Dai Romani ai Longobardi

Storia di Venezia (1992)

Dai Romani ai Longobardi: vie di comunicazione e paesaggio agrario

Luciano Bosio

Il paese dei Veneti al momento della penetrazione romana nella Cisalpina (III secolo a.C.)

La posizione, nel cuore della Cisalpina, delle colonie latine di Piacenza e di Cremona, dedotte nel 218 a.C. (1) sull'una e sull'altra sponda del Po e in diretto collegamento, attraverso il corso di questo fiume, con il mare Adriatico, mette in chiara evidenza, assieme al disegno strategico di Roma volto alla stabile presa di possesso dei territori finora occupati dai Galli, anche una profonda conoscenza del volto ambientale della grande pianura padana e delle diverse popolazioni che vi trovavano stanza, fra le quali quella dei Veneti.

La stessa notizia di Polibio (2), che parla di una "alleanza" fra i Romani e i Veneti a causa del minaccioso e crescente pericolo gallico, che già da tempo era motivo di viva preoccupazione per questi ultimi (3), viene a suggerire l'esistenza di precedenti contatti e quindi di una diretta conoscenza da parte di Roma del paese compreso fra la frangia costiera dell'alto Adriatico e le Alpi centro-orientali.

In questi luoghi nel tempo si era andata sviluppando una distinta "facies" culturale, che aveva trovato soprattutto in Este (4) e in Padova (5) i suoi maggiori punti di riferimento e si era diffusa per largo spazio dal litorale adriatico fino dentro le valli alpine.

Aperti ai traffici marittimi, gli scali portuali di Altino (6), sulla gronda interna della attuale laguna di Venezia, e soprattutto di Adria (7), su un ramo del delta del Po, mettevano in diretto contatto le rotte e i commerci dell'Adriatico con i centri dell'interno attraverso le antiche piste, che si accompagnavano ai maggiori e minori rami fluviali. Nella vasta pianura infatti i numerosi corsi d'acqua, aperti per lunghi tratti ad una sicura e tranquilla navigazione, permettevano un facile e costante scambio di intraprese e di uomini fra i diversi nuclei abitati, che avevano trovato sulle loro rive, nei luoghi più riparati e favorevoli all'attracco, la ragione del loro nascere e del loro fiorire. Così Este su un ramo dell'"Atesis" (8), l'odierno Adige, dal quale con ogni probabilità derivò l'antico nome di "Ateste" (9); così Padova entro una grande ansa formata dal Brenta (10), il "Meduacus" dei Romani. E ancora: Vicenza (11) sul Bacchiglione, Treviso (12) sul Sile, Oderzo (13) su un ramo del Piave. Questi centri, a loro volta, trovavano alla foce dei loro fiumi i loro punti di contatto e di incontro con la vita delle lagune e con le rotte del mare.

Invero, guardando a questo stretto rapporto fra i centri abitati e i corsi d'acqua si può ben definire il Veneto il paese dei fiumi; e tale peculiare aspetto è messo in evidenza dal geografo Strabone (14) il quale, dopo aver detto che la regione dei Veneti è ricca di corsi d'acqua e di paludi, scrive che "delle città, alcune sono come isole, altre sono toccate dall'acqua, e quelle che si trovano al di là delle paludi nella terra ferma, hanno collegamenti fluviali degni di ammirazione". Un tale volto distintivo della terra veneta, che si prolunga nel tempo, ritorna anche più tardi nelle parole di Servio nel suo commento alle Georgiche virgiliane (15), il quale ricorda che "gran parte del Veneto, ricco di fiumi, svolge ogni traffico commerciale per mezzo di imbarcazioni".

Lungo il corso dei fiumi e attraverso la grande pianura si snodano poi le antiche piste, che il tempo e il cammino degli uomini avevano segnato e collaudato e che si erano andate via via moltiplicando con il diffondersi degli insediamenti.

In difetto di stabili e durature strutture stradali, oggi noi non siamo in grado di ricostruirne in modo preciso gli itinerari, che solamente possono esserci suggeriti dalla presenza e dalla frequenza dei dati archeologici e dei nuclei abitati.

È naturale che, fra le tante, dovessero avere un particolare rilievo le strade che univano i più importanti insediamenti. Così da Este per le odierne Monselice e Montegrotto Terme, il centro sacrale delle genti venete (16), si raggiungeva Padova, a sua volta collegata con gli scali sull'Adriatico di Adria e di Altino. Una pista, che si accompagnava al corso del Bacchiglione, si portava da Padova a Vicenza mentre altre strade dovevano collegare questi luoghi alle paleovenete Asolo (17), Treviso, Oderzo.

Sono anche dell'avviso che in tali casi, dato l'intensificarsi dei traffici lungo questi tracciati, non sia mancato un qualche intervento per renderli più agibili e meno pericolosi nei punti di più difficile e obbligato cammino, così pure nei luoghi soggetti all'inclemenza del tempo.

Se poi pensiamo alle successive, grandi vie che Roma traccia in questo territorio ed alle città che esse attraversavano, possiamo notare che i loro itinerari vengono spesso a riprendere la direzione di quelle piste, che precedentemente mettevano in comunicazione i maggiori centri paleoveneti e che, in tal modo, si presentano non solo come il sistema portante dell'antico Veneto ma anche della stessa futura "Venetia" romana.

Accanto ai percorsi che attraversavano la terra dei Veneti, sono poi da ricordare le grandi direttrici della diffusione commerciale di questo popolo, in particolare quelle verso i paesi delle Alpi centro-orientali. Fra queste si possono evidenziare due importanti itinerari: a settentrione la "via" del Piave, ad oriente la "via" verso le terre del medio Isonzo.

La prima, documentata dai ritrovamenti di Montebelluna, di Mel, di Cavenzano, di Lagole (18), per ricordare solamente i centri di maggiore interesse archeologico, si spingeva oltre il crinale alpino, nella valle della Gail, come provano le testimonianze, riferibili a questa "facies" culturale, venute alla luce nelle località di Würmlach e di Gurina (19).

La seconda si svolgeva ad oriente oltre la media e la bassa pianura friulana sino alle Alpi Giulie, attestata dalle presenze archeologiche di Idria della Baccia (20) e soprattutto di S. Lucia di Tolmino (21), nella media valle dell'Isonzo.

Oltre a queste due grandi strade di penetrazione nel mondo esterno all'area propriamente veneta, altre piste dovevano aprirsi a raggiera verso mete più lontane: da Este verso i passi dell'Appennino centro-emiliano; da Vicenza verso le terre abitate dai vicini Galli Cenomani e la valle dell'Adige; da Padova e da Asolo fino ai territori alpini delle popolazioni retiche.

In tal modo una serie di piste poteva trovare nei centri della "Venetia mediterranea" i suoi punti di scambio e di diffusione e nei vicini approdi sugli spazi lagunari e sull'Adriatico i luoghi del suo incontro con le rotte e i prodotti d'oltremare.

Nel contempo questi percorsi permettevano alle genti venete un continuo dialogo con le genti confinanti, talora acceso fino allo scontro se dobbiamo credere a Livio (22) quando parla di un persistente stato di allerta di fronte ai vicini Galli, ma più frequentemente di reciproca intesa, determinata da comuni interessi o da favorevoli intraprese.

È logico perciò pensare che anche i Romani, una volta affacciatisi oltre gli Appennini nella grande pianura, abbiano ben presto avuto crescenti rapporti con i maggiori centri veneti, soprattutto a causa delle diffuse presenze delle popolazioni galliche, ostili ai primi e motivo di preoccupazione per i secondi. Questa ragione in particolare, più che allettanti interessi commerciali, deve aver allora portato ad una intesa, maturatasi nel tempo grazie a sempre più frequenti incontri con il mondo veneto, compreso della statura del nuovo interlocutore e rassicurato da questo del rispetto dei suoi personali interessi.

Pertanto prevalenti ragioni politiche e militari più che particolari motivi economici dovettero mettere in contatto i Romani con i Veneti, con l'effettiva presenza dei primi nelle maggiori comunità dei secondi e quindi con una diretta conoscenza non solo di queste ma anche delle piste e dei luoghi che le allacciavano fra loro e al resto della grande pianura. Cosicché, quando durante il II secolo a.C. Roma con le sue grandi strade entrerà di fatto nelle terre dei Veneti, saranno proprio questi antichi e ben noti percorsi ad indicarne le direttrici e a darne valenza storica.

Con ogni probabilità un precedente di queste scelte itinerarie da parte dei Romani si può ritrovare già alla fine del III secolo, nel 220 a.C., in occasione dell'impresa contro gli Istri (23) e nel cammino dei consoli verso le Alpi orientali. "In tale caso [così scrive il Sartori (24)> la via più naturale dovette essere un itinerario lungo le piste che fin dall'età preistorica attraversavano la pianura veneta". E più oltre, dopo aver parlato di un evidente accordo in questo senso con le comunità dei luoghi attraversati, in particolare con i Patavini, questo studioso aggiunge: "È ingiustificato supporre che sia stata quella la prima occasione in cui i Patavini videro transitare truppe romane per il loro territorio?".

La presenza di Roma nel "Venetorum angulus" (II secolo a.C.)

Nel 186 a.C. un contingente di 12.000 "Galli Transalpini transgressi in Venetiam" aveva occupato buona parte della pianura centrale dell'attuale Friuli orientale (25), dando anche inizio alla costruzione di uno stabile insediamento, "oppidum" lo chiama Livio (26), a XII miglia (18 chilometri) dal luogo ove poi verrà fondata Aquileia (27).

Questa regione già da tempo aveva conosciuto una diffusione della "facies" paleoveneta, alla quale era subentrata una crescente presenza dei Gallo Carni, discesi dalle loro sedi alpine nel vasto piano (28), che però si era limitata a modesti e sparsi insediamenti, per lo più sui rilievi collinari ed allo sbocco delle maggiori valli, non tali da sollevare particolari timori nei vicini Veneti. Ma ora l'organizzata presa di possesso di questo territorio da parte dei numerosi nuovi venuti veniva a creare un motivo di viva preoccupazione, anche per le possibili, future implicazioni di ordine politico e militare, non solamente per le genti venete ma pure per i Romani, presenti nella Cisalpina e già intervenuti nel 220 a.C. in questi luoghi contro la minaccia degli Istri.

Fu allora deciso dal Senato di Roma di intervenire contro i Galli discesi dalle Alpi e il compito di allontanarli dalla regione e di costringerli a ritornare nelle loro primitive sedi fu affidato nel 183 a.C. al console Marco Quinto Marcello, in quel momento impegnato con il collega Quinto Fabio Labeone contro i turbolenti Liguri (29).

Il console, per portarsi dalla Liguria nella Cisalpina orientale, dovette logicamente scegliere la via più rapida e più sicura, quella per le colonie di Piacenza e Cremona e il territorio dei Veneti. Non sappiamo quale o quali itinerari abbia seguito Marcello una volta giunto nel "Venetorum angulus", ma possiamo ben pensare ad un suo cammino lungo precedenti piste, già collaudate e ben note, e quindi ad un esercito di Roma che nel suo procedere dovette di necessità, attraversando questa regione, incontrare anche alcuni dei centri paleoveneti.

Due anni dopo, costretti a ritornare oltre le Alpi i "Galli Transalpini", veniva dedotta nel 181 a.C. nella "Venetia" orientale la colonia latina di Aquileia (30).

"A tremila fanti furono concessi 50 iugeri [ha. 12,5> a testa, ai centurioni 100 iugeri [ha. 25>, ai cavalieri 140 iugeri [ha. 35> " scrive Livio (31) parlando delle assegnazioni agrarie date ai nuovi proprietari, che andavano a prendere possesso delle loro terre nell'agro centuriato di Aquileia. Si trattava di un vero e proprio contingente, militarmente organizzato, che prendeva stabile residenza nelle campagne intorno ad Aquileia con le famiglie e tutte le cose necessarie per iniziare una nuova esistenza.

Così, anche in questo caso il paese dei Veneti dovette aprirsi alla lunga schiera dei coloni aquileiesi che, con tutti i loro beni, dalle loro sedi dell'Italia centrale salivano verso i luoghi del Friuli orientale.

Quale strada seguirono costoro per giungere alla nuova colonia?

Provenienti dal centro Italia, è presumibile che essi abbiano seguito all'inizio il percorso della via "Flaminia", diretta oltre il crinale appenninico al mare Adriatico e a Rimini. Da qui essi potevano raggiungere lungo la via "Aemilia", costruita nel 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido (32), la colonia latina di Bologna, dedotta nel 189 a.C. (33), da dove avevano la possibilità di seguire una pista, che allora doveva collegare l'area appenninica emiliana con il paese dei Veneti. Come diremo fra poco, l'esistenza di un tale percorso attraverso la pianura padana trova la sua conferma nella via che il console Emilio Lepido nel 175 a.C. stende da Bologna ad Aquileia (34), riprendendo la direttrice di una precedente pista.

Infine, una volta giunti in terra veneta, a questi coloni si apriva per Altino il cammino verso il Friuli orientale.

Se ora poniamo mente alla scelta del luogo ove trova spazio l'impianto urbano di Aquileia, il pensiero ritorna a quel già ricordato itinerario diretto agli insediamenti paleoveneti della valle del medio Isonzo. Infatti, dopo aver raggiunto i luoghi della futura Concordia, dove sono venute alla luce le testimonianze di un nucleo abitato paleoveneto (35), procedendo verso oriente questa pista doveva raggiungere l'Isonzo, per continuare poi lungo questo corso d'acqua fino ai nuclei abitati di S. Lucia di Tolmino e di Idria della Baccia.

Sappiamo che Aquileia si affacciava sul Natisone (36), il fiume che allora aveva una sua foce propria (37) ed era alimentato, appena a settentrione della nuova colonia, da un ramo dell'Isonzo (38), che lo rendeva navigabile nel suo ultimo tratto, permettendo così alla città di aprirsi al mare con un suo scalo fluviale.

Pur in mancanza di concrete testimonianze, sono dell'avviso che la pista paleoveneta, proveniente da occidente, abbia incontrato proprio in questo punto l'Isonzo, per risalirne poi il corso fino all'imboccatura della sua valle ed oltre, e che quindi la scelta dell'insediamento aquileiese sia derivata da una precisa conoscenza da parte dei Romani di questo luogo, su un ben noto itinerario, alla confluenza di due corsi d'acqua e in diretto contatto con l'Adriatico attraverso un breve tratto fluviale navigabile. E non mi meraviglierei se anche qui dovessero apparire i segni di una presenza paleoveneta, forse presso il punto d'incontro delle acque del Natisone con quelle dell'Isonzo, appena a settentrione di Aquileia romana. In ciò confortato da quello che scrive il Prosdocimi (39) a proposito del nome dato dai Romani alla nuova colonia, e cioè che "per deduzione probabilistica Aquileia, in quanto toponimo non gallico e non latino, dovrebbe essere venetico".

