CULTURA EBRAICA

Federiciana (2005)

Cultura ebraica

Piero Morpurgo

Una valutazione della cultura ebraica e del suo rapporto con la produzione federiciana non può prescindere dalla profonda influenza che il mondo ebraico ebbe nel contesto italomeridionale; infatti non può essere trascurato l'apporto di Shabbetay Donnolo (913-982) e del suo commento al Libro della Creazione, "opera che denota un'evidente dipendenza da testi di astrologia, di filosofia e di medicina che giunsero in mano all'autore senza aver subito la mediazione del mondo culturale islamico" (Sermoneta, Il neo-platonismo, 1980, p. 867), ed è proprio in questo testo che si riscontreranno quelle direttrici che intrecciano pensiero scientifico e religioso, così come fece Michele Scoto.

Inoltre è rilevante che molti tra i protagonisti del giudaismo tedesco si siano fermati in Italia, ed è significativo che il Sefer-Hassidim (una raccolta duecentesca di exempla renani) contenga frammenti dell'autobiografia proprio del medico italomeridionale Donnolo (Shatzmiller, 1982). D'altro canto è stato messo in evidenza che, già nel sec. X, furono intensi i rapporti epistolari dei medici ebrei tra la Puglia, la Spagna e l'Egitto; nel 1130 c'era persino una nave che percorreva regolarmente una rotta che collegava Gaeta con l'Oriente e il mondo ispanico. Questa rete commerciale e culturale, con fulcro nel Regno di Sicilia, rimase attiva in tutto il Mediterraneo almeno sino a metà del sec. XIII e ciò avveniva nonostante la diversità di giurisdizioni: da un lato quella cristiana, dall'altro quella musulmana, ove operavano anche i collegi rabbinici. Effettivamente vi fu un notevole influsso culturale esercitato dall'ebraismo proprio nel contesto italomeridionale. La riprova di ciò è data da due casi di conversione alla religione ebraica: con certezza abbandonò il cristianesimo nel 1102 il prete Giovanni di Oppido Lucano, mentre più incerta è l'adesione alla religione ebraica dell'arcivescovo Andrea di Bari nel 1066. Il fenomeno non era affatto raro in quell'epoca ed è confortato anche dalle buone condizioni di vita di cui gli ebrei godevano in Sicilia; era questa una tradizione inaugurata da Ruggero I e proseguita dallo stesso imperatore Enrico VI che si adoperò anche in Germania per la tutela degli ebrei. È quindi evidente come, in un contesto politico già fonte di preoccupazioni per la Chiesa di Roma, il favore accordato agli ebrei fosse divenuto veicolo di tradizioni culturali e filosofiche che non potevano non suscitare gravi inquietudini nel mondo intellettuale cristiano.

Questa realtà è ben testimoniata da Beniamino da Tudela nel suo Libro di viaggi (1165-1173), ove segnalava che a Salerno ‒ a lui nota per gli studi di medicina ‒ vi erano seicento ebrei (1989, pp. 46-47) e che a Amalfi c'era il medico Hanana'el; si trattava di una popolazione rilevante che portò Romualdo Salernitano a parlare di città "Iudaica" (1866, p. 418). In Italia meridionale c'era dunque una presenza notevole di ebrei giacché altri duecento si trovavano a Benevento e ben millecinquecento a Palermo e tutto ciò preoccupava il pontefice; lo stesso Beniamino da Tudela volle sottolineare in tutta la sua opera l'alto livello di dedizione al sapere della popolazione ebraica europea. Già nel 1140 si segnala che Joseph ha-Kohen il Siciliano ottenne un incarico di governo in Egitto nelle vesti di traduttore. Altrettanto rilevante fu la figura di Anatolio ben Joseph di Marsiglia (1165-1220), che trascorse a Palermo una decina d'anni testimoniando l'attività dei poeti ebraici come Saul b. Menahm Nafusi di Palermo, Samuele da Messina, Moses il Cantore da Reggio Calabria, Perahia ibn al-Kahir da Aleppo.

