Dalla ricostruzione al problema di Venezia

Storia di Venezia (2002)

Dalla ricostruzione al 'problema' di Venezia

Leopoldo Pietragnoli
Maurizio Reberschak

Prologo. La "regina malata"

"Venezia, la nostra città - prezioso patrimonio artistico non solo dell'Italia ma di tutto il mondo - corre pericolo di trasformarsi in una città di rovine". Il 17 maggio 1952, Angelo Spanio, democristiano, primario medico prestato alla politica, da poco meno di un anno sindaco di Venezia con una giunta D.C. (Democrazia Cristiana)-P.S.L.I. (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani), convocò in Municipio una ventina di giornalisti, tra i quali i corrispondenti dei maggiori giornali italiani e delle più note agenzie di stampa italiane ed estere, per "avvertire il Paese e il mondo che la città unica […] minaccia di soccombere all'offesa delle maree, delle correnti, della salsedine". Spanio si soffermò sull'edilizia, soprattutto quella residenziale, per denunciarne "la situazione penosa dal punto di vista igienico, umano, sociale" e per ammonire: "Venezia è patrimonio comune, e questo patrimonio si trova sotto la perenne minaccia di fenomeni lenti ma continui e inesorabili che, se non si provvede in tempo, la trasformeranno in una città morta", e concludere auspicando la rapida approvazione di una legge speciale: "Siamo certi che le legittime aspirazioni di questa 'regina' malata troveranno nel Governo, e nel mondo intero, pronta comprensione"(1).

Il problema della casa, nella città storica, era drammatico. Sei mesi prima della denuncia di Spanio, alla Camera il deputato veneziano Eugenio Gatto(2), anch'egli democristiano, aveva parlato di "situazione angosciosa", rilevando la necessità di "togliere la gente da certi magazzini spesso invasi dalle acque, dove gli uomini vivono come topi, senza aria e senza latrine, dove le famiglie vivono ammonticchiate come pecore in ovili, non come cristiani in case, e dove la malattia è facile e l'immoralità dilagante"(3). Prima ancora, nell'aprile 1946, il sindaco Giobatta Gianquinto(4), comunista, aveva usato parole simili, denunciando che nelle baracche alla Giudecca c'erano "centinaia di famiglie che conducono una vita più vicina alla vita del bruto che non a quella degli uomini", e aveva esclamato: "Affermo, e sono nel vero, che gli animali che vivono nelle stalle - consentitemi l'espressione - delle aziende agricole moderne, hanno condizioni di vita superiori ai cittadini che vivono, che muoiono là dentro, in quelle spelonche, in quelle topaie delle baracche"(5). Nel 1949, il prefetto di Venezia, Attilio Gargiulo, sia pur in un fugace accenno, aveva segnalato al Ministero dell'Interno: "Le condizioni igienico-sanitarie, sia nel capoluogo che in alcuni centri della provincia, lasciano alquanto a desiderare specie per la insalubrità delle abitazioni, il sopraffollamento degli abitati e le condizioni di miseria di larghi strati della popolazione"(6).

La denuncia di Spanio si basava sulla relazione dell'ex ufficiale sanitario del Comune, Raffaello Vivante, il quale nel 1948 aveva censito 1.769 appartamenti a piano terra inabitabili(7), la punta dell'iceberg di una più estesa sofferenza abitativa - 88 di essi erano magazzini "situati a livello o sotto il livello stradale, senza focolaio, senza latrina, senza acqua, scarsamente illuminati, umidi, […] sovraffollati"(8) e accoglievano 486 persone -, piani terra nei quali vivevano 9.048 persone, più di metà delle quali (5.849) in 870 alloggi sovraffollati; 391 alloggi erano senza acqua, 496 senza latrina a chiusura idraulica, 87 senza servizio igienico. La situazione era peggiorata rispetto al 1935, quando Vivante aveva censito 1.245 appartamenti a piano terra inabitabili(9).

Nella relazione alla Camera, Gatto aveva utilizzato lo studio di Vivante del 1935: allora le abitazioni sovraffollate erano 6.080 (il 31% delle case dell'intera città) e vi risiedevano 50.300 persone; 9.300 erano le case dichiarate inabitabili, 14.460 persone vivevano in 2.320 alloggi senza acqua, 24.000 in alloggi senza latrina ad acqua corrente, moltissime case erano senza alcun tipo di latrina. "Dal 1935 ad oggi la popolazione è notevolmente aumentata. E di conseguenza è facile immaginare quanto si sia ulteriormente aggravata la situazione della città", aveva chiosato(10). Poco dopo la conferenza stampa del sindaco, l'assessore comunale ai lavori pubblici, Giovanni Dell'Olivo, ricordò che i tre quinti della popolazione abitavano in "misere abitazioni"(11) e che non meno di 50.000 persone vivevano "in baracche, tuguri malsani, in case pericolanti"(12).

Una città ricostruita

La fine del dopoguerra

Una città sovraffollata. La ripresa economica. Nel 1952, Venezia era sovraffollata. Al censimento del 1951, la città storica aveva fatto registrare 174.808 residenti, il 55,4% dei 315.811 residenti nel comune, la punta massima ufficiale di tutta la sua storia (nel 1950 l'anagrafe ne aveva però calcolati 184.447); l'estuario 44.037 (13,9%), la terraferma 96.966 (30,7%)(13). Alle dinamiche di crescita naturali e soprattutto migratorie degli ultimi decenni, si era aggiunto, durante la guerra, un flusso imponente di sfollati e di profughi in cerca di scampo nella "città rifugio" risparmiata dai bombardamenti per tacito accordo degli alleati e dei tedeschi(14); e, subito dopo la guerra, un'altra ondata di immigrati dalle campagne, attratti dalle maggiori capacità di sussistenza economica nel centro urbano. Nel 1951 c'erano 47.586 famiglie in 33.502 abitazioni: circa 28.000 vivevano perciò in coabitazione, familiare o in subaffitto, mentre 793 famiglie occupavano 675 alloggi impropri(15). Cominciò così, nel 1952, la prima fase dell'esodo, che sarà motivata "per sovraffollamento e degrado", e che contribuirà, in un primo tempo, a dare un certo sollievo alla città(16).

Sotto il profilo economico, il 1952 fu invece l'anno che segnò la fine della ricostruzione postbellica e della rincorsa ai traguardi dell'anteguerra, cui gli operatori e l'opinione pubblica avevano sempre guardato (tanto che nell'estate del 1953 il prefetto per la prima volta definì "buona" la situazione dello "spirito pubblico"(17)).

Così fu per il movimento turistico, presto ritornato alle cifre dell'anno "d'oro", il 1938, quando c'erano stati 496.232 arrivi e 1.641.899 presenze nel comune. Se Venezia città aveva già superato nel 1950 gli arrivi del 1938 (456.871 contro 441.817) e nel 1951 anche le presenze (1.128.699 contro 1.122.899), fu nel 1952 che il movimento comunale complessivo superò quel primato d'anteguerra fin allora creduto insuperabile, con 651.036 arrivi e 1.670.085 presenze (526.803 arrivi, 1.209.733 presenze a Venezia) grazie anche all'apporto di Mestre (57.515 arrivi, 125.320 presenze) che compensava il minor contributo del Lido (66.718 arrivi, 335.032 presenze)(18). Nel 1950 i turisti stranieri per la prima volta avevano superato gli italiani: 278.875 arrivi contro 226.180(19). L'importanza del turismo nella ripresa dell'economia cittadina era più evidente di quella di altri settori, tanto che nel 1949 il prefetto arrivò ad affermare che sull'afflusso del turismo straniero "come è noto, vive tutta la città"(20).

Anche il movimento marittimo portuale nel 1952 superò nell'insieme delle merci sbarcate e imbarcate - 5.091.814 tonnellate - il primato del 1939 (4.599.176 tonnellate): tale risultato era però dovuto al notevolissimo aumento del movimento petroli (2.226.246 tonnellate contro le 821.280 del 1939) quadruplicato negli ultimi sei anni, mentre il movimento commerciale rimaneva molto lontano dalle cifre del 1939 (1.421.841 tonnellate contro 2.220.818) e quello industriale le sfiorava ma non le raggiungeva (1.443.727 tonnellate contro 1.577.078)(21). Quanto al movimento passeggeri, i risultati erano deludenti: appena 24.220 contro 92.073 del 1939(22).

Nella zona industriale di Marghera furono presto riparati i danni di guerra; e dopo che nel biennio 1947-1948 vi trovò riscontro la più generale 'normalizzazione' economica del paese(23), il biennio 1950-1951 vide una forte ripresa produttiva e l'avvio di un nuovo ciclo espansivo, con l'entrata in esercizio degli impianti della Società industrie chimiche, del gruppo Edison. La ripresa produttiva fu, anche, restaurazione padronale, con licenziamenti di massa, nonostante la dura lotta sostenuta dai lavoratori(24). Pur condividendo "la necessità da parte delle imprese di alleggerire lo sproporzionato numero delle maestranze", nel 1949 il prefetto ritenne di dover segnalare "una certa intransigenza assunta da qualche tempo dalla classe padronale, sostenuta dall'Associazione degli Industriali"; "questi atteggiamenti e […] i mancati o ritardati pagamenti dei salari [fece notare] contribuiscono ad esacerbare gli animi degli operai"(25); e nel 1950 rilevò "una sempre maggior rigidità da parte dei dirigenti industriali, che molto spesso ne hanno fatto più una questione di principio che tecnica ed economica"(26).

La difesa dei posti di lavoro - e della fabbrica - ebbe il suo drammatico acme al cantiere navale Breda, minacciato di chiusura nonostante fosse modernamente attrezzato e avesse maestranze molto qualificate. Il Comune assunse un ruolo di iniziativa a fianco dei lavoratori, con il sostegno dell'opinione pubblica: "la situazione della Breda è veramente sentita da molta parte della popolazione, e non solo dagli elementi di sinistra [scrisse il prefetto] per un naturale sentimento di solidarietà"(27). Il 14 marzo 1950, la polizia represse sparando una manifestazione di lavoratori, che stava rallentando il traffico, e provocò cinque feriti, dei quali due gravi. Fu lo stesso sindaco Gianquinto a guidare il corteo di protesta da Marghera a piazza S. Marco, con un gesto che suscitò contrapposte reazioni(28). La saldatura tra fabbrica e territorio riuscì a salvare la Breda - sia pur poi destinata a crisi ricorrenti - a prezzo di una pesante riduzione dell'organico(29). Ripresa produttiva uguale restaurazione: quando, nel 1952, alla Breda venne assegnata la costruzione di una petroliera, "Il Gazzettino" commentò: "Devono tutti convincersi - e trarne le conseguenze - che la Breda è un'altra volta, anzi più che mai una realtà operosa di Venezia", e aggiunse "che il suo nome, un tempo sinonimo di agitazioni, di scioperi e disoccupazione, oggi significa ordine e lavoro"(30).

La ritrovata vitalità culturale e cittadina. Alla fine del conflitto, Venezia fu la prima città in Italia a rimettersi in moto nel campo dell'attività culturale e a recuperare le posizioni dell'anteguerra(31): anzi, diventò un punto di incontro e di riferimento per quanti intendevano la Liberazione come l'inizio di una nuova epoca anche per la cultura(32). Già nell'estate del 1945, mentre le Gallerie dell'Accademia allestivano una mostra dei Primitivi veneziani, il Comune riprendeva la tradizione delle mostre d'arte antica, sia pur in tono minore, con la mostra dei Cinque secoli di pittura veneta, cui seguì, nel 1946, la mostra dei Capolavori dei musei veneti, con 350 opere affidate alla città durante la guerra per metterle al riparo. Nel 1946 il premio Burano fu il primo in Italia a riaprire la stagione delle mostre d'arte, con la vittoria dei pittori di tradizione, i vedutisti lagunari, e le conseguenti immancabili polemiche(33).

Il grande evento del 1946 fu la ripresa della Mostra del cinema con le proiezioni, al cinema San Marco, al Teatro Malibran, ai Giardini della Biennale, di film di otto paesi vincitori della guerra, e dell'Italia. Nonostante le gravi difficoltà, la Mostra aveva mantenuti intatti vitalità, prestigio, e richiamo di pubblico (90.000 spettatori)(34); nel 1947, nella sede prestigiosa del cortile di Palazzo Ducale, ebbe la durata eccezionale di ventiquattro giorni, presentò 179 film, i paesi partecipanti furono 13, ritornarono i premi(35) e si scrisse - esagerando - di mezzo milione di spettatori(36) (in realtà furono circa 70.000(37)). Con questa Mostra riprese il dialogo internazionale del cinema italiano, della Biennale, di Venezia, con i cineasti di tutto il mondo(38). Il contributo della Biennale nel fare di Venezia un grande centro di cultura si manifestò anche con la ripresa nel 1946 del Festival di musica contemporanea, aperto alle più avanzate espressioni, e nel 1947 del Festival del teatro, con opere di Sartre e di Cocteau in versione originale(39).

Vivacissimo era l'ambiente artistico cittadino. Nel 1946 venne costituito a Venezia il Fronte Nuovo delle Arti, forse la più importante avventura dell'arte italiana del dopoguerra(40). Nel 1947 furono circa 200 le mostre in città(41), prima tra tutte la tradizionale collettiva della Fondazione Bevilacqua La Masa, che aveva ripreso con rinnovata vitalità, tra difficoltà e polemiche, un'attività peraltro mai interrotta(42). In città le discussioni fervevano, astrattisti e figurativi si confrontavano nelle gallerie e nei concorsi: "Venezia era la città più viva d'Italia per l'arte contemporanea"(43). Sul versante della tradizione, il 1947 vide la nascita del Magnifico Ordine della Valigia, che prese il nome da una vecchia valigia abbandonata, dipinta a quadretti da ventisette pittori: un episodio bohémien avvenuto in "una Venezia nottambula quando, senza tanti clamori, era certamente la più insonne delle città italiane"(44). La valigia aveva suggerito forse anche un gesto liberatorio rispetto al cupo clima della "donna nel baule" - come fu chiamato il "delitto Cimetta", dal nome di una donna uccisa nel mondo della borsa nera e il cui cadavere era stato affondato in laguna, racchiuso in un baule -, clima che sarebbe pesato a lungo sulla città(45).

Così, a soli due anni dalla fine della guerra, nell'estate del 1947, Venezia "aveva riacquistato appieno il suo ruolo di sempre di capitale dell'arte e dello spettacolo"(46), che l'anno dopo sarebbe stato sancito da una memorabile edizione della Biennale di arti visive, "probabilmente la più grande e la più completa mostra mai allestita al mondo d'arte moderna"(47). Oltre a colmare le lacune informative del Ventennio fascista, essa documentò il vivacissimo clima del momento e con la presenza della collezione di Peggy Guggenheim, offrì uno sguardo inedito sull'arte d'avanguardia. Furono 15 i paesi partecipanti, 1.108 gli artisti presenti con 3.065 opere, 216.471 i visitatori, un numero superiore a quello delle Biennali degli anni Trenta, e che non sarebbe poi stato raggiunto per oltre vent'anni(48). Quella Biennale non fu soltanto una grande 'vetrina' dell'arte mondiale, ma testimoniò anche la vitalità dell'ambiente artistico locale: Venezia divenne così il crocevia internazionale del rinnovamento della pittura(49). E intanto la Bevilacqua La Masa, con due grandi mostre sui Primi espositori di Ca' Pesaro, rinverdiva le straordinarie novità di linguaggio e la coraggiosa ricerca di cui anche Venezia era stata capace(50).

Gli anni seguenti furono di straordinaria ricchezza(51). Ritornata nel 1948 al Lido, la Mostra del cinema affiancò alla rassegna maggiore quelle dei film scientifici, dei film didattici, dei film per ragazzi; nel 1949 potenziò le strutture con la costruzione di un'arena all'aperto da 1.800 posti(52); nel 1951, con il Leone d'oro a Rasho-mon di Kurosawa, rivelava al mondo un regista e una cinematografia 'lontana'; intanto ritrovava la mondanità e l'eleganza di un pubblico cosmopolita, e nel 1950 superava i 100.000 spettatori(53). Nel 1952, per la cerimonia di apertura, si ebbe in città il primo esperimento in Europa di telecronaca diretta(54).

Il Festival della musica offrì, tra l'altro, un eccezionale concerto nel 1949, diretto da Arturo Toscanini con l'orchestra della Scala, e la prima mondiale nel 1951 di The Rake's Progress di Igor Stravinskij(55); memorabile fu, al Festival del teatro del 1950, la proposta del Parlamento di Ruzante; di quell'anno è il veto del governo italiano al visto d'ingresso a Bertolt Brecht e alla sua compagnia, invitati dalla Biennale, che aveva creato a Venezia "quasi una zona franca della cultura" del tutto inusuale nell'Italia della guerra fredda(56).

Nel 1950 la Biennale di arti visive fu "forse perfino più strepitosa di quella del 1948"(57); e strepitosa fu la mostra all'Ala Napoleonica di Jackson Pollock - la prima in Europa - realizzata da Peggy Guggenheim, che aveva intanto trasferito a Venezia la propria collezione. Per il Comune, il ritorno allo spirito e alle dimensioni delle grandi mostre degli anni Trenta avvenne nel 1949, con l'esposizione in Palazzo Ducale di 140 opere di Giovanni Bellini, cui seguì, nel 1951, a Ca' Rezzonico e ai Giardini, la mostra di Giambattista Tiepolo, con oltre 100.000 visitatori(58).

Il 1951 vide il debutto di due grandi istituzioni private che avrebbero arricchito e innovato la vita culturale di Venezia con un respiro internazionale(59): la Fondazione Giorgio Cini, voluta da Vittorio Cini in memoria del figlio, avviò la gigantesca opera di ristrutturazione - ma anche di ampliamento, con una "sacca" di 18.000 metri quadrati - dell'isola di S. Giorgio Maggiore(60); e il Centro internazionale delle arti e del costume di Franco Marinotti aprì palazzo Grassi - con la mostra del Costume nel tempo, inaugurata da una sfilata notturna di moda con 22 grandi sarti - e un nuovo teatro(61).

Con un po' d'enfasi, ma non certo senza ragione, "Il Gazzettino" trasse così le somme del 1951: "Nessuna altra 'stagione' italiana o straniera è stata mai così ricca di avvenimenti, taluni dei quali di risonanza addirittura mondiale"(62). Non soltanto nella pittura si era instaurato un circuito virtuoso tra la vetrina della cultura internazionale e il laboratorio della cultura cittadina - tra le elitarie esperienze dell'avanguardia e le forme più popolari di divulgazione -, un circuito che darà vitalità a tutti gli anni Cinquanta. Così era nella musica(63), da una parte con Gian Francesco Malipiero, Bruno Maderna e poi Luigi Nono, dall'altra con la stagione lirica estiva di opere di largo richiamo, in un teatro all'aperto da 4.000 posti in campo S. Angelo(64), oltre al variegato cartellone della Fenice(65) e al concerto domenicale della banda municipale in piazza S. Marco(66). Così era nel teatro, con la tradizione delle compagnie goldoniane di Cesco Baseggio(67), e con l'innovativa esperienza del teatro di Ca' Foscari, diretto da Giovanni Poli, il primo esperimento in Italia di un teatro universitario con attività continuativa(68). Così era nel cinema, tra la larga offerta delle sale - 8 di prima visione, 10 di seconda - e la promozione delle opere d'essai, portata avanti dal laico Cineclub Pasinetti e dal cattolico Cineforum con grande affluenza di soci e spesso con coincidenza di titoli(69). Singolare fu il dialogo tra maestri vetrai e grandi artisti realizzato da Egidio Costantini nel Centro studi pittori nell'arte del vetro, che Jean Cocteau battezzò "La Fucina degli Angeli"(70).

L'estiva notte "famosissima" del Redentore era il più grande evento popolare: nel 1951 lo spettacolo pirotecnico sull'acqua a S. Marco durò due ore(71); nel 1952 si azzardò la cifra di 400.000 spettatori(72). L'altro grande appuntamento popolare era la Regata storica a settembre, per la quale si scriveva di 200.000 spettatori(73): nel 1951 affiancò alla gara dei gondolini a due remi, ripresa già nel 1945, la regata delle caorline a sei, e nel 1953 la regata delle donne, che durò due soli anni(74); una cura particolare era dedicata al corteo di gala, del quale nel 1951 si organizzò una seconda edizione per la troupe americana del Cinerama(75). Accadeva di rado, ed era perciò un evento d'eccezione, l'arrivo del Giro ciclistico d'Italia: nel 1952 in piazzale Roma lo accolse una folla traboccante - 60.000 persone? - ed entusiasta(76).

La vitalità cittadina si esprimeva anche nelle celebrazioni religiose, a cominciare dall'annuale ricorrenza della Madonna della Salute, che vedeva un imponente afflusso di fedeli(77); un altro affollato appuntamento era la processione del Corpus Domini lungo tutta piazza S. Marco(78). Nel 1950 il passaggio della statua della Madonna Pellegrina per tutte le parrocchie(79), durato un anno, si concluse in piazza S. Marco con una solenne affollatissima cerimonia(80) (il prefetto si meravigliò dell'afflusso di fedeli nelle zone popolari: "Tale unanime concorso assume un aspetto tutto particolare se si considera la conformazione etnica [sic] di quei sestieri"(81)).

Costruzioni e polemiche. In città si costruiva con una certa disinvoltura. Tra gli interventi edilizi, due suscitarono vivaci polemiche la cui eco risuonò a lungo: "due misfatti", come li definì Giuseppe Mazzariol(82). Il primo fu la costruzione (1946-1948) dell'albergo "Danielino" della C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), in riva degli Schiavoni, a prezzo della demolizione di alcune basse case(83). Mazzariol lo descrive "timida e inespressiva quanto impropria congiunzione in una sequenza che, da Palazzo Ducale attraverso le Prigioni si chiude con il Danieli, determinando un vuoto vero e proprio di tensione nell'andamento di questa ampia e articolata strofe urbana, avanti la grandiosità del Bacino di San Marco"(84). Oggetto del contendere furono l'altezza e le grandi dimensioni della facciata in travertino, mentre riecheggiava in città (ma anche nell'aula della Camera) il racconto di un divieto della Serenissima a costruzioni in quell'area(85). Scrive Alvise Zorzi: "Un paesaggio famoso veniva tranquillamente alterato […] né più oggi si leva maestosa come prima la facciata del Palazzo Ducale, rimpicciolita […] e avvilita"(86); e pur conclude: "Ma, poiché a tutto ci si abitua, anche la facciata del 'Danielino' a due passi dal Palazzo Ducale è entrata nelle abitudini"(87). Il secondo fu la ristrutturazione (1946-1949) dell'albergo Bauer della S.A.I.G.A.T. (Società per Azioni Immobiliari e Gestioni Alberghi Turismo), vicino a S. Marco(88), con un ampliamento dell'edificio e una vistosa sopraelevazione, poi parzialmente ridotta per l'opposizione del Comune che accettò, in cambio della sanatoria, la costruzione di venticinque alloggi in città. Indubbia rimane la stonatura tra la moderna facciata in travertino dell'albergo e l'antica facciata barocca della vicina chiesa "contrasto violento e immotivatamente polemico […] nell'invaso prezioso del campo"(89).

Di questi lavori si parlò alla Camera nel 1949, quando l'on. Florestano Di Fausto (D.C.) definì il "Danielino" "uno sconcio" con il quale "è stato vulnerato uno dei più incantevoli e singolari insiemi di bellezza che siano al mondo", e il Bauer "intollerabile oltraggio all'augusto volto della Anadiomene serenissima". Il sottosegretario alla Pubblica istruzione, Mario Venditti, con una puntuale ma burocratica cronistoria, difese l'operato di vigilanza del Ministero e la regolarità delle procedure, e invitò a non eccedere nella tutela di Venezia, dicendo a Di Fausto: "Fino a quando - come è fatale - il fascino ermetico e la grazia solenne di quella città di eccezione dovranno pagare il loro tributo alla civiltà che incalza, ella dovrà pur concedere che il volto augusto della Serenissima possa essere talvolta per lo meno insidiato"(90).

Più che da una serie di edifici sorti "in vari siti della città, depositati come oggetti impropri"(91), il tessuto edilizio venne ampiamente segnato dalle numerosissime sopraelevazioni(92), frutto di una "anarchia spesso irreparabile dell'iniziativa privata"(93). "Sono decine di anni che a Venezia si costruiscono in sbalorditiva quantità sopraelevazioni inutili e dannose, esempi di insensata distruzione di ricchezza, esempi - sotto il profilo estetico - del più illogico modo di costruire", denunciò Italia Nostra(94). Una "piaga" le definì Wladimiro Dorigo, l'assessore comunale all'urbanistica che lottò contro di esse, riuscendo se non altro a imporre una disciplina mai prima osservata, con un esame più rigoroso(95).

Nel 1952 alla Celestia, vicino all'Arsenale, al posto di un vecchio oratorio sorse una piccola chiesa, realizzata per le suore francescane da Giovanni Favaretto Fisca (che sarà poi sindaco di Venezia) e da Giovanni Lirussi: rimarrà l'unico edificio sacro costruito nella città storica nel dopoguerra(96).