Particolarmente interessante a questo riguardo è quanto lo stesso studioso aggiunge alla sua esegesi toponomastica, là dove dice che se Aquileia "è un toponimo venetico, doveva essere dato da Veneti in loco, perché un nome che arrivi a toponimo esige che vi siano insediamenti locali, parlanti la lingua da cui è tratto il toponimo; al massimo si può pensare - ma siamo al limite - ad un nome dato da persone frequentanti la zona ma non insediate; tuttavia la frequentazione anche senza insediamento indica collegamenti quindi, come minimo, di transito". Nello stesso suo lavoro il Prosdocimi ricorda, come autorevole conferma all'ipotesi di un insediamento venetico nell'area aquileiese, un'iscrizione inedita in caratteri paleoveneti, venuta poco prima alla luce nel territorio prossimo ad Aquileia e segnalata dal dott. Maurizio Buora del Museo Civico di Udine.

E anche logico che la nuova colonia orientale abbia subito avvertito la necessità di uno stabile collegamento con il resto della Cisalpina e soprattutto con Roma. Infatti, pochi anni dopo la sua fondazione, come abbiamo già ricordato (40), il console Marco Emilio Lepido nel 175 a.C., durante il suo secondo consolato, stendeva una via da Bologna ad Aquileia per Este e Padova. Nello stesso anno Lepido veniva inviato dal Senato di Roma a spegnere i tumulti scoppiati a Padova (41), ed è quindi da ritenere che il console per giungere in questo centro abbia seguito, attraverso la valle del Po, lo stesso itinerario percorso sei anni prima dai coloni aquileiesi, trasformandolo poi in una via romana fino ad Aquileia.

Questa strada, raggiunta la terra dei Veneti, dopo Este e Padova si portava ad Altino, sulla gronda interna della attuale laguna di Venezia, per giungere quindi, aggirando le zone idrograficamente difficili del litorale dell'alto Adriatico, nei luoghi della futura " Iulia Concordia", dove, come si è detto, la presenza di un precedente insediamento suggerisce l'esistenza di una pista in diretto collegamento con gli altri centri paleoveneti. Da qui poi si arrivava ad Aquileia (42).

Ancora a proposito della via di Lepido attraverso il paese dei Veneti, "de iure" in quel momento indipendenti, non è chi non veda, oltre al suo valore itinerario, la sua valenza militare e politica in quanto doveva essere sempre aperta e quindi controllata lungo tutto il suo percorso dalle forze romane, che in tal modo venivano a porre una pesante ipoteca sulla effettiva libertà di questa regione. Ipoteca che è resa ancora più evidente dal seguente tracciato della via "Postumia", condotta nel 148 a.C. da Genova ad Aquileia per opera del console Spurio Postumio Albino (43).

Il percorso di questa via, che veniva ad attraversare gran parte della pianura padana, denuncia chiaramente il suo carattere prettamente militare quale vera e propria strada, come giustamente ha indicato il Fraccaro (44), di arroccamento. Infatti da Genova la "Postumia", per il paese che era stato dei Liguri e dei Galli, si portava a Piacenza e a Cremona, le due grandi colonie latine della Cisalpina, e quindi a Verona ed all'imbocco della valle dell'Adige, che in tal modo attraverso questo percorso poteva essere costantemente controllata dalle forze di Roma. Da qui, volgendosi ad oriente, raggiungeva Vicenza, per continuare poi, lungo l'alta pianura veneta e con un lungo e deciso rettifilo di ben 65 chilometri, ancora oggi chiaramente rilevabile sul terreno fra il Brenta e il Piave, fino a Oderzo. Infine da questo centro, dopo un ulteriore cammino di una trentina di chilometri, andava ad inserirsi nella precedente via di Lepido, accompagnandosi alla quale perveniva ad Aquileia (45).

L'unione di queste due grandi strade avveniva all'altezza del luogo ove più tardi verrà fondata la colonia di "Iulia Concordia" e dove i resti di un precedente nucleo abitato possono far pensare anche all'esistenza di due precedenti piste, provenienti rispettivamente dalle paleovenete Altino ed Oderzo, che qui trovavano il loro punto d'incontro.

Sono anche dell'avviso che in questo stesso luogo, distante 45 chilometri da Altino e da Aquileia e 30 da Oderzo e perciò di rilevante interesse logistico, abbia trovato ben presto spazio una "mansio", una stazione di sosta per i traffici da e per la colonia orientale.

Se poi guardiamo all'itinerario seguito dal console Marcello nel 183 a.C. per portarsi dalla terra dei Liguri nel Friuli orientale contro i "Galli Transalpini", la mente ritorna proprio al percorso della "Postumia" e quindi a quelle antiche piste che anche nel territorio dei Veneti dovettero suggerire a Marcello il suo cammino e a Postumio il tracciato della sua via.

Dopo la via di Lepido, che tocca le paleovenete Este, Padova e Altino, la "Postumia", condotta per Vicenza ed Oderzo, mette ancora più in evidenza la nuova situazione storica venutasi a creare nella terra dei Veneti con la presenza ormai quotidiana di Roma, determinata dalla necessità di controllare direttamente queste due strade, di indubbia importanza militare e strategica.

Tale massiccia e diffusa presenza trova anche modo di esprimersi in maniera ancor più evidente nel 141 e nel 135 a.C., quando i proconsoli della provincia gallica Lucio Cecilio Metello Calvo prima (46) e Sesto Attilio Serrano poi (47) vengono a fissare i confini fra i territori di Este e di Padova, di Este e di Vicenza. Sono due proconsoli romani che stabiliscono questi confini e la frase "statui iusit", ripetuta sui cippi, non può lasciare dubbi su chi ormai comandava in questo territorio e su chi doveva obbedire.

Il quadro dei percorsi stradali, stesi dai Romani nella regione dei Veneti durante il II secolo a.C., si completa, almeno per quanto ne sappiamo, con la costruzione nel 131 a.C. della via "Annia" per opera del pretore Tito Annio Rufo (48).

Nel 132 a.C. il console Publio Popillio Lenate aveva condotto da Rimini una strada, lungo il litorale dell'Adriatico e attraverso i rami dell'antico delta del Po, fino al centro portuale di Adria (49). In prosecuzione di questa, un anno dopo Annio tracciava una via da Adria a Padova (50) e da qui, seguendo e ristrutturando il precedente percorso di Lepido, ad Aquileia. In tal modo, grazie alle vie "Popillia" e "Annia" era ora possibile raggiungere direttamente dalla via "Flaminia" e da Rimini il territorio dei Veneti e Aquileia e da questi luoghi le città dell'Italia centrale e Roma, senza essere costretti al giro vizioso per Bologna.

Se ora osserviamo nel loro insieme le grandi vie storiche, stese da Roma nella Cisalpina durante il II secolo a.C., possiamo notare che il loro tracciato è strettamente collegato con tutte le colonie latine qui dedotte, a cominciare da Rimini, punto iniziale e portante di questo sistema viario. Infatti da questo centro, messo in diretto contatto con Roma attraverso il cordone ombelicale della via "Flaminia", si dipartivano la via "Aemilia" per Bologna e Piacenza e l'asse "Popillia-Annia" diretto ad Aquileia. A sua volta la via "Postumia" per Piacenza e Cremona raggiungeva la colonia orientale.

È un grande triangolo viario, che trova la sua larga base da Rimini ad Aquileia nella via "Popillia-Annia", stesa lungo tutto l'arco dell'attuale Golfo di Venezia e strettamente collegata con l'Adriatico e le sue rotte marittime, i suoi lati nelle vie "Aemilia" e "Postumia", il suo vertice in Piacenza, da dove si stacca la lunga bisettrice del corso navigabile del Po fino al porto di Adria. Un disegno questo che sembra richiamare in termini viari la descrizione geografica della pianura padana, paragonata da Polibio (51) ad un enorme triangolo avente per lati le Alpi e gli Appennini e per base la costa adriatica.

Roma e la terra dei Veneti durante la prima metà del I secolo a.C.

La già ricordata presenza dei Romani nel territorio veneto durante il corso del II secolo a.C. trova nella prima metà del seguente il modo e le ragioni di manifestarsi in forme sempre più diffuse e determinanti, in parte provocate proprio all'inizio del nuovo secolo dalla rovinosa discesa dei Cimbri.

Nel 101 a. C. costoro, discesi lungo la valle dell'Adige e travolte le difese apprestate dal console Quinto Lutazio Catulo a settentrione di Verona (52), erano dilagati nella pianura padana, portando per largo spazio rovina e distruzione (53). E più che probabile che l'attacco dei Cimbri abbia avuto pesanti conseguenze anche per l'intero paese dei Veneti se, come ha dimostrato con convincenti argomentazioni lo Zennari (54), i "Campi Raudii", dove Mario li affronta annientandoli (55), sono da localizzare nel territorio del basso Polesine.

La pronta e decisa reazione romana aveva allora messo fine a questa gravissima incursione, ma nel contempo aveva anche posto Roma davanti alla necessità di prendere per l'avvenire misure tali da impedire il ripetersi di altre eventuali, simili esperienze. A questo proposito il Sartori (56) giustamente scrive che "la gravità del pericolo cimbrico, nonostante la felice soluzione finale, aveva dimostrato che il confine nordico dell'Italia era da considerare tutt'altro che sicuro e che le difese alpine non bastavano a tutelare la pianura padano-veneta da improvvise aggressioni. La precarietà del confine era accresciuta dalle turbolenze, periodicamente ricorrenti, delle rudi popolazioni montane, che impedivano una graduale diffusione della latinità a nord della pianura. Il governo romano comprese ben presto che occorreva fortificare almeno i centri maggiori, offrendo loro la possibilità di resistere a lungo, nel deprecabile caso che nuove incursioni, benché limitate ad obbiettivi di saccheggio, turbassero la serena vita delle pacifiche genti agricole della Gallia Cisalpina e specialmente della Venezia".

Come ho già avuto modo di dire (57), ritengo che allora sia stata presa in considerazione anche la necessità, in particolare per il territorio veneto più esposto di ogni altro agli attacchi provenienti dalle valli alpine, di rafforzare non solamente i centri maggiori ma anche i luoghi strategicamente più esposti, fra i quali quelli attraversati dalla via "Postumia", che correva per lungo tratto non lontano da quei rilievi montani, dai quali poteva giungere ogni minaccia.

Di vitale importanza per i movimenti romani nella Cisalpina centro-orientale, questa via doveva infatti essere sempre agibile e aperta alle forze di Roma e quindi era necessario presidiarla in ogni suo punto. Ciò era possibile impostando sul suo percorso degli agri centuriati i cui coloni, con la loro stabile e diffusa presenza, avrebbero assicurato un capillare controllo della grande strada, attraverso la quale poteva giungere ogni aiuto nel deprecato caso di un attacco improvviso.

Per il territorio dei Veneti ed anche per quello dei vicini Cenomani si presentava però il problema della giustificazione giuridica di tali deduzioni agrarie in quanto "de iure" erano ancora indipendenti e per di più legati ai Romani da vincoli di provata ed antica amicizia. Un simile intervento del governo di Roma, che poteva suonare come un vero e proprio atto di arbitrio, trovava invece piena legittimazione da parte del tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino, il quale aveva proposto di attuare una vasta opera di centuriazione, con la conseguente deduzione di nuove colonie, nei territori già occupati dai Cimbri, sostenendo che tutte queste terre, dunque anche quelle venete, una volta riconquistate dalle forze di Roma, dovevano "iure belli" essere considerate "ager publicus populi Romani".

Come bene ha puntualizzato il Fraccaro (58), queste erano le ragioni di Saturnino sulla validità giuridica di una tale operazione: "I Cimbri avevano inondato e devastato la pianura a nord del Po, rimasta indifesa dopo, la ritirata di Catulo. Per Saturnino, i territori dei Veneti e dei Galli a nord del Po erano così caduti in potere dei Cimbri; vinti i Cimbri dai Romani, detti territori erano divenuti del popolo romano e se ne disponeva l'assegnazione".

Del resto, qualcosa di simile era successo da quelle parti una ottantina di anni prima. "I Galli Transalpini", discesi "in Venetiam", avevano occupato un territorio già considerato veneto e da quel momento soggetto, per diritto di conquista, all'autorità dei nuovi arrivati. Contro costoro era intervenuto l'esercito del console Marcello, che li aveva costretti ad abbandonare quelle terre, dove poi Roma, sempre per il diritto di conquista, aveva dedotto "in agro Gallorum", la colonia latina di Aquileia (59).

Lo storico Appiano (60), ricordando la legge proposta da Saturnino, dice che questa venne approvata, ma Cicerone (61) ci assicura sulla sua non avvenuta applicazione e ciò può far pensare a motivati dubbi sorti nel governo di Roma, dai quali, in una difficile situazione politica generale, può essere anche venuta maturandosi la decisione di risolvere il problema con la concessione del diritto latino ai Transpadani, concretizzatasi poi con la "lex Pompeia" dell'89 a.C. (62).

Tale concessione, estesa anche ai Cenomani ed ai Veneti, permetteva a Roma di entrare con piena legalità negli interessi di questi paesi grazie all'istituzione di colonie fittizie, senza alcuna deduzione di coloni esterni nei loro agri centuriati.

Di questo nuovo stato giuridico dei Transpadani troviamo un preciso riferimento nel commento del patavino Quinto Asconio Pediano (63) all'orazione di Cicerone contro Pisone: "E non si può dire che quella colonia [Piacenza> fosse stata dedotta nel modo in cui parecchie generazioni più tardi Gneo Pompeo Strabone, padre di Gneo Pompeo Magno, dedusse le colonie transalpine. Pompeo infatti non le costituì con nuovi coloni, ma ai vecchi abitanti che continuavano a risiedervi concesse il diritto latino, perché potessero avere il diritto goduto dalle altre colonie latine, cioè perché con il candidarsi alle magistrature conseguissero la cittadinanza romana". È questa la testimonianza di un patavino, e, anche se si può discutere sulla giusta interpretazione da dare alle parole di Pediano (64), resta il fatto di un evento, all'inizio del I secolo a.C., di grande rilevanza storica anche per le genti venete e tale da rimanere profondamente vivo nella memoria.

A questa epoca ritengo siano da ricondurre la condizione di colonia di Verona, che potrebbe trovare anche una sua conferma nel ricordo di Catullo (65), e, per quanto riguarda direttamente il presente lavoro, le centuriazioni impostate sul percorso della via "Postumia". Mi riferisco specificatamente alla divisione agraria stesa ad oriente di Verona, nella val d'Illasi e nella sottostante area pedemontana (66), e alle centuriazioni fra i corsi del Brenta e del Piave, nel territorio della odierna Cittadella (67) e a sud dei rilievi asolani (68). Sono anche dell'avviso di far risalire allo stesso periodo la presenza di una divisione agraria nel territorio di Oderzo. Abbiamo infatti notizia che Cesare, per ricompensare gli Opitergini dell'aiuto prestatogli nel 49 a.C. contro Pompeo, fra gli altri benefici aggiunse all'agro di questa città trecento centurie (69); il che porta a pensare all'esistenza in questi luoghi di una precedente divisione del terreno, alla quale furono unite in tale particolare occasione le trecento superfici agrarie concesse da Cesare (70).