La presenza di medici e astrologi ebrei era stata estremamente significativa nell'Italia normanno-sveva. Nonostante l'ostilità al mondo ebraico ‒ sottolineata dal IV concilio lateranense del 1215 ‒ il mondo normanno-svevo vide un'intensa attività medico-scientifica ebraica: in ebraico furono tradotte opere come la Rogerina di Ruggero da Frugardo, la Chirurgia Magna di Bruno da Longoburgo, l'Antidotarium Nicolai, la Flebotomia di Mauro Salernitano. Inoltre Benvenuto Grafeo da Gerusalemme fu in grado di operare a Salerno e di scrivere ‒ intorno alla metà del sec. XIII ‒ un famoso trattato di oftalmologia, il De Ars probata oculorum (Arieti, 1996, p. 180).

Anche nel campo dell'astrologia vi furono numerosi esempi di filosofi ebrei attivi in Italia meridionale, tra cui è noto Jacob Anatoli, medico alla corte di Federico II e dal 1231 maestro presso l'Università di Napoli nonché collaboratore di Michele Scoto. Anatoli non solo tradusse opere di astronomia, ma si dedicò all'esegesi biblica assieme a Michele Scoto e allo stesso imperatore. Inoltre ‒ come riferisce lo stesso Scoto ‒ fu autore di esperimenti alchemici, e questo è un fatto difficile da riscontrare nella tradizione dei testi giudaici che ci sono pervenuti. Anatoli nel suo impegno presso la Curia sveva mantenne i rapporti con gli ambienti ebraico-provenzali che avevano visto l'attività del suo familiare Samuel ben Judah Ibn Tibbon (1160 ca.-1232; v. Ibn Tibbon, famiglia), traduttore di Aristotele e in stretto contatto epistolare con Maimonide. Tra l'altro Anatoli terminò, nel marzo del 1232, la versione arabo-ebraica dei Commenti medi di Averroè alle opere aristoteliche (Isagoge, Categorie, De interpretatione, Analitici priori e Analitici posteriori) proprio per fronteggiare ‒ è Anatoli stesso a dichiararlo ‒ gli attacchi che in Provenza si stavano manifestando ad opera dei gruppi antimaimonidei. Inoltre nel Malmad ha-Talmidim (Il pungolo dei discepoli) egli compone le discussioni avute a Napoli con Michele Scoto con le polemiche che percorrevano la Provenza a proposito degli albigesi. In tutta la sua opera Anatoli insiste sul dovere di avvicinarsi alla conoscenza per gradi in modo da elevarsi dalla propria animalità e tendere verso la perfezione; infatti "colui che raggiunge la perfezione intellettuale è chiamato sapiente, colui che raggiunge la perfezione sia morale che intellettuale è chiamato giusto" (Malmad ha-Talmidim, f. 17, cit. in Pepi, 1993, p. 145). Pertanto soltanto esercitando il suo intelletto con lo studio e seguendo i comandamenti l'uomo potrà migliorare la propria natura e quindi avvicinarsi al bene e acquisire una giusta condotta di vita. Anatoli delinea la figura di una società guidata da un sovrano e da consiglieri sapienti, idea questa che riprende da Maimonide, ma che ben si adatta al modello perseguito da Federico II. È dunque necessaria una guida per quell'umanità che comunque deve vivere in società: "si sa bene che tra gli uomini ve ne sono che sono servi e altri che sono liberi di esercitare il potere sui servi di cui sono padroni. Su tutti poi è signore il re. Il cosmo intero segue questo modello" (Malmad ha-Talmidim, f. 4B, cit. in Bonfil, 1995, p. 167). Questa idea di un sovrano inserito nella 'macchina cosmo' ben corrisponde a quanto emerge dal proemio del Liber Augustalis. Le gerarchie sociali ‒ per Anatoli ‒ dipendono dai livelli del sapere che si diversificarono in seguito al crollo della Torre di Babele, giacché inizialmente "l'umanità era un tutt'uno […] ma quando si moltiplicarono gli ignoranti e tra loro si moltiplicarono gli stolti, Iddio decise che quella loro situazione non era più un bene. Perciò ne diversificò le lingue al fine di impedire che agissero di comune accordo giacché la diversità delle lingue causa l'assenza dell'accordo" (Malmad ha-Talmidim, f. 9H, cit. ibid.).

