VILLANOVIANA, Cultura

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

VILLANOVIANA, Cultura (v. vol. VII, p. 1173 e s 1970, p. 922)

G. Bartoloni

Per «villanoviano» s'intende un sistema di consuetudini, un'espressione tipica di civiltà materiale dell'area che sarà storicamente etrusca. Tale termine è stato variamente utilizzato con significato etnico, cronologico e riduttivamente legato al rituale funerario. Spesso e anche di recente, soprattutto nella diatriba riguardante le origini degli Etruschi, ma non solo, i Villanoviani sono stati contrapposti agli Etruschi. Un popolo di Villanoviani non è mai esistito.

In alcuni casi a tale contrapposizione si è dato un valore prevalentemente cronologico come il Villanoviano contrapposto alla fase etrusca della Certosa nell'area bolognese e come per Tarquinia nella sequenza locale si è usato un Villanoviano I e II, piuttosto che un più appropriato Tarquinia I e II. Altre volte la presenza dell'incinerazione è stata sufficiente per interpretare un sepolcreto come villanoviano. L'equivoco consiste in genere nel diluire il concetto specificatamente culturale di villanoviano in un più vasto concetto di ideologia, usanze, rituali, con particolare riguardo alla cremazione, e di strutture sociali, caratteristiche dell'inizio dell'Età del Ferro nell'Italia centro-meridionale. Con il termine «villanoviano» e l'espressione «cultura v.» ci si riferisce dunque a un insieme di tratti culturali tipici degli abitanti della fascia costiera dell'Etruria tirrenica, nati da un insieme di vivaci esperienze della tarda Età del Bronzo e con aspetti (specie il rito funebre e alcune forme vascolari) che direttamente e indirettamente ne derivano, ma con «caratteri di prepotente ed esplosiva innovazione in senso protourbano e industriale» (Pallottino). Cultura, cioè, non significa nazione.

Tale manifestazione culturale deve naturalmente essere attribuita a un determinato gruppo di uomini: se in Etruria nel IX sec. esisteva una popolazione definita, cosa di cui non sembra più lecito dubitare, appare logico considerare il Villanoviano un'espressione culturale etrusca.

L'apparizione della civiltà villanoviana all'inizio dell'ultimo millennio a.C. rappresenta senza dubbio una novità socio-culturale esplosiva rispetto alle manifestazioni culturali della stessa Etruria («protovillanoviana») e alle culture dell'Italia che si erano venute definendo precedentemente (cultura laziale, paleoveneta, picena, ecc.).

Il carattere innovatore e la sua diffusione dai centri costieri ha fatto pensare addirittura (Hencken, Sundwall) all'arrivo di un nuovo popolo dal mare: ma, oltre all'assenza di analogia con aspetti culturali della loro supposta patria di origine nel Mediterraneo, molti, nonostante le accennate novità, appaiono i caratteri che legano la cultura «protovillanoviana» dell'Etruria propria alla cultura villanoviana.

Gli Etruschi stessi facevano risalire l'origine della nazione etrusca a una data corrispondente all'XI o al X sec. a.C.: Varrone (in Cens., Nat., XVII, 5-6 e in Serv., Aen., VIII, 526) riferisce che nei libri rituales risultava che la durata del nomen etrusco non avrebbe superato i dieci secoli; Servio ancora ricorda (Ecl., IX, 46) che, secondo Augusto, gli aruspici ritenevano che nel periodo del suo impero sarebbe iniziato il X sec., quello della fine del popolo etrusco.

Il sottosuolo delle maggiori città etrusche (Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Volsinii, Vetulonia, Chiusi, Volterra, ecc.) ha mostrato che il momento più antico dell'insediamento risale per lo più all'inizio dell'Età del Ferro. Non mancano però tracce di presenze anteriori riferibili alla fine dell'Età del Bronzo.

L'area nella quale si estende sin dal suo apparire la cultura v. non si limita al territorio dell'Etruria propria. Distinguiamo oltre al Villanoviano tirrenico: nel Ν un Villanoviano emiliano, che comprende la regione a S della Pianura Padana, facente capo a Bologna, e un Villanoviano romagnolo con testimonianze soprattutto nel Riminese, a Verucchio; nel centro della penisola un nucleo a Fermo (Ascoli Piceno), del tutto isolato; nel S un Villanoviano salernitano, documentato lungo la costa tirrenica, che dal fiume Picentino prosegue fino al promontorio di Agropoli, con le necropoli di Pontecagnano, Arenosola e Capodifiume, presso Paestum, probabile testa di ponte verso l'altro grande nucleo villanoviano meridionale, quello di Sala Consilina, posta all'interno tra territorio salernitano e Lucania nel Vallo di Diano.

Lo sviluppo di queste aree è contemporaneo al Villanoviano tirrenico: a seconda del tipo di cultura confinante si differenziano nel succedersi dei riti funerari e nell'acquisizione di tecniche e stili.

Più problematica appare la definizione di un villanoviano a Capua e nel Casertano, generalmente connessi culturalmente con i centri dell'Etruria interna.

Oggetto di discussione sono i motivi e i modi di diffusione di tali fenomeni culturali. Si è pensato, p.es., per il Villanoviano salernitano: a una «interazione di componenti culturali affini presenti in Toscana e nel Lazio settentrionale come in Campania che abbiano dato origine a un aspetto culturale omogeneo» (d'Agostino); a una sorta di colonizzazione a opera di piccoli nuclei provenienti dalle singole città etrusche; o a più generici rapporti culturali, commerciali e politici.

E verosimile che il modello villanoviano, formatosi nell'Etruria propria, si sia diffuso molto precocemente per via terrestre attraverso i valichi dell'Appennino tosco-emiliano nell'area bolognese e romagnola, per via marittima dall'Etruria costiera al litorale salernitano.

Il piccolo nucleo di Fermo (oltre 200 tombe), interrottosi precocemente (cioè nel corso dell'VIII sec. a.C.), è stato considerato un'emanazione dell'area riminese mediante la navigazione sulle coste del mare Adriatico (Pallottino); la forte analogia riscontrabile con l'ambiente etrusco, specie quello interno delle valli fluviali del Tevere e del Chiana con i centri, p.es., di Veio e Chiusi (non conosciamo quasi nulla di Orvieto), potrebbe far pensare a un rapporto diretto con l'Etruria interna.