In tal modo, da Verona e fino ad Oderzo queste centuriazioni, impostate sulla via "Postumia" lungo tutta la linea pedemontana veneta, venivano a rispondere a quelle esigenze strategiche che l'invasione dei Cimbri aveva proposto e sollecitato, assicurando la completa agibilità e la sicurezza della grande strada contro il ripetersi di simili pericoli.

Ma gli effetti di una così vasta opera agraria dovevano andare ben oltre le immediate necessità militari e le conseguenti risoluzioni politiche, per rivelarsi nel tempo profondamente incisivi sullo stesso paesaggio fisico ed antropico, fino a trasformarlo in modo radicale.

La regolare rete dei "decumani" e dei "kardines", che paralleli e perpendicolari fra loro e incrociantisi ad angolo retto e a intervalli costanti davano volto ad un perfetto disegno geometrico composto di superfici uguali ("centuriae"), finiva per modellare in questi luoghi una nuova "forma". Al precedente quadro paesaggistico, caratterizzato da un arcipelago di modesti spazi coltivati, determinato da particolari bisogni comunitari e disperso in un ambiente ora soggetto alle non sufficientemente controllate forze naturali, ora arido e repulsivo alle pratiche agricole, si sostituiva il preciso ed ordinato disegno della centuriazione, programmato e tracciato dall'opera dell'uomo, che disboscava e prosciugava, stendeva vie, regolava ed arginava le acque, delimitava i terreni, costruiva le case e i ricoveri per gli animali. Così, per le terre ai piedi dei Lessini, idrograficamente difficili e soggette a facili e perduranti impaludamenti, la divisione agraria si presentava come una vera e propria opera di bonifica grazie alla regolamentazione delle acque che, assicurando la salubrità del suolo, permetteva di prevenire il pericolo di rovinose esondazioni. Così, per l'alta pianura veneta tra il Brenta e il Piave, per vasti spazi povera e ingrata, la regolare parcellazione del terreno, con un migliore sfruttamento delle risorse idriche e una più razionale lavorazione del suolo dava modo all'agricoltore di migliorare ed accrescere le possibilità di resa della sua terra.

A dare più definitivi e peculiari contorni a questo nuovo volto ambientale, fertile di crescente progresso economico, concorreva la diffusa e stabile presenza degli agricoltori nei loro campi e nelle loro case. E un quadro paesaggistico del tutto diverso dal precedente, aperto anche ad una profonda trasformazione sociale con l'affermarsi, in luogo della "gens", dell'idea di "familia", che nelle singole proprietà, inserite nel vasto tessuto della centuriazione, veniva a rappresentare l'unità produttiva e contemporaneamente la forma di aggregazione sociale più semplice. A sua volta la "familia", nel grande e unitario disegno della divisione agraria e con i molteplici nuclei insediativi strettamente collegati fra loro, trovava modo e necessità di liberarsi dal limitato orizzonte del proprio particolarismo per inserirsi in un comune dialogo, fatto di comuni interessi e regolato dal rispetto dei propri e degli altrui diritti, nella crescente consapevolezza di una sua personalità sociale e giuridica, derivatale dal diritto di proprietà.

Come si vede, con la concessione dello "ius Latii" e con l'opera degli agrimensori romani, in questo momento comincia a prendere forma e sostanza in molti luoghi della terra veneta una nuova mentalità, premessa della futura e completa romanizzazione dell'intero paese.

Nel frattempo, accanto a queste divisioni agrarie e sempre nell'arco della prima metà di questo secolo, altri percorsi stradali si aggiungono alle precedenti grandi vie romane che attraversavano il territorio veneto.

Come ha ben puntualizzato il Fraccaro (71), nel 74 a.C. veniva stesa da Padova ad Asolo per opera di Caio Aurelio Cotta, proconsole della Gallia Cisalpina, la via "Aurelia", il cui nome ritorna oggi nel paese di Loreggia (72), che incontriamo lungo il percorso di questa strada e che è indicato come "Aurelia" in un documento del 1152 (73). Inoltre la presenza dei Casali Loreggia ad est della località di Riese Pio X e di Case Loreggia nelle vicinanze della borgata di Sant'Apollinare presso Asolo, riproponendo lo stesso toponimo che deriva dal termine "Aurelia", permette di ritrovare l'intero itinerario della antica strada.

Questa via, uscita da Padova attraverso l'attuale ponte Molino, si svolgeva a nord-est per le località di Campodarsego, S. Michele delle Badesse, Camposampiero, Loreggia e infine Resana, sulla direzione dell'odierna Strada Statale n. 307, indicata attualmente come la "Via del Santo". Da qui, piegando decisamente a settentrione, per i già ricordati luoghi di Casali Loreggia e Case Loreggia si dirigeva ad Asolo (74).

Come si può notare, il percorso dell'"Aurelia" da Padova non puntava direttamente verso Asolo, come a rigor di logica dovremmo aspettarci fra due centri così vicini e in un territorio pianeggiante, privo di ostacoli da aggirare o da superare, ma seguiva un'ampia curva, spezzata in due tratti ben distinti. Un itinerario invero singolare, anche perché questi due centri già durante l'epoca paleoveneta dovevano essere uniti da una pista che, data la natura dei luoghi, non poteva essere che la più breve e la più spedita, e quindi rettilinea. Ma se pensiamo alla presenza di una precedente centuriazione impostata sulla via "Postumia" e ad uno dei suoi "kardines", ancora oggi ben rilevabile sul terreno, che in diretta comunicazione con il centro di Asolo scendeva fino a Resana, dove aveva termine quest'opera agraria, il problema del tracciato della via "Aurelia" si può ben spiegare.

Sono infatti dell'avviso che la preesistente presenza del percorso offerto da questo "kardo", probabilmente il "maximus", da Asolo a Resana possa aver convinto Aurelio Cotta a prolungare da questo luogo la via fino a Padova, facendo così prendere al suo percorso una angolazione altrimenti inspiegabile.

Viste così le cose, la via "Aurelia" del 74 a.C. verrebbe a confermare con il suo itinerario la nostra attribuzione della divisione agraria dell'asolano ad una età precedente, cioè ai primi tempi di questo primo secolo.

Anche se non abbiamo sicuri documenti in proposito, altri percorsi stradali dovettero allora prendere volto stabile e definitivo, completando con i loro tracciati il sistema portante della viabilità romana nel territorio veneto.

Ad occidente: la via da Brescia a Verona (75) e il percorso stradale da Modena per Ostiglia a Verona (76), con il suo prolungamento nella val Lagarina.

Nel Veneto "storico": oltre all'"Aurelia" ed alla sua probabile continuazione verso la valle del Piave (77), la strada da Vicenza a Padova (78), intesa a collegare la superiore "Postumia" con la sottostante "Annia".

Ad oriente: le vie da Aquileia verso i paesi Norici (79), dopo che nel 115 a.C. il console Marco Emilio Scauro aveva riportato il trionfo "de Galleis Karneis" (80), liberando con ogni probabilità l'alta pianura dell'attuale Friuli e l'area montana sovrastante dalla possibile minaccia di queste popolazioni. Sempre da Aquileia, il tratto iniziale del percorso stradale che più tardi, attraverso le Alpi Giulie, raggiungerà i paesi della Pannonia (81), e le vie per la penisola istriana (82), aperte nel 129 a.C. dall'impresa del console Caio Sempronio Tuditano (83).

Se ora si osserva questo ormai articolato sistema stradale, si può notare come esso trovi i suoi principali punti di riferimento e di sviluppo in tre particolari centri, e precisamente in Verona, in Padova, in Aquileia.

Raggiungono Verona la via "Postumia" e le strade da Brescia e da Modena, che fanno della città sull'Adige un centro logistico e strategico di primaria importanza, all'imbocco di una lunga valle, che penetra profondamente nell'area alpina.

La via di Lepido da Bologna, la via "Annia" da Adria e il raccordo con la "Postumia" da Vicenza vanno a confluire a Padova, da dove si staccano la via "Aurelia" volta ad Asolo ed alla valle del Piave, e la strada per Altino.

Infine da Aquileia, dove arriva la "Postumia-Annia", si aprono a ventaglio le strade verso le terre del Norico, della Pannonia e dell'Istria.

Ci troviamo davanti ad un disegno viario che, assicuratosi il completo controllo dell'intero territorio della pianura veneta, viene a suggerire con questi tre centri logistici le future direttrici di marcia della conquista romana verso i paesi alpini.

Durante questo periodo non abbiamo invece, lungo tutta la linea costiera dell'alto Adriatico, particolari notizie sull'esistenza di una politica marinara romana in concomitanza con il suo affermarsi nell'entroterra e in rapporto diretto con i centri veneti prossimi al mare. Infatti Adria, nell'estremo sud dell'area veneta, anche dopo la costruzione della via "Annia", rimane l'antico porto volto alla pianura ed ai traffici padani, e all'estremo orientale dell'attuale Golfo di Venezia lo scalo portuale di Grado (84) continua ad assolvere la funzione di semplice punto di rifornimento per Aquileia. Per il resto, Altino non presenta ancora una sua qualche dimensione portuale né altrove è possibile cogliere qualcosa di simile.

Saranno le vicende, maturatesi nella seconda metà di questo secolo, ad imporre all'attenzione di Roma l'importanza della "Venetia maritima" e la necessità di una sua politica marinara rivolta a questa area territoriale, anche in previsione e in relazione delle sue nuove imprese verso i paesi transalpini.

Il paese dei Veneti nello stato romano

Il decennio con il quale si apre la seconda metà di questo secolo è di fondamentale importanza per la storia della terra veneta e per il suo crescente peso militare, politico ed economico non solamente nel contesto della Transpadana ma anche e soprattutto per i suoi prossimi rapporti con i confinanti paesi montani e transalpini. È questo il momento in cui le città della Venezia, in seguito alla concessione dell'"optimum ius" alla Gallia Cisalpina (85), entrano "de iure" a far parte integrante dello stato romano, che già da tempo, come si è visto, aveva "de facto" messo sempre più profonde radici in questa regione.

Allo stesso periodo sono anche da ricondurre due avvenimenti, che mi sembrano di particolare rilievo per il futuro delle terre venete e per la loro stessa identità nel contesto dell'Italia romana: la deduzione della colonia romana di "Iulia Concordia" e l'inizio di una vasta e programmata politica marinara di Roma nell'arco dell'alto Adriatico.

Lo storico Appiano (86) ci dice che dopo la battaglia di Filippi i veterani chiedevano con insistenza ed anche con crescenti tumulti le assegnazioni agrarie loro promesse. Per reperire tante terre da distribuire ad un numero di richiedenti veramente consistente, Ottaviano, oltre a volgersi verso territori ancora liberi, dovette ricorrere anche a dolorosi espropri, la cui eco ritorna viva fino a noi negli accorati versi di Virgilio (87), che ricorda i "veteres coloni" della sua terra mantovana (88), costretti a lasciare i loro sudati campicelli in mano al "barbarus miles":

nos patriae fines et dulcia linquimus arva,

nos patriam fugimus [...>

impius haec tam culta novalia miles habebit,

barbarus has segetes [...>.

Anche nel territorio compreso fra i corsi dei fiumi Livenza e Tagliamento toccò questa triste sorte e quivi fu dedotta la colonia triumvirale di "lulia Concordia"; e molto probabilmente pure in molti di questi luoghi dovette ripetersi allora la dolorosa esperienza dei vecchi contadini mantovani.

La fondazione della nuova città, come puntualizza lo Zovatto (89), è da far risalire al 42-40 a.C. in quanto "l'appellativo di 'Iulia', ch'ebbe anche Benevento nel 42 a.C. ('Col. Iulia Augusta Felix Beneventum', C.I.L., IX, 2165), in memoria di Giulio Cesare, è comune alle città fondate da Ottaviano e dai triumviri prima del 27 a.C.; Concordia, che equivale ad 'accordo', indica probabilmente la convenzione del 42 fra i triumviri o la pace di Brindisi del 40, dopo la guerra di Perugia".

Secondo una logica scelta, l'impianto urbano di "Iulia Concordia" trovava spazio presso il luogo d'incontro delle vie "Postumia" ed "Annia" dirette ad Aquileia, dove già in epoca paleoveneta era sorto un nucleo abitato e, dopo la costruzione delle due vie romane, un centro di sosta e di transito.

Ma per la futura "Venetia" romana la nuova città rappresenta ben più di una semplice, anche se importante, deduzione coloniaria, in quanto con "Iulia Concordia" trovano il loro punto d'incontro, direi meglio di sutura, i luoghi abitati dagli antichi Veneti ad occidente della Livenza e la nuova realtà storica venutasi a creare ad oriente del Tagliamento con la presenza di Aquileia; due aree territoriali, queste, finora collegate attraverso i soli tracciati della "Postumia" e dell'"Annia". Integrazione resa ancora più evidente e completa dalla divisione agraria (90), che si allarga nel territorio assegnato alla giurisdizione della colonia e dove vanno a prendere stabile possesso delle loro proprietà i veterani di Filippi. Infatti la grande maglia della centuriazione, stesa fra i corsi della Livenza e del Tagliamento nella media pianura del Friuli occidentale, finisce per dare un volto unitario all'intera regione, che i Romani chiameranno "Venetia".

Nel contempo, proprio e sempre in relazione alla fondazione di questa colonia, mi sembra di poter cogliere anche un significativo momento, insieme alla presenza della non lontana Altino, della politica alto adriatica di Roma.

Posta in un luogo di rilevante importanza logistica quale nodo obbligato di transito fra i territori dell'arco alpino orientale e l'intera pianura veneto-padana, "lulia Concordia" è anche messa in diretto contatto con il non lontano litorale adriatico mediante il corso navigabile del fiume Lemene, l'antico "flumen Reatinum" (91), sul quale viene ad affacciarsi il suo impianto urbano. Strabone (92) infatti scrive che dal mare si poteva raggiungere questa città navigando controcorrente un breve tratto fluviale, e Plinio (93), dopo aver ricordato Concordia, parla del "flumen Reatinum" e del "portus Reatinum" alla sua foce.

"Iulia Concordia" pertanto era anche aperta ai commerci ed alle rotte del mare Adriatico grazie ad un suo scalo portuale, che oggi è possibile localizzare nella zona dell'attuale Caorle, dove sono venute alla luce numerose testimonianze di epoca romana (94), fra le quali significativa una iscrizione che ricorda i "classiarii" (95), i marinai di una piccola flotta che con ogni probabilità quivi doveva avere stanza.

Sono del parere che in questo scalo sia da vedere anche l'inizio di una vasta e programmata politica marittima di Roma, fino ad ora limitata alla sola realtà portuale di Aquileia ed ora volta a mettere in stretto rapporto la frangia costiera dell'alto Adriatico con i maggiori centri della "Venetia mediterranea". Tanto più che proprio in questo momento sentiamo parlare per la prima volta di Altino, già insediamento paleoveneto sulla gronda interna dell'attuale laguna di Venezia, in relazione alle "grandi e splendide azioni intorno ad Altino ", condotte nel 42 a. C. (dunque nello stesso tempo della fondazione di "lulia Concordia") da Gaio Asinio Pollione, impegnato a garantire in modo deciso l'autorità di Antonio nelle terre della "Venetia" (96).