Le ricerche di Anatoli furono riprese da suo nipote Mosè ibn Tibbon, la cui presenza a Napoli è segnalata negli anni 1244-1245. L'attività di questo scienziato ebreo si svolse prevalentemente tra Napoli e Montpellier, dove si dedicò a tradurre i commenti di Averroè, alcuni trattati di Aristotele ed altre opere di matematica, astronomia e medicina. Anche questo traduttore si occupò di glossare i testi sacri e redasse un Trattato sui grandi cetacei. Mosè ibn Tibbon ritiene che il mondo della natura sia regolato da leggi dipendenti dal moto degli astri; ben distinte da queste regole della natura sono le azioni miracolose che sono opera di Dio, come aveva sottolineato anche lo stesso Michele Scoto nel suo Liber Introductorius. L'opera dei traduttori 'tibbonidi' permise di introdurre un corpus di testi matematici che divulgarono quella matematica araba fondata sulla tradizione di Euclide, Tolomeo e Archimede, tradizione che fu sviluppata da Leonardo Fibonacci e da Giovanni da Palermo, ambedue in contatto con la Curia federiciana.

Di estremo rilievo per l'Italia sveva è il pensiero di Judah-ha-Cohen (nato a Toledo, ca. 1215). Egli fu astrologo in corrispondenza epistolare con un filosofo dell'imperatore Federico II, forse identificabile con lo scienziato Michele Scoto; di certo Judah collaborò più intensamente con la corte sveva a partire dal 1245. L'impostazione del suo pensiero coincide con alcune delle tendenze che maturarono alla corte sveva. In particolare è rilevante che Judah ‒ così come fece Federico II nel suo De arte venandi ‒ assegni un grande rilievo al concetto di esperimento, in base al quale criticherà le asserzioni errate di Aristotele. Difatti Judah aveva biasimato l'attitudine di Averroè nel riprendere Galeno solo quando sembrava accordarsi con l'opinione di Aristotele, come se questi fosse un angelo di Dio che non si può criticare. Ed ancora vi è coincidenza tra l'impostazione di Michele Scoto che dichiara come l'astronomia sia la disciplina che permette di giungere alla conoscenza di Dio e la tesi di Judah per cui chi vuole conoscere la sapienza divina deve, innanzitutto, conoscere la scienza matematica (che include l'astronomia, l'astrologia e la musica). Una volta che queste dottrine saranno acquisite, solo allora nel suo cuore riposerà la sapienza divina in tutta la sua chiarezza; chi, invece, non ha appreso prima la scienza matematica e vuole occuparsi della sapienza divina, non la comprenderà.

La critica del principio d'autorità sembrerebbe aver caratterizzato un metodo poi diffusosi nell'ambito culturale svevo. Basti pensare ai giudizi di Ibn Latif (ca. 1210-1280) sui Meteorologica di Aristotele, ritenuti un insieme di congetture che non provano scientificamente ciò che avviene al di sotto della sfera della Luna. Al tempo stesso Ibn Latif critica l'opera di Tolomeo, poiché nulla dimostra le sue teorie sulla materia dei cieli che condizionerebbe il loro moto circolare e nulla ci dice se effettivamente i cieli siano fatti di due materie (brillante e trasparente), né quale sia con esattezza il numero delle stelle e quello delle sfere (Sirat, 1990, p. 334). Tutti questi dubbi verranno riproposti da Federico II a Michele Scoto, incaricato di preparare un Liber Introductorius proprio per chiarire questi problemi.