A dare una certa verosimiglianza a un'eventuale «colonizzazione», cioè alla presenza di genti etrusche in queste propaggini «villanoviane», abbiamo il sostegno di fonti storiche ed epigrafiche. Da una parte disponiamo di notizie pervenuteci dagli autori antichi, quale quella di Plinio (Nat. hist., III, 70) che afferma che «il territorio lungo tremila passi che si stende dalla penisola sorrentina al fiume Sele appartenne agli Etruschi» (come sarà documentato in epoca storica), notizia che però non sappiamo a quale epoca riferire; o quella di Verrio Fiacco (frg. 1 P) che riteneva Tarconte, eroe eponimo di Tarquinia, e quindi i Tarquiniesi responsabili della fondazione delle dodici città dell'Etruria padana; dall'altra, di notevole importanza è la testimonianza a Bologna dell'uso della scrittura e della lingua etrusca a partire dal VII sec. a.C., periodo che soprattutto nel distretto emiliano non sembra presentare cesura con le fasi precedenti, tanto da essere ancora definito villanoviano; tali testimonianze del resto appaiono pressoché contemporanee alle più antiche attestazioni di iscrizioni nell'Etruria propria.

Sin dal primo apparire dei sepolcreti villanoviani ci si pose il problema della loro sequenza e delle caratteristiche più o meno rimarchevoli dell'uno o dell'altro gruppo evidenziati.

Sono state riconosciute quasi concordemente da tutti gli studiosi - da Karo (1898) a Montelius (1912), a Pallottino (1939) e d'Agostino (1965) - due periodi contraddistinti ciascuno da una serie di oggetti caratteristici ed esclusivi dell'uno e dell'altro di essi.

A un primo periodo, definito Villanoviano tipico, caratterizzato dall'esclusivo uso incineratorio con l'ossuario costituito dal vaso biconico o da un modellino di capanna, succede un altro periodo (Villanoviano evoluto), in cui comincia l'uso del rito dell'inumazione e si manifesta una crescente apertura al mondo greco, provocata dalle fondazioni euboiche nel golfo di Napoli (Pithecusa nel 770/760 a.C.; Cuma nel 740/730 a.C.).

Pur restando fondamentale questa sequenza culturale, che è stata generalmente accettata negli studi sui varî complessi villanoviani, per cui si distinguono Tarquinia I (suddivisa a sua volta in Tarquinia I Α-C) da Tarquinia II (II A e B), Bisenzio I da Bisenzio II, Veio I da Veio II, e così via, naturalmente ogni centro con delle peculiarità locali, sembra più opportuno differenziare in tre momenti l'evolversi delle manifestazioni villanoviane dell'Etruria propria (già a Bologna la sequenza appare diversamente articolata), evidenziate per lo più, ma non solo, dalla documentazione funeraria: il primo relativo al momento di assestamento del territorio e probabilmente di intensivo sfruttamento agricolo, corrispondente nel rituale funerario all'uso esclusivo dell'incinerazione; un secondo momento relativo all'interesse per le attività marinare, testimoniate dai frequenti contatti con altre popolazioni del mar Tirreno, periodo in cui al rito incineratorio si viene affiancando, indubbiamente in alcuni centri più aperti a esperienze esterne, quello inumatorio; un ultimo momento corrispondente all'impatto con il mondo greco e quindi caratterizzato dalle conseguenze di questo incontro e, per quanto riguarda il rito funebre, dal prevalente uso dell'inumazione. Considerando le denominazioni tradizionali (v. vol. VII, p. 1173) viene dato un certo rilievo al periodo intermedio tra le due fasi generalmente adottate (fase I C Hencken, Toms) corrispondenti, secondo la cronologia ormai generalmente accettata, ai decenni a cavallo tra IX e VIII sec. (820-770 a.C.).

Fase antica (900-820 a.C. circa). Il territorio appare diviso in grandi comprensorî facenti capo a gruppi di villaggi molto ravvicinati fra loro e a un esiguo numero di abitati isolati, dislocati in posizioni strategiche, per i quali si può ipotizzare una qualche forma di dipendenza. Alla serie di villaggi posti per lo più su altipiani difficilmente accessibili, con priorità difensiva rispetto all'esigenza dell'agricoltura, subentrano gli insediamenti su ampî pianori dove la popolazione si raggruppa in villaggi ravvicinati. Questi pianori - aree, come abbiamo visto, già frequentate, ma che non presentavano nessun carattere egemonico su altri siti - appaiono scelti, oltre che per l'estensione e l'accessibilità, per la possibilità di risorse esistenti nelle loro immediate vicinanze (colture, pascoli, metalli, ecc.) e per la loro localizzazione in prossimità di approdi costieri (come Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Vetu- lonia), fluviali (come Chiusi, Orvieto e Veio), lacustri (come Bisenzio). Eccezionale è la posizione di Populonia, proprio sulla costa; in genere questi agglomerati insediativi preferiscono ambienti collinari dove sfruttano terre arabili estese e bene asciutte e quindi distanti dal mare, dalle lagune costiere e dai fiumi almeno 4-5 km.

Nuclei di minor entità, già dall'inizio del IX sec. a.C., appaiono ubicati sia sulla linea di costa, come l'insediamento di Torre Valdaliga sopra Civitavecchia, da ritenere con molta probabilità un approdo riferibile al gruppo tarquiniese, sia sulla riva dei laghi, come il villaggio del Gran Carro sulla riva orientale del lago di Bolsena, facente capo verosimilmente a Orvieto (Volsinii). Nella pianura in parte anticamente occupata dal lago Prile, laguna sovrastata da Vetulonia, è stata evidenziata una piccola necropoli i cui materiali mostrano caratteristiche molto simili a quelli rinvenuti a Vetulonia.

Un discorso a parte merita Bisenzio, prospiciente la sponda occidentale del lago di Bolsena, presso l'odierna Capodimonte, in una zona di «confine» tra i territorî attribuiti ai gruppi di Vulci, Tarquinia e Orvieto-Volsinii. Questo agglomerato, costituito da almeno tre nuclei insediativi, pur non rientrando tra i complessi villanoviani che risulteranno capisaldi nella storia degli Etruschi, mostra per questo periodo una decisa autonomia culturale; mentre, come si è accennato, dalla fine dell'VIII sec. sembra rientrare nell'egemonia culturale vulcente.

Il processo di concentrazione della popolazione su un'area vasta, ma ben definita orograficamente, dovette compiersi in maniera non del tutto lineare. Oltre che sul pianoro principale, la cui estensione può raggiungere 180 ha, come a Vulci, o 190 ha, come a Veio, dove si ritiene trovassero posto un numero variabile di villaggi separati, ciascuno con una necropoli distinta, sappiamo che vi erano strutture abitative anche sui pianori limitrofi.

Per ricostruire le strutture abitative e l'organizzazione interna dei villaggi della prima Età del Ferro in Etruria non si hanno a disposizione molti dati. La maggior parte degli abitati è stata infatti solo individuata dai rinvenimenti di superficie. Scavi più o meno sistematici, che hanno portato alla scoperta di fondi di capanna o altre strutture riferibili almeno in parte al IX sec., sono stati effettuati a Veio, Tarquinia, Torre Valdaliga e la Mattonara sulla costa a Ν di Civitavecchia, al Gran Carro.

