gli altri17. A propria volta, per quel che riguarda morbillo, parotite e rosolia, gli indici di un’apposita strategia sanitaria di prevenzione vaccinale erano da individuare in un decreto ministeriale, in una circolare e in altri atti e documenti riconducibili all’amministrazione sanitaria18. Proprio la sentenza del 2012 relativa alla vaccinazione MPR arricchiva l’apparato argomentativo a sostegno dell’indennizzabilità dei pregiudizi scaturenti dalle vaccinazioni promosse dall’autorità competente. Ivi si rimarcava, infatti, la centralità del perseguimento di un interesse obiettivo, consistente nella più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre determinate malattie. Si evidenziava quindi che la scelta dei singoli di dar seguito all’invito a vaccinarsi, quali che siano le ragioni personali, risulta obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo. Il leit motiv rimaneva comunque quello della solidarietà: l’istaurazione di «vincoli propriamente solidali» tra collettività e individui fa sì che, a fronte di un tangibile beneficio collettivo, non possa che ricadere sulla collettività, al verificarsi di eventi avversi, l’onere di alleviare, con una contribuzione pecuniaria, il pregiudizio individuale. Il ragionamento si chiudeva con la sottolineatura della specificità della funzione assegnata alla misura indennitaria, che mira per l’appunto a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo19.

Ancora, nel caso riguardante la vaccinazione antinfluenzale, discusso in un frangente nel quale il dibattito sull’obbligo vaccinale e sulla sua estensione era caratterizzato da toni alquanto accesi, la Consulta avverte il bisogno di puntualizzare che: i) la tecnica dell’obbligatorietà e quella della raccomandazione, pur muovendo da diverse concezioni, si prefiggono entrambe un obiettivo comune: garantire e tutelare la salute, individuale e collettiva, attraverso il perseguimento della copertura vaccinale più ampia possibile20; ii) le motivazioni dell’estensione del riconoscimento del diritto all’indennizzo alle vaccinazioni caldeggiate dai pubblici poteri prescindono del tutto da valutazioni negative sul grado di affidabilità scientifica della somministrazione delle vaccinazioni21. Dopo aver provveduto a integrare nel senso indicato il quadro dei principi che rendono imprescindibile l’indennizzo, per il resto l’ultima tra le decisioni della Corte costituzionale si concentra sui motivi per i quali può asserirsi che la vaccinazione antinfluenzale possiede tutte le caratteristiche per rientrare sotto l’ombrello protettivo.

I profili problematici

Dopo l’intervento della Consulta può ritenersi ormai assodato che coloro i quali si sottopongono alla vaccinazione antinfluenzale possono reclamare, qualora malauguratamente dovessero contrarre una malattia di gravità tale da acquisire rilevanza ai sensi della legislazione sugli indennizzi, i benefici concessi da tale corpo di regole. Una volta disinnescata, per quanto si osserva nella motivazione della declaratoria di incostituzionalità, la scivolosa distinzione tra categorie a rischio e non a rischio, l’erogazione concreta della tutela agli aventi diritto, in sede amministrativa o giurisdizionale, non lascia presagire particolari asperità. Va da sé che, per le situazioni in esame, sono inevitabilmente destinate a riproporsi le questioni che più in generale caratterizzano il contenzioso in materia.

Ma la criticità di base resta quella legata alla ragionevolezza di un sistema in cui le vaccinazioni soltanto consigliate rispetto alle quali risulta attivabile la tutela indennitaria costituiscono un gruppo chiuso, dove si può essere ammessi soltanto se si passa il filtro dello scrutinio di costituzionalità. La Corte costituzionale, nella sua più recente pronuncia, non prende apertamente posizione sul punto. Invero, tale aspetto viene sì evocato, ma solo ai fini delle verifiche circa l’ammissibilità della questione sollevata, che verrebbe meno ove fosse percorribile la strada dell’interpretazione conforme. Al riguardo, si evidenzia la correttezza del modus operandi del giudice a quo, che si era sì posto il problema, ma aveva immediatamente desistito dal porre in essere qualsiasi tentativo di salvataggio sul piano ermeneutico della disposizione sospetta, trattandosi a suo avviso di un’operazione destinata a fallire in virtù del tenore testuale della norma medesima, la quale riserva l’indennizzo ai soli casi di menomazioni causate da vaccinazioni obbligatorie.