Nel contesto della vasta mobilità intellettuale che caratterizzò l'Italia del sec. XIII va inserito Abraham ben Samuel Abulafia (1240-1291 ca.), studioso della Guida dei Perplessi e del Libro della Creazione, che collaborò a Capua con Hillel da Verona e Baruch Togarmi. Di Abulafia fu notevole la quantità di viaggi effettuati tra la Spagna, la Grecia e l'Italia meridionale; egli raggiunse poi Roma per chiedere a papa Niccolò III un miglioramento delle condizioni di vita degli ebrei. Ben nota è anche la produzione di Mosè da Salerno (m. 1279), che fu discepolo di Jacob Anatoli e scrisse un commento alla Guida dei Perplessi ove si fanno continui riferimenti alla versione latina dell'opera di Maimonide; inoltre nel suo Glossario filosofico emergono argomentazioni che vengono poste con un metodo analogo a quello di cui si servirono i filosofi cristiani. L'attività di Mosè da Salerno testimonia un profondo confronto interreligioso: il filosofo ebbe modo di discutere le sue tesi sia con Niccolò da Giovinazzo sia con i Domenicani di Napoli. Questo scambio è testimoniato dalla conoscenza della filosofia ebraica che dimostrarono Rolando da Cremona e Tommaso d'Aquino. Di tale orientamento multiculturale vi fu profonda consapevolezza; fu proprio Abulafia a scrivere: "È assolutamente straordinario quel che è accaduto agli ebrei in tutta la Sicilia. Non solo parlano l'italiano, o il greco, essendo queste le lingue di quelli con i quali essi abitano, ma hanno anche conservato l'idioma arabo che impararono nelle antiche epoche in cui gli Ismailiti dimoravano lì" (Udovitch, 1994, p. 207).

Tutto ciò può far intendere l'effetto che si produsse sui filosofi italiani del sec. XIII quando questi individuarono nel pensiero arabo e giudaico quelle identità comuni su cui muovere i propri ragionamenti. Si consideri poi ‒ osservava Giuseppe Sermoneta ‒ che la prospettiva federiciana vide "negli ebrei uno strumento per diffondere delle direttive ideologiche ben precise"; infatti Federico II si servì "della stessa natio Judaica per svolgere una politica culturale […] per propagandare un averroismo moderato, vicino per molti aspetti al tomismo. Averroismo che è anche molto comodo per diffondere le dottrine politiche dell'imperatore" (Sermoneta, 1989, p. 144). Inoltre una lettera attribuita al re Manfredi illustra con chiarezza a quali contaminazioni culturali sia stata soggetta la corte sveva. L'epistola accompagna la versione ebraico-latina della rielaborazione araba del Fedone, nota come De Pomo sive de morte Aristotilis e tràdita ‒ intorno al 1230 ‒ dall'opera di Abraham ben Samuel Ibn Hasdai ha-Levi di Barcellona, legato agli ambiti provenzali della famiglia dei Tibbonidi.

In quel testo il figlio di Federico II, siamo intorno al 1260, racconta che, essendo afflitto da un'infermità così grave da far correre alla sua persona un serio pericolo, rivolse il pensiero "[...] agli insegnamenti teologici e filosofici, i quali nella corte del divo augusto serenissimo imperatore, il signore padre nostro, un grande numero di venerabili dottori ci aveva dati intorno alla natura del mondo, al flusso de' corpi, alla creazione delle anime […]. E tornatoci alla memoria il libro di Aristotile, principe de' filosofi, che s'intitola 'de Pomo' […] in cui si dimostra come i sapienti non si dolgano dall'uscire dall'involucro terreno […] dicemmo agli astanti: leggessero quel libro […]. E non trovandosi il libro tra i Cristiani ‒ perché noi l'avevamo letto tradotto dall'arabo in ebraico ‒ riacquistata la salute, a istruzione di molti dalla lingua ebraica nella latina l'abbiamo voltato" (Torraca, 1902, pp. 247-248).

La tradizione ricordata da Manfredi permette anche di sottolineare come l'imperatore fu identificato in Davide-Messia-liberatore degli ebrei; del resto nel 1236 Federico II li assolse dall'accusa di omicidio rituale e nel 1238 proibì di battezzare gli ebrei non consenzienti. Fu lo stesso Federico II a dichiarare il suo interesse per la cultura ebraica: infatti aveva deciso, per plurium librorum auctoritates, di investigare sulle consuetudini degli ebrei. Nell'intento di svolgere accuratamente queste ricerche l'imperatore riferì che "ad universos reges occidentalium parcium legatos misimus speciales, per quos de regnis eorum peritos in lege Iudaica neophitos quam plures ad nostram presenciam destinatos habuimus" (Manselli, 1986, p. 40). Quell'occasione aveva portato Federico II a riprendere testi già letti per poter affermare che i libri ebraici non facevano alcun cenno all'omicidio rituale e dunque era ingiusta la loro persecuzione.