A Veio, nella collina di Piazza d'Armi gli scavi di E. Stefani hanno messo in luce per lo più piccole capanne quasi circolari, mentre sulla terrazza di Portonaccio o a Campetti si conoscono grandi capanne ovali. A Torre Valdaliga e alla Mattonara, sulla costa tarquiniese, sono state rinvenute strutture a pianta circolare, ovale e rettangolare. Al Gran Carro, insediamento posto sul lago di Bolsena, tra l'inizio del IX e l'VIII sec. a.C. sono state riconosciute tre fasi successive, l'ultima delle quali con abitazioni a pianta rettangolare costruite su impalcato aereo, cioè su palafitte.

L'unico insediamento villanoviano sufficientemente indagato, anche se solo in modo parziale, è quello recentemente scoperto a Tarquinia, dagli scavi della Fondazione Lerici nell'area della necropoli arcaica di Monterozzi, in località Calvario. A ridosso del ciglio settentrionale della collina, in un'area di 200x100 m, si sono individuati i resti di almeno venticinque capanne a pianta ovale, rettangolare allungata e quadrangolare.

Per Bologna, dove sono state messe in luce 500 capanne inquadrabili dagli inizî dell'VIII al VI sec., non è ancora risolto il problema dell'individuazione dell'abitato pertinente alle necropoli più antiche, quelle di San Vitale e Savena, risalenti al IX secolo.

Dalle tracce riconosciute sul terreno le capanne appaiono disposte senza alcun ordine prestabilito, per lo più abbastanza distanti fra loro, tanto da far ipotizzare l'esistenza di possibili appezzamenti di terreno coltivati e di aree destinate all'allevamento domestico. I resti di queste strutture sono costituiti essenzialmente dai fondi di capanne, riconoscibili talvolta per la presenza di canaletti di fondazione e di buchi di pali ma, per lo più, dallo strato antropico più o meno evidenziato sul terreno vergine. L'analisi delle impronte lasciate dalle capanne sul terreno mostra nel complesso l'adozione di una notevole varietà di soluzioni. Sono documentate infatti piante rotonde, ovali, quadrate e rettangolari, senza che il variare della forma implichi una qualche differenza cronologica, come mostrano gli esempî contemporanei di resti di capanne e il confronto con le coeve urne a capanna. Questi modellini funerarî, già attestati nell'Età del Bronzo Finale, ma in uso in Etruria soprattutto nel IX e nell'VIII sec., costituiscono la documentazione fondamentale per la ricostruzione delle abitazioni protostoriche, specie per l'alzato.

Tutte le ricostruzioni concordano nel ritenere le abitazioni della prima Età del Ferro in Etruria (come altrove nell'Italia protostorica) strutture con pareti di frascame intrecciato, in genere sorrette da pali fissati verticalmente al suolo, e intonacato con argilla, con una porta di preferenza sul lato breve, con tetto per lo più testudinato, coperto con frascame e strame, reso impermeabile con argilla, e con due abbaini sulle fronti per l'uscita del fumo del focolare. La luce oltre che dalla porta poteva venire da una o più finestre, poste ciascuna al centro dei lati lunghi. La caratteristica esteriore più appariscente del tetto era data da una schiera di pali, adagiati sulle falde maggiori, che dovevano trattenere il frascame della copertura e le cui estremità aggettanti venivano legate a coppia sul culmine, costituendo sopra al trave di colmo una sorta di cresta.

È indubbio che le tracce rilevate negli abitati possono appartenere non solo ad abitazioni, ma anche a magazzini per prodotti della terra o a fosse di scarico; le fosse senza focolare o ingresso possono molto verosimilmente riferirsi a deposito di generi alimentari. La sicurezza nell'interpretazione di una o dell'altra struttura può venire solo dall'analisi dei materiali rinvenuti negli strati archeologici; indicativa è infatti la presenza di fornelli o pentolame da cucina, di vasi da derrate o di resti faunistici. I villaggi dovevano essere costituiti da un numero limitato di capanne e da strutture accessorie, distanziate fra loro in maniera diseguale, e probabilmente non preordinata; non conosciamo per questa fase in Etruria né fortificazioni o altri sistemi difensivi, né aree sacre all'interno o all'esterno delle zone abitate.

Meglio degli abitati conosciamo le necropoli, attraverso l'analisi delle quali è stato possibile cogliere il quadro dello sviluppo culturale. Queste sono impiantate fuori dell'area abitata, generalmente su colline limitrofe a quelle su cui sorgono i villaggi a cui si riferiscono.

Pur essendo l'incinerazione il rito esclusivo della maggior parte delle necropoli villanoviane, non mancano attestazioni di inumazioni in fossa non solo in aree «coloniali» come Pontecagnano, ma anche nel cuore dell'Etruria, come a Cerveteri, dove sin dall'inizio dell'uso della necropoli del Sorbo (convenzionalmente riferito, come nelle altre necropoli villanoviane, all'inizio del IX sec. a.C.) coesistono i due riti, e a Populonia, dove le sepolture di inumati, diffuse ampiamente nei periodi successivi, sembrano precocemente attestate nel sepolcreto di Piano delle Granate.

Campi d'urne con la rigorosa utilizzazione del rito crematorio, almeno nel periodo iniziale e con deposizioni riferibili all'orizzonte cronologico in esame sono: a Veio i sepolcreti di Valle la Fata, Quattro Fontanili e quello inedito di Grotta Gramiccia; a Bisenzio, i nuclei di S. Bernardino, Porto Madonna e della Polledrara, e a Tarquinia le necropoli dei Poggi (specie Poggio Selciatello, ma con numerose deposizioni anche al Poggio Selciatello Sopra e a Poggio dell'Impiccato) e quella di «Le Rose»; a Vulci, per quanto permettano di ipotizzare i confronti dei materiali, per lo più fuori contesto, con i corredi delle altre comunità etrusche, i sepolcreti di Mandrione di Cavalupo e dell'Osteria; a Volterra la necropoli delle Ripaie; nel Bolognese i sepolcreti di Savena, San Vitale e Ca' dell'Orbo e a Verucchio i nuclei di Campo del Tesoro e del fondo Ripa-Lavatoio, pertinenti forse a una stessa necropoli (Gentili).

A Vetulonia e a Chiusi le deposizioni conosciute sembrano invece riferibili per lo più a non prima della seconda metà del IX sec. a.C. La testimonianza sia in tombe più tarde, sia fuori contesto di materiali ancora ascrivibili al passaggio tra l'Età del Bronzo e l'Età del Ferro, attestano l'uso delle necropoli vetuloniesi nel pieno IX sec. a.C.: le tombe delle grandi necropoli orientali (Poggio alla Guardia, Poggio alle Birbe e Poggio Belvedere) e di quelle occidentali (Colle Baroncio e Dupiane), portate alla luce da I. Falchi alla fine del secolo scorso, presentano materiali databili soprattutto a partire da una fase avanzata del Villanoviano tipico (seconda metà IX sec. a.C.). Una peculiarità di Vetulonia, specie nelle necropoli della zona orientale, è la frequenza di urne a capanna, a differenza non solo di quanto avviene nell'Etruria settentrionale, dove si ha notizia di presenza sporadiche a Populonia, ma anche rispetto ai grandi sepolcreti dell'Etruria meridionale: nei campi d'urne vetuloniesi sono stati riportati alla luce più di cinquanta ossuarî di questo tipo.