La società in negativo. Benché l'economia fosse in netta ripresa, numerosi e pesanti erano gli elementi di difficoltà. Nel 1952, l'E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) aiutò 13.000 famiglie e fornì 721.405 razioni di minestra e pane in 20 mense; distribuì 5.000 capi di vestiario, oltre 4.500 tra brande, materassi, coperte; diede un sussidio giornaliero a circa 700 famiglie di esuli giuliano-dalmati, di reduci dall'Africa, di sfollati di guerra(97). Con le sue mense, l'E.C.A. sosteneva l'attività del Soccorso invernale per il pasto gratuito ai disoccupati: nell'inverno 1950-1951 produsse fino a oltre 1.500 pasti al giorno, per un totale di 245.821 (il menu era sobrio: pastasciutta o minestra, formaggio, 200 grammi di pane, un bicchiere di vino; soltanto a Natale e Pasqua c'erano la carne e il contorno), e distribuì 14.289 pacchi natalizi (un chilo di carne, un chilo di riso, un chilo di zucchero, 250 grammi di lardo)(98); nell'inverno successivo, il numero dei pasti salì a 327.000, cui si aggiunse la fornitura ad anziani di 40.000 litri di latte e 40.000 chili di pane(99).

Risvolti negativi venivano dalla ripresa del turismo. Già nell'agosto 1948, il prefetto segnalava "una maggiore attività dei borsaioli favoriti dalla straordinaria affluenza di turisti in città", pur rassicurando che "l'azione repressiva è stata efficace"(100). La connessione tra l'afflusso di turisti e l'aumento dei borseggi e dei furti con destrezza diventò un Leitmotiv delle relazioni estive dei prefetti, così come l'efficacia (vera o presunta) delle misure di vigilanza e di repressione (nel 1952 si assicurava che tali misure "hanno consentito di limitare al minimo i borseggi"(101), ma nel 1953 si dovettero impiegare "elementi specializzati" antiborseggio(102)). La routine finì con il diventare silenzio, con un solo squarcio di verità nel 1956 sul radicamento ormai fisiologico dei borseggi: "Malgrado il forte afflusso turistico, le misure di vigilanza disposte hanno consentito di contenere in misura molto modesta le abituali manifestazioni delittuose"(103).

Le notti di Venezia non erano così tranquille come la fama della città poteva far pensare: nel 1952 il sindaco Spanio rivolse un appello radio contro i vandalismi (ma anche contro le sopraelevazioni, le insegne al neon, il getto in canale delle immondizie)(104). Schiamazzi notturni e scene poco edificanti erano abituali: in consiglio comunale, nello stesso 1952, si definì piazza S. Marco "un piccolo postribolo"(105) e si denunciarono perfino "aggressioni notturne di truppe di giovinastri più o meno avvinazzati"(106). Anche il giorno non era esente da rischi: in quell'anno, 218 veneziani morsi da cani randagi ricorsero alle cure ospedaliere(107).

La gestione politico-amministrativa della ricostruzione: dalla giunta del C.L.N. alla giunta di sinistra alla fine del monocolore democristiano

Alla Liberazione, la giunta popolare municipale, espressione del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale), fu composta da rappresentanti di tutti i cinque partiti, con una distribuzione delle cariche che, pur ispirata a criteri paritetici, tenne conto, per gli assessorati, delle specifiche competenze; sindaco fu Ponti, vicesindaci Gianquinto (P.C.I., Partito Comunista Italiano) e Giovanni Cicogna (P.L.I., Partito Liberale Italiano), prosindaco per la terraferma Arturo Valentini (P.S.I.U.P., Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). L'impegno di collaborazione e di unità assunto all'insediamento fu mantenuto con sincerità: tutte le delibere furono approvate all'unanimità(108). Qualche cosa, di quella esperienza unitaria, è rimasta nell'amministrazione comunale di Venezia, il cui consiglio è stato quasi sempre capace di costruire una posizione unanime sui grandi problemi della città: la legislazione speciale, l'occupazione, le tematiche della salvaguardia.

La situazione di emergenza, mentre portava le forze politiche a sacrificare le diversità alla collaborazione, costrinse la giunta a lasciare in sospeso i grandi programmi, per pensare a risolvere i problemi, gravi e talora gravissimi, giorno dopo giorno: reperimento e distribuzione dei generi alimentari, alloggio per i senza tetto, riparazione delle strade e delle case anche per dar lavoro alla massa di disoccupati, riorganizzazione dei trasporti, riavvio del turismo, il tutto in una situazione finanziaria difficilissima che impediva talora anche l'attuazione delle misure di emergenza.

Alle elezioni del 1946, la D.C. ottenne 23 consiglieri, il P.C.I. 17, il P.S.I.U.P. 15, l'Unione Repubblicana Democratica 3, Concentrazione Democratica 2(109). Si costituì una giunta di sinistra con sindaco Gianquinto, che godeva di meritata fama di "galantuomo" anche tra gli avversari, e che quindi poteva costituire un punto di riferimento per proseguire la collaborazione unitaria. "Noi saremo lieti di dare il nostro voto tutte le volte che il nostro programma ed il vostro coincideranno, per il bene della nostra città" dichiarò Ponti al passaggio delle consegne(110). Ma l'atmosfera stava cambiando: nell'estate 1947 la D.C. annunciò il passaggio all'opposizione, anche se non sistematica(111).

Lo scontro elettorale del 18 aprile 1948 e il sorpasso della D.C. mutarono lo scenario: l'offensiva della D.C. venne aperta con la richiesta di dimissioni della giunta, ritenuta delegittimata dal risultato delle elezioni. La richiesta fu respinta, con la spiegazione che le elezioni politiche erano ininfluenti ai fini della verifica amministrativa(112): la giunta Gianquinto rimase in carica fino a scadenza naturale (e sarà l'unica nella storia del Comune a non conoscere interruzioni e rielezioni), benché isolata nel panorama del Veneto "bianco", di fatto minoritaria in città, e non certo aiutata - anzi - dal governo nazionale centrista(113).

Ad aggravare il contrasto vennero, poco dopo, i tumultuosi avvenimenti del luglio 1948, in seguito all'attentato a Togliatti. A Venezia i dimostranti effettuarono blocchi stradali; occuparono, sia pur per breve tempo, la sede della RAI; presidiarono (o cercarono di occupare? la versione, ovviamente, diverge in relazione alle fonti di provenienza) gli impianti petroliferi e le industrie chimiche a Marghera; catturarono alcuni carabinieri. Il prefetto Gregorio Notarianni segnalò: "Gli avvenimenti […] hanno rivelato sotto certi aspetti ed in taluni episodi più violenti un vero tentativo insurrezionale"(114). C'è chi afferma che "a Venezia il movimento di protesta assunse caratteri preinsurrezionali"(115) (ma nella relazione del ministro degli Interni Scelba alla Camera gli episodi di Venezia ebbero uno spazio assai limitato e marginale(116)). Sta di fatto che a Venezia, come a Genova, la stessa direzione del P.C.I. intravide una delle situazioni "più calde"(117). "L'agitazione non assume quei contorni insurrezionali che poi qualcuno vorrà attribuire ad essa", riflette, a distanza di anni, la Camera del lavoro, "anche se alcune forzature in questo senso avvengono"(118).

Anche il comportamento di Gianquinto in occasione degli incidenti alla Breda aggravò la contrapposizione; la sinistra - affermò Umberto Sannicolò (P.C.I.) alla Camera - gli era grata per essersi mosso con intelligenza e coraggio, dando sfogo legale all'indignazione degli operai e mantenendo pacifica la loro protesta(119); Ponti replicò con un intervento severo, nel quale contestò le forme illegali assunte dalla protesta degli operai e, pur senza citare Gianquinto, "quella serie di manifestazioni e di atti che hanno dimostrato la volontà di legare a scopi propagandistici evidenti una situazione dolorosa e particolarmente grave"(120). In consiglio comunale e in città D.C., P.S.L.I., P.L.I. reagirono con durezza(121). Sia pur di dimensioni assai più modeste, contribuirono a rendere più conflittuali i rapporti tra D.C. e sinistra gli incidenti per un comizio di De Gasperi in piazza S. Marco(122) e una chiassosa contestazione al patriarca Adeodato Giovanni Piazza: l'intensa attività del presule, durante la guerra, per assistere la popolazione e per salvare la città non era bastata a far dimenticare le posizioni di spinto patriottismo, che per molti lo avevano connotato come un filofascista(123).

Della giunta Gianquinto è stata sottolineata la caratteristica di "una contraddittoria continuità rispetto alla tradizione amministrativa e politica cittadina"(124). Ma ormai era evidente che il modello di Volpi si poneva, senza soluzione di continuità, quale criterio di orientamento fondamentale della ricostruzione e dello sviluppo di Venezia(125): quasi tutti i grandi progetti degli anni successivi sono infatti riproposizioni (talora neppure aggiornate) di quelli elaborati negli anni Trenta. Nel conto del giudizio vanno messi anche la difficile situazione della città e l'isolamento politico, né si devono sottacere alcuni tentativi di mutamento, come l'assunzione diretta del servizio di riscossione delle imposte di consumo, l'iniziativa nei settori della cultura e del turismo per conservare la gestione diretta a fronte delle pressioni delle categorie, l'apertura al turismo di massa, lo sforzo tenace ma non efficace di riassetto della finanza locale, l'impegno per fronteggiare i gravi problemi della casa, dell'occupazione, dell'alimentazione. In conclusione, se la giunta si dette tanto da fare per cambiare ma poco produsse è perché contraddittoria fu la condizione in cui si trovò, "stretta tra una confusa volontà di attivare una certa rottura con il passato e l'oggettiva incapacità di farlo, vittima di limiti esterni e di un'intrinseca mancanza di lungimiranza politica"(126).

Alle elezioni del 1951 la D.C. ottenne 31 consiglieri, il P.C.I. 12, il P.S.I. (Partito Socialista Italiano) 4, il P.S.L.I. (poi P.S.D.I., Partito Socialista Democratico Italiano) 5, il Partito Socialista Unitario 2 (presto confluiti nel P.S.D.I.), il Partito Liberale Monarchico 4, il M.S.I. (Movimento Sociale Italiano) 2(127). La vittoria della D.C. fu il risultato dell'avvenuta formazione attorno a essa, con il supporto fondamentale della Chiesa, di un ampio e articolato blocco di forze sociali e di interessi economici, che aveva come progetto unitario la ripresa del disegno di Volpi, a cominciare dall'espansione di Porto Marghera e dal rilancio del ruolo culturale e turistico della città storica(128). Sindaco designato era Ponti, che fu eletto, ma rassegnò le dimissioni per motivi di salute; si scelse allora Spanio.

Fin dalla prima seduta del consiglio comunale si registrò "una caduta di tono generale", che fu presto confermata dalla scarsa qualità del discorso programmatico di Spanio(129). La giunta bicolore D.C.-P.S.L.I. durò poco più di quindici mesi, segnati da scarsa coesione, fino allo scontro che portò alle dimissioni del vicesindaco Giovanni Pastega e degli altri assessori del P.S.L.I.; il governo del Comune fu allora assunto da una giunta monocolore democristiana che resse fino al febbraio 1955, quando i conflitti interni e l'allentarsi dell'alleanza di centro portarono alle dimissioni del sindaco, oltretutto travolto, sia pur senza colpa, anche dall'arresto del fratello nell'ambito dello scandalo I.N.G.I.C. (Istituto Nazionale per la Gestione delle Imposte di Consumo), e sostituito con l'avvocato Roberto Tognazzi, anch'egli prestato alla politica ma più addentrato in essa. L'elezione di Tognazzi avvenne in tutta tranquillità: il P.C.I. depose scheda bianca, e Gianquinto apprezzò la disponibilità del nuovo sindaco all'ascolto di tutti(130).

Un giudizio negativo sulla maggioranza centrista venne formulato, sia pur in forma indiretta, nel 1952, dallo stesso prefetto: "Il protrarsi della situazione è fonte di sfiducia in tutti gli strati della popolazione verso l'attuale amministrazione del comune, troppo spesso giudicata, per minor preparazione di uomini, meno efficiente della precedente socialcomunista"(131). Sorta in tono minore, probabilmente più per meccanica ripetizione della formula di governo nazionale (e forse contando su questo per un aiuto dello Stato più sostanzioso di quello lesinato alla giunta di sinistra) che non per impulso locale su un programma organico, la giunta centrista-democristiana concluse il suo mandato con un bilancio non esaltante, a parte la legge speciale, anche a scorrere la serie di servizi elogiativi de "Il Gazzettino" (Cinque anni di Amministrazione Comunale) alla vigilia delle elezioni, dal 1° al 27 maggio 1956: 1 nuova colonia e 4 asili, 416 alloggi popolari (metà dei quali nella terraferma più emarginata), il nuovo mercato ittico, 5 nuove scuole e il dimezzamento della carenza di aule, l'opera in difesa dei lavoratori e delle industrie in città, il potenziamento dell'acquedotto, lo sviluppo del porto e di Marghera (stranamente, non si accennava al turismo, per il quale invece il Comune aveva svolto una vasta e proficua attività). Si ponevano in risalto alcuni risultati visibili, ma non certo tali da far pensare che la giunta avesse operato sulla base di un progetto complessivo, capace di incidere sul processo di mutamento in atto.

Una città che cambia

Il tentativo di guidare il cambiamento

La "legge speciale". La tanto attesa "legge speciale" fu pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" il 31 marzo 1956 con il nr. 294 e il titolo Provvedimenti per la salvaguardia del carattere lagunare e monumentale di Venezia attraverso opere di risanamento civico e di interesse turistico(132). Nella sostanza, era poco più che un aggiornamento del r.d.l. nr. 1901 del 21 agosto 1937, prorogato il 17 aprile 1948 dal d.lgs. nr. 845, con scadenza al 21 agosto 1957. "Sarebbe inesatto dire che si tratta di una nuova legge, perché in sostanza si tratta solo di aggiornare la vecchia legge" riconobbe Ponti al Senato(133).

Il r.d.l. del 1937 prevedeva un contributo statale fino al 30% per opere sulle fondazioni e per il risanamento degli edifici coinvolti nella sistemazione dei canali e fino al 50% per opere di restauro dei fabbricati di particolare interesse artistico e monumentale. È stato notato che la logica della legge speciale, prevedendo un finanziamento pubblico fruibile da limitate categorie di proprietari e da società immobiliari, favoriva la speculazione: col circoscrivere, infatti, il contributo maggiore a restauri di edifici di particolare interesse artistico e monumentale, e soprattutto richiedendo un'anticipazione pari al 50% delle spese, si inibiva la possibilità di risanamento dell'edilizia minore, abitata da famiglie certamente non in grado di anticipare le somme richieste(134).

Nonostante questi limiti, a fronte della paralisi dell'iniziativa privata e delle poche costruzioni pubbliche, del vasto degrado edilizio e della gravissima crisi degli alloggi, il Comune non poteva far altro che chiedere la proroga e il rifinanziamento del vecchio r.d.l., benché lo stesso Vivante avesse riconosciuto che "non determinò né poteva determinare alcun apprezzabile mutamento nelle condizioni del nostro abitato"(135). La proroga fu ottenuta dopo un duro scontro con il governo, risolto in un vivace incontro di Gianquinto con il ministro delle Finanze, nel corso del quale il sindaco dovette ricorrere alla minaccia di convocare la popolazione in piazza S. Marco, in piena campagna elettorale(136).

Gli altri pur numerosi tentativi della giunta di sinistra di affrontare il problema edilizio ottennero scarsi o nulli risultati, soprattutto per la carenza di un adeguato piano generale di riferimento, poiché l'unico strumento esistente era il progetto di massima per il risanamento di Venezia insulare, redatto dall'ingegnere capo del Comune, Eugenio Miozzi, nel 1939, che fu ripreso tale e quale all'indomani della guerra. Cogliendo peraltro con tempestività le possibilità offerte dal "piano Fanfani" per l'edilizia popolare, la giunta Gianquinto si raccordò con l'I.N.A. (Istituto Nazionale Assicurazioni) Casa, agli inizi del 1951, per realizzare un nuovo quartiere urbano, su 55.000 metri quadrati, sul fronte nord-est di Mestre verso la laguna, in modo che lo sfollamento di Venezia avvenisse sì con lo sviluppo della città in terraferma, ma almeno ai margini della laguna(137). La progettazione del "quartiere coordinato" fu affidata a un gruppo di lavoro guidato da Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato. L'Istituto Universitario di Architettura, che raccoglieva i più importanti studiosi italiani, ebbe l'occasione di misurare concretamente gli esiti del proprio dibattito: nella ricerca di integrazione tra le due realtà urbane nella zona di cerniera del bordo lagunare, nella ricerca di un linguaggio che tentasse di ricreare l'effetto "campo veneziano", nell'organizzazione di un insieme architettonico unitario secondo l'idea-utopia di Samonà di trasformare il quartiere popolare "dormitorio" delle periferie industriali in una "casa-città". Il risultato - il Villaggio S. Marco, realizzato dall'I.N.A. Casa, che pur si avvarrà di valenti professionisti - sarà di gran lunga inferiore alle speranze iniziali(138).

Quasi alla scadenza del mandato, nella primavera del 1951, visto che i due decreti non avevano consentito in quindici anni neppure l'inizio della risoluzione dei problemi edilizi, la giunta portò in consiglio un ordine del giorno da inviare al governo e al Parlamento per ottenere nuove provvidenze, e per far sì che dei benefici statali potesse concretamente avvantaggiarsi anche la piccola e media proprietà edilizia, la cui Associazione aveva promosso una serie di iniziative in tal senso(139). Anche Gatto, alla Camera, aveva rilevato che "i contributi […] hanno servito pochissimo, e hanno servito solo alla parte più abbiente della popolazione […]. Ma la piccola e media proprietà non ha potuto beneficiare di questa legge, perché […] i restauri sono costosissimi a Venezia e la percentuale di spesa che va a carico del proprietario, anche usando dei contributi, è tale che la piccola e media proprietà non ha potuto affrontarla"(140). L'atmosfera pre-elettorale non favorì l'iniziativa della giunta: la minoranza contestò lo "scopo propagandistico" dell'ordine del giorno, che fu approvato con i soli voti della maggioranza(141). È da notare che un anno dopo, in un clima mutato, Gatto alla Camera dimenticherà (o fingerà di dimenticare) quella frattura e dirà che l'ordine del giorno "venne votato all'unanimità da tutti i consiglieri"(142).

All'unanimità, invece, il 15 febbraio 1952, il consiglio comunale approvò il testo di una proposta di legge(143), che i parlamentari veneziani Gatto, Lizier, Ponti (D.C.), Marchesi, Oliviero, Sannicolò (P.C.I.), Giavi (P.S.I.), Matteo Matteotti (P.S.D.I.) presentarono assieme come "un provvedimento voluto da tutto il popolo veneziano […] senza veruna distinzione di colore politico"(144). Mentre ripeteva la normativa dei precedenti decreti per le opere pubbliche, chiedendone un forte rifinanziamento, la proposta estendeva i contributi a privati anche per l'edilizia non monumentale, sia pur a precise condizioni: quando vi fosse pericolo di danni a causa delle condizioni statiche degli edifici, e quando gli edifici fossero dichiarati inabitabili, in tutto o in parte. Per rendere celere l'iter della legge, la Camera istituì una commissione speciale, presieduta da Ponti, che approvò all'unanimità la legge soltanto con un leggero ridimensionamento dell'impegno finanziario; larghissimo - 454 sì, 49 no (non motivati) - fu il consenso dell'aula il 25 marzo 1953(145). L'iter della legge però si fermò subito dopo, per l'anticipato scioglimento del Senato.

Il 20 maggio 1954, i parlamentari veneziani - Gatto, Nerino Cavallari, Ida D'Este (D.C.), Gianquinto, Marchesi (P.C.I.), Tonetti (P.S.I.), Matteotti (P.S.D.I.) - ancora compatti, ripresentarono il testo del 1952. E praticamente identica fu la relazione di Gatto, che annotò: "Non è né bianca né rossa […]: è veramente una proposta tricolore"(146). Velocissimo fu l'iter in commissione speciale della Camera, che approvò unanime la legge il 2 agosto 1954; più lento al Senato, anche per un iniziale disaccordo tra i Ministeri del Tesoro e dei Lavori pubblici sullo stanziamento, ma finalmente la legge fu approvata, con voto unanime, il 16 marzo 1956(147).

Tanto attesa, la legge si rivelerà ben presto "insufficiente ed inoperante", anzi "persino irrisoria" per le necessità di Venezia, secondo Vittorio Cini(148); di "scarsa efficacia" a causa "delle sue insufficienze funzionali e strutturali" per Feliciano Benvenuti, visto che "il contributo ai privati non era neppure sufficiente a suscitare il loro interessamento" e che le procedure erano tali che i privati erano "ulteriormente scoraggiati a chiedere i già inadeguati contributi"(149); "irrisoria nelle cifre" e "infelice nelle disposizioni" per l'assessore comunale all'urbanistica, Agostino Zanon Dal Bo(150). Se pur ben inquadrava le deficienze del tessuto urbano, la legge infatti vi provvedeva in sostanza soltanto per le opere pubbliche, ma non riusciva a costituire un incentivo a una radicale opera di ammodernamento delle case, quale sarebbe stata necessaria data la precaria situazione igienico-sanitaria, pur posta in rilievo nella relazione alla legge; gli stanziamenti, poi, erano del tutto inadeguati allo stesso limitato programma previsto dalla legge(151).

Cinque anni dopo, nel saluto ai veneziani alla fine del primo anno del mandato di sindaco, Giovanni Favaretto Fisca (D.C.) rassicurerà che "si va intensificando l'azione in sede governativa per l'approvazione di una nuova e migliore legge speciale per Venezia"(152). Ma la prima vera legge speciale arriverà soltanto nel 1973.

La "formula Venezia". L'approvazione della legge speciale coincise con una fase vivace e innovativa della vita politico-amministrativa di Venezia, assurta al ruolo di "laboratorio politico nazionale". Al centro del nuovo scenario era soprattutto il cambiamento avvenuto nella D.C., con la vittoria, nel congresso provinciale del 1954, della corrente di sinistra e l'elezione a segretario di Vincenzo Gagliardi, affiancato poco dopo nella leadership effettiva da Wladimiro Dorigo. L'istanza sociale era comunque molto forte in tutta la D.C. veneziana. "Le mozioni discusse nel congresso provinciale [scrisse il prefetto] hanno avuto tutte un deciso contenuto programmatico sociale, convenendo sulla necessità di dare maggior respiro alla vita politica delle classi lavoratrici, attraverso opportune riforme sociali ed una presumibile apertura a sinistra"(153). Positivo fu il riscontro di questo orientamento della D.C. nel P.S.I. veneziano, nonostante contrasti interni: "Sul Psi non potevano non agire le suggestioni di alcuni elementi di un programma che rientravano nel progetto che, sul piano nazionale, giusto in quel torno di tempo, il partito stava avviando"(154). Di qui, l'astensione del P.S.I. sul bilancio di previsione 1955 del Comune(155). "Qualche cosa ora cambia", annotò il consigliere socialista Arcangelo Vespignani, recependo come "impegni di persone serie" i segnali di sensibilità al sociale venuti dalla D.C.(156); mentre Gianquinto contestò: "qualcosa sembra che sia mutato, […] dico sembra, ma nella sostanza le cose sono rimaste al punto di partenza"(157).

Alle elezioni comunali del maggio 1956, la D.C. ottenne 24 consiglieri (7 in meno rispetto al 1951, quando però era stata beneficiata dal sistema maggioritario), il P.C.I. 13 (1 in più), il P.S.I. con Unità Popolare 13 (ben 9 in più); il P.S.D.I. 4, il M.S.I. 3, il P.L.I. 2, il P.N.M. (Partito Nazionale Monarchico) 1(158). Impossibili numericamente sia una giunta centrista sia una giunta di sinistra, le trattative, assai laboriose, si conclusero il 9 luglio, con una soluzione all'avanguardia in Italia e che prese il nome di "formula Venezia": una giunta D.C.-P.S.D.I., con l'appoggio esterno del P.S.I.-U.P. su un programma concordato(159). Nelle dichiarazioni di voto all'elezione del sindaco (il riconfermato Tognazzi), il capogruppo socialista, Angelo Sullam, non nascose la delusione per il mancato raggiungimento dell'obiettivo di una giunta a tre, respinto "per ragioni che attendono esclusivamente all'indirizzo politico generale del partito della D.C.", sottintendendo così la disponibilità della D.C. locale alla piena collaborazione. "È parso a noi [annotò] che quella sincera volontà di raggiungere un terreno d'intesa, affiorata nelle trattative intercorse ed oggi ribadita, meritasse una risposta diversa da una decisa ripulsa" e annunciò il voto favorevole, con una precisa conclusione: "Noi sinceramente speriamo che l'accordo che qui si realizza non rappresenti già un punto di arrivo escogitato per permettere il formarsi di una maggioranza altrimenti impossibile, ma un punto di partenza per più stabili e sicure convergenze democratiche", e con un monito: "Questo voto non rappresenta una cambiale in bianco"(160). Per la D.C., il capogruppo Cavallari pose in risalto lo spirito di rinnovamento sociale del programma di giunta(161); "una posizione di comprensione ma insieme di critica ferma e di vigilanza" fu espressa dal capogruppo del P.C.I., Gianmario Vianello, il quale ribadì che il responso delle urne richiedeva "la convergenza di una larga maggioranza democratica di sinistra"; pur cogliendo elementi positivi nella linea della D.C., contestò alla giunta "un carattere di instabilità e di precarietà dannose all'interesse pubblico"; è significativo il fatto che il gruppo comunista non contrappose un proprio candidato sindaco, ma depose scheda bianca(162). Il giorno dopo, in consiglio provinciale, il P.S.I. appoggiò l'elezione di una giunta D.C.-P.S.D.I., anche se il voto non era determinante: il capogruppo Carlo Ottolenghi sottolineò "l'inizio del nuovo cammino"(163).

