DAL POZZO, Amedeo, marchese di Voghera

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)

DAL POZZO, Amedeo, marchese di Voghera

Enrico Stumpo

Nacque a Torino il 29 apr. 1579 dal conte Ludovico e Lucrezia Vaiperga di Masino. Unico figlio maschio, rimasto orfano di padre all'età di tre anni, fu avviato giovanissimo alla carriera delle armi e al servizio della corte ducale.

Il padre Ludovico aveva da poco ottenuto la nomina a presidente del Senato di Piemonte, ufficio già ricoperto dallo zio Cassiano Dal Pozzo senior, in riconoscimento dei servizi prestati dalla famiglia durante l'occupazione francese. Ludovico, infatti, e soprattutto il padre Francesco e il fratello di lui Cassiano si erano assai distinti, l'uno nel servizio militare, l'altro in quello civile, sia presso Carlo II, sia presso Emanuele Filiberto. Già consigliere e referendario di Stato nel 1573 Ludovico, pur non avendo particolari titoli o capacità, era riuscito ad ottenere la "sopravvivenza" dell'ufficio di primo presidente del Senato di Piemonte, vivendo ancora lo zio Cassiano, nel 1577. Tuttavia egli stesso, colpito da grave malattia, morì nel 1582, all'età di 41 anni.

Allevato dalla madre il giovane D., uscito di minore età, ereditò i feudi della famiglia paterna e il titolo comitale. Nel 1593 fu investito di Ponderano e Reano, nel 1601 di Cistema, nel 1603 di Boriano e Beatino. Nel 1611 acquistò dagli Accvedo il marchesato di Voghera, dal quale gli venne il titolo di marchese di Voghera con cui era noto a corte. Il 19 sett. 1605 era stato nominato capitano di Santhià, come il nonno Francesco. Durante la guerra del 1615-16 contro la Spagna il D. partecipò a tutte le campagne come colonnello delle milizie oltre Dora. Tuttavia alla carriera militare il D. preferì quella di corte. Dopo la guerra fu infatti maggiordomo maggiore del principe di Piemonte Vittorio Amedeo. Già cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro e gran conservatore dello stesso Ordine, durante gli ultimi anni di Carlo Emanuele I fu governatore della casa delle infanti Maria e Caterina. Nel 1629 fu inviato dal duca a Modena come ambasciatore di complimento e in seguito, nella stessa veste anche in Toscana. Nel 1630 le sue lettere al duca, da Torino prima e dalla provincia poi, sono nella loro semplicità, lo specchio della terribile situazione della guerra che travagliava il Piemonte quell'anno, della carestia nella provincia, del dilagare della peste.

Negli anni seguenti il D. rimase soprattutto a corte, nominato dal nuovo duca, Vittorio Amedeo, gran maestro della casa. Tuttavia dopo la morte del duca, nel gennaio 1638 la reggente Cristina di Francia gli chiese di abbandonare questa carica, pur comunicandogli, nella stessa lettera, la conferma a consigliere di Stato e la concessione del collare della SS. Annunziata. Nello stesso mese, il D. ricevette l'incarico di recarsi a Roma quale ambasciatore straordinario della duchessa presso Urbano VIII.

Tale missione fu l'unica importante ambasceria del D. nella sua non certo eccezionale carriera, ma indubbiamente il significato di essa non è del tutto chiarito. Lo scopo principale della missione del D. era infatti, come risulta chiaramente dalle istruzioni da lui ricevute il 3 giugno 1638, di grande rilievo. La duchessa Cristina, reggente dei ducato per il figlio primogenito Francesco Giacinto, era stata costretta a mantenere l'alleanza con la Francia di Richelieu e di Luigi XIII, prima voluta e poi subita da Vittorio Amedeo I. Tale alleanza tuttavia e lo stesso suo mantenimento da parte della duchessa, sorella di Luigi XIII, avevano spaventato tutti gli Stati italiani e la stessa S. Sede. Primo scopo del D. era quindi quello di spiegare e motivare a Urbano VIII i motivi che costringevano la duchessa a continuare nell'alleanza francese. Tuttavia egli avrebbe dovuto chiedere al pontefice di intervenire al più presto affinché fosse possibile "ricomporre in una buona e vera unione le quattro corde più principali d'essa, cioè S. Beatitudine, le Repubbliche di Venezia e di Genova, e Noi, bastanti di ritorno al presente ad impedire all'avvenire ogni disturbatione". In una parola l'eterno ricorrente sogno di un'unione, alleanza o federazione dei principi italiani, ripresa pochi anni dopo da un Girolamo Muzio, questa volta limitata all'Italia settentrionale e velatamente in funzione antispagnola.