A Chiusi, dove i ritrovamenti sono frutto quasi tutti degli scavi-saccheggio del secolo scorso, le tombe localizzate a Ν (Poggio Renzo) e a O (La Fornace) del centro moderno appaiono del tipo canonico ma molto semplici. Le carenze di elementi accessorî nel corredo funebre non permettono se non un generico inquadramento nella cultura villanoviana, probabilmente non iniziale. E inoltre da ricordare come il rito incineratorio in quest'area appaia tenace, per cui alle tombe a pozzetto seguiranno le deposizioni entro ziro con ossuarî biconicheggianti nel Villanoviano finale e con canopi nel periodo orientalizzante (VII sec. a.C.).

Le deposizioni più antiche di Populonia si concentrano nell'area del podere di San Cerbone e nella zona delle Granate, dove le sepolture di inumati, soprattutto a partire dalla fine del secolo, sono mescolate a quelle dei cremati.

L'area destinata ai sepolcreti è per lo più quella di poggi limitrofi alle aree abitate: generalmente le tombe più antiche, quindi quelle relative al periodo in esame, erano raccolte sulla cima della collina e lo sviluppo delle necropoli risulta del tipo radiale. Non mancano però esempî di necropoli in pianura o in fondovalle, come nel gruppo veiente quella di Valle La Fata estesa lungo un corso d'acqua, o nell'area tarquiniese il sepolcreto «Le Rose» sulle pendici sud-orientali dell'alto pianoro dei Monterozzi, sotto le mura medioevali dell'odierna Tarquinia. E indicativo che ambedue questi sepolcreti siano cronologicamente limitati alla fase più antica della cultura v. (IX-inizio VIII sec. a.C.).

Le tombe scavate sono in genere a pozzetto, cioè di forma cilindrica più o meno regolare, ma sono attestate anche buche di forma irregolare (Populonia, Volterra). Nell'Etruria settentrionale e in Emilia e Romagna il pozzetto o la buca possono essere rivestiti di ciottoli o di pietre, queste ultime disposte talvolta in modo da costituire una cista litica; nell'Etruria meridionale a protezione dell'ossuario si trova spesso una custodia in tufo (Veio, Bisenzio, Tarquinia) o in nenfro, il tufo di Tarquinia.

Eccezionali appaiono le fosse quadrangolari rivestite di lastre di tufo, utilizzate per contenere ossuarî speciali, come le urne a capanna. Legate a sepolture di prestigio sono anche le tombe a ricettacolo della necropoli di Pontecagnano, costituite da un pozzetto di discesa più o meno regolare, sul quale si apre una grotticella chiusa da una lastra posta a coltello.

Meno diffusi, raramente così antichi (Volterra, Le Ripaie), i contenitori di terracotta (dolî o ziri) per le urne e il corredo, caratteristici invece della limitrofa area laziale già dall'Età del Bronzo Finale. È degna di nota una custodia ovoidale in nenfro con robuste anse a orecchia, che la avvicinano a uno di questi grossi vasi, proveniente dalla necropoli tarquiniese di «Le Rose». In altri casi il contenitore di tufo di forma sferoidale appare sezionato nel terzo superiore che funge da coperchio. Questi ultimi, generalmente lisci a calotta a Veio (necropoli Quattro Fontanili e Grotta Gramiccia) e a Monte Sant'Angelo, nel territorio sono spesso a calotta crestata, probabile allusione ai tetti di capanna da collegare concettualmente alle urne a capanna, ben rappresentate in quest'area.

Dall'analisi dei materiali rinvenuti nei sepolcreti, avvalorata dall'esame dei reperti, per lo più ceramici, dagli abitati, si ricava che il vasellame era eseguito a mano, verosimilmente prodotto nell'ambito familiare, anche se le forti analogie nella forma e nella decorazione riscontrabile tra i vasi delle diverse comunità di uno stesso territorio potrebbero far pensare, almeno per alcuni oggetti, quali gli ossuarî - peraltro, nella generale uniformità, uno diverso dall'altro - a una comune cerchia artigianale.

I prodotti metallici interessano un numero più elevato di utenti di quanto non fosse nei periodi precedenti (gli ornamenti di bronzo fanno comunemente parte del vestiario: quasi tutti i corredi funerarî presentano oggetti di bronzo) e sono caratterizzati dalla comparsa di intere classi di oggetti e dall'articolarsi in una moltitudine di fogge locali. In ognuno dei comprensorî villanoviani compare una produzione locale con caratteri tipologici e stilistici differenziati pur nell'omogeneità complessiva: p.es., è verosimile che nel Bolognese si producessero fibule elicoidali, praticamente esclusive di queste comunità; nel distretto minerario toscano si può certamente riferire a uno stesso gruppo tipologico elaborato localmente una serie di fibule ad arco serpeggiante con uno o due occhielli, molla ampia e staffa simmetrica.

Legati allo sviluppo della metallurgia e indicativi per la varietà degli scambî (mentre la ceramica ha una circolazione locale, i manufatti metallici presentano una larga diffusione) appaiono un gruppo di ripostigli dell'Etruria propria - p.es. nell'area settentrionale quello di Goluzzo (presso Siena) o uno dell'Isola d'Elba e nella zona meridionale costiera quello di Santa Marinella - deposti presumibilmente nel IX sec. a.C., anche se con una parte dei materiali riferibili alla fase precedente. Tali complessi, rinvenuti fuori dalle aree abitate, quasi ai confini dei presunti territorî, e costituiti per lo più da oggetti d'uso comune (asce soprattutto), mostrano tutti le caratteristiche delle riserve di metallo di un artigiano-fonditore, che opera ancora al di fuori della comunità, e la cui attività si tramanda probabilmente di generazione in generazione.

