CROCIATA

Federiciana (2005)

Crociata

Giosuè Musca

 Il voto

Seguito da principi e nobili, dai rappresentanti di Filippo II Augusto re di Francia e del papa Innocenzo III, il 24 luglio 1215 Federico II di Svevia entra trionfalmente in Aquisgrana, l'antica capitale del Sacro Romano Impero, dove il giorno seguente è incoronato rex Romanorum nella cattedrale dal legato papale, Sigfrido arcivescovo di Magonza. Dopo la cerimonia un predicatore sollecita i presenti a prendere la croce per liberare i Luoghi Santi di Palestina e in particolare il S. Sepolcro a Gerusalemme. Federico, con una dichiarazione inattesa che sorprende favorevolmente tutti i presenti, per primo s'impegna a farsi crociato ed invita i nobili tedeschi a seguire il suo esempio: un'iniziativa che viene subito interpretata come un progetto 'imperiale' più che papale. Federico giustifica il suo voto dichiarando di voler prendere la croce per i benefici ricevuti da Dio e per gratitudine verso la Chiesa (Historia diplomatica, III, p. 39), ma la sua decisione nasconde la coscienza dei doveri acquisiti col nuovo titolo ed ereditati dal nonno Federico Barbarossa, morto durante una crociata (1190), e dal padre Enrico VI, morto mentre preparava una crociata (1197).

Innocenzo III, che pure si sta adoperando per convincere sovrani e principi europei a prendere la croce, rimane sorpreso dall'iniziativa di Federico, ma per il momento non manifesta reazioni, ritenendola forse frutto dell'impulsivo entusiasmo di un giovane re che deve ancora affrontare gravi difficoltà in Germania e ancor più in Italia meridionale. Se Federico intende presentarsi come primo sovrano d'Europa e condottiero della santa impresa, Innocenzo non può manifestare aperto dissenso verso il suo protetto, ma non permette che l'iniziativa dello Svevo sia interpretata come una dichiarazione d'indipendenza dal Papato e intende conservare nelle sue mani la direzione della crociata.

L''opinione pubblica' del tempo è tuttavia entusiasta: il trovatore provenzale Guilhelm Figueira termina la canzone suggerita da quel solenne impegno con l'augurio: "Re Federico, voi siete frutto di giovinezza / e frutto di valore e frutto di conoscenza, / e se mangiate il frutto di penitenza, / finirete bene ciò che bene avete iniziato". Diversi nobili tedeschi hanno già preso la croce e ora l'iniziativa di Federico viene presa ad esempio da molti altri (Chronica regia Coloniensis, 1880).

Con la sua permanenza in Germania Federico ha ottenuto un successo dopo l'altro senza dover mai combattere. La vittoria di Bouvines, conseguita la domenica del 27 luglio 1214 da Filippo II Augusto, suo alleato, contro Ottone IV di Brunswick imperatore, i suoi alleati fiamminghi e Giovanni Senzaterra re d'Inghilterra, ha segnato la svolta decisiva per le fortune del puer Apuliae. La vittoria regalata a Federico dal suo alleato francese gli ha dato l'autorità necessaria a spegnere le ultime resistenze, sino all'incoronazione di Aquisgrana. La Germania vede ora il tramonto della corona imperiale di un guelfo ribelle al papa, trova una sia pur breve unità sotto lo svevo Federico, protetto dal papa, e sviluppa un orgoglio etnico che trova testimonianza nei versi di Walther von der Vogelweide, appassionato fautore dell'unità tedesca.

Ma il traguardo più alto e ambito è ora per Federico la corona imperiale, per conseguire la quale è necessario un consenso più ampio. La sua immagine di sovrano pacifico e munifico è stata abilmente costruita sfruttando vanità e debolezze degli uomini, conquistati con la grazia e la generosità sovrane. Lo hanno favorito le circostanze, le alleanze interessate e soprattutto il sostegno della Chiesa, del papa e dei vescovi, ma in questo gioco complesso Federico è riuscito a vincere commettendo pochi errori e facendo molte abili mosse. È in questo orizzonte, e con l'intenzione di rendere ancor più saldo il favore papale in attesa di ottenere la corona imperiale, che Federico prende ad Aquisgrana l'impegno per la crociata, un impegno tuttavia che tarderà a onorare e che diventerà causa di aspri contrasti col papato.

Il vero vincitore del conflitto in Germania rimane comunque Innocenzo III, che vede coronati dal successo i suoi lunghi sforzi diplomatici e che celebra il suo trionfo nel grande concilio ecumenico del Laterano che si apre l'11 novembre 1215: spezzata l'alleanza tra Giovanni Senzaterra e Ottone, esaltato il suo potere teocratico sui sovrani laici, bandita la crociata contro gli infedeli. La promessa del suo pupillo Federico lo ha sorpreso anche se non compiaciuto, ma ora l'iniziativa è nelle sue mani, e la crociata sarà guidata dal suo legato. Soltanto dopo il concilio lateranense Federico manda in Sicilia l'arcivescovo Berardo di Palermo e Alberto di Everstein per scortare la regina Costanza e il figlio Enrico, che partono per la Germania nel luglio 1216. Scomparso Innocenzo a Perugia, il 16 dello stesso mese, Federico si tratterrà in Germania sino al 1220.