Posta sul percorso della via di Lepido e quindi dell'"Annia", Altino comincia allora a rivelare una sua crescente dimensione marinara fino a diventare il centro portuale più importante della intera laguna di Venezia (97). E come Aquileia trovava il suo scalo a mare in Grado e Concordia in Caorle, sono dell'avviso che anche Altino, collocata sul margine interno della laguna allo sbocco del fiume Sile, abbia avuto un suo attracco sull'Adriatico. Infatti, per raggiungere questa città, la navigazione entro gli spazi lagunari, dal volto così instabile e mutevole, non doveva certamente essere facile, anzi doveva richiedere conoscenza precisa dei luoghi e perizia di piloti, soprattutto per le imbarcazioni di grossa stazza e quindi di maggiore pescaggio. Per questo motivo, pur non avendo dati a conforto, ritengo che non sia qui mancato anche uno scalo sull'Adriatico, forse presso la stessa Bocca di S. Nicolò o sul margine interno del cordone litoraneo, nella vicina e riparata zona di Treporti, dove oggi si incontra l'interessante e significativo toponimo di Portosecco.

Non c'è dubbio che anche altri minori attracchi dovevano allora trovare luogo su questo arco costiero in diretta comunicazione lungo i corsi fluviali con i centri dell'interno. È sufficiente pensare al porto fluviale di Padova sul Brenta, il già ricordato "Meduacus", e ad un suo necessario e corrispondente punto di riferimento sul mare; e a questo proposito ritorna alla memoria quello che Strabone (98) pochi anni dopo dice del fiume "ΜεδόαϰοϚ" e dell'esistenza alla sua foce di un porto dello stesso nome, che l'Olivieri (99) ritrova nella località di Malamocco, il cui toponimo è fatto da lui risalire, attraverso le mediazioni "Metamauco > Metamaucenses", a forme quali "Medemocco > Medamocco" e infine "ΜεδόαϰοϚ". Ma di questi scali minori avremo occasione di parlare a proposito dell'età imperiale, quando la loro realtà potrà essere storicamente documentata.

Comunque già con Altino, Concordia ed Aquileia e con i loro tre porti sull'Adriatico si può cominciare a parlare di una sempre maggiore presenza di Roma nella "Venetia maritima" e di un crescente legame fra le terre del litorale e i paesi dell'interno, anche in vista di una prossima, graduale proiezione romana verso i territori transalpini.

In questa nuova situazione, che va maturandosi nella fascia del litorale, anche la via "Annia", stesa come semplice via di transito lungo i margini di una zona idrograficamente difficile, si avvia ad assumere il ruolo di linea di incontro e di cerniera fra i centri portuali della costa e la "Venetia mediterranea", con importanti conseguenze per il volto unitario della regione e per lo stesso moltiplicarsi delle scelte insediative lungo la frangia costiera dell'alto Adriatico.

Intanto, durante questa seconda metà del primo secolo, altre divisioni agrarie vengono ad aggiungersi alle precedenti e ad occupare sempre più larghi spazi nella pianura veneta. Sappiamo, grazie all'iscrizione di Marco Billieno, "Actiacus legione XI proelio navali facto in coloniam deductus" (100), proveniente dalla località di Poiana Maggiore presso Este, di una parcellazione agraria nel territorio di questa città a favore dei reduci della battagia navale di Azio. Ritornano in questo caso alla memoria i modi ed anche le dolorose esperienze della centuriazione di "lulia Concordia", legata ai veterani di Filippi. Ultimamente è stato anche possibile rilevare i resti dell'antica opera degli agrimensori romani a nord di Este (101) e presso l'odierno paese di Cologna Veneta, che nel nome potrebbe conservare ancora il ricordo della colonia aziaca (102).

Come la divisione agraria di Concordia, anche la centuriazione di Este è legata ad una deduzione di veterani, cioè di soldati, ma in questi casi non si può più parlare di deduzioni determinate da esigenze strategico-militari, come per Aquileia, in quanto il territorio dove trovano luogo fa ormai parte integrante dello stato romano. Sono piuttosto da ricondurre a motivi di ordine politico e sociale, determinati dal particolare e difficile momento delle guerre civili.

Accanto a queste regolari parcellazioni del terreno, che si possono riferire ad una precisa data, numerose altre sono presenti in questa regione. Così nell'agro meridionale del territorio veronese (103) e nell'alta pianura vicentina (104), in quelli di Treviso (105) e di Altino (106), nella Val Belluna (107) e, nell'estremo orientale del "Venetorum angulus", nell'agro di "Forum Iulii" (108), l'odierna Cividale del Friuli.

Fra tutte queste divisioni agrarie, i cui resti permangono più o meno evidenti sul terreno, presenta particolare interesse il reticolato romano che si incentra nella zona di Camposampiero a nord-est di Padova (109). Impostato sul percorso iniziale della via "Aurelia", diretta ad Asolo, esso mantiene ancora pressoché intatta la sua regolare struttura e rappresenta l'esempio più bello e meglio conservato di queste antiche divisioni agrarie. In mancanza di un qualsiasi riferimento storico, oggi non è possibile fissare il preciso momento della loro messa in opera, ma sono dell'opinione, come ho già avuto modo di scrivere in un altro mio lavoro (110), "che in molti di questi casi si possa pensare ad un periodo non anteriore agli ultimi anni della repubblica e a parcellazioni agrarie legate a motivi di carattere economico e catastale, con ampi lavori di bonifica e di riduzione a coltura del terreno, nel quadro delle nuove giurisdizioni amministrative, seguite alla concessione dello 'ius Romanorum' alla Cisalpina. Penso ad una vera e propria politica della terra, che deve essere continuata anche in età posteriore, come potrebbe indicarci lo stesso 'terminus'di centuriazione di S. Pietro Viminario, a sud di Padova, la cui forma non cilindrica ma poligonale si incontra a partire dall'età neroniana" (111).

Come nei territori delle precedenti centuriazioni, anche nei nuovi luoghi soggetti a questa regolare divisione del terreno si assiste ad una profonda trasformazione del paesaggio e della stessa realtà sociale ed economica, con tutte le conseguenze che abbiamo già illustrato. Veramente, se guardiamo alla diffusione ed alla vastità di questo programmato intervento degli agrimensori romani, che ormai si allarga ad occupare gran parte della pianura veneta, dobbiamo parlare di una grande e incisiva pagina di storia che ancora oggi, dopo tanti secoli e tanti travagli, possiamo leggere nel volto ambientale di questo paese e nella presenza di tanti centri di vita, disseminati nella sua campagna.

Nello stesso tempo, i vecchi nuclei cittadini, divenuti ora centri direzionali di una amministrazione basata sulle locali autonomie e quindi precisi punti di riferimento per sempre nuovi incontri e nuove intraprese, cominciano a strutturarsi secondo più ordinati e più funzionali interventi urbanistici, ornandosi anche di opere pubbliche e monumentali, mentre l'edilizia privata nelle città e nelle campagne inizia ad esprimersi in sempre più numerose case e ville signorili.

Ci troviamo davanti ad una regione che, dalle coste dell'Adriatico fino ai rilievi della cerchia alpina, nelle città come nei nuclei di vita disseminati nella vasta pianura, sta costruendo la sua dimensione romana sulle memorie mai spente del suo passato e sulla consapevolezza di una sua ben definita e peculiare individualità storica.

Intanto, dalle terre venete, nel 15 a.C., Druso iniziava la sua impresa contro i "Raeti" (112), che lo porterà alla conquista dei sovrastanti territori alpini e quindi alla creazione delle due province della "Raetia et Vindelicia" e del "Noricum". Con il suo procedere Druso veniva anche a segnare l'itinerario delle future grandi vie romane per i valichi di Resia e del Brennero, come da Aquileia, dopo le strade per i passi di Monte Croce Carnico e di Tarvisio e quelle volte alla penisola istriana, la precedente campagna di Ottaviano in Pannonia (35-33 a.C.) aveva aperto la via attraverso le Alpi Giulie.

Pochi anni dopo, con ogni probabilità nell'8 a.C. in occasione del suo secondo censimento (113), Augusto divideva l'Italia ormai romana in undici regioni, comprendendo il paese dei Veneti nella "X regio", che riceverà in seguito la denominazione ufficiale di "Venetia et Histria" (114) dal nome dei due popoli, che già nel IV secolo a.C. lo Pseudo Scilace aveva ricordato confinanti fra loro (115). Ma anche se solamente più tardi l'intera regione sarà indicata come "Venetia et Histria", il nome di "Venetia" già da tempo stava idealmente a designare, con un preciso riferimento ai Veneti che ne rappresentavano il nucleo etnico di maggiore spessore storico, uno spazio territoriale ben più ampio di quello abitato da questa popolazione, come possiamo cogliere dallo stesso patavino Livio quando parla dei "Galli Transalpini transgressi in Venetiam".

Per questo motivo, sono dell'avviso che la divisione augustea, che non voleva avere e non ebbe il valore di una ripartizione amministrativa, per altro rimasta sempre legata alle autonomie locali, nacque da una ragione più ideale che pratica: fu la rivalutazione e la riabilitazione etnico-storica degli antichi popoli d'Italia, fusi ormai nel grande crogiuolo dell'unità della Penisola e partecipi con uguali diritti della vita dell'Impero. In tal modo le più importanti popolazioni storiche locali videro salvaguardata ed anzi riaffermata una loro nobiltà etnica. Naturalmente, in questa ripartizione furono "dimenticati" quei popoli che non potevano vantare una "personalità" italica; così nell'Italia meridionale riaffiorarono i nomi delle antiche popolazioni autoctone, mentre nel nord fu dato a due regioni il generico nome di "Octava" (poi dal secondo secolo d.C. "Aemilia") e di "Transpadana" in quanto, pur volendo cancellare ogni ricordo della presenza dei Galli, non fu possibile sostituire al nome di queste popolazioni quello di un preesistente gruppo etnico locale.

Nella "Decima regio" augustea le genti venete vedevano così riconosciuta ed affermata la loro individualità etnica e la loro personalità italica tanto da trasmettere il nome della loro terra ad una intera regione, che pur comprendeva altre e diverse popolazioni. Infatti i confini della "Venetia" venivano ad includere territori e popoli che andavano ben oltre i limiti del paese abitato dagli antichi Veneti.

Separata dall'"Octava regio" dalla linea del Po, la "Venetia" romana trovava ad occidente la sua linea di demarcazione con la "Transpadana" nel corso del fiume Oglio e quindi, a settentrione, lungo i rilievi delle Alpi Tridentine e Carniche, confinava con le province della "Raetia" e del "Noricum". Ad oriente, il crinale delle Alpi Giulie e il corso del Timavo la dividevano dalle terre pannoniche e dalla penisola istriana. In questo spazio territoriale, accanto ed oltre ai Veneti, vivevano genti di stirpe cenomane e retica e i Gallo Carni, ora tutti, assieme ai primi, riuniti in una sola regione, che nel nome di "Venetia" trovava la sua definitiva identità storica.

La "Venetia" durante l'età imperiale

Al confine centro-orientale dell'Italia augustea, la "Venetia" si affacciava sull'arco dell'alto Adriatico, che rappresenta il limite più settentrionale del Mediterraneo e nello stesso tempo il punto d'incontro più vicino fra il mare e i paesi dell'Europa continentale. Inoltre, in questo estremo confine dell'Adriatico vengono a sfociare numerosi fiumi navigabili che, aprendosi a ventaglio attraverso la pianura veneta, permettono di penetrare profondamente, lungo le loro ampie vallate, nella soprastante cerchia alpina verso le terre danubiane, mentre ad oriente per i modesti e facili rilievi del Carso è spedito raggiungere i territori della penisola balcanica.

È naturale quindi che lungo questa linea di costa fino dalle più antiche età siano venuti ad incontrarsi e ad intrecciarsi gli interessi di popolazioni diverse e che qui abbiano trovato spazio luoghi di incontro e di scambi commerciali, correlati con le grandi rotte dell'Adriatico e con le più importanti correnti di traffico dell'entroterra.

Sono gli stessi racconti straordinari, nati e fioriti in questa regione (degli Argonauti e della loro imbarcazione trasportata dall'uno all'altro Istro, di Fetonte, del pianto delle sorelle Eliadi e delle fantastiche isole Elettridi, di Ercole viaggiante attraverso l'Adriatico fino al Danubio ed al paese degli Iperborei, di Antenore troiano e di Diomede domatore di cavalli) a richiamare, attraverso la trasfigurazione del mito, gli antichi traffici fra il mare, la pianura padana e le terre danubiane, il commercio della preziosa ambra, la penetrazione commerciale greca, i prodotti delle miniere, gli allevamenti dei famosi cavalli veneti.

Logico quindi che anche i Romani, una volta affermatisi nella "Venetia", abbiano guardato con attenzione e con sempre crescente interesse verso questo litorale, quale area di appoggio per la loro proiezione verso i paesi alpini e i territori bagnati dal Danubio e, dopo la conquista di questi, come luogo di incontro e di scambio fra il mare e la Mitteleuropa.

Già con Grado Roma aveva fermato un suo scalo su questa linea di spiaggia per provvedere alle molteplici necessità della vicina colonia di Aquileia. Erano poi seguiti, come abbiamo visto, i centri portuali di Caorle, in diretto rapporto con "lulia Concordia", e in particolare di Altino, nella laguna di Venezia.

Sono però dell'opinione che si possa parlare di una vera e propria politica marittima lungo tutto quest'arco costiero solamente in seguito a due rilevanti avvenimenti: l'affermarsi di Ravenna come centro portuale di primaria importanza e l'apertura dei mercati d'oltralpe.

Con Augusto, lo stanziamento di una flotta pretoria aveva fatto di Ravenna uno dei primi porti militari dell'impero (116), aperto anche ai movimenti commerciali della pianura padana attraverso la fossa "Augusta" (117), il canale navigabile da lui fatto costruire, che, mettendo in diretto rapporto la città con il corso del Po, faceva di Ravenna il capolinea di un traffico fluviale, fino ad ora appannaggio di Adria, con evidenti conseguenze, come avremo modo di vedere, per l'intera area del grande delta e della stessa frangia lagunare veneta.

Nel contempo, la conquista dei territori transalpini trovava nella "Venetia" la via obbligata di passaggio per gli interessi romani nelle nuove province e nell'ampio golfo adriatico i luoghi più vicini ai valichi alpini per le rotte marittime.