Eppure, proprio rispetto alla vaccinazione antinfluenzale non erano mancate in seno alla giurisprudenza di merito posizioni improntate a una maggiore flessibilità: lo si è già visto per quel che concerne il Tribunale di Milano nel quadro del procedimento dove si è innestata la Corte costituzionale; e non si era nemmeno al cospetto di una voce isolata, in quanto risulta che pure i giudici molisani non avevano avuto remore nel riconoscere la spettanza dell’indennizzo a un soggetto che aveva contratto una neuropatia infiammatoria a seguito di tale vaccinazione22. Sulla stessa lunghezza di onda si era sintonizzato il Tribunale di Rimini in una vicenda relativa ad altra vaccinazione fortemente consigliata23. La prospettiva di una lettura meno rigida del riferimento all’obbligatorietà ha avuto nuovo slancio all’indomani della quarta integrazione dell’originario precetto di legge per mano della Consulta. Artefice di questo ulteriore passo che, a tacer d’altro, ha il merito di accelerare il cammino verso l’agognata meta finale rappresentata dall’effettivo conseguimento dell’indennizzo, contribuendo ad aumentare il grado di effettività del rimedio, è stata la Sezione Lavoro della Cassazione24. L’occasione è stata offerta dal ricorso proposto da un tale che deduceva la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra la patologia che l’aveva colpito e la vaccinazione antipoliomielitica praticata (poco) prima del 30 luglio 1959, giorno di entrata in vigore della l. n. 695/1959, di cui si è parlato più sopra e della quale faceva esplicita menzione la ricordata dichiarazione di incostituzionalità del 1998. La Suprema Corte ricostruisce il contesto che caratterizzava il periodo immediatamente anteriore al cennato intervento del legislatore, dichiaratamente finalizzato (come si evince dal titolo della legge) a rendere “integrale” la vaccinazione antipoliomielitica: all’esito di siffatta indagine, si pone l’accento sul dato di fatto che la vaccinazione in questione (pur in mancanza di una specifica copertura legislativa) era regolarmente praticata e ciò viene ricondotto a una precisa politica sanitaria dello Stato, che per la sua messa in opera si avvaleva delle autorità sanitarie locali. A questo punto, il Collegio giudicante rileva che non venire incontro alle aspettative dei soggetti vaccinati prima della data poc’anzi ricordata finirebbe con l’infrangere il canone della razionalità, ma mostra di non voler nemmeno prendere in considerazione lo strumento della rimessione alla Corte costituzionale; piuttosto procede spedito verso la lettura costituzionalmente orientata della disposizione che delimita la platea dei beneficiari, giungendo al risultato dell’inserimento dei predetti danneggiati nel novero di quanti possono aspirare all’indennizzo25.

Le conclusioni raggiunte dalla Sezione Lavoro veicolano una rottura di schemi concettuali poco duttili, ma nel contempo appaiono ragionevoli e foriere di semplificazioni. Una volta che la Corte costituzionale ha consolidato i principi di fondo, per quanto riguarda le singole vaccinazioni raccomandate (non ancora prese in considerazione dalla Consulta stessa) tutto si risolve nell’applicare questi principi alla situazione fattuale concreta. A ben vedere, a questo lavoro di cesello si è dedicata la stessa Corte costituzionale nella parte, per così dire, innovativa della pronuncia riguardante la vaccinazione antinfluenzale; sennonché un compito di tal fatta ben si attaglia alle metodiche cui è avvezzo il giudice ordinario. Se poi si opinasse che la Cassazione, nell’arresto da ultimo analizzato, ha agito con eccessiva disinvoltura, non sarebbe allora azzardato chiamare in causa il legislatore, affinché scenda in campo in maniera costruttiva, aggiungendo alle norme vigenti in materia di indennizzo un esplicito e onnicomprensivo riferimento alle vaccinazioni raccomandate dalle autorità sanitarie per le quali si faccia ricorso a campagne informative e di sensibilizzazione delle fasce di popolazione interessate.