Per la prima volta in Italia si attuava una collaborazione tra cattolici e socialisti. Nella D.C. la "formula Venezia" fu avversata da molti, compreso il segretario nazionale Fanfani. La condanna più severa arrivò però dalla gerarchia ecclesiastica, e per primo dal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, dai cui atteggiamenti i dirigenti democristiani avevano forse sperato minore contrarietà, anche se durante le trattative egli aveva ammonito: "Bisogna saper resistere ad una atmosfera socialistofila, che si diffonde anche fra noi" e avvertito che "esperimenti avventurosi […] non sono consentiti"(164); oltretutto, all'indomani dell'elezione delle giunte il settimanale diocesano "La Voce di San Marco" aveva espresso le vive congratulazioni e gli auguri dei cattolici veneziani ai nuovi amministratori, rilevando: "l'esito dei lavori nei due Consigli è stato accolto in genere con misurata soddisfazione"(165). Ma il 12 agosto il patriarca pubblicò un documento intitolato Richiami e incitamenti al clero e al laicato veneziano.

Il patriarca si riallacciava al messaggio dell'episcopato triveneto per il Natale del 1955 ("È venuta dunque l'ora di finirla con questo trastullo di vane parole di distensione, di apertura, di compromessi"(166), vi era scritto) e annotava: "Debbo sottolineare con particolare rammarico del mio spirito la costatazione della pertinacia avvertita in alcuno di sostenere ad ogni costo la cosidetta apertura a sinistra, contro la posizione netta presa dalle più autorevoli Gerarchie della Chiesa […] evidentissima nel messaggio Natalizio dell'Episcopato Triveneto, ed in comunicazioni successive ripetuta a voce, sotto forma di amabile persuasione in pubblico e in privato". Roncalli entrava anche nelle intenzioni politiche ("Né ci si venga a dire che questo andare a sinistra ha puro significato di più sollecite ed ampie riforme di natura economica") per richiamare alla disciplina ("mi è doloroso il segnalare che per dei cattolici ancora una volta ci troviamo in faccia ad un errore dottrinale e gravissimo: e ad una violazione flagrante della cattolica disciplina") e concludere con parole di Cristo che egli stesso definiva "tremende": "Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me"(167). Silvio Tramontin ha attribuito alle pressioni dei vescovi del Triveneto la stesura del documento(168): se così fu, essi non dovettero esserne soddisfatti, visto che una decina di giorni dopo i cinque vescovi con diocesi sul territorio della provincia pubblicarono un documento ancora più duro, nel quale si spingevano fino a una condanna di persone, e sconsigliavano a norma dei sacri canoni la lettura de "Il Popolo del Veneto", organo provinciale della D.C. diretto da Dorigo. Molto si è discusso sulla mancata firma del patriarca a questo documento, forse superflua essendosi egli già espresso (ma non può essere taciuto che Roncalli era alieno a esplicite condanne di persone), forse negata in segno di dissenso(169); comunque, mesi dopo il patriarca ritornò sui Richiami per dirsi sorpreso dalle impressioni suscitate da quelle "semplici ed umili parole", ma insieme per ammonire che quel "documento innocente ed onesto […] nulla ha perduto della sua attualità"(170).

Il contraccolpo per i dirigenti democristiani fu durissimo e provocò una spaccatura tra quanti (Dorigo per primo) avrebbero voluto difendere la linea intrapresa anche a costo di un conflitto con la gerarchia, e quanti (guidati da Gagliardi) cercarono il compromesso. Alla fine prevalse questa linea, espressa in un ordine del giorno della giunta provinciale della D.C. con il quale si accoglievano i richiami del patriarca (mentre non si accennava al documento dei vescovi) e si conveniva "per quella fiducia che i cattolici devono avere nel magistero della Chiesa" (molto sottilmente, si parla di "fiducia" e non di "disciplina") "nel ritenere pericolosi, allo stato delle cose, certi atteggiamenti dal patriarca denunciati". Rinunciando "allo stato delle cose", all'apertura a sinistra "ad ogni costo", la D.C. non escludeva di poter in futuro percorrere questa strada, e intanto sospendeva la pubblicazione de "Il Popolo del Veneto" - dalla cui direzione Dorigo si era peraltro dimesso - anche per evitare che ne assumessero la gestione altri, più graditi ai vescovi(171).

La D.C. riuscì comunque a salvare la giunta comunale per due anni, con risultati anche importanti, come il voto sulle linee direttive del piano regolatore generale. Ma proprio questo voto segnò l'inizio della fine: "A questo punto è chiaro che se la formula Venezia fosse andata avanti, sarebbero saltati pressoché tutti gli equilibri sui quali si era fino a quel momento fondata la gestione democristiana del potere in città, non ultimi gli appetiti dell'industria chimica sulla seconda zona"(172). A determinare la crisi fu il diniego della D.C. alla richiesta dei socialisti di entrare in giunta. Già nel febbraio 1958 il gruppo consiliare P.S.I.-U.P. aveva ripreso la libertà d'azione, visto il rifiuto della D.C. a una più larga condivisione delle responsabilità e lamentando una mancata evoluzione in senso progressista dell'attività, ma aveva garantito la permanenza della giunta astenendosi (così come peraltro fece anche il P.C.I.) sulla mozione di sfiducia presentata dai gruppi di destra(173); probabilmente non furono estranei alla decisione del P.S.I. i contrasti interni e l'esigenza di potersi muovere con la maggior libertà possibile in campagna elettorale ("preoccupazioni di carattere elettorale e ragioni di coerenza politica sarebbero alla base di un nuovo orientamento del P.S.I." annotò il prefetto(174)).

Al voto sul bilancio preventivo, nella notte del 28-29 luglio, invano il sindaco sostenne la fedeltà della giunta alla linea politico-programmatica. "Bisogna superare [gli replicò Giorgio Zecchi per i socialisti] le angustie di una formula, la quale vuole escluse dall'attuazione di una politica, proprio quelle forze che più sinceramente e fortemente la hanno voluta"(175). "Non il bilancio in sé, ma […] le esigenze di Partito […] hanno presieduto alla formazione del voto annunciato" ribatté Cavallari (D.C.)(176). Il bilancio, votato da D.C. e P.S.D.I., venne bocciato (27 sì, 29 no). Il tentativo di ricucitura durò più di un mese: l'atteggiamento della D.C. nazionale stava cambiando, ma sulla D.C. veneziana pesava ancora l'intransigenza del patriarca, che forse continuava a soffrire le reazioni suscitate dal saluto rivolto l'anno prima al congresso nazionale del P.S.I. a Venezia, nel quale sarebbe stata sancita la svolta autonomistica del partito(177).

In quella circostanza, in una più ampia Esortazione, il patriarca aveva accennato appunto al congresso del P.S.I., dicendo di apprezzarne "l'importanza eccezionale" e il "grande rilievo per l'immediato indirizzo del nostro Paese"; e pur sottolineando - "a schiettezza di posizioni spirituali" - che era "sempre di grande pena", per un pastore d'anime, il dover constatare che "molte intelligenze oneste ed elevate" rimanessero insensibili di fronte al Vangelo, "da buon Veneziano […] che ha l'ospitalità in grande onore", e da vescovo che deve essere "hospitalis et benignus" esprimeva l'augurio "perché i miei figli di Venezia, accoglienti ed amabili, come è lor costume, contribuiscano a rendere proficuo il convenire di tanti fratelli […] per una comune elevazione verso gli ideali di verità, di bene, di giustizia e di pace"(178). Enorme e controversa fu l'eco di queste parole: Tramontin afferma che fu "male interpretata una cortesia tutta roncalliana"(179) (anche se non bisognerebbe dimenticare che Roncalli era stato un diplomatico di alta levatura). Certamente non era un invito all'apertura a sinistra, come si poteva desumere da un'attenta lettura del testo(180), e come sottolineò il settimanale diocesano con un commento del direttore alla Esortazione, rilevandone l'intonazione spirituale: "Con tanto agitarsi di uomini politici per conquistare alla democrazia i socialisti c'è da stupirsi se un Vescovo cerca di riconquistarli a Cristo?"(181). L'iniziativa era peraltro piuttosto singolare, e una sua interpretazione di tipo politico non era del tutto immotivata(182): anche alla luce del successivo pontificato, questa interpretazione si è semmai consolidata, tanto che quarant'anni dopo un repertorio così ricorda quell'episodio: "Il cardinale di Venezia, Angelo Roncalli, apre ai socialisti"(183).

Nella D.C. la spaccatura si era aggravata, ma la grande maggioranza condivideva le posizioni di Gagliardi, la cui lista ottenne al congresso provinciale 16 consiglieri (quella di centro 4, quella di Dorigo nessuno): è significativo che sul settimanale diocesano il presidente dell'Azione Cattolica ponesse in risalto come suoi esponenti fossero presenti, sia pur a titolo personale, "da una parte e dall'altra"(184). Alla ripresa autunnale del consiglio comunale, il P.C.I. propose "una Giunta amministrativa formata da tutti i Partiti che si richiamano alla Costituzione, che non contenga discriminazioni per alcuni di essi e che convenga su basi chiare, con un programma preciso, se è possibile un programma politico"(185). Nella seduta successiva, il P.S.I. denunciò il contrasto nella D.C. tra il gruppo consiliare impegnato in un "generoso tentativo" e i vertici del partito, e rilanciò la proposta del P.C.I., precisando che la giunta doveva avere un programma amministrativo concordato. Ma Gagliardi ribatté che "non era possibile pensare a nessuna ipoteca comunista"(186). Si formò allora una maggioranza P.C.I.-P.S.I.-P.S.D.I., che elesse sindaco Armando Gavagnin (P.S.D.I.), il quale si era impegnato per una giunta di concordia cittadina, con compiti esclusivamente amministrativi(187). Seguirono diverse concitate sedute nelle quali la D.C. propose prima una coalizione D.C.-P.S.I.-P.S.D.I.-P.L.I.(188), poi una specie di giunta di salute pubblica con tutti i gruppi su un programma limitato sostanzialmente al piano regolatore generale (il P.S.I. per primo criticò la D.C. come "specializzata nel fare proposte fuori tempo e fuori fase"(189)). Vano fu l'ultimo appello di Gavagnin alla più ampia collaborazione: "Riaffermo in modo impegnativo e solenne […] che questa Giunta opererà soltanto come Giunta di Affari e rimarrà nei confini del terreno strettamente amministrativo"(190). La giunta - dalla quale era uscito il P.S.D.I., rientrato nei ranghi della linea nazionale - fu battuta sul bilancio il 14 novembre(191): neppure le forze di sinistra erano in grado di garantire l'amministrazione della città.

Con rara tempestività, neanche due settimane dopo, arrivò la nomina del commissario prefettizio; a febbraio il presidente della Repubblica sciolse il consiglio comunale con motivazioni sproporzionate e generiche: "Da lungo tempo profondamente diviso da insuperabili contrasti interni, si è dimostrato manifestamente incapace di assicurare un efficiente governo del civico Ente, determinando, con l'assoluta precarietà degli organi di amministrazione, se pure faticosamente costituiti, una stasi generale dell'attività amministrativa"(192). Perfino il presidente della Provincia Giovanni Favaretto Fisca (D.C.) definì "per lo meno inusitata ed inopportuna" la decisione(193). Per legge, la gestione commissariale sarebbe dovuta durare al massimo fino al 26 luglio 1959: durerà fino al 5 novembre 1960.

Alla Camera, Gagliardi, dopo aver giustificato la necessità della gestione commissariale quale "male minore" di fronte "alla impossibilità del consiglio comunale di esprimere una giunta democratica", propose il rinvio delle elezioni, perché "l'acutezza della crisi ha bisogno di un minimo periodo di decantazione", un periodo che indicò in sei mesi "necessario per evitare in avvenire il ripetersi di situazioni difficili ed insostenibili e per dare veramente, a coloro che la vogliono sinceramente e senza fini demagogici, una amministrazione democratica"(194). Forse Gagliardi voleva dare tempo anche al nuovo patriarca, il veneziano Giovanni Urbani (Roncalli era divenuto papa nell'ottobre 1958), che era aperto verso le posizioni progressiste del mondo cattolico, ma era arrivato da poco in città. Il suo intervento produsse un effetto non desiderato: Sannicolò, dopo aver contestato lo scioglimento del consiglio come "un atto ingiustificato ed illegittimo", affermò che esso era dovuto ai contrasti nella D.C., tra gli organi dirigenti del partito e la maggioranza del gruppo consiliare "disposta ad abbandonare certe posizioni di intransigenza discriminatoria" pur di evitare il commissario, per cui "si è preferito ricorrere al provvedimento estremo per impedire che un'azione di questo genere venisse portata a termine". "Credo [concluse] che di un periodo di decantazione abbia bisogno la democrazia cristiana per cercare di comporre i suoi dissidi interni"(195). Dei "gravi contrasti interni" nella D.C. scrisse il prefetto(196), il quale poi si meravigliò molto della protesta della segreteria provinciale della D.C. per il commissariamento, visto che la D.C. "era perfettamente al corrente dei provvedimenti in corso e li aveva anzi promossi e sollecitati"(197). Amara e contraddittoria conclusione per una esperienza fortemente innovativa, di grande tensione ideale, "forse, per tanti aspetti il punto più alto di iniziativa e di lotta politica che una sinistra Dc abbia mai toccato"(198).

Il piano regolatore generale. Il momento più alto dell'attività della giunta Tognazzi e del consiglio comunale fu l'elaborazione del piano regolatore generale(199), quale tentativo di gestione del cambiamento di Venezia. Il presupposto dal quale mosse l'assessore all'urbanistica, Dorigo, infatti, fu che "la comunità locale assurge al ruolo di coordinatrice, di guida e di impulso di tutte le grandi imprese dirette al benessere collettivo, sicché i suoi interventi […] vanno inquadrati nella trama di un Piano"(200). Già da tempo, del resto, Dorigo proponeva "l'adozione di un piano regolatore generale e la gestione urbanistica del territorio come strumenti idonei a piegare gli interessi privati alle più ampie esigenze della collettività"(201).

La bozza del piano regolatore generale nacque dalla fusione tra i risultati dell'attività di un comitato redazionale, nominato nel 1956 dal consiglio comunale, e l'esito di un concorso nazionale di idee, nel 1957, con tredici progetti partecipanti e cinque premiati. Dorigo pose in risalto la "convergenza sostanziale" tra gli indirizzi del comitato e le affermazioni del concorso; il comitato, peraltro, ammise di aver considerato le proposte dei progetti premiati come "validi suggerimenti che, nell'ampia misura in cui vengono a concordare con gli orientamenti già maturati in seno al Comitato, assumono il valore di un indiretto e positivo consenso al suo operato"(202). Di qui, la critica di Romano Chirivi, che il comitato aveva "prelevato" le proposte che coincidevano con i suoi indirizzi, estrapolandole dal contesto, e aveva ignorato quelle che contrastavano con gli indirizzi(203); analogo il parere di Pietro Zampetti, che ha visto il piano regolatore generale come una conciliazione di idee diverse(204).

I capisaldi della bozza di piano - che il consiglio comunale approvò nell'aprile 1958 con voto praticamente unanime (35 sì, 1 solo no del M.S.I.) - erano quattro: la creazione di un Centro direzionale in un'area di 20 ettari alla testa di ponte tra piazzale Roma e il canale della Giudecca, per mantenere nella città storica la direzione dell'intero sistema produttivo; la creazione di una strada in laguna, con ponti sui canali, da punta Sabbioni all'isola della Certosa, per avvicinare a Venezia la penisola di Cavallino, destinata a centro del turismo di massa; la realizzazione di un quartiere coordinato da 35.000 abitanti in terraferma, su 94 ettari di terreno demaniale, a S. Giuliano, sul bordo della laguna, per collegare maggiormente le entità residenziali di Venezia e di Mestre e spingerle all'unificazione culturale, psicologica, civile, cercando insieme di gestire l'esodo da Venezia e di bloccare lo sviluppo a macchia d'olio di Mestre; la creazione della seconda zona industriale di Porto Marghera e di due zone per piccole e medie industrie(205).

Il presupposto di Dorigo è stato contraddetto da Cesco Chinello, per il quale il piano regolatore generale "nasce come tentativo di unificazione, a posteriori, di scelte di politiche di settore" nel quale "si ritrovano […] le scelte di politica settoriale volute dalle forze economiche dominanti"(206). Ha annotato invece Luigi Scano come le aspirazioni di Dorigo - e quindi, si può aggiungere, dell'intero consiglio comunale, almeno per il primo e più importante tratto del percorso - fossero "riconducibili […] alla volontà di riportare il governo delle trasformazioni (non soltanto territoriali) sotto la direzione delle istituzioni pubbliche, cioè dei gruppi dirigenti locali democraticamente espressi, riconducendo spinte ed iniziative settoriali in un quadro di integrazione e razionalizzazione. Tutto ciò anche scontando di assumere, all'interno delle determinazioni pianificatorie e programmatorie 'democratiche', vuoi scelte strategiche 'di settore' già sostanzialmente compiute dalle forze economiche dominanti, vuoi soluzioni urbanistiche formali di dubbia validità ed efficacia, nella convinzione che le une e le altre acquisiscano diversa e superiore natura e qualità solo che la gestione della loro realizzazione sia rimessa al potere politico"(207).

Quanto al piano particolareggiato di Venezia, Dorigo definì il risanamento della città antica - vista come "una sola opera d'arte vivente, e vissuta dai suoi abitatori, che ne sono parte costitutiva" - "punto nodale e ragione ultima di ogni pianificazione per Venezia". Ma un'opera d'arte "agibile e percorribile", in cui quindi si poteva - e si doveva - intervenire per rimediare ai difetti della viabilità pedonale e acquea (140 gli interventi previsti), per eliminare zone insalubri e ristrutturare edifici in stato di degrado statico-igienico, per usufruire, con varie destinazioni, di aree scoperte o poco sfruttate (si prevedeva di sistemare in aree edificate ex novo o ristrutturate circa 13.000 abitanti)(208).

Che fosse possibile intervenire, anche massicciamente, sull'edilizia e sulla viabilità, era allora idea diffusa. Così, Raffaello Vivante riteneva che si dovesse affrontare prima di tutto il problema della viabilità per abbreviare le distanze e per rendere meno complicati i percorsi (e insieme rendere più igieniche le abitazioni, eliminando le eccessive ristrettezze di alcune calli), e nel 1957 elencò una imponente serie di località, quasi tutte centrali, nelle quali intervenire con "rettifiche" (demolizioni, porticati, sottopassaggi, ponti)(209). Ed Egle Renata Trincanato sosteneva la necessità di "una integrale azione di restauro di tutto il tessuto urbano"(210), che prevedeva "l'intervento coraggioso di controllate demolizioni"(211), fino a proporre un nuovo percorso parallelo al Canal Grande, che entrasse anche all'interno dei palazzi e nei loro giardini(212). Dalle proposte alle decisioni concrete: nel 1958 il consiglio comunale approvò all'unanimità, senza alcuna riserva e senza dibattito, la realizzazione di una nuova arteria in pieno centro, tra campo S. Bartolomeo e campo SS. Apostoli, lunga circa 250 metri, con la costruzione di tre nuovi ponti e l'apertura di tre sottoportici in complessi edilizi(213). E l'anno dopo, con una delibera dal testo sbrigativo e freddamente burocratico, il commissario approvò progetto e finanziamento per allargare la centralissima calle del Lovo, racchiusa tra due edifici monumentali, con l'apertura di un porticato al posto dei negozi a pianoterra(214).

Dorigo ha sempre rivendicato di aver perseguito "l'affermazione della più rigorosa intangibilità della città storica", che sarebbe rimasta sostanzialmente intatta con i "modestissimi interventi" previsti dal piano(215). Ma proprio su questo terreno più immediata e dura fu la polemica. "Per 'Italia Nostra' v'è un solo orientamento da mantenere e seguire con estrema decisione: nello studio del Piano regolatore e del Piano di risanamento della città di Venezia, la conservazione dell'ambiente, dei monumenti, e dell'edilizia antica deve essere limite invalicabile ad ogni intervento"(216). Così la sezione veneziana di Italia Nostra aprì, nel 1959, l'offensiva contro il piano regolatore generale, con un opuscolo - Italia Nostra difende Venezia - nel quale, sia pure con un cautelativo "forse", si ipotizzò come soluzione migliore la notifica dell'intera città antica da parte della Sovrintendenza ai monumenti. Italia Nostra scagliava una raffica di "no": no al Centro direzionale nel centro insulare, da realizzare piuttosto "in zona baricentrica tra l'antica città e quella nuova e moderna che si va sviluppando […] in terraferma"; no alla strada translagunare, il cui progetto "si condanna da solo, come addirittura vandalico"; no a nuove case popolari in centro storico ("si vogliono forse replicare i marchiani errori che ancor oggi deturpano […] il volto di tanta parte della città?"), perché bisognava lasciare "intatta" Venezia; no a ogni modifica della viabilità - anche a quella approvata dal consiglio comunale unanime - soprattutto all'itinerario monumentale lungo il Canal Grande dalla ferrovia a Rialto e al raddoppio delle Mercerie, che avrebbe portato a "una sensibile alterazione dell'attuale tessuto urbanistico"(217). La "battaglia per Venezia" di Italia Nostra trovò larga eco e molti consensi in campo nazionale: si deve largamente ad essa se nessuna delle previsioni del piano regolatore generale per la città storica si tradurrà in realtà.

Sciolto il consiglio comunale, il piano regolatore generale fu adottato dal commissario prefettizio - un fatto del tutto inusuale, più unico che raro, forse un abuso(218) - nel marzo 1959; ma il commissario "si dimenticò" (!) che andava insieme adottato, per legge, il piano particolareggiato: una "dimenticanza" che avrebbe pesato sull'urbanistica veneziana fino al 1974. Nell'estate del 1959, la giunta provinciale amministrativa impose al comitato redazionale l'accettazione in blocco di una serie di modifiche, tra le quali le più importanti erano quelle che incrementavano gli indici di fabbricabilità e ampliavano la possibilità di espandere i nuclei residenziali in terraferma e di edificare al Cavallino, modifiche che rispondevano agli interessi della speculazione edilizia e fondiaria.

Tra le 252 osservazioni presentate (per la maggior parte da proprietari immobiliari) le più importanti furono quella di Italia Nostra e quella della neonata Associazione civica per Mestre e la terraferma, la quale si opponeva al blocco dell'edificazione in terraferma in senso tentacolare, lungo le direttrici cioè sulle quali già da anni stava costruendo l'iniziativa privata, e che costituivano ormai quasi un fatto compiuto. "Avvengono così le concordanze più paradossali, le alleanze più incredibili", commenta Dorigo: "gli intellettuali che hanno onestamente aderito a 'Italia nostra' […]si trovano inopinatamente nello stesso fronte con gli speculatori di aree della terraferma", quelli che non vogliono strade in laguna con quelli che ne vogliono di più, oltre a quella prevista(219). Nel marzo 1960, il commissario respinse tutte le osservazioni, e inviò il piano al Consiglio superiore dei Lavori pubblici.

Il 21 febbraio 1961 il consiglio comunale approvò un ordine del giorno (con un "no" del consigliere della terraferma, e l'astensione dei due liberali) con il quale ribadiva la validità e la interconnessione dei capisaldi del piano. Il Consiglio superiore dei Lavori pubblici, però, il 16 marzo, chiese il riesame del Centro direzionale con uno studio impostato a criteri riduttivi, e stralciò la strada translagunare. Il consiglio comunale reagì duramente e il 29 marzo votò a larga maggioranza - 37 sì, 12 astenuti - un ordine del giorno, nel quale riaffermò "la funzione unitaria del piano, così come concepito nel progetto originario", sottolineando "la piena prioritaria ed essenziale validità" del Centro direzionale e il fatto che la strada translagunare era "elemento importantissimo per un equilibrato sviluppo della città". Il P.C.I. si astenne, per contrarietà alla strada translagunare; a chi contestò l'incoerenza con le posizioni anche del recente passato, il capogruppo Vianello replicò che il P.C.I. riteneva la strada "un elemento del tutto accessorio" e che l'aveva sempre votata soltanto per non intralciare il più ampio accordo sui punti essenziali ("Volevamo non creare alcuna grana, alcuna difficoltà alla marcia del piano")(220). Al di là della perdita dell'unanimità che aveva sempre sostenuto il pur travagliato avanzare del piano, non si può non notare - per quanto tra le righe - anche una perdita di tensione ideale: a differenza di quello precedente, il consiglio comunale non riusciva a nascondere che la sua ormai era una battaglia di difesa, su trincee sempre più arretrate, anziché la coraggiosa offensiva, pur con tutti i suoi limiti, che Dorigo aveva guidato nel clima entusiasta della "formula Venezia".