Quale credito occorre tuttavia dare a tale tentativo della duchessa di Savoia? Il Vayra, nel suo lavoro sul D. e sulla sua missione a Roma, sembra attribuirgli largo credito e grande rilievo. In realtà appare assai fuor di luogo un simile tentativo in quegli anni, per vari, evidenti motivi. Innanzi tutto la stessa scelta del D., uomo di corte, con scarsa esperienza diplomatica, nessuna vera carriera alle spalle pur avendo quasi 60 anni, sconosciuto a Roma e nelle altre corti italiane. Sembra inoltre impossibile che nella pur lontana corte di Torino Cristina di Francia credesse possibile proporre una alleanza dei principi italiani in funzione non solamente antispagnola, ma anche antifrancese, proprio ad un pontefice quale Urbano VIII Barberini, di una famiglia tanto legata alla Francia. Né le pessime relazioni di quegli anni con la Repubblica di Genova e con quella di Venezia potevano essere risolte da una simile proposta. Genova restava sempre legata alla Spagna, né i tentativi di Carlo Emanuele I contro di essa potevano essere dimenticati facilmente. Venezia, pur vantando tradizionali legami con casa Savoia, era ancora profondamente disgustata per le pretese di Vittorio Amedeo I al titolo regio di Cipro e per le polemiche sorte fra i due Stati in quegli stessi anni. Tutto ciò era ben noto a Torino.

Il vero scopo dell'iniziativa della duchessa reggente era quindi quello, assai più limitato, di prendere tempo, di guadagnare un sostegno alla sua causa di reggente, piuttosto che a quella del Piemonte, prevedendo l'ormai imminente guerra civile da parte dei cognati Maurizio e Tommaso, di Savoia. E al riguardo una prima e definitiva conferma è data dalle istruzioni inviate al D. a Roma. Fallito sin dall'inizio infatti il tentativo di ottenere una qualsiasi concessione dal pontefice, che si limitò a rinfacciare all'inviato sabaudo la politica espansionistica di Carlo Emanuele I ("non potendosi negare che dei danni che patisce cotesta Real Casa non ne siano stati loro stessi fabbricatori"), l'unico vero scopo del D. a Roma fu manifesto: impedire ad ogni costo la partenza da Roma del cognato della duchessa, il cardinal Maurizio di Savoia, per raggiungere il Piemonte o la Lombardia spagnola. Proprio in quei giorni infatti la morte del primogenito della duchessa, Francesco Giacinto, apriva maggiori possibilità di successione ai principi Tommaso e Maurizio. Quest'ultimo decise così di abbandonare Roma e raggiungere il fratello, generale nelle armate del re di Spagna in Lombardia.

E nei suoi tentativi il D. non esitò a ricorrere al pontefice e al cardinal nepote Francesco Barberini, prima per tentare di impedire la partenza del cardinal Maurizio, poi per richiedeme il ritorno. Tuttavia l'unico risultato da lui ottenuto fu quello di venire a conoscenza che il giorno precedente alla partenza del cardinale lo stesso Francesco Barberini lo aveva ricevuto per un lungo colloquio di due ore, approvandone l'iniziativa.

Nei mesi seguenti l'evolversi della situazione in Piemonte rese del tutto superflua la presenza del D. a Roma. Torino era stata ormai occupata dalle truppe spagnole guidate dal principe Tommaso e la stessa duchessa era assediata nella cittadella. Congedatosi quindi dal papa e dalla Curia il D., impossibilitato persino a tornare nel Piemonte occupato dagli Spagnoli, si ritirò in una sua villa a Pietrafitta, presso Siena. Qui si fermò per circa tre anni, continuando a mantenere buoni rapporti con la duchessa. tanto che al suo ritorno a Torino alla fine del 1642 fu accolto nuovamente a corte. In ricompensa dei servizi svolti a Roma e delle grandi spese sostenute durante l'ambasceria, la duchessa gli concedette il marchesato di Garessio, confiscato al marchese Francesco Spinola, e tutti gli arretrati dei suoi stipendi come ambasciatore.

Nei primi mesi del 1644 inoltre venne incaricato della riforma delle milizie ducali, ma nel settembre dello stesso anno morì a Torino.

Aveva sposato in prime nozze Giulia, figlia del gran cancelliere Domenico Belli e nipote del più celebre Pierino Belli, ultima della sua famiglia, che gli portò i feudi paterni e il prezioso archivio di famiglia. Rimasto vedovo, aveva sposato in seconde nozze Maria Valperga.

Il figlio Francesco, capitano delle corazze e gentiluomo di camera, ereditò i titoli e i feudi paterni.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Lettere ministri, Roma 1638-1639, n. 52; Ibid., Lettere particolari, P, m. 60, lettere dal 1625 al 1644; Torino, Biblioteca nazionale, A. Manno, Il patriziato subalpino (dattiloscritto), III, sub voce; Archivio Dal Pozzo della Cistema (ora depositato presso l'Archivio di Stato di Vercelli), Storia della famiglia, mm. 14-15, 1579-1644; P. Vayra, L'ambasceria a Roma di A. D. marchese di Voghera, negli anni 1638-39. Episodio della Reggenza di Cristina duchessa di Savoia, estratto dalla Riv. contemp. naz. italiana, XV (1867), pp. 58-108; G. Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia, Torino 1879, II, pp. 360-362.

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