Nel reciproco gioco di prestiti culturali si riscontra una discussione di temi comuni tra ciò che aveva tramandato Giovanni di Salisbury, ciò che andava divulgando Michele Scoto e quel che teorizzava Rolando da Cremona (ca. 1178-1259), il quale, sostenendo quanto l'astronomia servit theologiae, deplorò la scienza ebraica. Il punto ruotava attorno alla questione se fosse possibile configurare corrispondenze tra i cicli degli astri e la vita di Cristo; in merito Michele Scoto era stato titubante. Più netto e deciso fu Rolando da Cremona, per il quale la cultura astronomica ebraica andava respinta in quanto: "Judei inexpertes erant astronomi putaverunt quia eclipsis solis in morte Domini fuisset naturalis. Scripsit autem Dyonisius: vidit quod contra naturam erat et ideo dixit quod mundi ordo turbatus erat et quod Creator nature pateretur […]. Volunt ergo Judei et inimici fidei dicere quod illa obscuratio solis fuit naturalis, et ideo contradicunt Evangelio, quod Evangelium (Mt. 27,45; Lc. 23,44) dicit quod fuerunt ille tenebre per tres horas. Accedat ergo famula et confundat contradicentes domine et dicat astronomia quod eclipsis solis naturalis nec potest esse per tres horas nec potest fieri in plenilunio, nec esse potest ut ancilla audeat contradicere domine sue" (Cremascoli, 1975, pp. 873-876). Questa insipienza ebraica è per Rolando da Cremona estremamente grave, in quanto Abramo e Mosè furono resi edotti delle scienze astronomiche e geometriche proprio perché fossero in grado di trasmettere al loro popolo la possibilità di riconoscere "quod in morte Domini passurus esset sol eclipsim contra naturam" (ibid.). È stato però ipotizzato che lo stesso polemista Rolando da Cremona si possa esser servito proprio della Guida dei Perplessi. Infatti nella Summa theologica, che redasse negli anni 1232-1234, afferma che il "Rabi Mose, philosophus Hebraeorum" era stato l'autore di un libro "contra antiquitatem mundi" (Kluxen, 1986, p. 225). E questi era quel Rolando da Cremona incaricato dal papa di riportare all'ortodossia Ezzelino da Romano che, come il suo alleato Federico II, si serviva di testi astrologici tradotti dall'ebraico.

Quel che così appare è una cerchia di dotti che, comunque schierati, non si sottrassero al confronto con le 'novità'. Così Rolando da Cremona fu colui che sfidò e umiliò l'astrologo Teodoro di Antiochia. Le cronache raccontano concordemente che, durante l'assedio di Brescia (1238), Federico II aveva organizzato dispute di ogni materia e che "uno de' suoi filosofi o astrologi, per nome Teodoro, fece co' suoi sofismi ammutolire due religiosi domenicani"; fu allora che Rolando da Cremona intervenne e "sciolse vittoriosamente i lacci e i nodi dialettici, ne' quali erano stati involti i suoi meno dotti compagni" (Boncompagni, 1854, p. 64).

L'influsso della cultura ebraica fu ereditato dalle corti angioine; infatti Qalonymos ben Qalonymos, alla corte di Roberto d'Angiò tra il 1318 e il 1328, non solo approntò la versione arabo-ebraica de La classificazione delle scienze di al-Fārābī (ca. 870-950), ma la integrò illustrando quegli aspetti necessari alla comprensione della struttura della materia. Il fenomeno è ben testimoniato dall'attività di Guglielmo da Brescia (m. 1326), medico di papa Bonifacio VIII, che volle commissionare all'ebreo converso Giovanni da Capua una serie di versioni ebraico-latine di trattati di medicina ascritti a Maimonide. Tra queste versioni figura la Dietetica, il De regimine sanitatis e il De venenis, nonché un Compendium Galeni.

fonti e bibliografia

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Gli ebrei e le scienze, Firenze 2001.

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