La vicenda del piano regolatore generale si protrasse ancora per quasi due anni, rimbalzando sempre più stancamente tra pareri e ricorsi, dal consiglio comunale (che finì con l'accettare le modifiche, per salvare il salvabile) al Consiglio superiore dei Lavori pubblici al Consiglio di Stato. Il piano regolatore generale fu pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" il 22 febbraio 1963, dopo un iter di sette anni, stravolto e amputato ("rivoltato come una calza" commenterà icasticamente Dorigo(221)). Contraddetto e in parte vanificato, oltretutto, da una marea di licenze concesse per la scadenza della salvaguardia, il piano - annoterà Scano - "nasce morto"(222).

Il cambiamento

La fine della Venezia industriale. Agli inizi degli anni Cinquanta, l'attività industriale nel centro storico cominciò a manifestare segni di irreversibile decadimento, che portarono ben presto alla fine della Venezia industriale(223). La situazione più grave era quella dell'Arsenale della Marina militare, che in una decina d'anni aveva visto i lavoratori civili diminuire da 5.000 a 2.700. I primi segnali di un ulteriore aggravarsi della situazione si verificarono nel 1951; la vera crisi cominciò nel 1954, quando si profilò l'abbandono da parte della Marina militare (il prefetto scrisse di "prime avvisaglie di una campagna allarmistica", ma ammise: "il problema non è privo di qualche fondamento"(224)), ed esplose nel 1956, dopo che il ministro della Difesa aveva annunciato il trasferimento del comando marittimo dell'Alto Adriatico da Venezia ad Ancona e la smobilitazione dell'Arsenale come struttura militare.

La reazione delle forze politiche, dei sindacati, della città tutta fu decisa e compatta: un "accordo di energie e di sollecitudini", anzi un "accordo di anime" lo definì il patriarca Roncalli(225). L'Arsenale non era soltanto il simbolo storico della Venezia industriale - ma a Venezia anche i simboli hanno il loro peso - era tuttora un complesso con "importanza rilevantissima per l'economia cittadina"(226), come il prefetto Luigi Pianese ricordò a Roma, segnalando il "vivo fermento" e la contrarietà generale a ogni trasferimento del personale "perché […] verrebbe comunque a privare la città insulare dell'unico complesso industriale che tuttora impiega circa 3.000 unità, in gran parte del popolare Rione Castello"(227).

Nel marzo 1956, il governo varò lo schema di un disegno di legge per la cessione all'I.R.I. (Istituto per la Ricostruzione Industriale) dell'Arsenale e del personale civile, ma i lavori dell'apposito gruppo misto fra l'I.R.I. e la Marina si trascinarono a vuoto, e la proposta un po' alla volta venne accantonata. Sarà un ammiraglio, comandante di Marina Venezia in anni successivi, a scrivere che "l'intento delle direttive governative era sempre quello di favorire l'industria privata, in particolare per Venezia l'allora rinascente polo industriale di Marghera, mediante un travaso di personale nelle nuove strutture"(228). Il mancato concretizzarsi degli "affidamenti avuti in sede politica" fu rimarcato anche dal prefetto Sergio Spasiano(229), il quale ricordò al Ministero che gli organismi e gli esponenti locali erano "giustamente preoccupati"(230).

A gennaio 1957, a fronte di una nuova minaccia di licenziamenti e di trasferimenti, mentre i dipendenti erano scesi a 2.244, il consiglio comunale unanime approvò un durissimo ordine del giorno per chiedere il mantenimento dei solenni impegni assunti dal governo, decise di mobilitare la cittadinanza e costituì un comitato di emergenza, presieduto dal sindaco, con il compito di "ricorrere ai mezzi anche più energici per far fronte alle carenze governative ed alla necessità di tutelare gli interessi cittadini". Il comitato organizzò una giornata cittadina di protesta senza precedenti, con uno sciopero generale - sia pur simbolico, di un quarto d'ora - che si svolse il 1° marzo(231); il giorno dopo, una messa propiziatoria fu celebrata nella basilica di S. Marco(232).

Alla Camera, Gatto e Gianquinto interpellarono il governo, ma invano sollecitarono più volte una risposta; particolarmente tenace fu Gianquinto: ricordando che nella giornata di protesta era suonata la "Marangona", la più grande campana di S. Marco, commentò: "Credo che al Governo non convenga aspettare che suonino altre campane"(233); al settimo (e ultimo) sollecito, rimproverò: il governo "non può più sottrarsi al suo dovere morale e politico di discutere in quest'aula la sorte di questo importante stabilimento"(234). Ma la voce del governo non si fece sentire. Da parte sua il prefetto non si stancava di avvertire: "Tuttora insoluto il problema dell'Arsenale, che preoccupa numerose maestranze e le relative famiglie oltre a un notevole settore indirettamente interessato all'attività dello stabilimento, come quello dei commercianti e degli esercenti pubblici locali"(235).

La mobilitazione della città riuscì comunque a evitare lo smantellamento dell'Arsenale: le trattative ripresero e si conclusero nell'ottobre 1957, con l'accordo per il passaggio di una parte del complesso, e di 300 lavoratori, alla Finmeccanica e il mantenimento degli altri dipendenti da parte della Marina, alla quale l'idea non dispiaceva, visto che avrebbe potuto subito militarizzare del personale specializzato, in caso di necessità, ma alla quale servivano circa 800 lavoratori; i dipendenti in esubero avrebbero potuto sostituire i militari destinati ad altre sedi, mentre il Comune si impegnò per quanti fossero rimasti eccedenti. Ma gli anni successivi videro continuare il declino, con il blocco delle assunzioni, pensionamenti anticipati, la dequalificazione delle maestranze e "sempre più bassi regimi nelle attività lavorative"(236).

Corale fu la solidarietà dei veneziani anche con i lavoratori del Mulino e pastificio Stucky, la cui crisi cominciò a farsi pesante nel 1953 con riduzioni di orario e licenziamenti; in uno scenario di generale difficoltà del settore, pesavano sullo Stucky - che era stato all'avanguardia tecnica e organizzativa, e che aveva ancora una potenzialità rilevante - la vetustà delle attrezzature, ammodernate soltanto in parte, e la perdita di competitività rispetto ai mulini di terraferma, favoriti dallo sviluppo dei trasporti via terra (la situazione dello Stucky "è venuta ad acuirsi per fattori di carattere specifico inerenti all'ubicazione del molino stesso" affermò alla Camera il ministro dell'Industria, Bruno Villabruna(237)).

I veneziani sapevano che non erano in discussione soltanto il posto di lavoro di 300 dipendenti e le sorti delle loro famiglie. Avvertivano - e soffrivano - che la crisi della Venezia industriale non era contingente, ma radicale e irreversibile: l'insularità, da ragione prima della prosperità di Venezia, era divenuta un vincolo insormontabile che impediva alla città di mantenere il passo del ritmo di sviluppo(238).

Il 23 giugno 1954, dopo che la direzione aveva annunciato la prossima chiusura, i lavoratori (scesi a 52 impiegati e 197 operai) occuparono lo stabilimento; il consiglio comunale dichiarò unanime la propria solidarietà ai lavoratori, cui diede anche sostegno economico(239), sottolineando che essi erano "impegnati in una lotta che ha per fine la tutela degli interessi non soltanto propri, ma della città"(240); la difficile trattativa si concluse dopo quarantasei giorni di occupazione, ma a prezzo della chiusura del Mulino e dell'espulsione della maggior parte dei lavoratori, appena lenita da speciali indennità(241); privo della fornitura diretta di farine, il pastificio, con 75 dipendenti, ebbe vita sempre più stentata, con continua riduzione del personale fino a 7 impiegati e 26 operai, al momento della definitiva chiusura nel 1957, accompagnata da un ultimo accorato e vano ordine del giorno del consiglio comunale, neppure più unanime (33 sì, 5 no)(242).

Il coinvolgimento dei veneziani, stretti attorno al 'loro' Mulino, non sfuggì al prefetto Vincenzo Peruzzo, anche se ne capovolse le motivazioni: "L'ordine pubblico appare […] ancor oggi turbato dalla occupazione del Molino-pastificio Stucky e dalle dimostrazioni che giornalmente si susseguono in difesa degli interessi di quelle maestranze"(243). Il prefetto aveva ben chiara la gravità del problema, se nel maggio aveva segnalato "le ripercussioni negative che la chiusura dello stabilimento avrebbe avuto su larghi strati della cittadinanza, oltre che sull'economia dell'isola" della Giudecca(244); ma non apprezzava le interferenze dei partiti e il loro "atteggiamento decisamente demagogico". "Tale atteggiamento [annotò] e specialmente quello assunto […] dalla nuova direzione della Segreteria Provinciale del Partito D.C., hanno reso più difficile la possibilità di una soluzione pacifica"(245). La D.C. veneziana si impegnò a fondo per lo Stucky: il prefetto insinuò che gli operai avessero occupato lo stabilimento "aderendo alle indirette sollecitazioni ed istigazioni degli stessi esponenti democristiani"(246). Il suo successore, Spasiano, opererà invece per tentare di contenere la crisi, e poi per attenuare, con una indennità straordinaria, i licenziamenti(247).

Arsenale e Stucky furono le grandi emergenze di un più vasto stillicidio di chiusure e di riduzioni produttive in città(248). Nell'ottobre 1955, il segretario provinciale della D.C., Gagliardi, scrisse al ministro degli Interni, Fernando Tambroni, per fargli presente in dettaglio la gravità della situazione in molte industrie, anche in vista delle prossime elezioni amministrative, e a fronte delle affermazioni fatte "in modo del tutto inconcepibile" da ministri e sottosegretari (come quelle sull'Arsenale) sì che la segreteria provinciale della D.C. "si trova costretta a dover fronteggiare, oltre allo strapotere delle forze economiche, anche le decisioni degli uomini di governo della d.c. che contrastano apertamente, con gli interessi di Venezia". "Rispondere cortesemente e genericamente assicurando la presa in considerazione delle questioni accennate" fu lo sbrigativo appunto del ministro al capo di Gabinetto(249).

La seconda zona industriale. Dei grandi obiettivi del piano regolatore generale, l'unico ad essere realizzato fu la seconda zona industriale, ma in termini contrapposti ai criteri del piano. L'espansione di Porto Marghera - o meglio, il modo con il quale realizzarla - fu il più importante campo di scontro tra il blocco delle forze economiche che detenevano il potere reale e quella parte della classe politica che voleva rivendicare in concreto la supremazia del potere pubblico elettivo(250). Se ne era cominciato a parlare nel 1948; nel 1950 l'Associazione industriali aveva segnalato al governo l'opportunità del progetto; nel 1952 la Camera di commercio aveva ufficializzato la proposta; nel 1953 le Opere marittime del Genio civile predisposero un piano regolatore di massima su un'area di 1.100 ettari, che fu approvato dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici nel 1956. Nel 1953 Comune, Provincia, Camera di commercio costituirono il Consorzio per lo sviluppo del porto e della zona industriale di Porto Marghera.

Per gli industriali, la creazione della seconda zona doveva essere "una ripetizione pura e semplice" dell'operazione compiuta da Volpi per la prima zona(251), cioè l'insediamento di aziende private in un territorio bonificato, urbanizzato e munito di servizi a spese pubbliche(252). La prima richiesta di contributo allo Stato incontrò la negativa risposta del governo per l'entità della somma e la lunga durata nel tempo. L'Associazione industriali presentò allora un progetto stralcio. Se agli inizi degli anni Cinquanta gli industriali potevano contare sulla acquiescenza degli enti locali, i rapporti mutarono con la giunta della "formula Venezia" e con le linee guida del piano regolatore generale, che prevedeva sì la seconda zona, ma con un criterio di programmazione pubblica e di pubblico controllo delle localizzazioni; anzi, con "la diretta attività di volano in mano alle Amministrazioni Pubbliche, e segnatamente del Comune" specialmente per la concessione delle aree, da destinarsi soprattutto a medie e piccole industrie, ai fini di "una maggiore armonia produttiva, più propulsivo impiego di capitali, maggiore occupazione operaia"(253). Insomma, uno sviluppo guidato dalla mano pubblica, con finalità di interesse collettivo, anziché lasciato alla mano privata con finalità di mero profitto, per di più sostenuta da denaro pubblico.

Con questo scopo, nel 1958 Comune, Provincia, Camera di commercio, Provveditorato al porto costituirono un nuovo Consorzio per l'ampliamento e lo sviluppo di Porto Marghera: in quel momento l'ipotesi della seconda zona ben si inseriva nella più vasta strategia di sviluppo industriale del paese, nello scenario del "miracolo economico"(254). Nel 1959, raccogliendo uno schema predisposto dal Consorzio, Gagliardi e altri deputati della D.C. presentarono una proposta di legge, per dare al Consorzio poteri di intervento, soprattutto per gli espropri (in realtà, finirà con il concedere deroghe agli espropri). La proposta fu duramente avversata da Dorigo, che la vedeva in contrasto con gli obiettivi del piano regolatore generale. Chinello ha scritto che essa rispondeva agli interessi del Consorzio "e quindi" dei grandi gruppi monopolistici, Montecatini ed Edison(255). Una connessione - quell'"e quindi" - negata non soltanto dai presentatori della proposta di legge, visto che essa ebbe il parere favorevole unanime dei gruppi parlamentari: anzi, fu l'on. Franco Busetto (P.C.I.) a lamentare il ritardo imposto da modifiche pleonastiche apportate dal Senato "con conseguenze lesive a quei fini che la legge stessa si propone di raggiungere, perché per ogni giorno che passa nuove aree vengono sottratte ai poteri del Consorzio"(256); e con voto unanime essa fu approvata nell'ottobre 1960.

Ma ormai era troppo tardi. Nel maggio 1961, si dovette costatare che dei 1.050 ettari previsti per nuovi insediamenti, 896 erano già di proprietà di società private (in larghissima parte Montecatini ed Edison), alcune delle quali avevano già installato gli impianti. Suona fin irridente il commento de "Il Gazzettino": l'iniziativa privata ("leggi Edison") "ha preceduto l'intervento pubblico; ha scavalcato il tira-e-molla del troppo lento Consorzio; ha anticipato la stessa legge; ha reso praticamente nulle le disposizioni di esproprio"(257). Lo scacco - uno "scacco non inevitabile"(258) - era completo.

Maturò allora l'ipotesi di una terza zona, per la quale il consiglio di amministrazione del Consorzio indicò almeno un migliaio di ettari del demanio, quasi tutti barene, oltre Fusina(259). L'ipotesi fu volentieri accolta dalle forze politiche veneziane, che vi scorsero la possibilità di realizzare quella pianificazione pubblica che non era riuscita nella seconda zona: la legge approvata dall'intero Parlamento nel 1963 prevedeva una ancora più ampia presenza degli enti pubblici nel Consorzio. La mareggiata del 4 novembre 1966 innescò una durissima polemica contro gli imbonimenti in atto in laguna: ma era un "comodo pretesto" per fermare la terza zona, in realtà ormai diventata "un ingombro" nel contesto della trasformazione del sistema produttivo(260).

L'ipotesi della terza zona era strettamente legata a quella del "canale dei petroli". Il progetto di un canale dalla bocca di Malamocco alla Marittima, alternativo al canale che dalla bocca di Lido attraversava il bacino S. Marco, era stato elaborato ancora nel 1930 dal Provveditorato al porto: a riproporlo con drammatica urgenza fu, il 16 gennaio 1951, lo scoppio della "Luisa", una petroliera di oltre 8.000 tonnellate di stazza, in riparazione alla Giudecca, che causò due morti e quattro feriti; la nave bruciò per ore a poca distanza dalle case, tra l'emozione e la paura dei veneziani(261). Pochi giorni dopo, il direttivo dell'Associazione industriali rispolverava la vecchia idea, aggiornando il punto d'arrivo a Marghera(262). Alla motivazione della sicurezza si aggiungerà poi quella di consentire l'arrivo delle nuove e più grandi petroliere: il canale, inserito nel progetto del 1953, sarà aperto a metà anni Sessanta: da allora, è al centro del dibattito sulle acque alte e sulla salvaguardia.

Lo sviluppo del turismo. Negli anni Cinquanta, il movimento turistico si consolidò quale elemento portante dell'economia cittadina. "Noi guardiamo a Venezia con particolare interesse perché essa ci presenta il vero paradigma della vita economica nazionale: promettente nel suo turismo internazionale, fervida nei suoi commerci, forte nelle sue industrie, salda nella sua agricoltura". È il ministro del Tesoro, Giuseppe Medici, nella primavera del 1958, a dipingere questo quadro ottimistico di Venezia, sia pur sotto elezioni(263). Non è un caso che il turismo costituisca la prima voce nella riflessione del ministro. "Il turismo è la principale industria di Venezia" scriveva a fine 1958 "Il Gazzettino"(264).

Il bilancio del movimento turistico nel 1961 fu di 1.073.105 arrivi (quasi il doppio di quelli del 1951) e di 2.844.345 presenze; nel centro storico gli arrivi furono 698.567, le presenze 1.575.724, con una permanenza media di 2,25 giorni (contro i 2,37 del 1951 e i 2,54 del 1938); il Lido registrò 71.671 arrivi e 386.851 presenze, la terraferma 236.208 arrivi e 426.225 presenze, il litorale del Cavallino 66.659 arrivi e 455.545 presenze(265). I turisti stranieri (785.341) erano diventati tre volte più numerosi di quelli italiani (287.764)(266).

Due furono i grandi elementi di novità nel decennio: il declino del Lido e la marcia trionfale del Cavallino. L'ex "isola d'oro", che voleva continuare a essere la più elegante e la più signorile stazione balneare d'Europa, pagò lo scotto delle dinamiche di trasformazione del turismo, e non poté reggere la concorrenza delle spiagge vicine sul mercato del turismo familiare e di massa(267). Il Cavallino - dove il primo campeggio era stato realizzato dalla Nsu, una fabbrica di motociclette della Baviera - comparve per la prima volta come voce autonoma nelle statistiche nel 1957, con 32.053 arrivi e 234.978 presenze, dopo essere stato citato tra le righe dal 1953(268). Già dal 1953 diverse società private avevano chiesto in concessione aree demaniali della spiaggia del Cavallino, e lo stesso aveva fatto il Comune di Venezia, oltretutto reiterando un'istanza del 1929: ma il Ministero della Marina mercantile aveva accolto le richieste delle ditte private, ritenute più affidabili, e respinto quella del Comune; e tale posizione confermò anche a fronte di un piano urbanistico approvato dal consiglio comunale(269). A ferragosto del 1960 si contarono al Cavallino 50.000 ospiti stranieri, nonostante non ci fossero né un mercato né i parcheggi e nemmeno l'acquedotto (l'acqua veniva prelevata dai pozzi artesiani)(270): ma il boom continuò.

Vivace era l'istanza per prolungare la stagione turistica, dilatando il calendario delle manifestazioni(271), istanza che avrà importante sottolineatura nella relazione di Mario Ferrari-Aggradi al convegno di S. Giorgio, in cui si pose tra le priorità per lo sviluppo di Venezia "il problema di come prolungare la stagione turistica o, per lo meno, di facilitare gli arrivi a Venezia, anche per periodi brevi, nella prima primavera o nel tardo autunno"(272). Con il 1956 si era comunque visto un cambiamento anche nella durata della stagione: da Capodanno a Pasqua il flusso dei visitatori stranieri non si era praticamente mai arrestato(273).

Con il 1954 si consolidò il rapido aumento delle "comitive economiche"; la "prevalenza di soggiorni brevi di comitive di stranieri" fu segnalata dal prefetto alla fine di quell'estate(274). L'anno dopo il prefetto dedicò una nota "all'estendersi della massa dei visitatori a settori economicamente meno abbienti, i quali, se contribuiscono ad aumentare la consistenza numerica, abbassano la media delle giornate di presenza"(275). Sul notiziario della Camera di commercio, nel trarre il consuntivo del 1956, si rilevò che "il turismo da fenomeno di lusso, individuale, si è trasformato in un fenomeno di massa", con l'arrivo, da marzo a ottobre, di oltre 2.000.000 di turisti, con punte da 40-50.000 al giorno(276). Nel bilancio del 1957 "Il Gazzettino" rilevava: "Sfugge ad un controllo attendibile il movimento dei cosidetti 'escursionisti', cioè di coloro che arrivano e ripartono in giornata"(277). Nell'Annuario del 1959, il capo dell'Ufficio statistica del Comune elaborò i dati del traffico a piazzale Roma e concluse: "Si può senza esitazione moltiplicare per 3 la media delle presenze giornaliere [dei turisti] quale risulta dalle registrazioni alberghiere"(278). La rete commerciale si era presto adeguata: nel 1961 c'erano 1.700 licenze di bancarelle e una folla di abusivi; gli affari andavano bene, tanto che alcuni "con i guadagni dei souvenirs de Venise, si sono comperati case e negozi"(279). Il turismo di massa stimolava la parte peggiore dell'animo commerciale: si dovette ammettere che Venezia era "una città piena di disordine, piena di imbroglioni, e tanto, tanto cara"(280).

L'aumento dei prezzi, conseguente al forte flusso turistico, preoccupava larghi strati della popolazione. Già nel 1952 il prefetto aveva avvertito che "il benessere delle categorie interessate, si ripercuote per l'inevitabile aumento dei prezzi su tutti i lavoratori e su tutti i possessori in genere di reddito fisso"(281) e aveva poi segnalato "il disagio del maggior costo della vita conseguente all'afflusso dei forestieri per buona parte dell'anno"(282) per le categorie operaie e impiegatizie private e soprattutto per i pubblici dipendenti.

Il turismo di qualità peraltro non mancava. Un rapido elenco degli ospiti della città, pur limitato ai nomi più noti, testimonia la fama di Venezia e il valore aggiunto che ne derivava in termini di pubblicità turistica: i duchi di Windsor, re Faruk e Narriman d'Egitto (molti i commenti "non del tutto favorevoli" al "disordinato e dispendioso tenore di vita" del sovrano(283)), Aristotelis Onassis, Barbara Hutton, Ernest Hemingway, Aga Khan e Begum, Winston Churchill (in veste di pittore), Jean Cocteau, Salvador Dalí, Georges Simenon, Jean-Paul Sartre, Orson Welles, la "pettegola di Hollywood" Elsa Maxwell; reali come Elisabetta d'Inghilterra e Filippo d'Edimburgo, Akihito del Giappone, Saud d'Arabia (con la scorta vistosamente armata di scimitarra(284)), Shah Mahendra del Nepal, il maragià di Baroda; il conquistatore dell'Everest Tensing; ancora - e soprattutto - stelle del cinema, più d'altre capaci di divulgare Venezia quale meta turistica (Brigitte Bardot, Ingrid Bergman, Charlie Chaplin, Gary Cooper, Anita Ekberg, Rita Hayworth, Greta Garbo, Kim Novak, James Stewart, Gloria Swanson, Elizabeth Taylor); e infine il torero Luis Miguel Dominguin, giunto con la moglie Lucia Bosè nel 1956 a "offrire" una corrida (sia pur benefica e garantita come incruenta), sventata all'ultimo minuto(285).

Il problema della casa. L'esodo. In sei anni, dal 1951 al 1957, la popolazione di Venezia scese a 158.466 residenti(286). Ma di benefici sulle condizioni abitative se ne vedevano pochi. Un'indagine-campione effettuata dal Comune nel 1957 fornì risultati preoccupanti: le abitazioni inabitabili erano il 9,26%, quelle sovraffollate (più di 2 abitanti per vano!) il 23,45%; lo stato di conservazione degli edifici era buono per il 34,45%, mediocre per il 46,90%, cattivo per il 15,70%, pericolante per il 2,95% (2 case su 3, insomma, abbisognavano di restauri più o meno radicali). Ancora: soltanto il 26,22% delle abitazioni aveva il bagno, il 65,69% aveva il solo w.c. in un apposito locale, il 13,46% lo aveva in cucina, il 3,68% era senza w.c.; un riscaldamento vero e proprio c'era soltanto nel 10,71% delle abitazioni, mentre nella maggioranza delle case, il 57,84%, era riscaldata la sola cucina, nel 27,30% erano riscaldate a stufa tutte le stanze, nel 4,15% non c'era riscaldamento; l'umidità era diffusa nel 15,80% delle case, e segnava con tracce il 34,30%(287).

La qualità dei requisiti di gran parte delle abitazioni di Venezia era perciò ben lontana dagli standards delle case moderne, come quelle che si stavano costruendo in terraferma: tale stacco di qualità fu all'origine della seconda fase dell'esodo - che sarà chiamata "da mancato restauro" (la legge del 1956, infatti, non promosse il restauro sistematico e diffuso dell'edilizia(288)) - e che, cominciata alla fine degli anni Cinquanta, connoterà massicciamente gli anni Sessanta(289). L'esodo poté apparire "tanto più utile" data la mancanza di spazi, e "tanto più opportuno" per poter procedere al risanamento edilizio: "La soluzione di tutti i mali edilizi di Venezia sta nello sfollamento, nello sfoltimento della popolazione"(290).