Proprio in vista di un più stretto legame fra i centri della costa e i paesi d'oltralpe, Augusto, nell' 1 a.C., stendeva una via che da "lulia Concordia" si dirigeva a settentrione, andando infine ad unirsi presso l'odierna località di Gemona alla grande strada che da Aquileia si portava, attraverso i valichi di Monte Croce Carnico e di Tarvisio, nei territori norici (118). La via di Augusto, testimoniata da ben cinque pietre miliari, dedicate a questo imperatore e rinvenute lungo il suo percorso (119), aveva lo scopo di favorire quanti, scendendo dal nord o salendovi, avevano la necessità di raggiungere al più presto le loro destinazioni senza essere costretti a compiere il giro vizioso per Aquileia. Ma questa via, oltre ad alleggerire il traffico lungo l'"Annia" e la "Postumia" verso quest'ultima città, era pure in diretto contatto, attraverso il corso del fiume Lemene, con Caorle e l'Adriatico e quindi anche da questo scalo portuale, come già da Grado per Aquileia, era ora possibile raggiungere i paesi d'oltralpe con un rapido e distinto cammino. E della crescente importanza nel tempo di questo itinerario alternativo ne è prova il miliare, venuto alla luce sempre sul suo percorso, dedicato agli imperatori Valerio Massimiano Erculeo e Flavio Costanzo (294-305 d.C.) (120), che sta a dimostrare una posteriore ristrutturazione di questa strada, senza dubbio resasi necessaria a causa di un considerevole e crescente volume di traffici.

Ma è la costruzione della via "Claudia Augusta" a rappresentare il momento più significativo e di maggiore rilievo di questo incontro del mare Adriatico con le terre danubiane, attraverso il territorio dei Veneti. Stesa nel 46 d.C. per opera dell'imperatore Claudio "ab Altino usque ad flumen Danuvium", come dice la pietra miliare ritrovata a Cesiomaggiore nella Val Belluna (121), la grande strada si staccava dal centro portuale della laguna di Venezia per portarsi, seguendo la valle del Piave, a Feltre e quindi a Trento, dove andava ad incontrare la via dell'Adige, proveniente da Verona. Continuava poi, seguendo il corso di questo fiume, per le località di Bolzano e di Merano, diretta al valico di Resia e, oltre questo, ad "Augusta Vindelicorum" e al corso del Danubio (122). Nella località di Rablat presso Merano, dove correva il confine fra la "X regio" e la "Raetia", è venuta alla luce l'altra pietra miliare (123) che ricorda la via "Claudia Augusta", dal testo simile a quello di Cesiomaggiore tranne che il punto di partenza della strada è indicato non "ab Altino" ma "a flumine Pado ". Ciò ha fatto pensare ad un percorso che, scendendo da settentrione, a Trento si divideva in due rami, l'uno diretto ad Altino, giusta il miliare di Cesiomaggiore, l'altro per Verona ad Ostiglia sul Po, come dalla pietra di Rablat (124).

Sono invece dell'avviso che sia esistita una sola ed unica via "Claudia Augusta", partente da Altino, e che con la frase "a flumine Pado at flumen Danuvium" (manca qui l'"usque" dell'altra pietra) del miliare di Rablat, collocato proprio sulla linea di confine fra l'Italia romana e la provincia della "Raetia", si sia voluto ricordare quest'opera maestosa e imponente, stesa non fra due precise e localizzabili mete ma fra le terre al di qua e al di là delle Alpi, caratterizzate dal corso di questi due grandi fiumi (il Po e il Danubio) ed ora unite dalla strada di Claudio.

Tanto più che la via "Claudia Augusta" era veramente in diretto collegamento con il Po mediante il percorso stradale che da Ravenna saliva attraverso il delta padano fino ad Altino. Questa strada litoranea, dopo aver seguito nel suo primo tratto il percorso dell'antica "Popillia" diretta ad Adria, si staccava da questa all'altezza della località di Ariano Vecchio, per proseguire verso settentrione lungo la linea di costa e la frangia interna dell'attuale laguna di Venezia (125).

Come si vede, questo percorso stradale era composto di due tratti ben distinti: il primo, sulla direzione della precedente via "Popillia"; il secondo del tutto nuovo e da far risalire con ogni probabilità allo stesso imperatore Claudio, per mettere in diretta comunicazione Ravenna con Altino, il porto della pianura padana, sede della flotta militare dell'Adriatico, con lo scalo marittimo della grande laguna, divenuto, in seguito alla costruzione della via "Claudia Augusta", punto di partenza e di arrivo dei rapporti con i paesi danubiani.

L'itinerario di questa strada, descritto dettagliatamente dalla "Tabula Peutingeriana" (126), un documento cartografico attribuito alla metà del IV secolo d.C., ci offre con le sue frequenti stazioni di tappa preziose indicazioni sull'intero delta padano in epoca romana e in particolare, per quanto riguarda specificatamente il territorio della "Venetia", sulle presenze portuali lungo il suo cammino costiero.

Una volta giunta nel territorio dei Veneti, questa strada dalla "mansio Hadriani", la già ricordata località di Ariano Vecchio, continuava verso settentrione lungo l'antico cordone litoraneo, ancora oggi chiaramente rilevabile sulla pianura circostante da una serie di dune sabbiose anche di notevole altezza, senza toccare Adria, che da allora iniziava il suo declino di importante scalo portuale. Dopo aver incontrato la stazione stradale di "VII Maria", da ubicare nell'attuale località di Fornaci di Loreo e il cui nome ricorda "le lagune adriane dette anche i Sette Mari" (127), cioè gli spazi lagunari che allora separavano Adria dalla linea costiera, la via raggiungeva la "mansio Fossis", richiamata dal moderno toponimo Fossone, dove si incontra l'odierna località di Cavanella d'Adige, che ultimamente ha rivelato la presenza di strutture romane da riferire all'antica posta stradale (128). Il termine "Fossis" suggerisce qui l'esistenza di "fossae", cioè di canali artificiali nei quali è possibile ritrovare quella "fossa Philistina" (129) che, come vedremo fra poco, veniva allora a collegare le lagune di Adria con la laguna di Venezia.

Da questa "mansio ", un percorso, staccatosi dalla via principale, doveva continuare per Chioggia, la cui origine romana è provata da numerose testimonianze antiche (130), dopo aver toccato la località di Brondolo, dove allora andava a sfociare nell'Adriatico uno dei rami, probabilmente il maggiore, dell'Adige. E qui, come sappiamo da Plinio, si incontrava il "portus Brundulum" (131), la cui presenza sul mare può essere giustificata solamente con un collegamento fluviale, lungo il corso dell'Adige, con la più vicina Este e la più lontana Verona.

La via diretta ad Altino, invece, dalla stazione di "Fossis" piegava verso l'interno, aggirando la parte meridionale della laguna veneta, fino a raggiungere la successiva "mansio Evrone", segnata dalla "Tabula Peutingeriana" a XVIII miglia, cioè a 26 chilometri circa da "Fossis", quanti appunto intercorrono fra Cavanella d'Adige e l'odierno paese di Vallonga, seguendo il percorso perilagunare di questa strada.

In quest'ultima località i numerosi resti di epoca romana attestano la presenza di un antico e consistente nucleo insediativo (132), che si può identificare con la "mansio Evrone"; inoltre questo nome richiama anche il "portum Aedronem" ricordato da Plinio e formato dai "Meduaci duo ac fossa Clodia" (133).

Nei "Meduaci duo" sono qui da vedere l'antico fiume Retrone (oggi Bacchiglione), proveniente da Vicenza, e il ramo meridionale del Brenta ("Meduacus"), che venivano a confluire ad occidente di Vallonga, presso la località di Campagnola, per continuare poi uniti fino a sfociare in laguna, mentre in questo loro corso in comune penso sia da ritrovare la "fossa Clodia", probabilmente un'opera idraulica dovuta allo stesso imperatore Claudio, che doveva servire ad arginare e a convogliare le acque dei due fiumi verso il mare e che potrebbe trovare la sua conferma nei resti di una poderosa arginatura in pietra, di epoca romana, messa allo scoperto nel 1800 presso Vallonga (134).

In tal modo, i "Meduaci duo", il Retrone e un ramo del Brenta, confluiti nella "fossa Clodia", venivano a dar vita al "portus Aedro", nel quale sono da ritrovare l'"Evrone" della "Tabula", il nome del Retrone, che oggi a Vicenza si unisce al Bacchiglione e che allora portava il suo corso fino al mare, il fiume "῾ΕϱέταινοϚ", ricordato da Eliano (135) a Vicenza, il "Retenone" di Venanzio Fortunato (136) e il "Retron" dell'Anonimo Ravennate (137).

Questo scalo, sul margine interno della laguna di Venezia, doveva anche avere un suo punto di riferimento sul mare, che penso sia da fissare nella località di Chioggia, presso l'omonima Bocca. Da qui le imbarcazioni, per lo scalo di Vallonga, potevano raggiungere sia Padova, via Brenta, che Vicenza, lungo il corso del Retrone; e Strabone (138) ricorda che si poteva raggiungere quest'ultima città dall'Adriatico risalendo la corrente di un fiume.

Dalla "mansio Evrone" la via, continuando per le stazioni di tappa di "Mino Meduaco" (Lova) e di "Maio Meduaco" (S. Bruson), che richiamano due rami terminali dell'antico Brenta, raggiungeva la "mansio Ad Portum", posta a III miglia (km 4,5 circa) da "Maio Meduaco", sul corso finale di questo fiume e da ubicare nella odierna località di Porto Menai. Lo stesso nome di quest'ultima posta stradale sta chiaramente a denunciare il suo ruolo non solamente itinerario ma anche portuale. Infatti qui, allo sbocco del maggior ramo del Brenta in laguna, doveva sorgere uno scalo fluviale in diretta comunicazione con Padova e il suo porto cittadino e, attraverso la sottostante laguna, con uno scalo a mare da localizzare, come si è già detto, all'altezza della Bocca di Malamocco.

La via quindi, dopo la "mansio Ad Portum", continuava seguendo il percorso della precedente via "Annia" tenendosi sempre ai margini della gronda interna dell'attuale laguna di Venezia, fino a raggiungere il centro portuale di Altino, capolinea della via "Claudia Augusta".

Se ora osserviamo la posizione degli scali portuali di "Evrone" (Vallonga), di "Ad Portum" (Porto Menai) e infine di Altino, sulla gronda interna lagunare e in diretto collegamento attraverso corsi fluviali con i centri dell'interno, possiamo notare che essi vengono a trovarsi all'altezza delle tre aperture, che rappresentano ancora oggi le porte d'ingresso della laguna di Venezia: "Evrone" di fronte alla Bocca di Chioggia, "Ad Portum" della Bocca di Malamocco, Altino della Bocca di S. Nicolò.

Inoltre l'itinerario di questo percorso stradale, che dopo "Fossis" è costretto a compiere un ampio arco lungo il margine occidentale e centrale dell'attuale laguna, può essere una buona prova che l'ampiezza di questa, durante l'epoca romana, non doveva essere nel suo complesso minore dell'attuale e tanto evidente se Strabone (139) scrive che la terra dei Veneti è caratterizzata da una "λιμνοθάλαττα", da una laguna "che ricopre la maggior parte della pianura". È questa la laguna ("stagna inrigua aestibus maritimis") che lo spartano Cleonimo attraversa, dopo aver superato il "tenue praetentum litus", il sottile cordone litoraneo, per raggiungere con le sue imbarcazioni la foce del Brenta(140).

La via per acque interne e la "Venetia maritima"

A rendere ancora più frequenti i traffici e quindi i movimenti di uomini e di cose nel grande arco costiero della "Venetia" si accompagnava alla via tracciata lungo il litorale padano una rotta per acque interne.

L'"Itinerarium Antonini" (141), un documento viario attribuito al III secolo d.C., ricorda un percorso stradale che da Rimini si portava ad Aquileia e precisa che, una volta raggiunta Ravenna, il viaggio proseguiva per via d'acqua attraverso i Sette Mari fino ad Altino ("Ravenna, inde navigatur Septem Maria Altinum usque"). Da qui si riprendeva la via terrestre per Concordia ad Aquileia. Questa via per acque interne è ricordata anche più tardi da Erodiano (142) con la precisa indicazione di "῾Επτὰ Πελάγη".

Dall'"Itinerarium Antonini" pertanto si ricava che i "Septem Maria" avevano un'estensione ben più ampia di quella ristretta alle lagune davanti ad Adria, come invece scrive Plinio, e che caratterizzavano l'intero arco litoraneo compreso fra Ravenna e Altino o almeno l'intero delta del Po, che da Mela (143) è detto uscire in mare per sette bocche. È però ancora Plinio a chiarire l'estensione di questi "Septem Maria" quando scrive che la foce del Po si ramifica in numerosi corsi fluviali e canali artificiali fra Ravenna e Altino, ma dove il fiume esce in mare più largo là forma i "Septem Maria", cioè dà vita alle "Atrianorum paludes". Ciò significa che questi "Septem Maria", da localizzare davanti ad Adria, devono aver finito, anche in relazione alle sette foci di cui parla Mela, per estendere il loro nome a tutta quella serie di spazi lagunari, di corsi d'acqua e di canali artificiali, che permettevano una navigazione all'interno della linea costiera fra Ravenna ed Altino. Lo stesso Plinio (144) precisa questo quando dice che dal "Sagis", cioè dal ramo del Po sul quale si trovava Spina, era possibile raggiungere le "Atrianorum paludes", cioè i "Septem Maria", attraverso un canale navigabile, la "fossa Flavia", che tagliava i molteplici rami nei quali si articolava in questi luoghi il delta padano.

Sappiamo che Ravenna era collegata con le acque del delta dalla "fossa Augusta", presente sulla "Tabula Peutingeriana" nel nome della stazione stradale di "Augusta" (145), il cui ricordo sopravvive ancora nei toponimi di Agosta e di Casone Agosta, che si incontrano sul margine meridionale delle Valli di Comacchio. Da qui lungo gli spazi lagunari, i diversi rami fluviali e i canali aperti "per transversum", dei quali rimangono ancora i nomi di "fossa Neronia" (146) e di "fossa Flavia", si entrava nelle lagune adriane, che rappresentavano la parte centrale e più caratterizzante, anche per la presenza del famoso porto di Adria, di questo viaggio per acque interne.

Continuando verso settentrione, un altro canale artificale, la "fossa Philistina", permetteva alle imbarcazioni di arrivare a Chioggia, dove la laguna di Venezia si apriva a una facile e sicura navigazione fino ad Altino.

Naturalmente lungo questa rotta non potevano mancare attracchi intermedi, da ritrovare nelle stesse stazioni di tappa della vicina via litoranea. Così la "mansio VII Maria" sulle lagune adriane e quella successiva di "Fossis" dovevano rappresentare, oltre a luoghi di sosta per le imbarcazioni dirette dal mare verso le terre dell'interno o viceversa, anche due attracchi correlati con il viaggio per acque interne, la prima all'altezza di Adria, la seconda sulla "fossa Philistina". Questo anche per quanto riguarda la navigazione nella laguna di Venezia, dove gli scali di Chioggia e di Malamocco, sul litorale marino, di Vallonga e di Porto Menai sulla gronda interna, dovevano essere altrettanti punti di riferimento per questo viaggio endolagunare, in una con i loro rapporti con il mare aperto e l'area continentale. Sono pure dell'avviso che la rotta per Altino abbia incontrato anche qualche, seppur modesto, attracco in qualcuna delle isole che oggi formano l'arcipelago di Venezia, così come a Murano o a Burano e soprattutto a Torcello, dove sono venute alla luce testimonianze di epoca romana (147).

Ma questo itinerario per acque interne non doveva fermarsi ad Altino; doveva continuare, sempre entro la linea di costa, fino a raggiungere Aquileia.