Nei sopracitati ripostigli e in alcuni corredi funerarî si sono rinvenuti oggetti che indicano una prosecuzione nei rapporti già individuati alla fine dell'Età del Bronzo attraverso materiali dei ripostigli di Tolfa e di Monte Rovello, con le grandi isole del Tirreno, e che interessano i distretti metalliferi e le comunità di Tarquinia nel Lazio settentrionale e di Populonia in Toscana. Tali oggetti sono: i pugnaletti sardi di uno dei ripostigli dell'Elba e della necropoli populoniese di Piano delle Granate (tomba 8); una spada di tipo iberico (tipo Huelva), nel ripostiglio di Santa Marinella, che si suppone giunta attraverso la Sardegna; lo specchio di influsso egeo o cipriota di probabile produzione sarda della tomba 77 della necropoli tarquiniese di Poggio Selciatello. A questi fanno riscontro in Sardegna fibule ad arco semplice da S. Vittoria di Serri o da Palmavera e rasoi bitaglienti dalla Murra e da S. Antine di Torralba: tutti materiali databili tra la fine del X e il IX sec. a.C. Degne di nota inoltre le fibule con arco serpeggiante a gomito con uno o due occhielli rinvenute in Corsica, il cui tipo è attestato in Italia centrale già dal X sec. a.C. (esemplare del ripostiglio elbano di S. Martino).

L'attività principale dei membri delle varie comunità doveva essere quello dello sfruttamento delle risorse agricole: Livio (IX, 35) ribadisce che la grande ricchezza dell'Etruria era e resta quella fornita dalla feracità dei suoi campi. Mancano raccolte sistematiche dei resti paleobotanici degli abitati: sembra di notare comunque un incremento sia di cereali sia di erbe infestanti; questo fenomeno è stato spiegato (Cristofani) come indizio di sistemi intensivi condotti nelle zone prossime agli abitati. Nell'abitato perilacustre del Gran Carro, gli esami paleobotanici dimostrerebbero l'utilizzazione su larga scala della vite, già da epoca così antica (Costantini).

Forti indizî del mutamento del rapporto con il territorio li ricaviamo soprattutto dal cambiamento radicale della dislocazione degli insediamenti e nella tendenza a concentrare la popolazione in sedi di pianura, circondate da ampî territorî coltivabili. La messa a coltura su larga scala di nuove terre deve aver provocato nuovi rapporti di produzione. Appare difficile pensare che lo sfruttamento delle risorse di alcune centinaia di chilometri quadrati si potesse attuare in una situazione nella quale la terra era ancora prevalentemente di proprietà comune: non sembra perciò del tutto arrischiato postulare per quest'epoca una parcellizzazione della proprietà.

I corredi funerarî, datati da pochi e sobri oggetti, non sembrano lasciare trasparire alcuna differenza di ricchezza o di condizione sociale: si distinguono solo le deposizioni femminili da quelle maschili, e tra queste solo poche sono connotate, mediante l'elmo o rare armi, come appartenenti a guerrieri. La documentazione delle necropoli sembra quindi delineare una struttura del tutto equalitaria. Si è molto discusso se questa immagine rispecchiasse la realtà o se piuttosto, a causa di un'ideologia funeraria molto radicata, i membri della comunità venissero considerati uguali nel rito del seppellimento, anche se in qualche modo diversi nella vita reale.

Se non possiamo ancora parlare di diversità di condizioni socio-economiche, appare indubbia l'esistenza di figure particolari, come il pater familias, capo di un nucleo familiare allargato, cui venivano probabilmente affidate delle porzioni di terra in proprietà privata.

Il grosso movimento di popolazione che caratterizza questo periodo è impensabile senza organismi politici capaci di imporre le loro decisioni alle singole comunità di villaggio: i diversi gruppi, indubbiamente costituiti ciascuno da genti legate da vincoli di parentela, dislocati all'interno o all'esterno dei pianori tufacei che saranno le sedi delle future città-stato etrusche, mostrano tra loro stretti legami, come si è visto anche dalle analisi della produzione artigianale, tali da far presupporre l'afferenza a una medesima unità politica e tali da far parlare di concentrazioni umane «protourbane». A questi gruppi di villaggi accostati fanno riferimento, come dimostrano le analogie nella produzione e nell'uso di oggetti simili per la deposizione funebre, complessi minori ai margini del territorio: particolarmente indicativo il caso del villaggio di Monte Sant'Angelo, dipendente dal gruppo veiente.

Fase di passaggio (820-770 a.C. circa). Dopo due o tre generazioni dall'avvento della c.d. rivoluzione villanoviana l'aspetto equalitario che aveva caratterizzato i campi d'urne si scompone. I corredi si arricchiscono di elementi accessorî, di segni indicanti il prestigio, di oggetti attestanti un frequente scambio tra le varie comunità etrusche e altre comunità di diversa cultura. In molte necropoli accanto all'incinerazione è attestato il rito inumatorio.

Questi notevoli mutamenti nell'ideologia funeraria, che indicano un processo di trasformazione sociale in atto e un carattere sistematico e strutturale dello scambio, non trovano corrispettivi mutamenti nell'assetto territoriale. La popolazione appare ancora concentrata intorno e sopra i pianori tufacei, con pochi insediamenti periferici in posizione strategica.

Nelle grandi comunità villanoviane continuano a essere usate tutte le necropoli frequentate dall'inizio della sequenza culturale; a Veio troviamo un gruppo isolato riferibile con molta probabilità a questo periodo nella necropoli tardo-villanoviana e orientalizzante di Casale del Fosso. La documentazione di alcune grandi comunità dell'Etruria propria (Vetulonia) è indicativa solo in questa fase non iniziale della prima Età del Ferro. A Bologna, anche se prosegue l'uso dei sepolcreti di Savena e San Vitale, comincia l'uso delle necropoli occidentali fuori Porta Sant'Isaia (necropoli Benacci), che procedendo da E verso O arriveranno fino all'età storica, attestando l'inizio dell'occupazione occidentale della città, nucleo principale della Bologna villanoviana, come hanno dimostrato sin dal secolo scorso le ricerche di A. Zannoni relative alle «arcaiche abitazioni».

Si evidenzia una generale trasformazione nel rituale funerario, per cui il corredo da rigorosamente «povero» diventa solitamente più articolato, e l'esistenza di un gruppo di deposizioni maschili e femminili che si distinguono o per l'uso di tombe monumentali (a camera, a fossa o a pozzo con particolari coperture) o per presenza di oggetti di particolare prestigio, quali armi, vasellame, oggetti di ornamento in bronzo e in materiale più prezioso. A questo periodo risale il maggior numero di urne a capanna rinvenute in Etruria, ossuario indubbiamente di prestigio e generalmente associato a corredi emergenti.

L'attestazione inoltre di tombe a camera con deposizioni plurime (Populonia) o di gruppi di sepolture delimitati da circoli di pietre (Vetulonia) che contengono da dieci a quindici deposizioni rende lecito ipotizzare la presenza non solo di persone ma anche di famiglie che si evidenziano sul resto della popolazione. Inoltre in alcune necropoli, come in quella veiente di Quattro Fontanili, l'esame della stratigrafia orizzontale pone in questo orizzonte cronologico il passaggio da un'occupazione generica della sommità del sito a un'articolazione delle tombe per gruppi, accomunati dal rituale e dal tipo di corredo e occupanti un settore della necropoli, gruppi che non sembra azzardato riconoscere come nuclei familiari.