Lo sfollamento - "la progressività della contrazione demografica del centro storico insulare"(291), come l'Annuario statistico del Comune definiva l'esodo - si trasformò ben presto da fisiologico in patologico(292) e assunse dimensioni e ritmi da "deportazione di massa"(293). Ma a livello ufficiale si preferiva parlare di "estrema mobilità interna della popolazione"(294), in un'ottica di redistribuzione tra centro storico, terraferma, estuario: "non si tratta di perdita di popolazione, ma di trasferimento altrove, nello ambito stesso del Comune, di una parte della popolazione", disse Vittorio Cini al convegno del 1962(295).

"Non si tratta di un fenomeno negativo", commentò il dirigente dell'Ufficio statistica, anzi di un fenomeno con "un aspetto nettamente positivo", visto che l'edilizia veneziana non offriva possibilità decenti per più di 130-135.000 abitanti, che Venezia poteva ampliarsi soltanto nell'entroterra ("un vero polmone per la espansione demografica veneziana"), che i fondi privati non bastavano a conservare il patrimonio architettonico, e quindi "non rimane che cedere i vetusti palazzi agli uffici pubblici ed ai centri direzionali delle grandi imprese industriali e commerciali". Venezia, insomma, come le altre grandi città "ove oggi si tende a sostituire con centri direzionali i centri residenziali"(296). Ecco allora che "la progressiva diminuzione degli abitanti di Venezia storica corrisponde a una precisa fase del processo di trasformazione della sua struttura economica e sociale, intesa a ridare alla città il ruolo di vero ed insostituibile centro direzionale della regione"(297).

Eppure, non doveva essere difficile accorgersi che c'è un elemento dirimente che distingue (nonostante tutte le analogie) Venezia "città storica" dai "centri storici" delle altre città: la cesura, psicologica e non soltanto fisica, con la periferia oltre il ponte translagunare, per cui lo sradicamento e il successivo trapianto assumono caratteristiche di radicale alternativa; una volta emigrati, i veneziani cambiano vita(298). "Per il veneziano in terraferma l'emigrazione significa terra invece di acqua, automobile o motorino invece di piedi, autobus invece di vaporetti", sì che "nella sostanza l'emigrato da Venezia lascia un comportamento e un insieme di relazioni non recuperabili o ricostruibili neppure in modi diversi"(299). Anni dopo, si potrà perciò scrivere di "tragedia demografica"(300) e affermare: "Appare lecito parlare di un vero e proprio 'genocidio'"(301).

Non in termini così drammatici, ma certo con maggior sensibilità di altri in quegli anni, nel convegno del 1962 l'assessore comunale Zanon Dal Bo aveva ammonito: "Finora esso [l'esodo] ha riportato la città storica ad un più normale indice di abitabilità, ora comincia a scendere sotto quel limite; ed è un esodo strettamente legato alla decadenza edilizia. A lungo andare salveremmo delle rovine"(302). Ma in quella sede la sua voce, ovviamente, pesava meno della voce di Cini.

Il quartiere residenziale di Sacca Fisola. Il più importante intervento nel settore della casa a Venezia fu la realizzazione del quartiere di Sacca Fisola, un'area di oltre 100.000 metri quadrati ai margini della Giudecca destinata a diventare - si sbilanciò "Il Gazzettino" - una "piccola, leggiadra isola urbana, che conserverà intatte le caratteristiche veneziane, seppure con più moderni e funzionali criteri"(303). I.A.C.P. (Istituto Autonomo Case Popolari) e U.N.R.R.A. (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)-Casa si divisero la progettazione del quartiere sotto la vigilanza del comitato redazionale del piano regolatore generale, che fissò precisi criteri - come la creazione di nuclei residenziali separati da zone verdi e il mantenimento dello spirito veneziano nella spazialità, negli ambienti, nelle architetture - per scongiurare la nascita di un quartiere dormitorio, dando insieme una composizione sociale varia ai residenti. L'ottimismo non era soltanto del quotidiano locale; anche Samonà, intravedendo la possibilità che si realizzasse in laguna l'idea della "casa-città" non riuscita in terraferma, parlò della pianificazione di Sacca Fisola come di un "criterio" per i nuovi quartieri(304).

A luglio 1959, l'I.A.C.P. concluse la costruzione del primo lotto di 74 alloggi e 4 negozi, cominciata a fine 1957 - "un complesso gradevole, di piacevole soggiorno e soprattutto salutare"(305) - e appaltò il secondo lotto. Ma il Comune stava ancora lavorando nelle opere di urbanizzazione… Nel 1960 Sacca Fisola aveva oltre 200 alloggi (e altri 200 in costruzione), quasi 1.000 abitanti, pochi servizi e molti disagi; "con la sua aria ammorbata dai miasmi delle spazzature delle sacche vicine" e "con gli inquilini del Comune che non pagano tutto l'affitto perché non hanno soldi sufficienti", rischiava di essere "l'ultimo anello di una catena di errori"(306). Erano soltanto gli inizi: il risultato finale sarà liquidabile come "niente più che una curiosità assai brutta da vedere"(307).

Nonostante un concorso nazionale indetto nel 1958, al quale parteciparono nomi importanti dell'architettura italiana, svanì invece il progetto (o il sogno?) del grande quartiere residenziale - su una superficie di 187 ettari, con l'insediamento di 50.000 abitanti - a S. Giuliano, previsto dal piano regolatore generale e pensato "come settimo sestiere in laguna"(308).

Costruzioni in città e interventi sul territorio. Qua e là, mutava anche il volto edilizio della città. Nel 1954 venne inaugurato - dopo una vicenda durata vent'anni - il colossale edificio della stazione ferroviaria(309): il fronte in pietra d'Istria, lungo 110 metri, "si pone in modo dirompente rispetto alle preesistenze" e tuttora "costituisce l'unica inserzione radicalmente moderna sul Canal Grande"(310).

Famoso e sconcertante è rimasto il "no" pronunciato in quell'anno al progetto del "Masieri Memorial", la casa "in volta de Canal", nel cuore del Canal Grande, firmato da Frank Lloyd Wright: più che l'opposizione di alcuni difensori a oltranza della presunta intoccabilità di Venezia, poté, come ha sostenuto Giuseppe Mazzariol, "l'avversione velenosa quanto paesana" alla fama dell'autore, di cui furono "interpreti attivi e occulti i membri della corporazione degli ingegneri e architetti veneziani, presenti nella Commissione edilizia, nel Consiglio comunale, nella Soprintendenza ai monumenti"(311); il resto lo fece l'incerto atteggiamento della classe dirigente veneziana, che concordava con gli oppositori, o, al più, non si curava di un argomento estraneo e lontano dai suoi interessi. Le obiezioni e le riserve delle commissioni comunali non riguardarono, certo, il valore del progetto: ma si appigliarono a "una serie di eccezioni di carattere burocratico, la cui meschinità vessatoria è di tutta evidenza"(312), fino a logorare ogni possibilità di approvazione(313).

Ma ci furono anche dei "sì". I più importanti riguardano la sede dell'I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) che Giuseppe Samonà ed Egle Renata Trincanato realizzarono (1952-1956), quasi di fronte alla stazione ferroviaria, con avvertibile richiamo all'architettura veneziana, ma senza soggezione per il passato, battistrada di una serie di edifici direzionali lungo il rio Nuovo(314). Dello stesso "sforzo di adeguare il nuovo linguaggio al contesto storico"(315) è contemporanea testimonianza (1954-1958) la Casa alle Zattere di Ignazio Gardella(316), destinata all'anticipato riconoscimento del vincolo monumentale, ma che all'epoca "ha suscitato lodi e note di biasimo in parti eguali"(317), e che a tanti anni di distanza continua a essere elogiata come "un raffinato modello di partecipazione dell'architettura contemporanea all'ultima possibile definizione dell'immagine della città"(318) oppure contestata come "un brutto e pretenzioso casone di appartamenti"(319). Furono gli ultimi anni in cui si ristrutturarono palazzi sul Canal Grande con esiti discussi(320); poi "la strada più bella del mondo" diventò intoccabile.

Nel 1958 si aprì in piazza S. Marco il negozio Olivetti, di Carlo Scarpa, ritenuto "capolavoro dell'architettura contemporanea"(321). Nuovi padiglioni sorsero ai Giardini della Biennale, l'unico "territorio del possibile" in città(322), che divennero sempre più un'antologia dell'architettura moderna, ma in uno spazio estraneo al tessuto della città e quindi senza dialogo con esso, tanto da essere definito un "serraglio"(323): tra i più rilevanti i padiglioni dell'Olanda (di Gerrit Thomas Rietveld), della Finlandia (di Alvar Aalto), dei Paesi scandinavi (di Sverre Fehn), del Venezuela (di Carlo Scarpa)(324).

All'altro lato della città, oltre piazzale Roma, nell'estate del 1961, dopo una travagliata vicenda decennale, si concludeva - con l'apertura di un piazzale-parcheggio da 1.000 posti auto - l'imbonimento di 18 ettari di laguna, attuato da privati in convenzione con il Comune: sorgeva così l'isola nuova del Tronchetto, che modificava la stessa forma urbis, definitivamente squilibrando il policentrismo della città verso la testa di ponte autostradale e ferroviaria(325). Doveva essere, nelle intenzioni, un "contenitore" dai mille usi: autorimessa con eliporto e officina; due alberghi; magazzini per grossisti; stazione di autopullman; pontili del trasporto pubblico; palazzetto dello sport con piscine, campi da tennis, palestre; sede di uffici pubblici e delle rappresentanze delle industrie di Marghera(326), oltre che il punto di partenza della strada sublagunare progettata da Miozzi per l'Arsenale, Murano, il Lido, il litorale nord(327). Diventerà presto una desolata "terra di nessuno", terminal del trasporto abusivo, soggetta alle pressioni e al controllo della malavita.

L'opera più imponente del dopoguerra fu la realizzazione dell'aeroporto internazionale Marco Polo sulla gronda lagunare, a Tessera. Già dal 1950 il Consorzio per lo sviluppo delle comunicazioni aeree delle Venezie si era espresso per la costruzione dell'aeroporto in terraferma - al posto del vecchio aeroporto del Lido - in una località il più possibile vicina a Venezia; nel 1954, una commissione esaminò sette progetti e scelse le barene di Tessera, che erano area demaniale(328). Nel 1956 fu autorizzata per legge la spesa e nel 1957 fu approvato il progetto esecutivo; l'esecuzione delle opere fu affidata al Provveditorato al Porto, che poi assunse la gestione dello scalo(329). Posta la prima pietra nell'aprile 1958, i lavori procedettero rapidamente, nonostante gli ostacoli incontrati: per cominciare, le aree da bonificare furono quattro volte più ampie di quelle previste (!). La costruzione dell'aeroporto, che pur risultò il meno costoso tra quelli realizzati in Italia, fu "una continua affannosa ricerca della soluzione meno onerosa e insieme più idonea"(330). Curiosamente, la mattina del 1° agosto 1960, a inaugurarne la pista non fu il previsto volo ufficiale del DC 3 dell'Aeronautica militare, bloccato dal maltempo, bensì l'imprevisto atterraggio di un aereo da turismo(331).

Venezia capitale internazionale della cultura. Negli anni Cinquanta, Venezia era un centro culturale di rilevanza internazionale: "l'ultima Venezia europea", come ha annotato Massimo Cacciari(332). La città aveva preso piena coscienza del proprio ruolo e ne esplorava spazi nuovi, quale crocevia per l'incontro tra popoli e culture; e, grazie all'attività di operatori culturali e artisti locali, era tutto un pullulare di iniziative e di movimenti, di "situazioni stimolanti e inedite, occasioni e sollecitazioni, esperienze"(333). Nel 1955 si poté affermare che Venezia "non è certo seconda a nessuna altra località del mondo, tanto il suo 'calendario' è fitto di manifestazioni"(334). E nel 1958 "una Venezia perennemente feconda e fervida di iniziative e realizzazioni della più grande e vasta risonanza" salutò il presidente della Repubblica all'inaugurazione della Biennale(335). L'enfasi del cronista sarà stata eccessiva ma non era ingiustificata.

Era sempre la Biennale a fare da capofila a una schiera di enti e di istituzioni, tutti impegnati in un'attività di alto livello e di grande richiamo(336). Alla Biennale di arti visive, che vedeva la costante crescita di paesi partecipanti fino ai 36 del 1958, accanto ai grandi artisti di tutto il mondo, esponevano i maestri e i designers del vetro di Murano che allora "vissero un periodo di vivacità creativa eccezionale"(337). Il Festival della musica offrì nel 1954 la prima mondiale de Il giro di vite di Britten, e quella italiana di Porgy and Bess di Gershwin; nel 1955 ospitò il Teatro classico della Repubblica popolare di Cina (e fu un momento alto dell'indipendenza politica della Biennale) e la prima de L'Angelo di fuoco di Prokofiev; nel 1956 la prima mondiale del Canticum di Stravinskij nella basilica di S. Marco. Nel 1961 raggiunse il record di 76 compositori in programma e conobbe la tumultuosa serata alla Fenice per Intolleranza 1960 di Luigi Nono, contestata da neofascisti e difesa dal critico de "Il Gazzettino" come "quanto di più complesso, originale, interessante abbiamo visto in questo dopoguerra"(338). Il Festival del teatro, nel 1954, registrò un evento di risonanza mondiale, la prima recita all'estero della Compagnia dei "Nô" dell'imperiale Teatro classico giapponese, che si esibì al Teatro Verde all'isola di S. Giorgio, inaugurato quell'anno, e sul cui palco all'aperto recitò l'anno dopo la Comédie Française. Polemiche suscitò, nel 1958, il Théâtre d'Aujourd'hui di Parigi, con opere di Ionesco e di Beckett, definite un "autentico choc" per il pubblico veneziano(339).

Il 'fiore all'occhiello' della stagione rimaneva la Mostra del cinema, che nel 1953 aveva rivisto, dopo cinque anni, la presenza dell'URSS e di altri paesi dell'Est europeo(340); dal 1956, con l'ammissione in concorso dei film su scelta di una commissione e non più su designazione dei singoli paesi, diventò un puntofranco della cultura cinematografica mondiale(341): con il Leone d'oro del 1957 ad Aparajito dell'indiano Satyajit Ray ancora una volta rivelò una cinematografia sconosciuta e non commerciale (ma non mancarono gli abbagli, come, nel 1954, la negazione di qualsiasi premio a Senso di Visconti). Nel 1958 toccò il diapason l'aspetto divistico, con la presenza (e la sfida) di Brigitte Bardot e Sophia Loren(342), e con la serata di gala in Palazzo Ducale, aperta dalla passerella di settecento invitati in Piazzetta, tra la folla che si assiepava anche per la tombola, e conclusa con uno spettacolo pirotecnico in bacino(343).

A fine maggio 1955, palazzo Grassi ospitò l'anteprima mondiale di Summertime (Tempo d'estate), film di David Lean, storia di un romantico 'breve incontro' di una non più giovane turista americana con un antiquario veneziano, girato in una Venezia da dépliant turistico, e che costituì un veicolo di promozione sul mercato americano: per anni, turisti venuti dagli Stati Uniti chiesero della inesistente Locanda Fiorini, collocata nel film in vista di tutti gli angoli canonici della città(344). La ripresa degli interni di Summertime fu l'ultima attività degli stabilimenti della Scalera alla Giudecca: con la chiusura del teatro numero 1 - il più grande d'Italia - svanì il sogno di Francesco Pasinetti di una Venezia "città del cinema"(345). Venezia era comunque un set ricercato: furono un'ottantina, in un quindicennio, i film con una presenza più o meno ampia della città, ma soltanto un paio da antologia (Otello di Welles, Senso di Visconti), il resto erano luoghi comuni di "cappa e spada" o cartoline turistiche, come Venezia la luna e tu o Tre soldi nella fontana (che attirò a Venezia 120.000 turisti(346)); pochi furono i registi che tentarono di seguire la lezione di Pasinetti su Venezia come scenografia naturale: Glauco Pellegrini con Ombre sul Canal Grande, Mario Soldati con La mano dello straniero, Giuseppe Maria Scotese con Fiamme sulla Laguna(347). Merita una citazione Destino di un'imperatrice: per girarne una sequenza nel 1957 fu a lungo chiusa al transito piazza S. Marco, ancora non ceduta alla permanente occupazione dei turisti(348).

Il Comune, che nel 1955 aveva registrato alla mostra di Giorgione il record di oltre 140.000 visitatori(349), dedicò al Seicento la mostra di arte antica del 1959, con 300 opere di una sessantina di artisti; e avviò così un ripensamento a livello internazionale sull'arte barocca, cui contribuì la Fondazione Cini, che tenne su Barocco europeo e Barocco veneziano il primo Corso internazionale di alta cultura. Sul fronte delle mostre, in quello stesso 1959 palazzo Grassi 'rispose' con la mostra di 36 artisti d'avanguardia Vitalità nell'arte. Del tutto originale fu la mostra Venezia viva allestita nel 1954 a palazzo Grassi, che ripercorreva per temi la storia di Venezia, ricercandovi gli elementi per risolverne i problemi, e che costituì uno dei primi momenti di riflessione e dibattito sui destini della città(350). Nel 1957 si svolse la prima Biennale europea della fotografia, con 440 opere di 43 autori, anch'essa testimonianza di dialogo tra l'esperienza locale e quella estera, organizzata dal vitalissimo circolo cittadino La Gondola(351).

La Fondazione Cini concluse nel 1956 il restauro dell'isola di S. Giorgio, ma già dal 1952 ne aveva aperto gli spazi monumentali, e divenne ben presto centro di richiamo internazionale - nel 1956 ospitò trenta congressi in sette mesi - offrendo nuove prospettive, e non soltanto logistiche, a incontri, corsi, convegni, fino a essere definita "porto franco dello spirito"(352). L'ospitalità a convegni e congressi internazionali, con l'offerta dello sfarzo di Palazzo Ducale per la seduta inaugurale, fu negli anni Cinquanta uno dei punti forti dell'attività culturale - ma anche dell'economia - della città. A S. Giorgio con il 1954 cominciarono sia i cicli sulla civiltà veneziana, sia gli incontri interdisciplinari (il primo su Arte figurativa e arte astratta); di grande risonanza furono l'incontro sull'abolizione dell'ergastolo nel 1956, il convegno di studi goldoniani nel 1957, e, nello stesso anno, il convegno su Venezia punto d'incontro tra Oriente e Occidente; nel 1960 il convegno internazionale su L'esperienza della preghiera con esponenti di dieci religioni(353).

Tra le celebrazioni religiose, rilevante fu nel 1955 l'innovativa esperienza della "grande missione" che il patriarca Roncalli affidò a sessanta oratori, sacerdoti e laici, della Pro Civitate Christiana(354), i quali si sparsero per tutta la città, predicando anche all'aperto, e conducendo per le calli la Via Crucis serale; in piazza S. Marco, alla sera, su un grande schermo scorrevano le immagini del Mistero cristiano; alla messa conclusiva della missione, in Piazza, assistettero 30.000 fedeli(355). Spettacoloso e singolare fu l'arrivo con l'elicottero in Piazzetta, nel luglio 1959, della statua della Madonna di Fatima, peregrinante per l'Italia(356) (per curioso contrappunto, il mese dopo atterrò con l'elicottero in Piazzetta l'attrice Marina Vlady!(357)).

Piazza S. Marco era anche la 'sala' d'elezione per grandi spettacoli: nell'estate del 1957 una serata di lirica richiese l'allestimento di un enorme palcoscenico (475 metri quadrati, con l'impiego di 2 chilometri di tubi Innocenti) e registrò un'inedita sponsorizzazione finanziaria, quella delle Terme San Pellegrino(358). Il settimanale diocesano contestò: "Al fine altissimo di attrarre il forestiero […] la qualità non importa" e rimproverò all'Ufficio comunale del turismo di voler far diventare Venezia "un baraccone"(359).

Nel 1957, bicentenario goldoniano, il Festival del teatro dedicò l'intero programma a Goldoni, con un'eccezione per la rappresentazione del Titus Andronicus di Shakespeare, con Laurence Olivier e Vivien Leigh, per la quale convennero a Venezia i maggiori attori da tutta Italia(360). Avanguardia e tradizione convivevano: nell'estate del 1957 concludeva la triennale attività il Carro di Tespi della Compagnia dei Commedianti, che aveva portato per i campi della città 110 opere (tra cui 50 testi goldoniani) in 2.200 recite con 400.000 spettatori(361); nel maggio 1958 Giovanni Poli, con il Teatro di Ca' Foscari, presentò al Festival di Salonicco il suo capolavoro, La Commedia degli Zanni, da documenti della commedia dell'arte, che due anni dopo otterrà a Parigi il premio per la miglior regia al Festival des Nations e il premio dell'Istituto del Dramma Italiano per i successi all'estero(362).

In una città così vivace c'era spazio anche per iniziative curiose e di qualità discutibile, organizzate e accolte senza troppi scrupoli: come il Festival internazionale della canzone in piazza S. Marco, trasformata in sala da 7.000 posti, la cui prima edizione, nel 1955, venne diffusa in eurovisione. "Oggi la Canzone interessa larghissimi strati della popolazione di tutto il mondo, soprattutto quello che alimenta il turismo di massa", commentò "Il Gazzettino"(363). E ancora, ma soltanto per esemplificare, la cronaca cittadina annotò nel 1955 una mostra di uccelli - 2.500 esemplari di 300 specie - a Ca' Giustinian(364), e il primo congresso internazionale dei maghi al Teatro La Perla(365); nel 1956 una esibizione di campioni di sci nautico in bacino S. Marco, ingloriosamente interrotta a causa del moto ondoso(366); ogni autunno si allestivano in giro per la città i chioschi della Sagra dell'uva(367); nel 1958 il Circo Togni mise le tende, con i leoni e gli elefanti, in campo S. Polo(368).

La notte del Redentore rimaneva il 'momento magico' dell'estate, benché se ne avvertisse qualche segno di flessione, anche perché erano aumentati i veneziani che andavano in vacanza: nel 1957 l'assessore comunale al turismo (e futuro sindaco), Giorgio Longo, segnalò che stava diminuendo il favore dei veneziani per la festa, a causa del "progressivo modificarsi dei gusti dei cittadini che si stanno 'modernizzando'", rimarcando come "da più di qualche anno si cerchi di potenziare il programma della serata, la quale, tuttavia, trae movimento ed attrattiva principalmente dalla partecipazione della cittadinanza con barche illuminate", evidentemente in calo(369). Sempre più ricca diventò invece la Regata storica, che nel 1955 aggiunse la regata dei sestieri su gondole a quattro remi(370) e nel 1959 affiancò alle gare il grande corteo storico - 300 figuranti in costume del Cinquecento su 50 barche addobbate(371) - che diventò il clou della manifestazione sul mercato turistico, travisando il senso stesso della Regata, da genuino confronto tra campioni di casa (e loro sostenitori) a patinato spettacolo per turisti.

Il grande evento di fine anni Cinquanta fu il ritorno delle spoglie di s. Pio X, Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia dal 1894 al 1903, e poi papa. "O vivo o morto ritornerò" aveva detto lasciando la città per recarsi al conclave: e la memoria collettiva aveva tramandato quelle parole. Per un mese, nella primavera del 1959, l'urna rimase esposta dall'alba alle 22 nella basilica di S. Marco, e davanti a essa sfilò incessante la folla, proveniente da tutto il Nord Italia; piazza S. Marco vide imponenti processioni; funzioni speciali furono celebrate per i parlamentari e gli amministratori, per gli operai dell'Arsenale, per le Forze armate, per i bambini, per le carcerate(372). Il bilancio conclusivo parlò di un milione di pellegrini(373): nella zona di S. Marco, la rete commerciale cominciò allora a riconvertirsi sulle esigenze di un turismo di comitiva, frettoloso ed economico. La città accoglieva volentieri manifestazioni di massa: nel marzo 1960 sfilarono dai Giardini a S. Marco 50.000 alpini convenuti per il raduno nazionale(374). Trovarono molto entusiasmo e una sorpresa: in vari locali il prezzo del vino aveva subito un improvviso aumento(375).

Tra conservatori e innovatori: il 'caso esemplare' dell'illuminazione di piazza S. Marco. Per oltre tre lustri, il permanente conflitto tra conservatori e innovatori si concentrò sul problema dell'illuminazione di piazza S. Marco. "È certamente la questione che polarizza più di ogni altra l'attenzione dei veneziani, che ha suscitato e suscita tuttora le maggiori discussioni, che provoca le più appassionate polemiche", scriveva "Il Gazzettino"(376). "Non c'era problema maggiore", ricorderà, trent'anni dopo, Pietro Zampetti: "La città, i suoi amministratori, gli organi di tutela storico-ambientale, tutti, insomma, erano presi e divisi dal dilemma: fanali sì, fanali no"(377).

I diciotto vecchi fanali, posti su due file longitudinali, erano stati rimossi nel 1945 perché pericolanti per vetustà: ci si accorse allora che la Piazza, non più frazionata in tre corsie, aveva riacquistato l'aspetto unitario. Ma come conciliare l'esigenza estetica con la necessità pratica di una sufficiente illuminazione? Provvisoriamente, nel 1951, furono sistemati 115 globi di vetro in chiave d'arco lungo tutto il perimetro delle Procuratie. Gli esperimenti - tutti falliti - non si contarono: lampioni a pipa, proiettori sui cornicioni o sui tetti, candelabri alti 6 metri, proiettori a luce radente, fari sul campanile, illuminazione interna dei porticati, perfino un faro rotante… Nel 1956 la giunta comunale decise a maggioranza di proporre il ripristino dei vecchi fanali; ma il consiglio comunale bocciò la proposta con un voto trasversale (24 no - tra i quali quelli dichiarati di 4 assessori - 14 sì, 1 astenuto)(378). Si giunse così al 1959 quando il commissario al Comune nominò una commissione di esperti, i quali, dopo un ennesimo tentativo a vuoto - fari su due torrette alte 35 metri (come in un campo di concentramento) - optarono per sei "padelloni" sospesi su tre cavi tesi in senso latitudinale, che facevano pensare a un campo di bocce(379). Era, ovviamente, una soluzione provvisoria. I "padelloni" rimasero in Piazza per trent'anni.