Note

1 C. cost., 22.6.1990, n. 307.

2 C. cost., 26.2.1998, n. 27.

3 C. cost., 16.10.2000, n. 423.

4 C. cost., 26.4.2012, n. 107.

5 C. cost., 14.12.2017, n. 268.

6 Cass., 4.3.2010, n. 5190.

7 TAR Lazio, Roma, sez. III, 6.9.2013, n. 8123.

8 Trib. Milano, 10.10.2013, a quanto consta inedita.

9 Cass., 16.6.2016, n. 12427; Cass., 25.7.2017, n. 18358; Cass., 23.10.2017, n. 24959; Cass., 25.7.2018, n. 19699.

10 Il principio, valevole nell’area della responsabilità civile (Cass., 3.1.2017, n. 47), è stato applicato in un giudizio volto alla concessione dell’indennizzo per il danno alla salute attribuito alla vaccinazione antipolio (Cass., 24.10.2017, n. 25119). Quest’ultima pronuncia ha stigmatizzato l’iter logico seguito dal giudice di merito che, a fronte di elementi significativi in un ragionamento presuntivo, quali il fatto che la sintomatologia paralitica era insorta dopo la somministrazione del vaccino, nonché della ritenuta inverosimiglianza del contagio per contatto e dell’affermata validità degli studi a sostegno delle difficoltà di inattivazione virale durante la prima produzione del vaccino, aveva escluso la ragionevole probabilità scientifica dell’imputazione della patologia alla vaccinazione in considerazione dell’incidenza statistica della soluzione ricercata, laddove questa non può essere di per sé sufficiente, in carenza di specificazione dei presupposti in base ai quali è stata compiuta l’analisi statistica, della soglia statistica che occorrerebbe raggiungere nel caso in esame e degli elementi che consentano di attribuire rilievo logico decisivo al dato numerico.

11 Cass., 20.3.2018, n. 6843.

12 Cass., 15.6.2018, n. 15734.

13 App. Milano, ord. 20.7.2016, in Foro it., 2017, I, 342.

14 Così la motivazione di C. cost. n. 307/1990, cit.

15 Ponzanelli, G., Lesione da vaccino antipolio: che lo Stato paghi l’indennizzo!, in Foro it., 1990, I, 2697.

16 C. cost. n. 27/1998, cit.

17 C. cost. n. 423/2000, cit.

18 C. cost. n. 107/2012, cit.

19 Puntualizza Ponzanelli, G., L’indennizzo ex lege 210 dovuto anche in assenza di un obbligo a sottoporsi ad un trattamento sanitario, in Danno e resp., 2012, 1070, che «quando il singolo espone a rischio la propria salute per la tutela di un interesse collettivo, le eventuali conseguenze negative non possono non ricadere sulla stessa collettività».

20 Per riprendere le parole di Pascuzzi, G., La spinta gentile verso le vaccinazioni, in Mercato, concorrenza, regole, 2018, 109, «obbligo o spinta gentile sono due strategie possibili attraverso le quali perseguire il medesimo obiettivo: aumentare il numero delle vaccinazioni».

21 Osserva, al riguardo, Magnani, C., I vaccini e la Corte costituzionale: la salute tra interesse della collettività e scienza nelle sentenze 268 del 2017 e 5 del 2018, in Forum di Quaderni costituzionali, 2018, 10, che la consapevolezza circa la possibilità che si verifichino complicanze legate al vaccino non «determina scetticismo verso presidi considerati ancora insostituibili dalla scienza medica».

22 Trib. Campobasso, 13.3.2012, a quanto consta inedita, la quale è stata confermata da App. Campobasso, 20.10.2014, in iusexplorer.it. Nel caso di specie veniva in rilevo la sindrome di GuillainBarrè, per la quale la letteratura medica segnala l’emersione di una possibile associazione con la vaccinazione antinfluenzale, peraltro meno significativa di quella con ulteriori patologie.

23 Trib. Rimini, 15.3.2012, in Resp. civ. e prev., 2012, 1891, seguiva la traiettoria dell’interpretazione conforme rispetto alla vaccinazione trivalente MPR, quando ancora non era stata resa C. cost. n. 107/2012, cit. (il cui deposito sarebbe sopraggiunto di lì a poco).

24 Cass., 10.5.2018, n. 11339.

25 Il che comporta l’applicazione della disciplina di cui alla l. n. 210/1992. Nel caso vagliato dalla Suprema Corte, rileva il termine triennale di decadenza, che non gioca peraltro a sfavore del ricorrente, in quanto la sua decorrenza parte soltanto dal momento (che, nella specie, si collocava nel 2004) in cui il danneggiato acquisisce piena e sicura consapevolezza del nesso causale tra la patologia e il trattamento che l’ha cagionata (in tal senso, con riferimento all’area contigua dei danni da emotrasfusioni, v. Cass., 26.1.2012, n. 1104; sempre in tale contesto, con riferimento alla posizione di chi aveva contratto un’epatite cronica C posttrasfusionale, si è affermato che il termine triennale di decadenza, cui è assoggettata la presentazione della domanda volta al conseguimento della prestazione indennitaria, non decorre dal momento in cui la persona contagiata ha avuto conoscenza della mera positività all’HCV, bensì da quello in cui quest’ultima ha avuto, o avrebbe dovuto avere usando l’ordinaria diligenza, la consapevolezza del danno clinico indennizzabile causato dall’epatite correlata alla trasfusione: così Cass., 3.1.2018, n. 20).

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