Dalla fine del IX sec. a.C. si assiste in Italia a una vivacità di scambî tra le varie comunità sia all'interno sia all'esterno delle singole culture. Le testimonianze archeologiche enucleate dai contesti funerarî documentano una notevole dinamicità di rapporti fra le varie popolazioni dell'Italia antica anche di differente fisionomia culturale.

Gli Etruschi interessati agli scambî con le popolazioni nuragiche da un lato e dall'altro ai contatti con le comunità «enotrie» nell'Italia meridionale, tramite gli avamposti villanoviani nel Salernitano, appaiono in questa fase (ma i presupposti erano già evidenti precedentemente) svolgere un ruolo di primo piano nel mar Tirreno. Se le comunità costiere risultano maggiormente interessate ai rapporti con le isole del Tirreno, i centri dell'Etruria meridionale costiera (Tarquinia e forse Vulci) sembrano controllare i traffici lungo la costa tirrenica. Gli itinerarî del mar Tirreno sembrano cioè equamente divisi tra le principali comunità costiere. Attraverso il mare, inoltre, dovevano avvenire la maggior parte dei contatti tra i centri dei diversi distretti metalliferi dell'Etruria. La molla dei traffici appare sempre l'attività metallurgica: Populonia e Vetulonia, comunità sorte ai piedi delle Colline Metallifere e del Campigliese, mostrano rapporti preferenziali con le popolazioni nuragiche, tra le quali eccelleva la produzione metallurgica; Tarquinia, almeno fino all'emergere di Caere alla fine dell'VIII sec. a.C., appare notevolmente interessata a centri (p.es. Torre Mordillo), dove le attività siderurgiche appaiono già altamente sviluppate nel IX sec. a.C. Sembra di poter cogliere talune differenze nel ruolo svolto dai vari centri nell'ambito di queste relazioni: gli ambienti costieri appaiono più dinamici e attivi; Veio risulta eccezionalmente coinvolta probabilmente a causa di diverse direttrici di traffico.

I rapporti con le altre comunità di cultura villanoviana nell'area padana e nel Salernitano sono evidenziati per lo più dalla distribuzione di manufatti bronzei. La presenza di manufatti di produzione bolognese appare largamente testimoniata in Etruria, sia settentrionale e meridionale, tanto nelle zone costiere, specie Populonia e Vetulonia, che nell'interno (Veio), già dalla fine del IX e poi con maggior frequenza nell'VIII sec. a.C.: si tratta in genere di rasoi e fibule, elementi bronzei largamente rappresentati nei corredi villanoviani di tutte le aree.

Nell'ambito di questi traffici devono essere aggiunti ai bronzi di produzione indigena una serie di manufatti mediati attraverso queste comunità: prodotti centro-europei (cultura di Hallstatt), quali il vaso di bronzo con attacchi a croce, usato come coperchio di ossuario in una tomba di Veio-Valle la Fata, o oggetti sardi (civiltà nuragica) quali pugnale o gli attacchi di calderone, rinvenuti nel deposito di San Francesco a Bologna. La spiegazione più plausibile è quella di considerare Bologna mediatrice di oggetti originarî dall'Europa centrale rinvenuti in Etruria, e i centri dell'Etruria mineraria (inizialmente soprattutto Populonia) come mediatori di materiali sardi rinvenuti a Bologna.

Bologna appare dunque pienamente partecipe degli scambî che caratterizzano le diverse popolazioni dell'Italia antica dalla fine del IX sec.: solo considerando i villaggi bolognesi prevalentemente come centri di scambî possiamo spiegare storicamente l'eccezionale sviluppo nell'Età del Ferro e il singolare addensamento demografico. Il metallo grezzo o semilavorato era importato dalle comunità del distretto minerario toscano ed è possibile che le genti bolognesi lo scambiassero con l'ambra, frutto delle relazioni con l'Europa centrale. Bologna gode di una felice posizione geografica, per la quale si configura come centro di un quadrivio e si presenta dunque come zona di smistamento di prodotti finiti e non finiti non solo locali ma anche di provenienza toscana da una parte, paleoveneta o comunque nordica dall'altra.

Forse a Sala Consilina si deve attribuire la mediazione dei vasi di ceramica di argilla depurata con decorazione a motivi geometrici caratteristici (angoli pieni o «a tenda», meandri, gruppi di trattini verticali, triangoli radiali sull'orlo) provenienti dall'Italia ionica e importati a Tarquinia e a Vulci a partire dallo scorcio del IX secolo. Pochi esemplari «a tenda» giungono già in questa fase a Pontecagnano.

Frutto di questi contatti indubbiamente non occasionali potrebbe essere considerato l'ossuario biconico dipinto in bruno dalla necropoli veiente di Valle la Fata, vaso di forma e decorazione indiscutibilmente locali, ma che testimonia in assoluto anticipo il manifestarsi di nuove esperienze decorative verosimilmente da ricollegare a influssi culturali di provenienza meridionale.

Partners privilegiati, però, dei centri dell'Etruria costiera appaiono - soprattutto dalla documentazione dei corredi funerarî - le popolazioni della Sardegna nuragica. Indubbiamente la Sardegna, con le sue risorse di metallo e la sua tradizione bronzistica di impronta miceneo-cipriota, non poteva non costituire un'area di grandi attrattive per le genti così interessate alla metallurgia, come quella dei distretti metalliferi della Toscana e del Lazio settentrionale. Diffusissimi in Etruria, soprattutto in quella settentrionale costiera, in contesti datati alla fine del IX sec. a.C., sono i bronzetti sardi, quali i c.d. bottoni (piccoli oggetti troncoconici con coronamento plastico a protomi ornitomorfe o di altri animali) o le faretrine votive. Di notevole interesse l'associazione di tre bronzetti nuragici rinvenuti in una tomba femminile vulcente dello scorcio del IX sec. a.C., attribuita a una donna sarda di alto rango venuta sposa in Etruria: una statuetta di un sacerdote-pugilatore, un cesto e uno sgabello in miniatura.

Fase recente (770-730 a. C. circa). Gli Etruschi stabilirono con i primi immigrati greci (a Pithecusa e poi a Cuma) rapporti di una certa consistenza, tanto da assorbirne inizialmente tecniche e modelli figurativi e ben presto modelli più propriamente culturali (con l'introduzione, p.es., della scrittura, di un nuovo modo di banchettare, di un'ideologia funeraria eroica, cioè un nuovo modo di vivere aristocratico) tali da mutare profondamente la fisionomia della società etrusca.