Nell'"Edictum de pretiis" di Diocleziano, dove viene stabilita la tariffa massima dei prezzi vigenti per tutto l'impero, compaiono i nomi di Ravenna e di Aquileia: "A Rav>enna Aquileiam in M ∞ X septemmilia quingentis" (148), cioè per il trasporto di 1000 modii castrensi da Ravenna ad Aquileia il costo era fissato in 7500 denari. Poiché un modio castrense di frumento, pari a kg 17,5, costava 100 denari, 1000 modii venivano a corrispondere a 17 tonnellate e mezza per un valore di 100.000 denari. Ben 7500 denari erano richiesti per trasportare questo carico da Ravenna ad Aquileia, un prezzo veramente elevato per un carico relativamente modesto e per un percorso tanto breve, se pensiamo che il costo di trasporto sulle lunghe rotte marittime con normali carichi di 200-250 tonnellate per nave era in proporzione di gran lunga inferiore (149).

Il Calderini (150), a questo proposito, e dopo aver chiarito l'entità del carico e il nolo richiesto per trasportarlo, conclude che "si trattava di un galleggiante di piccole dimensioni, probabilmente una chiatta o una meona" adibita al trasporto delle merci attraverso le lagune intercorrenti tra Ravenna ed Aquileia. E infatti la cifra di 7500 denari può essere giustificata solamente con una navigazione endolagunare, che poteva venir effettuata con natanti di modesto tonnellaggio ma che assicurava, soprattutto nel pericoloso periodo invernale, sicurezza e continuità di traffici. Questa possibilità di un viaggio per acque interne anche dopo Altino e fino ad Aquileia è attestata anche più tardi da Procopio (151), il quale, dopo aver parlato del porto di Ravenna e del suo traffico legato alle lagune e al flusso e riflusso delle maree, precisa che "né ciò accade colà soltanto, ma su tutta quella spiaggia continuamente fino alla città di Aquileia".

È logico che anche dopo Altino e prima di giungere ad Aquileia una simile rotta attraverso specchi lagunari e canali navigabili dovesse avere punti intermedi di approdo e di sosta. Sappiamo da Plinio (152) dell'esistenza di un "portus Liquentiae", da ubicare presso la località di Ca' Sorian sull'antico tratto terminale della Livenza (153) e, con ogni probabilità, in rapporto con la non lontana Oderzo che, secondo Strabone (154), si poteva raggiungere dal mare risalendo un corso fluviale. Abbiamo già avuto modo di parlare del "portus Reatinum" nella zona di Caorle, unito a Concordia attraverso il Lemene.

A questi scali, legati al duplice compito di avvicinare il mare ai centri dell'entroterra e di accompagnarsi alla rotta per acque interne, dovevano poi seguire, giusta l'interpretazione data dal Rosada al testo pliniano (155), altri attracchi alle foci del Tagliamento ("Tiliaventum maius minusque"), dello Stella ("Anaxum") e dell'Aussa ("Alsa"). A Grado infine e nella stessa Aquileia, collegata direttamente con la sottostante laguna, oltre che dal corso terminale del Natisone, anche dall'odierno canale Anfora, di origine romana (156), trovava i suoi scali terminali questo viaggio endolagunare, che più tardi Cassiodoro (157), con felici immagini, così descrive:

ai vostri vantaggi si aggiunge il fatto che avete a disposizione un altro itinerario sempre tranquillo per mancanza di pericoli. Infatti, quando la furia dei venti impedisce di andare per mare, avete dinanzi il comodo e piacevole percorso fluviale. Le vostre navi non hanno da temere la forza dei venti: raggiungono la terra sane e salve e non possono affondare, esse che spesso si incagliano. Da lontano sembra quasi che siano condotte in mezzo ai prati, perché non se ne vede lo scafo. Avanzano tirate da funi, esse che solitamente sono trattenute dalle gomene e, mutata condizione, gli uomini favoriscono la navigazione camminando. Le navi da carico procedono senza fatica e, invece dell'incertezza della navigazione a vela, si giovano del passo saldo dei marinai.

In tal modo due vie in parallelo percorrevano la fascia litoranea da Ravenna ad Aquileia: l'una terrestre, stesa lungo l'intera linea di costa, con le stazioni stradali che spesso venivano a coincidere con gli scali fluviali, collegati ai centri dell'interno attraverso maggiori o minori corsi d'acqua; l'altra endolagunare, articolata nei suoi diversi punti di attracco sul margine interno del cordone litoraneo. Tutte e due in stretta relazione fra loro e con le rotte del vicino Adriatico e con i luoghi della Venezia interna.

Come si vede, un ben organizzato ed efficiente sistema di comunicazioni sia terrestri che fluviali faceva della "Venetia maritima" non un'area avulsa e quasi dimenticata dagli uomini perché ingrata e repulsiva, ma strettamente unita alla terraferma, ricca di intraprese e quindi aperta anche a insediamenti stabili, ovunque le acque lasciavano una possibilità di vita.

Al centro di questa lunga fascia costiera, la laguna di Venezia doveva rappresentare uno dei poli di particolare attrazione, determinato non solo dal porto di Altino e dalla sua proiezione transalpina attraverso la via "Claudia Augusta", ma anche dagli scali che si incontravano sul cordone litoraneo esterno e sulla sua gronda interna. La loro ragione d'essere infatti può trovare la sua giustificazione solamente in una fitta rete di traffici, con i conseguenti profitti, che non poteva non richiamare verso questo ambiente lagunare l'interesse e la presenza anche permanente dell'uomo, la cui vita e le cui attività, tanto ripetitive nel tempo, ci vengono così descritte da Cassiodoro (158):

qui l'alterno avvicendarsi del flusso e del riflusso del mare ora ti toglie, ora ti apre la visione dei campi. Qui voi, alla maniera degli uccelli acquatici, avete la vostra casa. Infatti una persona ora si vede stare sulla terraferma, ora su un'isola, così che ben più a ragione credi che le Cicladi si trovino là, dove osservi che l'aspetto dei luoghi cambia repentinamente. A somiglianza di quelle isole le case appaiono sparse in mezzo ad ampi tratti di mare: e non le ha prodotte la natura, ma create il lavoro umano. Infatti all'intreccio dei vimini flessibili si aggiunge la solidità della terra e non si teme affatto di opporre alle onde marine una difesa tanto fragile: si fa così perché il litorale basso non può scagliare a terra grandi ondate, e le onde vengono senza forza non avendo l'aiuto della profondità. Un'unica risorsa hanno gli abitanti, quella di mangiare solamente pesci a sazietà. Ivi poveri e ricchi vivono allo stesso modo. Un identico cibo sostenta tutti, uno stesso tipo di abitazione rinserra ogni cosa, non conoscono l'invidia riguardante le case e, vivendo con questo tenore, stanno fuori del vizio, al quale, come si sa, tutto il mondo soggiace. Ogni loro sforzo è rivolto alla produzione del sale: invece di aratri e di falci fanno rotolare dei rulli; di qui viene ogni vostro provento, dal momento che possedete in esso anche gli altri generi che non producete. In un certo qual modo lì si conia la moneta per il vostro sostentamento. Ogni onda sottostà al vostro trattamento. Può essere chi non va in cerca dell'oro, ma non c'è nessun uomo che non si dia da fare per reperire il sale e giustamente, dato che noi dobbiamo a tale sostanza se ogni tipo di cibo può riuscire assai gradevole:

Le invasioni barbariche e la "Venetia" bizantina

L'interesse dei centri dell'entroterra verso i luoghi della costa alto adriatica, dove nel tempo si era andata maturando anche una diffusa, per quanto sparsa, realtà insediativa, si viene accentuando verso la fine dell'impero, non per motivi di carattere economico ma in coincidenza con le prime invasioni barbariche.

I "Claustra Alpium Iuliarum", la potente linea fortificata (159) che dal Golfo del Quarnaro presso "Tarsatica" (Fiume), lungo i rilievi del Carso e i crinali delle Alpi Giulie, arrivava fino al corso della Gail in Carinzia, articolandosi in muraglioni, torri di vedetta e castelli (160), invano avevano cercato di fermare la minacciosa e crescente pressione dei barbari. Prima Alarico con i suoi Visigoti nel 401 e nel 408 e quindi gli Unni guidati da Attila, che nel 452 avevano costretto Aquileia alla capitolazione, erano entrati nella "Venetia", seguendo nella loro rovinosa penetrazione la direttrice della via "Annia".

È ben logico che allora, davanti al pericolo degli invasori, gli abitanti dei luoghi, che si venivano a trovare sul loro itinerario, abbiano abbandonato le loro sedi cercando rifugi sicuri, in particolare nelle zone del prossimo litorale, vietate per le loro stesse caratteristiche ambientali alle schiere dei barbari.

Ma come improvviso era stato l'attacco, seguito dalla rapida ritirata dell'invasore, così dovette essere altrettanto limitata nel tempo la permanenza nella fascia litoranea dei fuggiaschi, con il successivo ritorno alle loro case. Tuttavia, anche se di breve durata, l'incontro con i luoghi della costa dovette offrire agli esuli dell'entroterra, oltre all'esperienza di un nuovo sistema di vita, anche la diretta conoscenza di una diversa realtà ambientale e dei suoi nuclei insediativi, presso i quali era possibile trovare scampo in caso di altre invasioni.

Comunque, anche dopo tali invasioni e il successivo "Regnum Gothorum" in seguito all'ingresso in Italia, nel 489, di Teoderico, l'unità della "Venetia" non viene ancora meno e continuano gli scambi e i traffici fra le città dell'interno e il mare lungo quel reticolo stradale e quella rotta per acque interne che Roma aveva qui aperto ed organizzato. Ne sono prova la lettera già ricordata di Cassiodoro e quella dove parla di approvvigionamenti di "vinum et triticum [vino e frumento> ex Concordiense, Aquileiense et Foroiuliense civitatibus" (161).

Con la guerra gotica invece si comincia ad avvertire un iniziale distacco della "Venetia maritima" dalla terraferma; ne è spia l'itinerario seguito da Narsete nel 552, il quale, per sfuggire alle forze dei Goti e dei loro alleati Franchi, attestati nell'entroterra, era costretto a percorrere i luoghi del litorale per raggiungere Ravenna (162). In questo suo obbligato cammino si può cogliere infatti il principio di una crescente dicotomia fra queste due realtà territoriali, che risulterà evidente pochi anni dopo, nel 569, in seguito all'invasione dei Longobardi.

Superato il facile ed ormai aperto ostacolo delle Alpi lungo la via delle precedenti invasioni, i Longobardi con il loro re Alboino occupavano Cividale e, dopo aver fissato in questa città la capitale del loro primo ducato in Italia sotto il comando di Gisulfo, si volgevano verso Verona seguendo la direzione dell'antica via "Postumia" (163).

Con la stabile presenza di questo popolo si venivano così a delineare due diverse e contrapposte realtà territoriali: la "Venetia" longobarda, che comprendeva gran parte delle terre del Veneto interno, e la "Venetia" bizantina, attestata lungo l'arco dell'alto Adriatico, con i due salienti "continentali" di Padova e Monselice a occidente e di Oderzo a settentrione, inseriti nei territori ora longobardi (164).

Come conseguenza, finivano per prendere sempre maggiore rilievo e importanza, da una parte le vie dell'interno, che facevano capo a Cividale e si innestavano sul percorso della via "Postumia", dall'altra la rotta endolagunare da Ravenna a Grado, nel cui "castrum" (165), in seguito all'invasione longobarda, aveva trovato rifugio e nuova sede il Patriarca di Aquileia, dando all'isola, con la sua presenza, una nuova dimensione storica e spirituale.

Però una tale situazione politica, determinata da aree territoriali sotto il controllo ora longobardo ora bizantino, non viene all'inizio a determinare una completa rottura di rapporti fra queste due realtà contrapposte, anche se le possibilità di incontri fra i luoghi della costa e l'entroterra si fanno sempre più difficili. Ne sono prova le sinodo tenute prima a Grado e quindi nella non lontana Marano (166), centri in piena area bizantina, dove convengono pacificamente anche vescovi di territori soggetti ai Longobardi; sinodo che stanno a dimostrare l'esistenza di una frontiera non chiusa e di percorsi praticabili fino alla linea costiera.

Ben presto però anche questa limitata possibilità di scambi e di incontri doveva vedere la sua fine a cominciare dall'azione del re Agilulfo, passato al contrattacco dopo che i Bizantini, con gli alleati Franchi, avevano cercato di porre termine alla realtà longobarda, obbligando il predecessore Autari a difendersi nella stessa Pavia (167).

Assicuratosi a sua volta l'alleanza dei Franchi (168), Agilulfo nel 602 riusciva ad eliminare il saliente occidentale bizantino con la conquista di Padova (169) e quindi di Monselice e dei centri di Cremona e Mantova (170), costringendo così l'Esarcato a ridursi alla sola fascia costiera adriatica, dove trovavano rifugio molti provenienti dall'entroterra.

Nel 639, pure Oderzo e il suo saliente cadevano in mani longobarde per opera di Rotari (171), ed anche qui l'Esarcato era costretto a trovare il suo spazio territoriale nei luoghi idrograficamente difficili a sud della sempre più obliterata via "Annia", divenuta ora linea di demarcazione fra la "Venetia" interna e quella marittima.

Infine, nel 669, il successivo intervento di Grimoaldo contro Oderzo (172), con la conseguente spartizione del territorio già soggetto alla giurisdizione di questa città fra i ducati di Treviso, di Ceneda e di Cividale, rendeva completo e definitivo il distacco fra l'area veneta, oramai in saldo possesso dei Longobardi, e la frangia lagunare adriatica, controllata dalle forze e soprattutto dalla flotta di Bisanzio, con il pressoché totale venir meno di ogni rapporto bilaterale di traffici e di intraprese fra la costa e l'interno della regione.

Anche nei luoghi compresi fra le lagune di Venezia e di Grado, fin dal primo apparire dei Longobardi, erano affluiti gli esuli del vicino entroterra, trovandovi questa volta stabile dimora con il perpetuarsi e il consolidarsi delle conquiste degli invasori. E qui, assieme a quanti avevano già fermato le loro sedi nelle terre del litorale, nel tempo i nuovi venuti erano riusciti a dar vita e volto ad una peculiare società con una sempre più accentuata individualità, che aveva il suo punto di riferimento politico in "Civitas Nova" o "Heraclea" (173), la città legata al nome dell'imperatore bizantino Eraclio e costruita ai margini degli spazi lagunari dopo la caduta di Oderzo, e il suo centro spirituale nel Patriarcato di Grado (174).