Fu una vicenda esemplare, per la ricorrente contrapposizione senza margini di mediazione tra il fronte del sì e il fronte del no, per il valore ideologico con il quale gli uni e gli altri ammantarono un problema tecnico e tutto sommato marginale, una vicenda nella quale ambedue i fronti diedero il peggio di sé: meramente nostalgici i "fanalisti", desiderosi di cambiare ma senza sapere come gli "antifanalisti"; soprattutto incapaci, gli uni e gli altri "tutti fuori del tempo e dello spazio"(380), di accorgersi che ben altri erano i problemi di Venezia. Ancora una volta, in una città che si diceva "così densa di passato e così assetata di avvenire"(381) si finiva con il restare bloccati tra un passato che non si sapeva conservare e un avvenire che non si sapeva costruire.

Di minore popolarità ma non di minore durezza fu lo scontro sulla proposta del patriarca Roncalli, già avanzata dai suoi predecessori, di rendere apribili i sei plutei marmorei dell'iconostasi della basilica di S. Marco, per consentire ai fedeli la visione delle cerimonie, altrimenti riservata a pochissimi(382). Il dissenso di esponenti e ambienti della cultura cittadina arrivò alla Camera: l'ex sindaco Gianquinto e Giovanni Tonetti (P.S.I.) chiesero al ministro della Pubblica istruzione se non intendeva intervenire per "scongiurare ogni pericolo di manomissione anche parziale, o di alterazione, del gloriosissimo monumento che appartiene […] non solo a Venezia e all'Italia, ma anche all'umanità civile"; il ministro Paolo Rossi sottolineò la provvisorietà delle prove di rimozione, affermando che l'iconostasi non poteva essere modificata in modo permanente(383). Gran parte della stampa nazionale prese posizione contro la proposta di Roncalli, talora con vistose inesattezze, tanto che il patriarca affidò a una lunga nota la precisazione sul proprio pensiero(384). Con tono garbato ma fermo, Roncalli ritornò più volte sulla proposta, riaffermando il rispetto per il monumento, ma puntualizzando che S. Marco era la cattedrale e che prevalenti dovevano essere, nel suo utilizzo, le ragioni liturgico-pastorali: "Guai se per amore esagerato di piccole riserve su dettagli di vita sorpassata dovesse pian piano S. Marco venir considerato freddamente come un museo di arte e storia"(385). Alla fine di una battaglia lunga e difficile Roncalli ottenne quel che voleva, ma non poté contemplare l'esito del suo "sogno di bellezza sorprendente"(386): i plutei furono aperti per la prima volta due mesi dopo la sua elezione al pontificato(387).

Tra progettualità e immobilismo: la vicenda del Teatro Goldoni. La cronica difficoltà di Venezia a riprogettarsi in termini nuovi nel rispetto del passato è di tutta evidenza nella trentennale vicenda del Teatro Goldoni, un "romanzo a puntate con clamorosi colpi di scena"(388). Situato in pieno centro, il Teatro, di proprietà privata, fu chiuso nell'estate 1947, in quanto inagibile per motivi di sicurezza. In realtà, ancora nel 1937 - ricordò Cesco Baseggio - la proprietà aveva proposto di demolire e riedificare il vetusto edificio, ma c'era stato un "apriti cielo" e un durissimo veto. Il grande attore aveva idee chiare e preveggenti: "La prima cosa da fare dunque è questa: rinuncia piena ed assoluta alla nostalgica frase 'come era e dove era'", bisognava invece svuotare il Teatro e costruire tra le sue "gloriose mura", un Teatro "nuovo, moderno elegante e soprattutto capiente con due soli ordini di posti"(389).

Il Comune non fu disponibile verso la proposta della proprietà di una parziale ristrutturazione del Teatro, in modo da poterlo utilizzare anche come cinematografo, e chiese un rinnovamento integrale dell'edificio. Cominciò un lungo braccio di ferro: la proprietà respinse le offerte d'acquisto del Comune, in verità tutt'altro che generose. Il Comune, allora, per poter procedere all'esproprio chiese nel 1952 la qualifica di pubblica utilità dell'immobile, che il Ministero della Pubblica istruzione rilasciò nel 1954; ma intanto lo stesso Ministero, su richiesta della Soprintendenza, aveva posto il vincolo monumentale sul Teatro. La proprietà presentò ricorso al Consiglio di Stato contro i due decreti(390), e soltanto nel 1956, dopo un'ultima schermaglia di carte bollate, il prefetto autorizzò l'esproprio; nel 1957 il Comune poté comperare l'edificio.

Dieci anni erano passati, ma a questo punto in Comune ci si accorse che non c'erano i soldi per il restauro: una situazione che il critico teatrale Alberto Bertolini definì "un vero attentato al civico decoro di Venezia e […] al patrimonio storico culturale ed artistico della Nazione"(391). Lo stallo era motivo di nuove contese. "C'è chi propende per la demolizione e la costruzione ex novo di un teatro anche troppo moderno, e c'è chi propugna un sia pur radicale restauro", annotava Bertolini, per trarne la scettica ma realistica conclusione che "così stando le cose, la faccenda del 'Goldoni' minaccia di dormicchiare per un altro bel mucchio d'annetti"(392).

Sulla base di due progetti donati al Comune nel 1959 dalla Fondazione Cini e dal Lions Club, l'Ufficio tecnico comunale predispose il progetto esecutivo, che fu approvato dal commissario nel 1960 e dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici nel 1961: esso prevedeva la demolizione dell'edificio, a eccezione dei muri perimetrali, e la ricostruzione fedele degli interni, ma con la dotazione di moderni impianti scenici e tecnici(393) e con l'abolizione della divisione delle gallerie in palchi, ritenuta non adatta al nuovo clima sociale. I lavori cominciarono a settembre 1961 - con la previsione di concludersi in due anni - mentre i fautori del "com'era, dov'era" tornavano a riaccendere la polemica. Fu altro e più concreto contrasto, avviato sul piano legale dai proprietari degli edifici vicini, a bloccare i lavori appena cominciati: ciò fornì al Comune lo spunto per un ripensamento, con l'assegnazione, nel 1962, a Vittorio Morpurgo dell'incarico di un nuovo progetto. I lavori cominciarono nel 1969; il Teatro Goldoni è stato riaperto nel 1979.

I risvolti negativi del cambiamento. La situazione sociale continuava a mostrare gravi risvolti negativi. Nel 1955 l'I.A.C.P. censì nel Comune 2.920 famiglie (12.595 persone) abitanti in 23 bunker e in 2.318 magazzini o scantinati; 738 famiglie (3.763 persone) in 421 baracche, in gran parte della prima guerra mondiale; 441 famiglie (1.902 persone) ammassate in edifici pubblici(394). In quell'anno, l'E.C.A. assistette 11.000 famiglie, distribuì 550.200 minestre e 249.000 razioni di pane nelle mense, fornì 8.500 capi di vestiario e 1.500 tra materassi, brande, coperte, mentre ospitava oltre 300 persone al giorno nei 3 asili notturni(395). Nell'inverno 1955-1956 il Soccorso invernale registrò un bilancio di 187.617 pasti, 44.000 buoni latte e 44.000 buoni pane, 11.000 pacchi viveri(396). Al "trinomio, per sé angoscioso, di povertà, disoccupazione, licenziamenti" il patriarca Roncalli dedicò il messaggio per il Natale del 1955, con un appello singolare e pressante: "Mi rivolgo ai Dirigenti industriali e di azienda, ai loro consulenti tecnici ed economici, e li scongiuro, in nome di Dio, di considerare che la fervida intelligenza e i beni di fortuna di cui sono dotati furono messi a loro disposizione non per quadrare i bilanci: ma per essere ministri di provvidenza a vantaggio di tutta la famiglia umana"(397).

Intanto, attorno al movimento turistico, proliferava un'attività abusiva sempre più intensa: i tradizionali intromettitori, soprattutto, dei quali il prefetto aveva scritto per la prima volta nel 1952(398), ma anche cambiavalute, venditori di sigarette, intermediari di camere ammobiliate. A Pasqua del 1955 entrò in funzione un nucleo di polizia turistica: nei primi venti giorni, elevò 443 contravvenzioni ad abusivi, dei quali 225 intromettitori e 218 tra fotografi, facchini, cambiavalute, sandolisti, guide, suonatori; diffidò 39 esercizi pubblici per maggiorazione di prezzi, e arrestò o fermò 56 ubriachi, accattoni e altri disturbatori(399). Alla vigilia dell'estate 1960, la polizia turistica sferrò una nuova offensiva, anche se la statistica documentava l'inutilità dell'azione: le contravvenzioni erano state 3.896 nel 1956, 4.419 nel 1957, 4.461 nel 1958, e soltanto 1.549 nel 1959 (ma perché gli abusivi si erano fatti più furbi); contro 19 intromettitori regolari ce n'erano forse 100 senza licenza(400).

Il flusso turistico alimentava anche l'accattonaggio, peraltro endemico in città, già denunciato dal prefetto nel 1948(401). Accomunando prostituzione e accattonaggio, nel 1952 il prefetto scrisse di "piaga, lesiva del decoro della città specie nell'attuale momento di intenso movimento turistico"(402); per un triennio la repressione della mendicità (anche a suon di rastrellamenti e arresti, talora numerosi) e del "malcostume" (a base di foglio di via per le prostitute clandestine) - nel nome del decoro della città, soprattutto nei periodi di affollamento turistico - scandì le relazioni prefettizie; fino a quando, a fine 1954, sparì dalle relazioni la consueta, e talora pignola, descrizione dell'attività repressiva (rilevante e continua nei confronti di ubriachi e altri disturbatori della quiete notturna, saltuaria verso affittacamere abusive ed esercenti poco rispettosi delle regole, puntuale in autunno contro gli omosessuali), sostituita da ripetitive banali e vuote formule, per cui la situazione dell'ordine pubblico era sempre soddisfacente, non si verificavano reati di particolare gravità e l'attività criminosa segnava sempre un regresso rispetto a quella del mese precedente(403). L'attività dei borseggiatori trovò invece citazione sempre più intensa nelle pur restie cronache locali, fino a un'avvilita nota, proprio nel giorno di maggior festa: "Fra la folla della 'Storica' i borseggiatori hanno lavorato con successo"(404). La situazione era talmente seria che, vincendo un lungo silenzio, il prefetto fu costretto a prendere atto dell'aumento di reati contro il patrimonio "connesso al maggior afflusso di turisti"(405).

Già a fine 1949 la relazione prefettizia segnalò un aumento dei furti quale "fenomeno ricorrente dovuto all'inizio della stagione invernale"(406), e precisò poi che era "da porre in relazione alla stagione invernale ed al maggior disagio economico"(407) per la cessazione dei lavori stagionali. Il tessuto edilizio favoriva una 'specialità' tutta veneziana: i "furti con scalata" che colpivano egualmente turisti troppo fiduciosi nelle camere d'albergo e veneziani distratti in casa. "Nessun giorno senza ladri" fu nel 1961 il commento de "Il Gazzettino", preoccupato anche perché furti e borseggi provocavano un danno molto superiore all'entità dei bottini, in quanto "regolarmente riportati dalla stampa internazionale"(408) (ma in quell'anno, i furti denunciati nel territorio comunale furono 1.028(409) contro i 3.219 del 1951!(410)).

Una città cambiata

La giunta di centro-sinistra

La giunta comunale di centro-sinistra, abortita nel 1958, fu finalmente costituita il 17 luglio 1961, e fu sì una delle prime nel paese, ma quando già altre e di alto profilo erano state elette in grandi città, e molte altre se ne stavano formando in tutta Italia(411). Le elezioni del novembre 1960 avevano lasciato pressoché immutata la composizione del consiglio comunale - 23 consiglieri alla D.C. (che non aveva neppure ricandidato Dorigo), 14 al P.C.I., 13 al P.S.I., 4 al P.S.D.I., 3 al M.S.I., 2 al P.L.I., 1 alla Lista Civica di Terraferma(412), confermando l'impossibilità numerica sia di una giunta centrista sia di una giunta di sinistra.

In realtà, dal 1958 la situazione politica nazionale si era rapidamente evoluta e tutto il paese si avviava verso l'esperienza di centro-sinistra. "Venezia, che di quell'esperienza era stata l'antesignana, il pioniere che aveva indicato la via, era naturalmente la più accreditata per proseguirla e dare veste organica a quanto fino a quel momento era stato labile e precario"(413). Ma così non fu: all'indomani delle elezioni, i partiti non seppero esprimere posizioni diverse da quelle nazionali - ideologiche prima che programmatiche - e Venezia finì nel pacchetto delle "giunte difficili", la cui soluzione veniva sostanzialmente demandata agli organi centrali(414).

Il consiglio comunale di Venezia si riunì il 21 dicembre per una sterile votazione di schieramento: 28 voti a Giovanni Favaretto Fisca, 27 ad Armando Gavagnin, 5 schede bianche. Mentre D.C. e P.C.I. si fronteggiavano aspramente - la prima ribadendo: "nessuna collusione con il P.C.I.", il secondo rilanciando l'unità delle sinistre - il capogruppo socialista Zecchi ricordò: "I socialisti aspettano non dal novembre di quest'anno ma dalla primavera del '56 che la D.C. veneziana compia qualche atto che permetta […] a noi di arrivare a delle convergenze possibili per l'interesse della città"(415). Infine, fu trovata una soluzione piuttosto singolare, che lasciava sì aperta la strada all'alleanza D.C.-P.S.I.-P.S.D.I., ma a prezzo di un pesante scotto programmatico: una giunta D.C.-P.S.D.I.-Lista Civica di Terraferma, nella quale all'esponente della Terraferma, Piero Bergamo, veniva affidato proprio il referato all'urbanistica, benché egli avesse dichiarato di volersi opporre nel modo più energico alle previsioni del piano regolatore generale per la terraferma(416). Quanto fosse fluida la situazione, lo testimonia il fatto che tra i 30 voti con i quali Favaretto Fisca fu eletto sindaco (Gavagnin ne ottenne 27, 3 furono le schede bianche) c'erano anche quelli del gruppo liberale. La collaborazione durò comunque poco: l'associazione civica ritirò ben presto l'appoggio alla giunta, anche se Bergamo rimase assessore, riuscendo a "giocare a Roma le carte di Mestre" e a introdurre delle modifiche nel piano regolatore generale(417).

La giunta D.C.-P.S.D.I.-P.S.I. fu eletta dopo una nuova lunga tornata di difficili trattative: Favaretto Fisca ottenne 37 voti contro i 14 di Gianquinto (in aula, il P.C.I. aveva riproposto ancora l'unità delle sinistre). Ma il 1956 era ormai lontano. Il documento con il quale i tre gruppi consiliari annunciarono l'accordo, pur parlando di "dar vita a una giunta comunale che attui un programma di fattivo rinnovamento della vita amministrativa e di sviluppo economico e sociale quale richiesto dalla larga parte dei cittadini democratici e dei lavoratori della nostra città", sottolineava in premessa l'intento "di assicurare una Amministrazione stabile ed efficiente e di evitare un ritorno a gestione commissariale"(418). È una lettura riduttiva dell'evento: certo, non restava molto degli entusiasmi e delle speranze che avevano connotato la stagione della "formula Venezia". "Non c'era altro da fare se si voleva conservare al Comune una amministrazione normale", fu l'ancor più riduttivo commento de "Il Gazzettino"(419). In realtà "la spinta innovativa sembrò, fin dal primo momento, meno dinamica di quanto la formula non facesse presumere ai suoi fautori", anche se poi la giunta riuscirà comunque a operare(420).

Lo spopolamento di Venezia

Al censimento del 1961, il Comune di Venezia registrò 347.887 residenti, dei quali 137.150 nella città storica (il 39,4% del totale), 49.702 nell'estuario (14,3%), 161.035 nella terraferma (46,3%)(421). In dieci anni, il rapporto tra la città storica e la terraferma si era capovolto. Il calo della popolazione a Venezia era il risultato soprattutto del saldo negativo (meno 33.753 unità) di un elevatissimo ricambio di residenti: 69.917 erano stati gli emigrati (43.296 verso altre zone del comune, 26.621 fuori comune), 36.164 gli immigrati (12.870 da altre zone del comune, 23.294 da fuori comune); la città storica aveva perduto più di un quinto degli abitanti (22,9%), ma nel sestiere di S. Marco la perdita era stata del 39,3%, chiaramente indicativa del cambiamento di destinazione d'uso degli edifici, da residenziale a terziario, negli spazi più centrali e pregiati. Un altro significativo cambiamento si era verificato nella struttura per età della popolazione, poiché l'esodo aveva interessato soprattutto i ceti di età giovane e media: i residenti sotto i 14 anni passavano dal 20% al 15,6% della popolazione, quelli sopra i 55 anni dal 19,6% al 24,1%(422). Era un chiaro segnale, limitato nei numeri ma preciso nelle dinamiche, di un processo di invecchiamento della popolazione che assunse presto rapida accelerazione. La soglia 'ideale' dei 135.000 abitanti era ormai vicina, ma l'esodo non accennava a diminuire, anzi; né diminuivano le sacche di degrado: in terraferma andavano famiglie del ceto medio, non quelle povere(423).

Lo spopolamento alleggerì appena il problema della casa, mentre l'attività edilizia era stata pressoché irrisoria: dal 1951 erano stati costruiti 2.700 alloggi, per un totale di 11.500 vani, appena il 16% del fabbisogno, stimato in 16.500 alloggi e 62.000 vani(424). Il censimento registrò 41.025 famiglie in 35.463 abitazioni, e quindi circa 11.000 famiglie in coabitazione, mentre erano ancora 307 le famiglie che vivevano in 299 alloggi impropri(425). Il direttore de "Il Gazzettino" in un editoriale su Venezia denunciò "le indicibili miserie dei suoi rioni più popolari, che nulla hanno da invidiare ai bassi di Napoli"(426). E sempre aperta era la piaga delle abitazioni a pianoterra. Anzi, Egle Renata Trincanato rilevò che esse "in questi ultimi anni sono andate paurosamente aumentando in città anche a causa delle speculazioni effettuate su vecchi locali malsani e spesso abbandonati"(427). C'erano situazioni limite, come le "case minime" alla Giudecca, nelle quali "alla sera il pavimento diventa letto, i piccoli stanno nei cassetti della credenza" e dove incombeva "una realtà più laida di un incubo"(428).

La domanda di case con standards dignitosi continuava a non trovare risposta in città. Gli interessi della speculazione edilizia erano invece sempre più rivolti all'edificazione a Mestre, anche per sfruttare una domanda crescente, perché verso la terraferma spingevano ora i nuovi modelli di vita del boom economico e il desiderio dell'automobile privata: si andava così "componendo il quadro di più allucinante fungaia residenziale che sia stato mai offerto da città italiana"(429).

Il giudizio negativo sull'edificazione in terraferma non è frutto del 'senno di poi' né di polemica. "A Mestre si costruisce senza criterio", ammise l'ingegnere capo del Comune, Giuseppe Caporioni, nel 1958(430). "Mestre e Marghera sono state, per così dire, investite dalla piena dilagante di un torrente di pietre e di cemento, che sommerse caoticamente tutte le zone, senza una regola che salvaguardasse la logica e l'armonia urbanistica"(431), riconobbe nel 1960 il segretario generale del Comune, Giovanni Stecconi.

Epilogo. Il "consulto" internazionale

"Un consulto di medici internazionali attorno alla grande malata"(432). Con queste parole il sindaco Favaretto Fisca aprì, il 4 ottobre 1962, in Palazzo Ducale, il convegno internazionale Il problema di Venezia. A dieci anni di distanza, l'ex sindaco Spanio, ora presidente della Fondazione Cini, riprese i temi, immutati per attualità e per gravità, della sua lontana conferenza stampa, il cui "appello sortì scarsi risultati"(433).

Il convegno, durato quattro giorni, vide molte rilevanti presenze, ma anche vistose assenze (Dorigo e Gianquinto, per esempio); le prospettive oscillarono dal più vasto scenario europeo-mediterraneo al racchiuso quadretto cittadino; il confronto tra conservatori e innovatori risuonò attutito dal clima accademico; non mancarono luoghi comuni e frasi generiche; ma il panorama dei problemi, delle analisi, delle proposte fu assai vasto, praticamente completo, nella ricerca, rimasta però incompiuta, di riportare tutto ad unità, così come era stato suggerito dal titolo che individuava "il problema" (e non "i problemi") di Venezia: al centro del convegno, infatti, restarono soprattutto le tematiche della città storica (sempre più "centro storico") e della sua conservazione(434).

Tre furono i momenti più alti: la relazione di Giovanni Astengo e gli interventi di Vittorio Cini e di Feliciano Benvenuti. Fortemente innovativa fu la soluzione che Astengo propose per la pianificazione urbanistica della città: la stesura non più di un unico piano particolareggiato, ma quella di tanti piani per le diverse zone, connotati quindi da diversi tipi di intervento a seconda delle caratteristiche delle zone, non soltanto quelle edilizie, architettoniche, ambientali, ma anche quelle sociali ed economiche(435).

Vittorio Cini, pur senza sconfessare il proprio passato, compì un profondo ripensamento e delineò un programma di interventi per salvaguardare l'insularità di Venezia, basato su quattro capisaldi - miglioramento dell'attrezzatura e dell'organizzazione del porto, potenziamento del sistema idroviario, sviluppo della marineria, intensificazione dei commerci - e integrato dalla valorizzazione dell'artigianato, dallo sviluppo del turismo, specie quello di qualità, e delle iniziative culturali, dall'insediamento di uffici amministrativi; non dimenticò l'ampliamento di Marghera, il canale Alberoni-terraferma, l'autostrada Venezia-Monaco, l'oleodotto, per i benefici che ne sarebbero derivati a Venezia(436).

Se Cini concluse con un suggerimento al sindaco per costituire "una specie di comitato di salute pubblica" cittadino(437), Feliciano Benvenuti propose invece di affidare l'avvenire urbanistico di Venezia a "un ente di natura consortile che, fondandosi su Stato, Provincia e Comune (ma aperto anche alle altre forze che operano in Venezia e per Venezia) ripeta in sé fondamentalmente la struttura democratica degli enti che lo compongono e le loro competenze giuridiche e tecniche, ed abbia perciò la possibilità di adottare le necessarie decisioni insieme appunto politiche e tecniche" e poi di programmare, dirigere, eseguire (o controllare) quegli interventi "che sposino insieme, in una visione ferma, unitaria e consapevolmente obiettiva, le esigenze private e quelle pubbliche"(438).

Nel discorso conclusivo, il sindaco, tirando le fila del dibattito a convergere verso le linee direttrici del piano regolatore generale, dedicò a Mestre un rapido e generico cenno d'impegno - "fare della città di terraferma una vera città modernamente ordinata, che si senta spiritualmente unita, solidale e partecipe di un comune destino" - per soffermarsi su Venezia, della quale rimarcò i caratteri di estrema modernità, e concludere: "All'interno del centro storico noi crediamo […] che potranno trovare opportuna sede sia gli edifici di un centro amministrativo, politico e commerciale con le funzioni di prestigiosa capitale, sia la più bella e tranquilla zona residenziale, sia il luogo di incontro, di studio, di organismi di preparazione di centri universitari di carattere nazionale ed internazionale. Qui potranno trovare sede e sviluppo le antiche tradizioni dell'artigianato, del turismo, e più che tutto rispondenza la coscienza marinara con le sue grandi prospettive di espansione"(439).

Ma ancora una volta, ormai era troppo tardi. Appare soltanto - anzi era e voleva essere - una ripetizione aggiornata ma stanca del modello volpiano, cui tutto il convegno, del resto, si era ispirato. In realtà, al di là di ogni buona intenzione e di ogni pur sincero impegno, nell'autunno del 1962 quest'atto di fiducia nel futuro della città storica non era più un progetto, ma soltanto una speranza, forse un'illusione. Quattro anni dopo, la mareggiata del 4 novembre 1966 avrebbe travolto, con le malandate difese a mare dei murazzi, anche questa illusione.

1. Denunciata l'urgenza della 'legge per Venezia', "Il Gazzettino", 18 maggio 1952.

2. Su Eugenio Gatto, cf. Silvio Tramontin, Eugenio Gatto (1911-1981). Un partigiano padre delle regioni, Venezia 1985.

3. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1951. Discussioni, XXIII, Roma 1951, seduta antimeridiana dell'11 ottobre 1951, p. 31320.

4. Su Giobattista Gianquinto, cf. Gianquinto Giovanni Battista, in Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, II, Milano 1971, p. 551.

5. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 8.4.1946-30.7.1946, resoconto stenografico della seduta dell'8 aprile 1946, p. 14 (in numerosi resoconti stenografici delle sedute del consiglio comunale la numerazione delle pagine è però assente).

6. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1949, b. 9, relazione riassuntiva del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno sulla situazione politica, economica e della pubblica sicurezza in provincia di Venezia, 15 ottobre 1949.

7. Raffaello Vivante, I pianterreni inabitabili di Venezia. L'abitato di Mestre. Nuove indagini sulle condizioni igieniche delle abitazioni del Comune, Venezia 1948.

8. Ibid., p. 9.

9. Ibid., p. 8.

10. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1951. Discussioni, XXIII, seduta antimeridiana dell'11 ottobre 1951, p. 31322.

11. Giovanni Dell'Olivo, I problemi edilizi del Comune di Venezia, "Ateneo Veneto", 143, 1952, nr. 1, p. 48 (pp. 47-51).

12. Ibid., p. 49.

13. Serie storica della popolazione residente nel Comune di Venezia, in Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1999, Venezia 2000, p. IX.

14. La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 229.

15. Renato Desidery, Relazione sugli aspetti dinamici della demografia veneziana e sui censimenti generali del 1961, Venezia s.a., p. 63.

16. Giuliano Zanon, Veneziano cercasi… meglio se di ritorno, "Co.S.E.S. Informazioni", 11, agosto 1981, p. 8 (pp. 1-9).

17. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 27 giugno 1953.

18. Azienda di Promozione Turistica-Ufficio Statistica, Il movimento turistico nel Comune di Venezia, s.n.t.

19. Comune di Venezia-Ufficio Municipale di Statistica, Annuario statistico 1950, Venezia s.a., p. 41, tav. 71.

20. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1949, b. 9, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno sulla situazione generale della provincia, 29 luglio 1949.

21. Provveditorato al Porto di Venezia, Cinquant'anni di Provveditorato al Porto di Venezia, Venezia 1979, p. 131.

22. Ibid., p. 137.

23. Cf. Valerio Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Milano 1990, p. 255.

24. Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-55, Milano 1984, pp. 313-316; Id., Sindacato e industria a Marghera, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 112-122 (pp. 73-123).

25. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1949, b. 9, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno sulla situazione generale della provincia, 29 ottobre 1949.

26. Ibid., 1950, b. 14, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 29 maggio 1950.

27. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno sulla situazione generale della provincia, 28 gennaio 1950.

28. Consiglio di Fabbrica Breda, Breda: quel marzo 1950, Venezia 1980.

29. C. Chinello, Classe, movimento, organizzazione, pp. 225-230, 245-251; Daniele Resini, Cronologia, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 437-439 (pp. 317-509).

30. Assicurato al Cantiere Breda un avvenire fervido di opere, "Il Gazzettino", 17 ottobre 1952.

31. Sugli avvenimenti culturali del triennio 1945-1947 cf. Dino Marangon, Cronaca veneziana 1948-59. Eventi e protagonisti, in Venezia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara 1999, pp. 161-163 (pp. 161-175).

32. Enzo Di Martino, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e di cultura, Milano 1995, p. 41.

33. Ibid., pp. 41-42.

34. Flavia Paulon, 2000 film a Venezia 1932-1950, Roma 1951, pp. 109-110; Ead., Cronaca dei dieci anni dopo la guerra (1946-1956), in Il cinema dopo la guerra a Venezia, a cura di Ead., Roma 1956, pp. 12-16 (pp. 9-34).

35. Ead., Cronaca dei dieci anni, pp. 16-18.

36. Mario Ungaro, Cifre alla mano, "Il Popolo", 21 settembre 1947, cit. in La Biennale-Comune di Venezia, Cinquant'anni di cinema a Venezia, a cura di Adriano Aprà-Giuseppe Ghigi-Patrizia Pistagnesi, Venezia 1982, p. 175.

37. F. Paulon, Cronaca dei dieci anni, p. 18.

38. Lino Miccichè, Radiografia del futuro remoto, in La Biennale di Venezia, Venezia: cinquant'anni fa. La Mostra del cinema del '47, a cura di Callisto Cosulich, Venezia 1997, p. 10 (pp. 9-10).

39. Sull'attività della Biennale nel dopoguerra, cf. Romolo Bazzoni, 60 anni di Biennale di Venezia, Venezia 1962, pp. 137-154, 160, 163-168; Paolo Rizzi-Enzo Di Martino, Storia della Biennale 1895-1982, Milano 1982, pp. 46-55, 82-106.

40. Enzo Di Martino, Il Fronte Nuovo delle Arti alla Biennale di Venezia del 1948, Milano 1988, p. 20.

41. D. Marangon, Cronaca veneziana, p. 163.

42. Enzo Di Martino, Bevilacqua La Masa 1908-1993. Una fondazione per i giovani artisti, Venezia 1994, pp. 71-74.

43. P. Rizzi-E. Di Martino, Storia della Biennale, p. 46.

44. Mario Stefani, Il Magnifico Ordine della Valigia, in Comune di Venezia-Fondazione dell'Opera Bevilacqua La Masa, La Valigia ieri e oggi, Venezia 1982, p. 5 (pp. 5-6).

45. Leopoldo Pietragnoli, Quella donna nel baule, "Il Gazzettino", 27 aprile 1997.

46. Piero Zanotto, Venezia 1947, in La Biennale di Venezia, Venezia: cinquant'anni fa. La Mostra del cinema del '47, a cura di Callisto Cosulich, Venezia 1997, p. 23 (pp. 20-23).

47. P. Rizzi-E. Di Martino, Storia della Biennale, p. 46.

48. Ibid., pp. 82-84.

49. Cf. L'officina del contemporaneo. Venezia '50-'60, catalogo della mostra, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano 1997; Maria Grazia Messina, Venezia anni Cinquanta: il turbamento della pittura, in Venezia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara 1999, pp. 19-30; Giuseppina Dal Canton, Le Biennali degli anni Cinquanta e gli artisti veneti, ibid., pp. 35-48.

50. D. Marangon, Cronaca veneziana, p. 164.

51. Sulla cultura a Venezia negli anni Cinquanta, inquadrata nel più lungo periodo dall'Ottocento a fine Novecento, cf. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482. Sugli avvenimenti culturali del periodo 1948-1951 cf. D. Marangon, Cronaca veneziana, pp. 164-170, e Giovanni Bianchi, Cronologia, in Venezia 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, Ferrara 1999, pp. 179-182 (pp. 179-194).

52. F. Paulon, 2000 film, p. 159.

53. Ibid., p. 183.

54. In prima assoluta per l'Europa la televisione su grande schermo, "Il Gazzettino", 10 settembre 1952.

55. Elisabetta Brusa, La Fenice. Sperimentazione e spettacolo in due secoli di storia, Venezia 1990, pp. 79-93.

56. P. Rizzi-E. Di Martino, Storia della Biennale, pp. 50-51.

57. E. Di Martino, Bevilacqua La Masa, pp. 78-79.

58. Fascino dei 'viaggi d'arte' ultime battute della stagione, "Il Gazzettino", 16 ottobre 1951.

59. Gaetano Cozzi, Introduzione, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 10-11 (pp. 7-19).

60. Sulla storia e sull'attività della Fondazione Cini, cf. Venezia 1951-1971. Venti anni di attività della Fondazione Giorgio Cini, Venezia s.a. [ma 1971].

61. Battesimo a Palazzo Grassi del Centro Arti e Costume, "Il Gazzettino", 26 agosto 1951.

62. In cantiere a Ca' Giustinian il 'cartellone' dell'estate '52, ibid., 17 dicembre 1951.

63. Sulla musica a Venezia negli anni Cinquanta cf. Giovanni Morelli, Sentimenti ambientali nella Venezia musicale/2, "Nexus", 2, 1994, nr. 9, p. 10.

64. Per quattromila, "Il Gazzettino", 21 luglio 1951.

65. Michele Girardi-Franco Rossi, Il Teatro La Fenice. Cronologia degli spettacoli, I (1792-1936)- II (1937-1991), a cura degli Amici della Fenice-Yoko Nagae Ceschina, Venezia 1992, pp. 35-164.

66. Oltre cento i concerti della Banda municipale, "Il Gazzettino", 30 ottobre 1952.

67. Nicola Mangini, Il teatro veneto moderno 1870-1970, Roma-Venezia 1992, pp. 281-286, 359-375.

68. Id., Giovanni Poli e il suo lavoro sul teatro di Ruzante, "Ateneo Veneto", n. ser., 27, 1989, pp. 179-181 (pp. 179-190); Carmelo Alberti, L'avventura teatrale di Giovanni Poli, Venezia 1991, pp. 25-45.

69. A.B., I circoli del cinema, "Il Gazzettino", 28 novembre 1952; Leopoldo Pietragnoli, Tra passato e presente: riapre il Giorgione, "Circuito Cinema", 9, 1999, nr. 4, pp. 1, 9; per l'elenco delle sale cf. la quotidiana rubrica Gli spettacoli de "Il Gazzettino" dei primi anni Cinquanta.

70. Paolo Rizzi, [Introduzione], in Vetro, un amore. Egidio Costantini e la sua Fucina degli Angeli, Venezia s.a. [ma 1986], pp. n.n.

71. Festosa veglia di popolo nella notte del Redentore, "Il Gazzettino", 15 luglio 1951.

72. 'Foghi' per quattrocentomila sull'eterna poesia della laguna, ibid., 20 luglio 1952.

73. Primi in bandiera Seno e Vianello nella festosa cornice della Storica, ibid., 7 settembre 1953.

74. Giorgio Crovato-Maurizio Crovato, Regate e regatanti, Venezia 1982, pp. 51-53, 121-132, 220.

75. Il gala delle 'bissone' rivissuto per lo schermo, "Il Gazzettino", 22 settembre 1951.

76. Il 'Giro' s'è tuffato in laguna accolto dalla folla entusiasta, ibid., 25 maggio 1952.

77. La festa della Madonna della Salute, "La Voce di San Marco", 28 novembre 1953.

78. Corpus Domini annuale trionfo eucaristico, ibid., 21 giugno 1952.

79. Antonio Niero, I patriarchi di Venezia da Lorenzo Giustiniani ai nostri giorni, Venezia 1961, p. 109.

80. Trionfale conclusione del Materno Passaggio, "La Voce di San Marco", 28 ottobre 1950.

81. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1950, b. 14, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 29 maggio 1950.

82. Giuseppe Mazzariol, Tre progetti per Venezia rifiutati: Wright, Le Corbusier, Kahn, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, p. 270 (pp. 270-271).

83. Paolo Maretto, Venezia, Genova 1969, p. 112.

84. Ibid.

85. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1949. Discussioni, VI, Roma 1949, seduta antimeridiana dell'8 giugno 1949, p. 9083.

86. Alvise Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 19842, p. 183.

87. Ibid., p. 185.

88. P. Maretto, Venezia, p. 114.

89. G. Mazzariol, Tre progetti, p. 270.

90. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1949. Discussioni, VI, seduta antimeridiana dell'8 giugno 1949, pp. 9082-9085.

91. G. Mazzariol, Tre progetti, p. 270.

92. Egle R. Trincanato, Le 'sopraelevazioni' a Venezia, "Giornale Economico", 38, 1953, pp. 224-227.

93. Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, p. 76.

94. Italia nostra difende Venezia, Venezia s.a. [ma 1959], p. 11.

95. Wladimiro Dorigo, Introduzione al Piano di Venezia, "Rivista di Venezia", n. ser., 3, 1957, nr. 2, p. 32 (pp. 31-49).

96. Il Patriarcato di Venezia. Situazione al 15 ottobre 1974, a cura di Gino Bortolan, Venezia 1974, pp. 411-412.

97. Dall'arida eloquenza delle cifre la poesia dell'umana solidarietà, "Il Gazzettino", 17 aprile 1953.

98. L'attività del Comitato per il Soccorso Invernale, ibid., 7 giugno 1951.

99. Aperta la campagna del soccorso invernale, ibid., 27 novembre 1952.

100. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1947-1948, b. 20, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 31 agosto 1948.

101. Ibid., 1953, b. 18, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 29 giugno 1952.

102. Ibid., Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 settembre 1953.

103. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 luglio 1956.

104. Contro l'offesa dei vandali e per il decoro della città, "Il Gazzettino", 19 maggio 1952.

105. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 9.5.1952-5.8.1952, resoconto stenografico della seduta del 6 giugno 1952, p. 49.

106. Ibid., p. 50.

107. I cani e la strada, "Il Gazzettino", 21 dicembre 1952.

108. Sull'attività della giunta popolare municipale, cf. Giorgio Santarello, La giunta popolare Ponti, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 125-155.

109. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L'istituzione, il territorio, guida-inventario dell'Archivio Municipale, Venezia 19872, p. 254.

110. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 8.4.1946-30.7.1946, resoconto stenografico della seduta dell'8 aprile 1946, p. 8.

111. Paola Sartori, Amministrazione comunale e personale politico a Venezia nel secondo dopoguerra (1945-1951), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1985-1986, p. 183.

112. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 1.4.1948-11.8.1948, resoconto stenografico della seduta del 24 maggio 1948, pp. 1-31.

113. Sull'attività della giunta di sinistra 1946-1951, cf. Cesco Chinello, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia 1951-1973, Roma 1975, p. 22; Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 197-201 (pp. 152-225); Paola Sartori, La prima amministrazione comunale e la giunta Gianquinto, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 157-181.

114. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1947-1948, b. 20, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 agosto 1948.

115. Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L'Italia dal 1943 al 1998, Bologna 19992, p. 119.

116. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1948. Discussioni, I, 2, Roma 1948, seduta pomeridiana del 15 luglio 1948, pp. 1278, 1281.

117. Giovanni Gozzini-Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VII, Dall'attentato a Togliatti all'VIII congresso, Torino 1998, p. 27.

118. D. Resini, Cronologia, p. 432; cf. C. Chinello, Classe, movimento, organizzazione, pp. 159-162.

119. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1950. Discussioni, XI, Roma 1950, seduta del 21 marzo 1950, p. 16382.

120. Ibid., pp. 16383-16384.

121. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 5.9.1949-5.4.1950, resoconto stenografico della seduta del 20 marzo 1950; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1950, b. 14, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 marzo 1950.

122. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 7.3.1947-2.4.1947 e 12.5.1947-31.7.1947, resoconto stenografico della seduta dell'8 luglio 1947, pp. 3-44.

123. Ibid., Registro 5.11.1946-29.2.1947, resoconto stenografico della seduta del 30 dicembre 1946, pp. 1-32; Silvio Tramontin, La Chiesa veneziana dal 1938 al 1948, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 455-466, 495 (pp. 451-501).

124. P. Sartori, La prima amministrazione, p. 174.

125. Maria Gabriella Dri, La società veneziana, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, p. 25 (pp. 25-50).

126. P. Sartori, La prima amministrazione, p. 174.

127. S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 255-256.

128. E. Brunetta, Figure e momenti, pp. 202-204.

129. Maurizio Reberschak, Dichiarazioni d'intenti: sindaci e programmi nel dopoguerra a Venezia (1945-1951), in Chiesa Società e Stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin […], a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 247, 249 (pp. 239-288).

130. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 14.1.1955-21.2.1955, resoconto stenografico della seduta del 21 febbraio 1955, pp. 56-62.

131. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1953, b. 18, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 agosto 1952.

132. Sull'iter della legge 294/1956 cf. S. Tramontin, Eugenio Gatto, pp. 43-45.

133. Senato della Repubblica, Atti parlamentari. Anni 1953-1958. Resoconti delle sedute della 7. Commissione permanente in sede deliberante, I, Roma 1958, 72. seduta (29 febbraio 1956), p. 1123.

134. M.G. Dri, La società veneziana, p. 35.

135. R. Vivante, I pianterreni inabitabili, p. 7.

136. Maria Gabriella Dri, La società veneziana nel secondo dopoguerra (1945-1951): aspetti e problemi, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1979-1980, pp. 380-381 (intervista rilasciata all'autrice da Giobatta Gianquinto).

137. P. Sartori, La prima amministrazione, pp. 169-173.

138. Sul Villaggio S. Marco cf. Elia Barbiani, Case popolari fra industrializzazione e urbanizzazione, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell'Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Id., Milano 1983, pp. 27-29 (pp. 11-32); Stefania Potenza, Questione edilizia, politiche e realizzazioni del Comune di Venezia, ibid., p. 86 (pp. 68-92); Donatella Calabi, Venezia: il piano della sua periferia in terraferma, in Costruire a Venezia. Trent'anni di edilizia residenziale pubblica, a cura di Tullio Campostrini, Venezia 1993, pp. 75-78 (pp. 69-89); Egle Renata Trincanato, Il quartiere di Viale San Marco: l'unità residenziale, ibid., pp. 91-106; Giorgio Ciucci, Progetti per i quartieri residenziali in terraferma, ibid., pp. 107-116 (pp. 107-126).

139. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 9.10.1950-11.4.1951, resoconto stenografico della seduta del 5 aprile 1951.

140. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1951. Discussioni, XXIII, seduta antimeridiana dell'11 ottobre 1951, pp. 31323-31324.

141. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 9.10.1950-11.4.1951, resoconto stenografico della seduta del 5 aprile 1951.

142. Camera dei Deputati, Disegni di legge-Relazioni-Documenti, XXVIII, Roma 1952, relazione della commissione speciale, proposta di legge nr. 2750-A, p. 5.

143. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 14.1.1952-3.4.1952, resoconto stenografico della seduta del 15 febbraio 1952, pp. 29-72.

144. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1952. Discussioni, XXXIII, Roma 1952, seduta del 4 luglio 1952, p. 39577.

145. Id., Atti parlamentari. Anno 1953. Discussioni, XXXIX, Roma 1953, seduta del 25 marzo 1953, p. 47347.

146. Id., Atti parlamentari. Anno 1954. Discussioni, X, Roma 1954, seduta pomeridiana del 25 giugno 1954, p. 9659.

147. Id., Atti parlamentari. Anno 1953-1958. Discussioni delle Commissioni speciali in sede legislativa, Roma 1956, Commissione speciale per l'esame di provvedimenti per la città di Venezia, seduta del 16 marzo 1956, pp. 25-27.

148. Vittorio Cini, Intervento, in Comune di Venezia-Fondazione "Giorgio Cini", Atti del convegno internazionale 'Il problema di Venezia', Venezia 1964, p. 183 (pp. 175-185).

149. Feliciano Benvenuti, Aspetti legislativi e amministrativi del problema di Venezia, ibid., p. 162 (pp. 154-168).

150. Agostino Zanon Dal Bo, Il piano regolatore di Venezia: realtà, prospettive, problemi, ibid., p. 29 (pp. 23-36).

151. Osservatorio Economico, Sviluppo economico, popolazione e problemi edilizi di Venezia insulare, Venezia 1967, p. 93.

152. L'augurio del Sindaco, "Il Gazzettino", 31 dicembre 1961.

153. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 giugno 1954.

154. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 207.

155. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 13.4.1955-5.8.1955, v. 2, resoconto stenografico della seduta del 10 giugno 1955, p. 102.

156. Ibid., pp. 72-73.

157. Ibid., p. 89.

158. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 257.

159. Sull'esperienza della "formula Venezia" cf. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 26-35; E. Brunetta, Figure e momenti, pp. 205-209; Silvio Tramontin, Il primo esperimento di apertura a sinistra: la formula Venezia, in Storia della Democrazia cristiana, a cura di Francesco Malgeri, Roma 1988, pp. 280-325; Id., Vincenzo Gagliardi: un leader (1925-1968), Venezia 1988, pp. 29-45.

160. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 9.7.1956-10.8.1956, resoconto stenografico della seduta del 9 luglio 1956, pp. 15-17.

161. Ibid., p. 13.

162. Ibid., pp. 20-21.

163. S. Tramontin, Vincenzo Gagliardi, p. 40.

164. Direttive del Card. Patriarca ai dirigenti dei Comitati civici, "La Voce di San Marco", 16 giugno 1956.

165. Nominati gli amministratori del Comune e della Provincia, ibid., 14 luglio 1956.

166. Episcopato triveneto. Messaggio natalizio, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 47, 1956, p. 5.

167. Richiami ed incitamenti del Card. Patriarca ai diletti figli del Clero e del laicato Veneziano, ibid., pp. 274-275.

168. S. Tramontin, Vincenzo Gagliardi, p. 42.

169. Giancarlo Zizola, L'utopia di papa Giovanni, Assisi 1973, pp. 284-296; Silvio Tramontin, Il card. Roncalli patriarca di Venezia, in Le chiese di Pio XII, a cura di Andrea Riccardi, Roma-Bari 1986, pp. 235-237 (pp. 227-255).

170. Epistola paschalis domini patriarchae, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 48, 1957, p. 78.

171. S. Tramontin, Vincenzo Gagliardi, pp. 43-44.

172. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 208.

173. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 5.2.1958-28.3.1958, resoconto stenografico della seduta del 5 febbraio 1958.

174. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1957-1960, b. 307, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 febbraio 1958.

175. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 29.5.1958-28.7.1958, resoconto stenografico della seduta del 28 luglio 1958, p. 131.

176. Ibid., p. 139.

177. Cf. Maurizio Degl'Innocenti, Storia del Psi, III, Dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1993, pp. 219-233.

178. Esortazione per il mese di febbraio, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 48, 1957, p. 28.

179. Silvio Tramontin, Dall'alba del nuovo secolo al Concilio Vaticano II: i patriarchi, in Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, a cura di Id., Padova 1991, p. 244 (pp. 219-250); cf. Id., Il card. Roncalli, pp. 238-239.

180. Giuseppe Battelli, I patriarcati di Agostini e Roncalli: due tipologie pastorali?, in La Chiesa di Venezia dalla seconda guerra mondiale al Concilio, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1997, p. 98 (pp. 87-126).

181. Pio Pietragnoli, La Chiesa spera, "La Voce di San Marco", 9 febbraio 1957.

182. Cf. G. Zizola, L'utopia, pp. 297-302.

183. Marco Sassano, Il Novecento anno per anno. Cronologia degli avvenimenti mondiali, Venezia 1998, p. 94.

184. Eugenio Bacchion, Postille al Congresso della Democrazia Cristiana, "La Voce di San Marco", 13 ottobre 1956.

185. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, registro 5.9.1958-24.11.1958, resoconto stenografico della seduta del 5 settembre 1958.

186. Ibid., resoconto stenografico della seduta dell'8 settembre 1958.

187. Ibid.

188. Ibid., resoconto stenografico della seduta del 14 ottobre 1958.

189. Ibid., resoconto stenografico della seduta del 19 ottobre 1958.

190. Ibid., resoconto stenografico della seduta del 14 novembre 1958.

191. Ibid.

192. "Gazzetta Ufficiale", 2 febbraio 1959, nr. 27.

193. Cit. in Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1959. Discussioni, VII, Roma 1959, seduta antimeridiana del 22 aprile 1959, p. 6547.

194. Ibid., pp. 6542-6544.

195. Ibid., pp. 6546-6550.

196. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1957-1960, b. 307, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 dicembre 1958.

197. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 aprile 1959.

198. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 32-33.

199. Sulla vicenda del piano regolatore generale, cf. Romano Chirivi, Eventi urbanistici dal 1846 al 1962, "Urbanistica", gennaio 1968, nr. 52, pp. 98-113; Bruno Dolcetta, Venezia dal 1959 ad oggi, ibid., ottobre 1972, nrr. 59-60, pp. 5-17; W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 74-88; C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 40-43, 54-55; Abitare a Venezia: esodo e sfratti, a cura di Giandomenico Romanelli-Guido Rossi, "Materiali Veneti", 4, 1976, pp. 19-22; Luigi Scano, Venezia: terra e acqua, Roma 1985, pp. 87-116; Giandomenico Romanelli-Guido Rossi, Mestre. Storia, territorio, struttura della terraferma veneziana, Venezia 1977, pp. 86-98.

200. W. Dorigo, Introduzione al Piano, p. 34.

201. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 206.

202. W. Dorigo, Introduzione al Piano, p. 35.

203. R. Chirivi, Eventi urbanistici, p. 101; L. Scano, Venezia, pp. 93-94.

204. Pietro Zampetti, Il problema di Venezia, Firenze 1976, pp. 45-49.

205. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 11.4.1958-9.5.1958, resoconto stenografico della seduta del 16 aprile 1958, pp. 3-6.

206. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, p. 41.

207. L. Scano, Venezia, p. 88.

208. W. Dorigo, Introduzione al Piano, p. 47.

209. Per la realizzazione del piano regolatore, "Il Gazzettino", 23 febbraio 1957.

210. Egle Renata Trincanato, Problemi di conservazione e di rivalutazione della edilizia veneziana in rapporto alle esigenze della vita attuale, "Giornale Economico", 39, 1954, p. 313 (pp. 312-320).

211. Ibid., p. 319.

212. Ibid., pp. 316-317.

213. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 5.2.1958-28.3.1958, resoconto stenografico della seduta del 21 febbraio 1958.

214. Ibid., Registro Commissario straordinario. (Consiglio) Luglio-Agosto-Settembre 1959, delibera nr. 27926, 23 luglio 1959.

215. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 79.

216. Italia nostra difende Venezia, pp. 3-4.

217. Ibid., pp. 4-9.

218. G. Romanelli-G. Rossi, Mestre, p. 92.

219. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 82.

220. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 24.2.1961-22.5.1961, resoconto stenografico della seduta del 29 marzo 1961.