La causa principale del sorgere di questi contatti deve essere attribuita all'interesse dei Greci per i metalli della Toscana costiera: a Pithecusa è stato trovato un minerale grezzo di ferro (ematite) proveniente dall'isola d'Elba; inoltre i materiali grezzi del quartiere metallurgico dello stanziamento euboico sono geologicamente impossibili a Ischia. Non sono però documentate altre attestazioni di contatti fra i Greci e i centri del distretto minerario etrusco (Populonia e Vetulonia): mancano cioè in Toscana testimonianze di ceramica greca geometrica o comunque di una presenza greca. Questa constatazione ha dato luogo all'ipotesi che i grandi centri villanoviani dell'Etruria meridionale abbiano avuto la funzione di intermediarî. Alcune famiglie di Tarquinia, Veio, poi di Vulci e Cerveteri avrebbero prosperato con questi rapporti: è stato suggerito che uno degli aiuti offerti ai visitatori greci poteva essere quello della protezione armata. Il gran numero di prodotti greci rinvenuti a Veio è stato ulteriormente considerato prova del grande interesse greco per la via tiberina, attraverso la quale si poteva raggiungere la regione mineraria dell'Etruria settentrionale, evitando i percorsi marittimo e litoraneo, verosimilmente posti sotto il controllo di Tarquinia e di Vulci, e «quindi il più gravoso tributo che queste città erano in grado da far pagare ai Greci per l'accesso alle risorse del paese» (Delpino).

È opinione comune che si debba ai Greci l'introduzione della viticoltura in Etruria e nel Lazio. La vitis silvestris risulta però nota in Italia già dal Neolitico e la vitis vinifera è attestata almeno dal IX sec. a.C. (Gran Carro). Solo da questo periodo tuttavia si constata in Etruria soprattutto, ma anche tra le altre popolazioni dell'Italia tirrenica, la produzione di vasi connessi con questa bevanda: crateri, olle, sostegni, tazze a due manici (kàntharoi), imitanti più o meno fedelmente modelli greci.

Alle genti egee che frequentavano le coste tirreniche si deve forse attribuire l'introduzione dell'uso del banchetto e soprattutto una più ampia somministrazione e consumo del vino nella vita quotidiana e nei rituali funerarî: l'ideologia del banchetto si può definire l'espressione più preziosa dello stile di vita dell'aristocrazia, sia greca sia latina (Rathje).

A quest'epoca e al contatto con gente straniera si deve riferire probabilmente, più che l'introduzione della viticoltura, l'inizio della coltura intensiva della vite che si organizzerà soprattutto nel VII sec. a.C.: è stato osservato che il modo di coltivare la vite in Etruria, a tralcio e a festone, proverrebbe, secondo le fonti latine, dai colli napoletani, l'area cioè dell'euboica Cuma.

Strettamente legata al contatto con il mondo greco è la produzione di vasi, dapprima solo in argilla depurata, poi anche in impasto sottile eseguito al tornio anziché a mano: la ceramica in argilla depurata veniva lavorata al tornio veloce e cotta in forni a temperatura elevata. L'introduzione di tali tecniche (il processo di depurazione delle argille e l'uso del tornio) deve essere indubbiamente riferito ad artigiani stranieri stabili, a cui si devono attribuire i prodotti greci fabbricati in Etruria e le loro più fedeli imitazioni. Ben presto però l'uso del tornio si applicò a tutte le produzioni ceramiche da mensa, dando luogo a officine specializzate e ad artigiani a tempo pieno: per il vasellame più propriamente da cucina e da fuoco continuò ancora l'uso dell'impasto non depurato e la lavorazione a mano di pertinenza domestica.

Vulci, nonostante la carenza di documentazione più volte lamentata, sembra emergere progressivamente, nel corso della seconda metà dell'VIII sec., dando spazio, oltre che alle produzioni ceramiche sopramenzionate, a uno sviluppo della metallotecnica: alla decorazione geometrica organizzata in fasce che sottolineavano la forma del manufatto si aggiunge un certo gusto per le applicazioni plastiche. Le figure a tutto tondo, che decorano oggetti (spade, situle, ecc.) realizzati secondo la tradizione metallurgica locale, sembrano riferirsi ai piccoli bronzi del geometrico greco, traduzione plastica delle figure dipinte sulla ceramica. L'area di produzione dei bronzi con decorazione plastica (Vulci-Bisenzio) coincide pienamente con quella già evidenziata per le fabbriche di vasellame d'ispirazione euboica, rivelando quindi nella fase di transizione all'Orientalizzante una chiara dipendenza culturale del centro di Bisenzio da parte di Vulci.

Inoltre l'incremento di oggetti di ferro (armi, utensili e ornamenti) nei corredi delle tombe etrusche, inquadrabili nel corso dell'VIII sec. a.C., deve essere attribuito a uno sviluppo, o almeno a un incremento, della tecnologia relativa alla lavorazione di questo metallo, tecnologia fortemente sviluppata nel mondo egeo e la cui trasmissione fu facilitata dai contatti con le popolazioni orientali.

A maestranze fenicie, o comunque orientali, si deve l'introduzione di nuove tecniche nella lavorazione dell'oro e dei metalli nobili in genere (filigrana, granulazione, ageminatura), oltre che di nuovi motivi figurativi di chiara origine orientale (disco solare, crescente lunare, ecc.). Tra le testimonianze più antiche di adozione di queste tecniche sono alcune fibule a drago d'argento con filigrana d'oro, rinvenute in tombe maschili di «guerrieri», che preannunciano le sfarzose tombe «principesche» dell'Orientalizzante, appartengono indubbiamente a tipi di fibule italiche e quindi devono essere riferite ad artigiani stranieri o loro allievi, che operano per le committenze locali. E ormai convinzione comune infatti che le sofisticate tecniche di lavorazione di molti generi di artigianato presuppongono un apprendistato ricevuto da artigiani greci e orientali, detentori di un sapere più avanzato, stanziati o itineranti nelle varie località. Elemento significativo di questa fase appare dunque più che l'importazione di oggetti greci od orientali la trasmissione di nuove tecnologie. Tale fenomeno dovette apparire anche agli antichi di notevole importanza.

Lo sviluppo delle tecniche ceramiche e metallurgiche portò alla definizione dell'artigiano a tempo pieno, pienamente integrato, che riesce a ricavare dalla propria attività i mezzi sufficienti per vivere. Indicativo appare il rinvenimento a Bologna, in piena area d'abitato, di un deposito di un artigiano la cui attività è ormai stanziale. La formazione di questo «ripostiglio» (14.800 pezzi), non più sotterrato in aree periferiche, ma deposto, al più tardi agli inizî del VII sec. a.C., in piena area abitata dentro un vaso sotto il pavimento di una capanna, risale per lo più all'VIII secolo. Tra i materiali di questa fase si riconoscono spade ad antenne, fibule a sanguisuga, fibule a drago, morsi equini, frammenti di cinturone decorati, rasoi semilunati, pugnali.