Oltre a "Civitas Nova" e Grado, nella nuova situazione storica venutasi a creare in questi luoghi, avevano trovato alimento e sviluppo anche altre località, stretta-mente collegate con l'Adriatico e soprattutto con la rotta per acque interne, divenuta ora la principale via di comunicazione della "Venetia maritima". Così Chioggia e Malamocco e Torcello nella grande laguna; e accanto a queste non dovevano certamente mancare insediamenti, seppur di minore rilievo, nelle isole della futura Venezia se, intorno agli anni 775-776, si rendeva necessaria la creazione della diocesi di Olivolo (175), che presuppone la presenza di già costituiti ed anche numerosi nuclei di vita. Ed ancora, Iesolo e Caorle e i "castra" e i "castella", che le antiche cronache ricordano e che ci parlano di una diffusa realtà insediativa, anche militarmente organizzata, come dimostra l'aiuto prestato dai Venetici all'esarca Eutichio per il suo ritorno a Ravenna (176), dopo la conquista di questa città, nel 740, da parte di re Liutprando (177).

Erano costoro i "Venétikoi" dei Bizantini, gli abitanti della "Venetikà" (178), la fascia litoranea che da Chioggia si portava fino a Grado, i quali attraverso tanti lunghi anni di duro lavoro avevano saputo trasformare una terra alla vista così ingrata e repulsiva in un insieme di isole vive ed operose. Un popolo di pescatori, di salinari, di marinai che con la ormai maturata coscienza di essere gli artefici del proprio avvenire, soprattutto dopo la riconquista di Ravenna, nel 751, per opera di Astolfo (179), si erano decisamente volti lungo le grandi vie del mare a preparare i futuri destini della Serenissima.

1. Polybius, Historiae, 3, 40, 8; Livius, Historiarum ab urbe condita libri, Periochae, 20.

2. Polybius, 2, 23, 2; 2, 24, 7. Anche Strabo, Geographica, 5, 1, 9, 216.

3. Livius, 10, 2, 9.

4. Giovan Battista Pellegrini - Aldo Luigi Prosdocimi, La lingua Genetica, I, Padova 1967, pp. 25-290; Giulia Fogolari, La protostoria delle Venezie, in AA.VV., Popoli e civiltà dell'Italia antica, IV, Roma 1975, pp. 81-108 (pp. 63-222).

5. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 291-376; Giulia Fogolari, Padova preromana, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, pp. 27-45.

6. Michele Tombolani, Altino preromana, in Bianca Maria Scarfì - Michele Tombolani, Altino preromana e romana, Quarto d'Altino 1985, pp. 51-68.

7. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 629-653; Giulia Fogolari, Adria paleoveneta. in AA.VV., Adria antica, Venezia 1970, pp. 27-32.

8. Sull'antico corso dell'Adige per Montagnana ed Este: Bruno Bresciani, L'antico corso atestino dell'Adige, "Bollettino della Società Letteraria di Verona", 9, 4, 1933, pp. 125-129; Gian Carlo Zaffanella, Geomorfologia e archeologia preistorica del territorio compreso fra l'Adige, i Colli Berici e i Colli Euganei, Montagnana 1981, p. 17.

9. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 25-26.

10. Luciano Bosio, Problemi topografici di Padova preromana, in AA.VV., Padova preromana, Padova 1976, pp. 3-9.

11. Giulia Fogolari, Paleoveneti a Vicenza. Guida alla Mostra paleoveneta, Vicenza 1963; G.B.

Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 377-391.

12. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 393-428.

13. Eno Bellis, Origini di Oderzo, Oderzo 1964; G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 429-441.

14. Strabo, 5, 1, 5, 212.

15. Servius, Servii Grammatici qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica, Georgicon, 1, 262.

16. Luciano Lazzaro, Fons Aponi. Abano e Montegrotto nell'antichità, Abano Terme 1981, pp. 27-44; Giovanna Tosi, Padova e la zona termale euganea, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 180-189 (pp. 159-193).

17. Su Asolo paleoveneta: G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 393-428; Giulia Fogolari, La civiltà paleoveneta al di fuori dell'area euganea, in AA.VV., Este e la civiltà paleoveneta a cento anni dalle prime scoperte. Atti dell'XI Convegno di Studi etruschi e italici (Este-Padova, 27 giugno - 1 luglio 1976), Firenze 1980, p. 95 (pp. 89-97).

18. G. Fogolari, La protostoria delle Venezie, pp. 117-124.

19. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, pp. 613-621 (Gurina); pp. 621-628 (Würmlach).

20. Josef Szombathy, Das Grabfeld zu Idria bei Bača in der Grafschaft Görz, "Mitteilungen der prähistorischen Commission Akademie der Wissenschaften ", I B, n. 5, Wien 1901, pp. 291-363; G. Focolari, La protostoria delle Venezie, p. 155.

21. Carlo Marchesetti, Scavi nella necropoli di S. Lucia presso Tolmino, Trieste 1893; Bruna Forlati Tamaro, S. Lucia di Tolmino. Nuovi ritrovamenti nella necropoli preistorica, "Notizie degli Scavi di Antichità", ser. VI, 6, 1930, pp. 419-428; G. Fogolari, La protostoria delle Venezie, pp. 153-155

22. Livius, 10, 2, 9.

23. Johannes Zonaras, Epitome historiarum, a cura di Ludwig Dindorf, Leipzig 1868-75, 8, 20, 10.

24. Franco Sartori, Padova nello stato romano dal secolo III a.C. all'età dioclezianea, in AA.VV., Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, p. 104 (pp. 89-189).

25. Su questo episodio e sull'intervento romano nella "Venetia" orientale si veda il fondamentale lavoro di Franco Sartori, Galli Transalpini transgressi in Venetiam, "Aquileia Nostra", 31, 1960, coll. 1-40.

26. Livius, 38, 22, 6-,7.

27. Plinius, Naturalis Historia, 3, 131.

28. Heinrich Nissen, Italische Landeskunde, I, Berlin 1899, p. 477-481; Francesco Lorenzo Pullè, Italia: genti e favelle, I, Torino 1927, pp. 284-293; Aristide Calderini, Aquileia romana. Ricerche di storia ed epigrafia, Milano 1930, p. 2.

29. Livius, 39, 45, 3, 39, 56, 3.

30. Ibid., 40, 34.

31. Ibid. Sulla divisione agraria del territorio di Aquileia: Alma Bianchetti, L'agro di Aquileia, in AA.VV., Contributi per la storia del paesaggio rurale del Friuli - Venezia Giulia, Pordenone 1980, pp. 21-71 e in particolare p. 64.

32. Livius, 39, 2, 10.

33. Ibid., 37, 57, 7.

34. Scrive Strabone (5, 1, 11, 217) che il console Lepido stese una via da Bologna ad Aquileia. Nereo Alfieri (Le vie di comunicazione dell'Italia settentrionale, in AA.VV., Arte e civiltà romana nell'Italia settentrionale dalla Repubblica alla Tetrarchia, I, Bologna 1964, p. 61 [pp. 57-70>) ritiene che la notizia di Strabone sia da riferire al secondo consolato di Lepido (175 a.C.).

35. Pierangela Croce Da Villa, Concordia Sagittaria: cenni storici, in AA.VV., La via Annia. Memoria e presente, Venezia 1984, p. 65 (pp. 65-66).

36. Pomponius Mela, Chorographia, 2, 4, 61 Plinius, 3, 127.

37. Sul corso antico del Natisone: Alvise Comel, Ricerche preliminari per l'identificazione naturale del corso del Natisone presso Aquileia romana, "Aquileia Nostra", 3, 1, 1932, coll. 23-46 e soprattutto coll. 45-46.

38. Rita Rigo, Sul percorso dell'Isonzo nell'antichità classica, "Aquileia Nostra", 24-25, 1934, coll. 13-26.

39. Aldo Luigi Prosdocimi, La lingua, in Giulia Fogolari - Aldo Luigi Prosdocimi, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988, p. 316 (pp. 22I-420).

40. Cf., su questo avvenimento, qui sopra alla n. 34.

41. Livius, 41, 3, 4. Anche F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 107-108.

42. L'"Itinerarium Antonini" ricorda una via da Aquileia a Bologna (Itineraria Romana, I, a cura di Otto Cuntz, Lipsiae 1929, pp. 281-282) nella quale con ogni probabilità si puo ritrovare il tracciato steso dal console Emilio Lepido. Su questo percorso stradale: Luciano Bosio, Itinerari e strade della Venetia romana, Padova 1970, pp. 115-120.

43. La via "Postumia" è ricordata dal miliare C.I.L., I, 624 = I.L.S., 5806 = I.L.L.R., 452; dall'iscrizione aquileiese C.I.L., V, 8313 = I.L.S., 5366 = I.L.L.R., 487a; dalla "Sententia Minuciorum" C.I.L., V, 7749 = I.L.S., 5946 = I.L.L.R., 517.

44. Plinio Fraccaro, La via Postumia nella Venezia, in Id., Opuscula, III, Pavia 1957, p. 197 (pp. 195-227): il suo scopo "non era quello di congiungere Genova con Aquileia, cioè due città situate agli opposti limiti della Cisalpina e senza rapporti diretti fra loro; ma di costituire quella che oggi, nel linguaggio militare, si direbbe una strada di arroccamento".

45. Per il percorso della via "Postumia" nel territorio veneto: Luciano Bosio, La via Postumia da Oderzo ad Aquileia in relazione alla rete viaria della Venetia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 123, 1964-65, pp. 279-338.

46. Tre cippi confinari ricordano l'intervento del proconsole della provincia gallica Lucio Cecilio Metello Calvo a dirimere la questione sorta fra Padova e Este a proposito dei confini dei loro rispettivi territori: C.I.L., I, 633 = V, 2491 = I.L.S., 5944a; C.I.L., I, 634 = V, 2492 = I.L.S., 5944; C.I.L., I, 2051 = I.L.L.R., 476). Su questo intervento e su quello del proconsole Serrano, di cui alla nota successiva: F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 109-110.

47. Il cippo, ritrovato a Lobia, ricorda il proconsole Sesto Attilio Serrano e la delimitazione dei confini fra Este e Vicenza: C.I.L., I, 636 = V, 2490 = I.L.S., 5945 = I.L.L.R., 477.

48. Il nome della via "Annia" si ritrova in due iscrizioni scoperte presso Aquileia (C.I.L., V, 7992, 7992a = I.L.S., 5860; Giovanni Brusin, Sul percorso della via Annia fra il Piave e la Livenza e presso Torviscosa, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 108, 1949-50, pp. 125-127 [pp. 115-129>) e in una iscrizione d'incerta provenienza, ora andata perduta (C.I.L., V, 1008a = I.L.S., 5375).

49. Il nome del console Publio Popillio Lenate è presente in un miliare, ritrovato nel secolo scorso nella località Tomba di Adria: C.I.L., I, 637 = V, 8007 = I.L.S., 5807 = I.L.L.R., 453. Sul percorso della via "Popillia": L. Bosio, Itinerari, pp. 41-49.

50. Sul percorso da Adria a Padova: L. Bosio, Itinerari, p. 54.

51. Polybius, 2, 14, 7.

52. Livius, Periochae, 68.

53. Plutarchus, Lives, IX; Marius, 23, 3-5.

54. Jacopo Zennari, I Vercelli dei Celti nella valle padana e l'invasione cimbrica della Venezia, Cremona 1956, pp. 62-76; Id., La battaglia di Vercelli o dei Campi Raudii, Cremona 1958, pp. 9-11.

55. Plutarchus, Marius, 24-27; Flavius Eutropius, Breviarium ab urbe condita, 5, 2.

56. Franco Sartori, Verona romana. Storia Politica. Economica. Amministrativa, in AA.VV., Verona e il suo territorio, I, Venezia 1960, p. 176 (pp. 159-259).

57. Luciano Bosio, Veneto romano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, p. 70 (pp. 63-81).

58. Plinio Fraccaro, La colonia romana di Eporedia (Ivrea) e la sua centuriazione, in Id., Opuscula, III, 1, Pavia 1957, p. 102 (pp. 93-121).

59. Livius, 40, 34: "Aquileia colonia latina [...> in agro Gallorum est deducta".

60. Appianus, Bellorum civilium liber primus, 1, 29, 130; 1, 30, 136.

61. Cicero, Pro Balbo, 21, 48.

62. Sulla legge di Gneo Pompeo Strabone: F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 112-122.

63. Quintus Asconius Pedianus, Orationum Ciceronis

quinque enarratio, In Pisonem, 2-3.

64. Giorgio Luraschi, Foedus ius Latii civitas: aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, pp. 145-146.

65. Catullus, Carmina, 17, 1.

66. Alessandra Menegazzi, Verona. Centuriazione a nord dell'Adige, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 133-137.

67. Giovanna Gambacurta, Padova nord (Cittadella-Bassano). La centuriazione, ibid., pp. 152-158.

68. Paola Furlanetto, Asolo, ibid., pp. 179-185.

69. Scholia in Lucani bellum civile.

70. Anna Nicoletta Rigoni, Oderzo, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 186-194

71. Plinio Fraccaro, Il sistema stradale romano intorno a Padova, in AA.VV., Basi storiche e prospettive dello sviluppo di Padova. Atti del Convegno di Studi, 25-26 aprile 1959, Padova 1959, p. 29 (pp. 15-31).

72. G.B. Pellegrini - A.L. Prosdocimi, La lingua, p. 315: "Loreggia = Aurelia con agglutinazione dell'articolo".

73. Andrea Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undecimo, I, Venezia 1877-81, n. 107.

74. Per il percorso di questa via: L. Bosio, Itinerari, pp. 123-126.

75. Sul percorso Bergamo - Verona, descritto dall'Itineriarium Antonini (Itineraria Romana, I, 127-128), dall'Itinerarium Burdigalense (Itineraria Romana, I, 558) e dalla Tabula Peutingeriana (Codex Vindobonensis 324, Segmentum III, 2-3), si veda L. Bosio, Itinerari, pp. 83-92.

76. La via è ricordata dall'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 282) e per il tratto da Verona ad Ostiglia dalla Tabula Peutingeriana (Segmenta III, 4-5; IV, 1). Per il suo percorso: L. Bosio, Itinerari, pp. 67-71.

77. Luciano Bosio, La Valcavasia in età preromana e romana, in AA.VV., La Valcavasia. Ricerca storico-ambientale, Treviso 1983, p. 291 (pp. 283-295).

78. Parlano di questo percorso stradale l'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 128), l'Itinerarium Burdigalense (Itineraria Romana, I, 559) e la Tabula Peutingeriana (Segmentum III, 4). Sul suo itinerario: L. Bosio, Itinerari, pp. 109-111.

79. La strada, diretta da Aquileia ai territori norici attraverso il passo di Monte Croce Carnico, è descritta dall'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 279-280). Quella per il passo di Tarvisio dall'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 276) e dalla Tabula Peutingeriana (Segmenta III, 5; IV, 1-2). Su questi percorsi: L. Bosio, Itinerari, pp. 163-170 (la via per il passo di Monte Croce Carnico); pp. 147-160 (la via per il passo di Tarvisio).

80. Attilio Degrassi, Fasti Triumphales, in I.I., XIII, 1, pp. 84-85, fr. 36.

81. Su questa via, diretta a "Iulia Emona" (Lubiana): l'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 128-129), l'Itinerarium Burdigalense (Itineraria Romana, I, 559-560) e la Tabula Peutingeriana (Segmenta III, 5; IV, 1). Si rimanda a L. Bosio, Itinerari, pp. 187- 198.