221. Wladimiro Dorigo, [Intervento], in Associazione Olof Palme, Atti degli incontri Conosci la tua città, Venezia 1990, p. 27 (pp. 24-28).

222. L. Scano, Venezia, p. 116.

223. C. Chinello, Classe, movimento, organizzazione, pp. 439-446; D. Resini, Cronologia, p. 441.

224. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 1° settembre 1954.

225. Sollecitudini del Card. Patriarca per i lavoratori dell'Arsenale, "La Voce di San Marco", 4 febbraio 1956.

226. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 settembre 1955.

227. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 ottobre 1955.

228. Mario Buracchia, La Marina a Venezia, Firenze 1994, p. 253.

229. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 5 gennaio 1957.

230. Ibid., 1957-1960, b. 307, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 febbraio 1957.

231. Manifestazione di solidarietà per il problema dell'Arsenale, "Il Gazzettino", 2 marzo 1957.

232. Il Cardinale Patriarca per l'Arsenale, "La Voce di San Marco", 2 marzo 1957.

233. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1957. Discussioni, XXXV, Roma 1957, seduta del 12 marzo 1957, p. 31464.

234. Ibid., XLIII, Roma 1957, seduta del 27 novembre 1957, p. 38219.

235. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1957-1960, b. 307, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 settembre 1957.

236. M. Buracchia, La Marina, p. 255.

237. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1954. Discussioni, X, Roma 1954, seduta antimeridiana del 30 giugno 1954, p. 9816.

238. Osservatorio Economico, Sviluppo economico, p. 7.

239. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 30.4.1954-2.8.1954, resoconto stenografico della seduta del 25 giugno 1954.

240. Ibid., resoconto stenografico della seduta del 2 agosto 1954, pp. 56-58.

241. D. Resini, Cronologia, pp. 446-447.

242. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 21.6.1957-29.7.1957, resoconto stenografico della seduta del 16 luglio 1957, pp. 26-29.

243. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 giugno 1954.

244. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 31 maggio 1954.

245. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 31 luglio 1954.

246. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 giugno 1954.

247. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 luglio 1956.

248. Cf. D. Resini, Cronologia, pp. 441-456.

249. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-1956, b. 173, fasc. 3362/88. Venezia. Situazione economica e sociale della Provincia, lettera del segretario provinciale della D.C. al ministro degli Interni, 5 ottobre 1955.

250. Sulla seconda zona industriale, cf. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 176-179; C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 11-12, 22-26, 44-60; L. Scano, Venezia, pp. 84-85, 120-122; Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 276-277 (pp. 227-298); E. Brunetta, Figure e momenti, pp. 204-211.

251. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, p. 11.

252. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 204.

253. W. Dorigo, Introduzione al Piano, p. 39.

254. Cf. Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma 1996, p. 112.

255. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 47-49.

256. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1958-1963. Discussioni della IX Commissione (Lavori pubblici) in sede legislativa, Roma 1960, seduta di martedì 11 ottobre 1960, p. 370.

257. Investimenti per 250 miliardi entro tre anni a Porto Marghera, "Il Gazzettino", 13 maggio 1961.

258. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 176.

259. L. Scano, Venezia, p. 122.

260. M. Reberschak, L'economia, p. 282.

261. La petroliera in fiamme rimorchiata a Sacca Fisola, "Gazzettino-Sera", 16-17 gennaio 1951.

262. Per una diretta via d'acqua dal mare al porto industriale, "Il Gazzettino", 21 gennaio 1951.

263. In un decennio al Porto Industriale le maestranze saranno raddoppiate, ibid., 19 aprile 1958.

264. La propaganda per il turismo rende poco perché fatta male, ibid., 20 dicembre 1958.

265. Azienda di Promozione Turistica-Ufficio Statistica, Il movimento turistico.

266. Comune di Venezia-Ufficio Statistica, Annuario statistico 1961, Venezia s.a., p. 41, tav. 79.

267. Al quindicesimo posto la spiaggia del Lido nella graduatoria delle Stazioni balneari, "Il Gazzettino", 16 gennaio 1958.

268. Azienda di Promozione Turistica-Ufficio Statistica, Il movimento turistico. Cf. Gastone Geron, La spiaggia del Cavallino, "Giornale Economico", 42, 1957, pp. 734-737.

269. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1958. Risposte scritte ad interrogazioni, I, Roma 1958, seduta del 16 settembre 1958, pp. 89-91.

270. Cavallino con duemila abitanti ospita oggi 50 mila stranieri, "Il Gazzettino", 13 agosto 1960.

271. Gastone Geron, Occorre ridimensionare la stagione veneziana, "Giornale Economico", 41, 1956, pp. 577-579; Id., Sul prolungamento della stagione turistica, ibid., 1960, pp. 1197-1199; Tommaso Gagliardi, Valorizzazione turistica di Venezia e Lido, ibid., pp. 1325-1327.

272. Mario Ferrari-Aggradi, Aspetti economici e sociali del Problema di Venezia, in Comune di Venezia-Fondazione "Giorgio Cini", Atti del convegno internazionale 'Il problema di Venezia', Venezia 1964, p. 50 (pp. 37-59).

273. Oltre 200 mila viaggiatori per la 'Stagione' di Pasqua, "Il Gazzettino", 12 aprile 1956.

274. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1953-56, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 1° settembre 1954.

275. Ibid., relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 2 febbraio 1955.

276. Giorgio Soligo, Consuntivo di un anno mentre si prepara la nuova stagione, "Giornale Economico", 42, 1957, p. 105 (pp. 103-106).

277. Puntare per la propaganda sulle Agenzie di Viaggio, "Il Gazzettino", 22 dicembre 1957.

278. Comune di Venezia-Ufficio Statistica, Annuario statistico 1959, Venezia s.a., p. XIV.

279. Un grande bazar, "Il Gazzettino", 25 giugno 1961.

280. L'antiturismo, ibid., 21 giugno 1961.

281. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1953, b. 18, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 agosto 1952.

282. Ibid., Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 31 maggio 1953.

283. Ibid., Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1951, b. 15, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 28 luglio 1951.

284. Scimitarre in Piazza per Saud, "Il Gazzettino", 22 luglio 1959.

285. Mike, Davanti agli applausi del pubblico toreri e registi versano lagrime, "Gazzettino-Sera", 1°-2 settembre 1956.

286. Serie storica della popolazione residente.

287. Una indagine campione sull'edilizia veneziana, "Rivista di Venezia", n. ser., 3, 1957, nr. 2, pp. 66-67.

288. Osservatorio Economico, Sviluppo economico, p. 18.

289. G. Zanon, Veneziano cercasi, p. 8. Cf. Id., Venezia da città storica a centro storico: le trasformazioni dal dopoguerra ad oggi, "Rivista Diocesana del Patriarcato di Venezia", 71, 1986, pp. 785-788 (pp. 784-802).

290. Da fuori Comune il maggior apporto di popolazione a Mestre e Marghera, "Il Gazzettino", 3 dicembre 1954.

291. Comune di Venezia-Ufficio Statistica, Annuario statistico 1961, p. IX.

292. Elia Barbiani-Giorgio Conti, Venezia: dalla città speciale al modello di sviluppo sociale, "Urbanistica", dicembre 1978, nrr. 68-69, p. 128 (pp. 109-149).

293. Abitare a Venezia, passim.

294. Renato Desidery, La mobilità interna della popolazione residente nel Comune di Venezia nel ventennio 1939-1958, "Giornale Economico", 1959, p. 1068 (pp. 1068-1074).

295. V. Cini, Intervento, p. 180.

296. Renato Desidery, La conoscenza dei fenomeni demografici, come presupposto per la impostazione dei problemi economico sociali in Comune di Venezia, Venezia s.a., pp. 8-10.

297. Importante il ruolo della terraferma nel quadro dell'espansione demografica, "Il Gazzettino", 30 marzo 1960, che riferisce una relazione di Renato Desidery.

298. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 103.

299. M. Reberschak, L'economia, p. 271.

300. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 89.

301. Abitare a Venezia, p. 22.

302. A. Zanon Dal Bo, Il piano regolatore di Venezia, p. 30.

303. Il quartiere a Saccafisola dell'Istituto Case Popolari, "Il Gazzettino", 3 gennaio 1956.

304. Giuseppe Samonà, Sacca Fisola: criterio per i nuovi quartieri, "Rivista di Venezia", n. ser., 3, 1957, nr. 2, pp. 51-55; Id., L'isola e la sua pianificazione, ibid., pp. 57-61; Gastone Geron, Nasce un quartiere residenziale nell'eremo prediletto da De Musset, "Giornale Economico", 1958, pp. 520-521; P. Maretto, Venezia, pp. 134-137; Valeriano Pastor, Progetti e costruzioni a Venezia nel dopoguerra, in Costruire a Venezia. Trent'anni di edilizia residenziale pubblica, a cura di Tullio Campostrini, Venezia 1993, pp. 32-37 (pp. 29-68); S. Potenza, Questione edilizia, p. 86.

305. Appaltato per Sacca Fisola il secondo lotto di alloggi, "Il Gazzettino", 31 luglio 1959.

306. Cenerentola senza speranza, ibid., 11 febbraio 1961.

307. Itinerari, "Viaggio in Italia", 2, 1983, nr. 27 (numero monografico Venezia), p. 66 (pp. 63-86).

308. D. Calabi, Venezia: il piano, p. 84. Sul quartiere di S. Giuliano, cf. Bruno Dolcetta, Edilizia pubblica, città, piano, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell'Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983, pp. 106-108; G. Ciucci, Progetti per i quartieri, pp. 116-123.

309. Tonino Bortoletto-Rino Lucatello, Venezia Ferrovia, Treviso 1986, pp. 29-33; Laura Facchinelli, Il ponte ferroviario in laguna, Spinea 1987, pp. 245-256.

310. Guido Zucconi, Venezia. Guida all'architettura, Venezia 1993, p. 130.

311. G. Mazzariol, Tre progetti, p. 270.

312. Ibid.

313. Sulla vicenda della palazzina Wright, cf. Luisa Querci della Rovere, Il Masieri Memorial di Frank Lloyd Wright, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 272-275.

314. G. Zucconi, Venezia, p. 131.

315. Antonio Salvadori, Venezia. Guida ai principali edifici. Storia dell'architettura e della forma urbana, Venezia 1995, p. 149.

316. P. Maretto, Venezia, pp. 120-121.

317. G. Zucconi, Venezia, p. 131.

318. Ennio Concina, Storia dell'architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano 1995, pp. 333-335.

319. A. Zorzi, Venezia scomparsa, p. 192.

320. P. Maretto, Venezia, pp. 113, 115.

321. G. Zucconi, Venezia, p. 133; Carlo Scarpa 1906-1978, a cura di Francesco Dal Co-Giuseppe Mazzariol, Milano 1984, p. 120.

322. E. Concina, Storia dell'architettura, p. 329.

323. Marco Mulazzani, I Padiglioni della Biennale, Venezia 1887-1988, Milano 1988, p. 14.

324. Ibid., pp. 12-14, 86-116. Cf. G. Zucconi, Venezia, p. 130; A. Salvadori, Venezia, pp. 100-102.

325. I lavori all'isola del Tronchetto condizionati dal prezzo dell'area, "Il Gazzettino", 4 febbraio 1959; L. Scano, Venezia, pp. 78-82.

326. Sull'isola del Tronchetto in primavera entreranno in funzione i primi servizi, "Il Gazzettino", 3 settembre 1958.

327. I lavori per il terzo molo al Tronchetto, ibid., 8 maggio 1956.

328. Consorzio per lo sviluppo delle comunicazioni aeree delle Venezie-Assemblea Generale degli Enti Consorziati, "Giornale Economico", 39, 1954, pp. 435-436.

329. Provveditorato al Porto di Venezia, Cinquant'anni di Provveditorato, pp. 55-57.

330. L'aeroporto internazionale di Tessera inaugurato dal Presidente del Consiglio, "Il Gazzettino", 2 novembre 1960.

331. L'aereo da turismo di due industriali vicentini ha inaugurato ieri mattina la pista del Marco Polo, ibid., 2 agosto 1960.

332. Cit. in Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni. Fine secolo a Venezia, Milano 1991, p. 49.

333. Giandomenico Romanelli, Presentazione, in Maestri del moderno. Opere degli anni Cinquanta delle collezioni di Ca' Pesaro, Venezia 1991, p. 7.

334. Organizzata dalla Maxwell la 'crociera degli illustri', "Il Gazzettino", 5 luglio 1955.

335. Saluto a Gronchi, ibid., 14 giugno 1958.

336. Sugli avvenimenti culturali degli anni Cinquanta cf. D. Marangon, Cronaca veneziana, pp. 170-175, e G. Bianchi, Cronologia, pp. 183-194. Sull'attività della Biennale negli anni Cinquanta cf. R. Bazzoni, 60 anni, pp. 146-154, 160, 163-168; P. Rizzi-E. Di Martino, Storia della Biennale, pp. 46-54, 82-106.

337. Rosa Barovier Mentasti, Il vetro alla Biennale, in Marino Barovier-Rosa Barovier Mentasti-Attilia Dorigato, Il vetro di Murano alle Biennali 1895-1972, Milano 1995, p. 12 (pp. 9-12).

338. Giuseppe Pugliese, 'Intolleranza 1960' di Nono spettacolo originale e complesso, "Il Gazzettino", 14 aprile 1961; cf. E. Brusa, La Fenice. Sperimentazione e spettacolo, pp. 95-107.

339. Piero Zanotto, Uno sguardo al XVIII Festival internazionale della prosa, "Giornale Economico", 1958, p. 719 (pp. 717-720).

340. F. Paulon, Cronaca dei dieci anni, pp. 30 ss.

341. Ibid., pp. 33-34.

342. Guido Gerosa, Ritratto di signora sulla laguna, "Schermi", 78, 1958, cit. in La Biennale-Comune di Venezia, Cinquant'anni di cinema a Venezia, pp. 310-313.

343. La folla della Tombola farà da cornice alla 'festa del cinema' in Palazzo Ducale, "Il Gazzettino", 30 agosto 1958.

344. Piero Zanotto, Il fascino di Venezia sullo schermo richiama in laguna migliaia di turisti, "Giornale Economico", 42, 1957, p. 511 (pp. 511-513).

345. Giuseppe Ghigi, Il sogno di 'Cinevillaggio'. Le attività produttive dal 1942 al 1956, in L'immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, p. 219 (pp. 203-229).

346. P. Zanotto, Il fascino di Venezia, p. 511.

347. Ibid., p. 513.

348. Cf. Piero Zanotto-Cesare Curt Schulte, Filmografia, in L'immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, pp. 92-111 (pp. 68-155).

349. Tre giornate popolari alla Mostra del Giorgione, "Gazzettino-Sera", 14-15 ottobre 1955.

350. Egle Renata Trincanato, 'Venezia viva' a palazzo Grassi, "Giornale Economico", 39, 1954, pp. 555-557; D. Marangon, Cronaca veneziana, p. 172.

351. Italo Zannier, Fotografia: una città d'avanguardia, "Nexus", 2, 1994, nr. 9, p. 10.

352. Incontro con l'Islam a San Giorgio, "Il Gazzettino", 20 settembre 1955.

353. Cf. Venezia 1951-1971.

354. S. Tramontin, Il card. Roncalli, pp. 230-231; Id., Dall'alba del nuovo secolo, p. 245.

355. Trionfale chiusura, "La Voce di San Marco", 9 aprile 1955; Una lettera del Patriarca sulla 'Grande Missione', "Il Gazzettino", 5 aprile 1955.

356. L'arrivo della Statua della Madonna di Fatima, "La Voce di San Marco", 18 luglio 1959; Imponente la manifestazione di fede per l'arrivo della Madonna di Fatima, "Il Gazzettino", 10 luglio 1959.

357. Polvere e voli di colombi per la Vlady in elicottero, "Il Gazzettino", 26 agosto 1959.

358. G.D., 'Cavalleria' e 'Pagliacci' ieri sera in Piazza S. Marco, ibid., 29 luglio 1957.

359. DGS, Turismo veneziano, "La Voce di San Marco", 3 agosto 1957.

360. Alberto Bertolini, 'Titus Andronicus' al Teatro La Fenice, "Il Gazzettino", 29 maggio 1957.

361. Congedo dei 'Commedianti', ibid., 7 luglio 1957.

362. C. Alberti, L'avventura, pp. 41-44, 157.

363. Festival della canzone e spettatori, "Il Gazzettino", 21 luglio 1955.

364. Canarini e uccelli mosca alla Mostra ornitologica, ibid., 21 novembre 1954.

365. Maghi a congresso sabato e domenica, ibid., 10 agosto 1955.

366. Contrastato dal moto ondoso lo spettacolo dello Sci nautico, ibid., 10 settembre 1956.

367. La 'Settimana dell'Uva', ibid., 23 settembre 1955.

368. Al lavoro per il circo, ibid., 3 dicembre 1958.

369. Risposta alle critiche e ai suggerimenti in merito alle manifestazioni turistiche, ibid., 27 ottobre 1957.

370. Un 'palio' aggiunto alla Regata storica, ibid., 11 luglio 1955.

371. La regata storica a Venezia, ibid., 7 settembre 1959.

372. San Pio X a Venezia. Celebrazioni e documenti. Domenica 12 aprile-domenica 10 maggio 1959, Venezia 1959; Vescovi, sacerdoti e fedeli delle terre venete in San Marco per un unanime e spontaneo omaggio alla santità di Pio X, "La Voce di San Marco", 25 aprile 1959; Moltitudine di popolo in devoto omaggio all'Urna di San Pio X, ibid., 2 maggio 1959; Le manifestazioni conclusive in onore di S. Pio X a Venezia, ibid., 16 maggio 1959.

373. Vincenzo Regini, La testimonianza del popolo, "La Voce di San Marco", 16 maggio 1959.

374. Spettacolo imponente la sfilata delle cinquantamila Penne nere, "Il Gazzettino", 21 marzo 1960.

375. Lettere. Un alpino, ibid., 23 marzo 1960.

376. Lampade a sospensione in primo esperimento, ibid., 30 dicembre 1954.

377. Pietro Zampetti, [Introduzione], in I Blu, Venezia 1984 ciò che rimane, Venezia 1984, pp. n.n.

378. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 26.10.1956-20.12.1956, resoconto stenografico della seduta del 9 novembre 1956.

379. P. Zampetti, [Introduzione].

380. Maurizio Reberschak, Venezia, dopoguerra: tra storia e contemporaneità, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Id., Padova 1993, p. 12 (pp. 11-23).

381. Fatti e avvenimenti, "Il Gazzettino", 1° gennaio 1957.

382. Sulla questione dei plutei cf. Antonio Niero, La questione dei plutei della basilica di San Marco, in Angelo Giuseppe Roncalli dal Patriarcato di Venezia alla cattedra di San Pietro, a cura di Vittore Branca-Stefano Rosso-Mazzinghi, Firenze 1984, pp. 105-130.

383. Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Anno 1955. Discussioni, XX, Roma 1955, seduta del 21 settembre 1955, pp. CXLIII-CXLIV.

384. Il pensiero del Patriarca di Venezia circa i plutei della Iconòstasi di San Marco, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 46, 1955, pp. 211-215.

385. Documentazioni. L'iconòstasi di San Marco. Note circa i plutei, ibid., p. 210.

386. A. Niero, La questione dei plutei, p. 121.

387. Il primo Pontificale del Cardinale Patriarca, "La Voce di San Marco", 10 gennaio 1959.

388. Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, pp. 243-244.

389. Il problema del 'Goldoni', "Il Gazzettino", 13 ottobre 1951.

390. Giorgio Gatti Badoer, Le richieste di esproprio e tutela per la salvezza del Teatro Goldoni, ibid., 2 febbraio 1954.

391. Alberto Bertolini, Storia antica e recente di un famoso Teatro, "Ateneo Veneto", 148, 1957, nr. 1/1, p. 8 (pp. 7-11).

392. Id., È stato l'anno di Goldoni (ma non tutti se ne sono accorti), "Il Gazzettino", 2 gennaio 1958.

393. Il progetto per il restauro del Goldoni approvato dal Commissario al Comune, ibid., 28 settembre 1960.

394. Oltre settemila i nuclei familiari residenti in abitazioni malsane, ibid., 15 maggio 1955.

395. Undicimila famiglie assistite dall'E.C.A., ibid., 13 gennaio 1956.

396. Riunione di coordinamento per il 'Soccorso invernale', ibid., 1° dicembre 1956.

397. Nell'imminenza del Natale. Tre pensieri gravi: povertà, disoccupazione, licenziamenti, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 46, 1955, pp. 395-397.

398. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1953, b. 18, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 30 agosto 1952.

399. Concreta affermazione della Polizia Turistica, "Il Gazzettino", 21 giugno 1955.

400. Turismo e intromettitori abusivi, ibid., 30 maggio 1960; Sarà l'ultima 'stagione' per gli intromettitori abusivi?, ibid., 31 maggio 1960.

401. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1947-1948, b. 20, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 31 agosto 1948.

402. Ibid., 1953, b. 18, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 29 giugno 1952.

403. Ibid., Gabinetto, 1953-1956, b. 368, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 4 maggio 1956.

404. Un incontro e una sorpresa, "Il Gazzettino", 5 settembre 1960.

405. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, 1957-1960, b. 307, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 3 luglio 1958.

406. Ibid., Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1949, b. 9, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno sulla situazione generale della provincia, 28 novembre 1949.

407. Ibid., 1951, b. 15, relazione mensile del prefetto di Venezia al Ministero dell'Interno, 29 gennaio 1951.

408. Nessun giorno senza ladri, "Il Gazzettino", 22 aprile 1961.

409. Comune di Venezia-Ufficio Statistica, Annuario statistico 1961, p. 80, tav. 130.

410. Comune di Venezia-Ufficio Municipale di Statistica, Annuario statistico 1951, Venezia s.a., p. 73, tav. 138.

411. Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino 1989, p. 349; Paolo Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Storia d'Italia, V, La Repubblica. 1943-1963, a cura di Giovanni Sabbatucci-Vittorio Vidotto, Roma-Bari 1997, p. 224 (pp. 127-251).

412. S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 260-261.

413. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 210.

414. Dopo il voltafaccia socialista si va verso una Giunta democratica, "Il Gazzettino", 11 dicembre 1960.

415. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 12.12.1960-27.2.1961, resoconto stenografico della seduta del 21 dicembre 1960.

416. L. Scano, Venezia, p. 105.

417. Piero Bergamo, La gestione politico-amministrativa a Mestre dai primi del '900 ad oggi, in Centro Studi Storici di Mestre-Gruppo di Ricerca Storica, Storia di Mestre. Atti della Scuola Seminario, a cura di Roberto Stevanato, Venezia 1999, p. 218 (pp. 215-220).

418. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali del Consiglio comunale, Registro 29.5.1961-18.9.1961, resoconto stenografico della seduta del 17 luglio 1961.

419. La Giunta, "Il Gazzettino", 19 luglio 1961.

420. E. Brunetta, Figure e momenti, p. 210.

421. Serie storica della popolazione residente.

422. Elaborazione C.E.N.S.I.S. su dati dell'Ufficio statistica del Comune di Venezia.

423. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 89-106.

424. Unesco, Rapporto su Venezia, Milano 1969, p. 79.

425. R. Desidery, Relazione sugli aspetti, p. 63.

426. Giuseppe Longo, Il dramma di Venezia, "Il Gazzettino", 9 aprile 1961.

427. Piano regolatore e risanamento, ibid., 30 ottobre 1958.

428. Cenerentola senza speranza, ibid., 11 febbraio 1961.

429. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 74-75.

430. Previsto nel Piano Regolatore un organico sviluppo di Mestre, "Il Gazzettino", 12 dicembre 1958.

431. Il Piano regolatore generale nei suoi aspetti amministrativi, ibid., 11 maggio 1960.

432. Giovanni Favaretto Fisca, Saluto del sindaco di Venezia, in Comune di Venezia-Fondazione "Giorgio Cini", Atti del convegno internazionale 'Il problema di Venezia', Venezia 1964, p. 3 (pp. 3-4).

433. Angelo Spanio, Saluto del presidente della Fondazione G. Cini, ibid., p. 6 (pp. 5-8).

434. Cf. C. Chinello, Storia di uno sviluppo, pp. 76-78; L. Scano, Venezia, pp. 115, 223-225; M. Reberschak, L'economia, p. 279; Id., L'industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 370 (pp. 369-404).

435. Giovanni Astengo, Il risanamento conservativo del centro storico e delle isole, in Comune di Venezia-Fondazione "Giorgio Cini", Atti del convegno internazionale 'Il problema di Venezia', Venezia 1964, pp. 72-77 (pp. 60-77). Cf. B. Dolcetta, Venezia dal 1959, pp. 15-17; L. Scano, Venezia, p. 224.

436. V. Cini, Intervento, pp. 178-183.

437. Ibid., p. 184.

438. F. Benvenuti, Aspetti legislativi e amministrativi, p. 164; L. Scano, Venezia, pp. 224-225.

439. Giovanni Favaretto Fisca, Discorso conclusivo del sindaco di Venezia, in Comune di Venezia-Fondazione "Giorgio Cini", Atti del convegno internazionale 'Il problema di Venezia', Venezia 1964, p. 479 (pp. 476-480).

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