Nei decenni centrali dell'VIII sec. a.C. si riscontrano mutamenti sia nell'organizzazione dei varî insediamenti, sia nell'assetto territoriale, in parte almeno attribuibili al cambiamento dei rapporti socioeconomici. Recenti indagini di superficie sul pianoro principale di Veio hanno mostrato una probabile occupazione di tutta l'area: si può forse ascrivere a questo momento l'unificazione dei vari villaggi e l'esistenza quindi di un abitato del tutto unitario, definito dall'unità orografica. Naturalmente non si tratta ancora di impianto urbanistico sistematico: gruppi di abitazioni dovevano essere circondati da ampî spazî vuoti. A Tarquinia sembrano assumere minore importanza dalla metà circa dell'VIII sec. a.C. i sepolcreti dei Poggi (il cui uso sembra terminare nell'ultimo trentennio del secolo), mentre il grosso delle deposizioni, soprattutto quelle emergenti, si concentrano nella necropoli di Arcatelle-Monterozzi, che procedendo verso O (verso la moderna Tarquinia) costituirà la grande necropoli d'epoca orientalizzante, arcaica ed ellenistica, interessando anche l'area occupata dall'insediamento capannicolo del Calvario, ancora abitato nel villanoviano «evoluto». Bologna raggiunge in questo periodo (Villanoviano III) la sua massima espansione demografica e potenzialità economica, esemplificata oltre che dal citato deposito di San Francesco, dai ricchi corredi delle necropoli occidentali Benacci, Benacci-Caprara, dalle tombe più antiche dei sepolcreti Melenzani e Romagnoli.

Per quanto riguarda l'assetto territoriale, alcune ricche tombe rinvenute fuori delle necropoli usuali, in «campagna», come quelle nei pressi di Vulci quella di Pescia Romana con servizio da banchetto in argilla depurata dipinta, tra cui il cratere attribuito al Pittore di Cesnola, o quelle del Chiarone o di Monte Auto, denunciano la volontà di esibire le avvenute appropriazioni agrarie da parte dell'aristocrazia e preannunciano il sorgere di numerosi insediamenti sparsi nel territorio, fenomeno che inizia nel corso dell'VIII sec. (p.es., Monte Pitti presso Campiglia Marittima nel distretto minerario toscano) ma si afferma non prima della fine del secolo e soprattutto nei primi decenni del VII sec.: è probabile che si tratti di una sorta di colonizzazione dell'agro da parte di grandi centri con la fondazione di abitati stabili. Certo non si deve parlare di fenomeno spontaneo ma piuttosto di un popolamento organizzato. I nuovi insediamenti rioccupano in parte quei territorî che apparivano abbandonati all'inizio dell'Età del Ferro (p.es., Monte Roncione nel territorio veiente; Tuscania, Luni sul Mignone, San Giovenale in quello tarquiniese; Poggio Buco e Castro in quello vulcente). Risulta però ora evidente il legame gerarchico tra i centri maggiori e quelli minori. Con il progredire dell'VIII sec. a.C., si fa più evidente il processo di differenziazione economica all'interno del corpo sociale: le tombe contengono materiale sempre più numeroso e ricco e mostrano visibili segni di dislivello sociale. Si delinea un'élite in cui la donna è privilegiata quanto l'uomo e riceve uguale profusione di beni.

Segni indubbî di distinzione sociale appaiono i morsi di cavallo, in genere rinvenuti a coppie e attestanti, in forma simbolica (pars pro toto) il possesso (o il diritto di usare) carri trainati da due animali. Il tipo del carro da combattimento viene generalmente considerato derivato da modelli orientali, così come gran numero dei finimenti equini: è stata avanzata l'ipotesi che anche i cavalli possano essere stati importati (Stary). L'importanza del cavallo in queste comunità è documentata anche dalle frequenti rappresentazioni di questo animale non solo sui morsi, ma anche su fibule, manici e altri arredi, specialmente nel Villanoviano bolognese.

Altri elementi essenziali dell'armamento presenti nei corredi della seconda metà dell'VIII sec. a.C. sono lo scudo circolare di lamina di bronzo decorato a sbalzo con una maniglia interna, l'elmo crestato con tubicini orizzontali alla base, il pettorale quadrangolare a pareti più o meno ricurve sempre di lamina di bronzo, la spada di ferro con fodero in bronzo, lance di ferro e di bronzo; meno frequenti le asce di bronzo.

Elmi e soprattutto scudi di bronzo sono stati rinvenuti tra gli ex voto dei santuari panellenici di Delfi e Olimpia, nonché nelle più antiche tombe cumane. Se appare molto persuasivo considerare le testimonianze cumane come doni cerimoniali - uno dei modi più evidenti di circolazione di beni tra Greci ed Etruschi - meno chiara è l'interpretazione degli oggetti rinvenuti in Grecia. I bottini di guerra e lo scambio dei doni rappresentano in questo periodo gli esempî più rilevanti tra le forme di trasferimento di beni a vasto raggio (Humphreys).

Olle d'impasto coperte spesso da bacili di bronzo, vasi dipinti e vasi di bronzo prendono il posto nelle superstiti incinerazioni del classico biconico d'impasto, che, anche se di materiale più depurato e arricchito di nuove tecniche decorative (p.es. il traforo) che imitano prototipi metallici, resiste in aree in cui domina ancora il rito incineratorio, come Vetulonia, Volterra, Chiusi nell'Etruria settentrionale, Bologna e Verucchio nell'Emilia e Romagna. Nel Villanoviano salernitano è documentata solo l'inumazione.

Dall'esame tipologico degli oggetti delle singole necropoli appare inoltre un infittirsi dei rapporti, che riguardano ora anche materiali ceramici, tra le varie comunità tirreniche e adriatiche, già ben evidenziati del resto per i centri della costa tirrenica centro-meridionale: nella necropoli veiente di Casal del Fosso è presente, p.es., un vaso a stivaletto d'impasto, forma di probabile ispirazione egea, di produzione verosimilmente bolognese, da dove altri esemplari sono stati esportati anche a Vetulonia; coppe di imitazione euboica prodotte presumibilmente a Veio sono attestate in contesti del Villanoviano III bolognese. Tipi analoghi di fibule in aree diverse sono sempre più frequenti e documentano un itinerario preferenziale Bologna-Vetulonia-Valle Tiberina.

Per quanto riguarda le diverse forme di trasferimento dei beni, per quelli di evidente prestigio (armi, vasi decorati, ecc.) è probabile che in molti casi si tratti di doni fra personaggi eminenti.

Il rapporto tra Greci ed Etruschi si fa via via più sistematico nel corso della seconda generazione di vita dell'emporio pithecusano e dopo la fondazione di Cuma: la cultura villanoviana, fenomeno esclusivamente indigeno, lascia il posto all'Orientalizzante, cultura dalla matrice greca, scaturita dal continuo contatto con le genti provenienti dal Mediterraneo orientale, a partire dall'ultimo quarto dell'VIII sec. a.C.

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