82. Da Aquileia una via per i centri dell'Istria costiera è descritta dall'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 270-271) e dalla Tabula Peutingeriana (Segmentum III, 5). Sempre partente da Aquileia, un percorso stradale per l'Istria interna è ricordato dall'Itinerarium Antonini (Itineraria Romana, I, 272-273). Su queste vie: L. Bosio, Itinerari, pp. 201-211.

83. Plinius, 3, 129; Appianus, Historia Romana, Illyrica, 10, 30. Due iscrizioni, dedicate a Sempronio Tuditano e alla sua impresa, sono state ritrovate a Monastero di Aquileia (C.I.L., I, 652 = I.L.S., 8885 = I.I., X, 4, 317) e a Duino (I.I., X, 4, 330).

84. Su Grado e sul suo scalo portuale, in diretta comunicazione con Aquileia attraverso la retrostante laguna e il corso terminale del Natisone: Luciano Bosio, Grado e la sua laguna in età romana, in AA.VV., Grado, Udine 1980, pp. 12-40.

85. Sulla cittadinanza romana alla Cisalpina e sulla sua concessione ai centri della "Venetia" si veda quanto scrive F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 122-129.

86. Appianus, Historia Romana, 2, 12.

87. Vergilius, Bucolica et Georgica, Egloga, I, vv. 3-4, 71-72.

88. Per la centuriazione dell'agro mantovano si rimanda a Elena Mutti Ghisi, La centuriazione triumvirale dell'agro mantovano, Brescia 1981.

89. Paolo Lino Zovatto, Guida del Museo e della città di Portogruaro, Portogruaro 1965, p. 10. Su "Iulia Concordia": Pierangela Croce Da Villa, Iulia Concordia, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 391-417 con precedente bibliografia.

90. Luciano Bosio, La centuriazione dell'agro di Iulia Concordia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 124, 1965-66, pp. 195-260.

91. L'identificazione del "flumen Reatinum" con l'odierno Lemene in Guido Rosada, I fiumi e i porti nella Venetia orientale: osservazioni intorno ad un famoso passo pliniano, "Aquileia Nostra", 50, 1979, col. 220 (coll. 173-256).

92. Strabo, 5, 8, 1, 214.

93. Plinius, 3, 123.

94. Hans Philipp (s.v. Romatinus, in R.E., I A, Stuttgart 1914, col. 1067) localizza il "portus Reatinum" di Plinio nel vicino porto di Falconera, dove oggi sfocia il Lemene, ma i numerosi ritrovamenti antichi, venuti alla luce a Caorle (C.I.L., V, 1956-62; "Notizie degli scavi di Antichità", 1885, p. 492) convincono di fissare in questo centro il porto a mare di Concordia.

95. C.I.L., V, 1956.

96. Velleius Paterculus, Historia Romana, 2, 76, 2.

97. Su Altino romana e sulla sua importanza come centro portuale, ora l'esauriente lavoro di Bianca Maria Scarfì, Altino romana, in Bianca Maria Scarfì - Michele Tombolani, Altino preromana e romana, Quarto d'Altino 1985, pp. 71-158.

98. Strabo, 5, 1, 7, 213.

99. Dante Olivieri, Toponomastica Veneta, Venezia-Roma 1961, p. 148.

100. C.I.L., V, 2501.

101. Eugenia Pelà, Proposta di ricostruzione della centuriazione di Este, Tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1984-85.

102. Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957, p. 241 (pp. 179-401).

103. Alessandra Menegazzi, Verona. Centuriazione a sud dell'Adige, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 137-140.

104. Alessandra Menegazzi, Vicenza. La centuriazione, ibid., pp. 143-144.

105. Paola Furlanetto, Treviso, ibid., pp. 172-177.

106. Cristina Mengotti, Altino, ibid., pp. 167-169.

107. Giovanna Gambacurta, Val Belluna. La centuriazione, ibid., pp. 195-198.

108. Maria Visintini, L'agro di Forum Iulii, in AA.VV., Contributi per la storia del paesaggio rurale nel Friuli - Venezia Giulia, Pordenone 1980, pp. 73-90.

109. Cristina Mengotti, Padova nord-est. Camposampiero, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 159-166.

110. Luciano Bosio, Capire la terra: la centuriazione romana del Veneto, ibid., p. 21 (pp. 15-21).

111. Su questo "terminus": Luciano Lazzaro, Scoperta di un cippo gromatico a S. Pietro Viminario, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", 84, 3, 1971-72, pp. 190-199. Su questa divisione agraria: Stefania Pesavento Mattioli, La centuriazione del territorio a sud di Padova come problema d ricostruzione storico-ambientale, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pp. 92-108.

112. Cassius Dio, Historia Romana, 54, 21-22; Livius, Periochae, 136; Plinius, 3, 136.

113. Sui diversi pareri degli studiosi sulla data di questa divisione dell'Italia in undici regioni si veda Luciano Bosio, L'Istria nella descrizione della Tabula Peutingeriana, Trieste 1974, p. 19, n. 1.

114. Sull'epoca in cui appare la denominazione di "Venetia et Histria": Claudio Zaccaria, Il governo romano nella X regio e nella provincia Venetia et Histria, in AA.VV., Aquileia nella "Venetia et Histria" (A.A., 28), Udine 1986, pp. 73-78 (pp. 65-103).

115. Scylax, in Geographi Graeci Minores, a cura di Karl Müller, I, Paris 1855, Periplus, 20.

116. Svetonius, De vita Cesarum, Augustus, 49, 1:"[...> classem Miseni, alteram Ravennae ad tutelam Superi et Inferi maris conlocavit"; Tacitus, Annales, 4, 5: "Italiam utroque mari duae classes, Misenum apud et Ravennam [...> praesidebant"; Vegetius, Epitoma rei militaris, 4, 30: "classis autem Ravennatium Epiros Macedoniam Achaiam Propontidem Pontum Orientem Cretam Cyprum petere diretta navigatione consueverat".

117. Plinius, 3, 120; 36, 83; Sidonius Apollinaris, Poems and Letters, a cura di W.B. Anderson, London-Cambridge, Massachusetts 1965, 1, 5, 5; Iordanis, Getica, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, V, 1, a cura di Theodor Mommsen, 1882, c. 29.

118. Sul percorso di questa via: L. Bosio, Itinerari, pp. 173-177.

119. C.I.L., V, 7995, 7996, 7997, 7998, 7999.

120. C.I.L., V, 7994.

121. C.I.L., V, 8002 = I.L.S., 208.

122. Per l'itinerario della via "Claudia Augusta" si rimanda a L. Bosio, Itinerari, pp. 129-143.

123. C.I.L., V, 8003.

124. Fra gli altri Plinio Fraccaro, La via Claudia Augusta, in Id., Opuscula, III, 1, Pavia 1957, pp. 229-232.

125. Per il percorso di questo tratto viario da Ariano Vecchio ad Altino, con la localizzazione delle diverse poste stradali: Luciano Bosio, I problemi portuali della frangia lagunare veneta nell'antichità, in AA.VV., Venetia. I. Studi miscellanei di archeologia delle Venezie, I, Padova 1967, pp. 72-83 (pp. 13-96).

126. Tabula Peutingeriana, Segmenta III, 4-5; IV, 1.

127. Plinius, 3, 120: "Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur". Su questi "Septem Maria": Luciano Bosio, I Septem Maria, "Archeologia Veneta", 2, 1979, pp. 33-40 (pp. 33-44).

128. Lucia Sanesi Mastrocinque, L'insediamento di Corte Cavanella (Loreo - Rovigo). Campagna di scavo 1984, "Archeologia Veneta", 7, 1984, pp. 191-198; Ead., Rovigo. L'insediamento romano di Corte Cavanella (Loreo). Rapporto preliminare, "Quaderni di archeologia del Veneto", 1, 1985, pp. 11-23.

129. Plinius, 3, 121: "[...> Fossiones ac Philistina, quod alii Tartarum vocant, omnia ex Philistinae fossae abundatione nascentia […>".

130. C.I.L., V, 2307-2312; Vincenzo Bellemo, Il territorio di Chioggia, Chioggia 1893.

131. Plinius, 3, 121.

132. Guido Rosada, Portus Aedro - Vallonga (Padova), "Archeologia Veneta", 3, 1980, pp. 69-96.

133. Plinius, 3, 121.

134. Jacopo Filiasi, Memorie storiche de' Veneti primi e secondi, II, Padova 1811, pp. 190-191.

135. Flavius Aelianus, in Aelian. On the Characteristics of Animals, a cura di A.F. Scholfield, London - Cambridge, Massachusetts 1958, 14, 8.

136. Venantius Fortunatus, Opera poetica, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, IV, 1, a cura di Friederich Leo, 1881, Vita Sancti Martini, 4, 677.

137. Anonymus Ravennas, Cosmographia, in Itineraria Romana, II, a cura di Joseph Schnetz, Lipsiae 1940, 4, 36

138. Strabo, 5, 1, 5, 214.

139. Strabo, 5, 1, 5, 212.

140. Livius, 10, 2. Sul racconto liviano si veda Luciano Bosio, Note per una propedeutica allo studio storico della laguna veneta in età romana, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 142, 1983-84 pp. 99-103 (pp. 95-126).

141. Itineraria Romana, I, 126.

142. Herodianus, Ab excessu divi Marci libri VIII, 8, 7, 1.

143. Pomponius Mela, 2, 4, 62.

144. Plinius, 3, 120.

145. Tabula Peutingeriana, Segmentum IV, 1.

146. La "mansio Neronia", che richiama un'opera idraulica legata al nome di questo imperatore, è presente nella Tabula Peutingeriana (Segmentum III, 5).

147. Lech Leciejewicz, Alcuni problemi dell'origine di Venezia alla luce degli scavi di Torcello, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi, esperienze, proposte, Venezia 1981, pp. 55-63.

148. "Année épigraphique", 1947, n. 149; Diokletians Preisedikt, a cura di Siegfred Lauffer, Berlin 1971.

149. Silvio Panciera, Porti e commerci nell'alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'alto Adriatico (A.A., 2), Udine 1972, pp. 93-112 (pp. 79-112). Qui anche i prezzi dei noli da Alessandria e dall'Oriente ad Aquileia e il loro confronto con il costo di trasporto da Ravenna a quest'ultima città.

150. Aristide Calderini, Per la storia dei trasporti fluviali da Ravenna ad Aquileia, "Aquileia Nostra", 10, 1939, col. 35 (coll. 33-36).

151. Procopius, De bello gothico, 1, 1, 16-21.

152. Plinius, 3, 126.

153. G. Rosada, I fiumi e i porti nella Venetia orientale, coll. 177-178.

154. Strabo, 5, 8, 1, 214.

155. G. Rosada, I fiumi e i porti nella Venetia orientale, coll. 217-256.

156. Sul canale Anfora si vedano ora le interessanti precisazioni di Luisa Bertacchi, Presenze archeologiche romane nell'area meridionale del territorio di Aquileia, in AA.VV., Il territorio di Aquileia (A.A., 15, 1), Udine 1979, p. 275 (pp. 259-289).

157. Cassiodorus, Variae, 12, 24.

158. Ibid.

159. Ammianus Marcellinus, Rerum gestarum libri, 31, 11, 3; Notitia Dignitatum Occidentis, 24: Tractus Italiae circa Alpes, a cura di Otto Seeck, Berlin 1876. Per questa linea difensiva si rimanda a AA.VV., Claustra Alpium Iuliarum, I, Fontes, "Katalogi in Monografije - Narodni Muzej v Ljubljani", Ljubljana 1971.

160. Per la rete viaria e i centri fortificati collegati con il sistema difensivo dei "Claustra Alpium Iuliarum" si veda: Luciano Bosio, Le fortificazioni tardoantiche del territorio di Aquileia, in AA.VV., Il Territorio di Aquileia (A.A., 15, 2), Udine 1979, pp. 515-536.

161. Cassiodorus, 12, 26.

162. Procopius, 4, 26. Sull'itinerario seguito da Narsete si veda quanto scrive il Carile in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 153-154.

163. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 2, 9. Sul cammino di Alboino fino a Cividale: Luciano Bosio, Cividale del Friuli. La storia, Udine 1977, pp. 48-54.

164. Luciano Bosio - Guido Rosada, Le presenze insediative nell'arco dell'alto Adriatico dall'epoca romana alla nascita di Venezia, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, pp. 542-544 (pp. 509-567).

165. Mario Mirabella Roberti, Il Castrum di Grado, "Aquileia Nostra", 45-46, 1974-75, coll. 565-574.

166. Sulle sinodo di Grado e di Marano si veda quanto scrive il Fedalto in A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 315-327.

167. Paulus Diaconus, 3, 31.

168. Ibid., 4, 13: "Hoc etiam tempore Agilulf cum Theoderico Francorum rege pacem perpetuam fecit".

169. Ibid., 4, 23.

170. Ibid., 4, 28.

171. Ibid., 4, 45: (Rotari) "Opitergium quoque, civitatem inter Tarvisium et Foroiuli positam, pari modo expugnavit et diruit".

172. Ibid., 5, 28.

173. Iohannes Diaconus, La Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 64: "[...> insula in qua dudum ab Eraclio imperatore fuerat civitas magnopere constructa"; Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 44: "[…> Civitatis Novae, que Eracliana appellata est, de Ovedercina Civitate advenisse testatur". Su "Civitas Nova" o "Heraclea" si rimanda a Pierluigi Tozzi - Maurizio Harari, Eraclea Veneta, Bologna 1984; Guido Rosada, Da Civitas Nova a Heraclia: il possibile caso di una tradizione di propaganda sulle origini "antiche" di Venezia, "Aquileia Nostra", 77, 1986, coll. 909-928.

174. Scrive Paolo Diacono (4, 33): "His diebus defuncto Severo patriarcha, ordinatur in loco eius Iohannes abbas patriarcha in Aquileia vetere cum consensu regis et Gisulfi ducis. In Gradus quoque ordinatus est Romanis Candidianus antistis".

175. Iohannes Diaconus, pp. 89-90; Origo civitatum, pp. 31, 55, 159; Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, p. 91 (pp. 67-476); A. Carile (pp. 26-27) e G. Fedalto (pp. 381-386) in A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia.

176. Paulus Diaconus, 6, 54.

177. Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, p. 103; A. Carile in A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, p. 229. È Liutprando che con la sua "Terminatio Liutprandina" stabilisce con una precisa normativa la linea di confine fra le terre longobarde e quelle soggette all'amministrazione di "Civitas Nova", normativa ripresa poi dal re Astolfo. Sulla questione della "Terminatio" legata alla politica di Liutprando e di Astolfo e ripresa poi dai successivi trattati: Carlo Guido Mor, Sulla "Terminatio" per Cittanova-Eracliana (712-727), "Studi Medievali", ser. III, 10, 1969 (A Giuseppe Ermini), pp. 465-482.

178. Giovan Battista Pellegrini, L'individualità storico-linguistica della regione veneta, "Studi mediolatini e volgari", 13, 1965, pp. 150-151 (pp. 143-160).

178. R. Cessi, Venezia ducale, p. 113; A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, p. 230.