I rinvii

La quarta crociata (1202-1204), in precedenza promossa da Innocenzo, ha subito un dirottamento su Zara a favore di Venezia, e uno ancor più grave su Costantinopoli (1203) con la nascita dell'Impero latino d'Oriente (1204-1261; v. Impero bizantino). La nuova crociata bandita da Innocenzo (la quinta, 1217-1221), fatta propria dal successore Onorio III, coinvolge Andrea II re d'Ungheria e Leopoldo VI duca d'Austria, che nel novembre 1217 fanno tappa ad Acri. I crociati si impegnano in una innocua marcia intorno al lago di Genezareth e, dopo il ritorno in Ungheria di Andrea col suo bottino di reliquie, nel maggio 1218 si trasferiscono in Egitto, divenuto con gli Ayyubidi il centro del mondo musulmano e ritenuto una regione chiave per la riconquista di Gerusalemme, la Città Santa perduta nel 1187 dopo il disastro di Ḥaṭṭīn e le vittoriose imprese del Saladino.

Alla morte, il 31 agosto 1218, del fratello del Saladino, il sultano ayyubide al-῾Ādil I (1200-1218), gli succede in Siria il figlio minore al-Mu῾aẓẓam (1218-1227) e in Egitto il figlio maggiore al-Kāmil (1218-1238). In settembre arriva in Egitto l'energico legato pontificio Pelagio, cardinale di Albano, che entra subito in conflitto, per il primato nel comando della spedizione, con l'anziano ma ancora vigoroso combattente Giovanni di Brienne, capo militare della crociata e re di Gerusalemme (dal 1210, in seguito al matrimonio con Maria di Monferrato, morta due anni dopo), al cui titolo obbediscono soltanto alcune città della costa (Salimbene de Adam, 1966, pp. 59-60).

Il 12 gennaio 1219 Federico risponde ai pressanti inviti di Onorio a intervenire in Egitto, ma in marzo gli chiede di poter rimandare la partenza al 29 settembre; il papa accetta con una lettera del 18 maggio. Il 6 settembre Federico chiede un ulteriore rinvio al 21 marzo 1220. Onorio mostra di credere alle sue buone intenzioni e ai preparativi in atto, ma ammonisce Federico che un ulteriore ritardo comporterà per lui la scomunica già minacciata a tutti coloro che insistessero a rimandare l'adempimento del voto (Historia diplomatica, I, 2, pp. 628-629).

In Egitto crociati e musulmani si scontrano più volte con successo alterno e gravi perdite. Francesco d'Assisi, giunto da pellegrino disarmato con l'intenzione di evangelizzare i musulmani, ottiene da Pelagio il permesso di recarsi nel campo nemico ed è ricevuto da al-Kāmil, che lo ascolta benignamente e lo congeda facendolo scortare sino al campo cristiano. Ma difficoltà interne spingono il sultano a cercare un accordo, e nell'ottobre del 1219 offre condizioni di pace che prevedono una tregua di trent'anni e la cessione di Gerusalemme con il suo territorio insieme alla Galilea, purché i crociati lascino l'Egitto. Giovanni di Brienne, i Cavalieri teutonici e molti nobili sono propensi ad accettare ma Pelagio, Rodolfo di Mérencourt, patriarca di Gerusalemme, i Templari e gli Ospitalieri rifiutano fermamente, convinti di poter arrivare al Cairo. Dopo un assedio di diciotto mesi, il 5 novembre è conquistata Damietta (v.), città e porto fortificato nel delta orientale del Nilo, ma esplode la discordia tra Pelagio e Giovanni, che nel febbraio 1220 abbandona l'Egitto e torna in Siria; riprenderà il suo posto nel luglio 1221 per ingiunzione del papa.

Nella dieta di Norimberga dell'ottobre 1219 Federico ha aggregato all'impresa alcuni nobili tedeschi, ha impegnato le città portuali del Mezzogiorno italiano a fornire le navi necessarie e invitato i predicatori a propagandare la crociata. Ma a causa delle serie difficoltà incontrate dai crociati dopo la conquista di Damietta, il 19 febbraio 1220 Federico informa Onorio di non poter rispettare la data per la quale si è impegnato, a causa dello scarso entusiasmo della nobiltà tedesca. Il papa accetta ancora le sue giustificazioni ma lo ammonisce a non rimandare (per la quarta volta) oltre la nuova data del 1o maggio (ibid., pp. 746-747). Onorio deve essere al corrente della risposta tiepida non solo tedesca ma europea, dato che ha inviato, appena ha appreso il successo di Damietta, Corrado di Magonza a predicare la crociata in Germania, con l'incarico di convincere con dolcezza i pellegrini ritardatari e di non trattenerli oltre quando sono pronti a muoversi, anche nel caso che Federico non riuscisse a partire (ibid., pp. 783-784).

La partenza di Federico, per quanto fondate siano le sue giustificazioni, è condizionata anche dal suo desiderio di vedere il figlio Enrico incoronato re di Germania e se stesso quale imperatore. Dopo laboriosi negoziati e concessioni ai feudatari ecclesiastici, una grande dieta a Francoforte nell'aprile 1220 elegge re Enrico e, mentre diverse centinaia di nobili prendono la croce, prepara il viaggio di Federico a Roma, dove coincideranno l'incoronazione imperiale e la partenza per la crociata. Onorio, irritato per l'ulteriore ritardo, informa il cancelliere Corrado vescovo di Metz che Federico è passibile di scomunica, ma impone soltanto una penitenza. Convinto che Federico non partirà prima di essere incoronato imperatore, il papa comprende il ruolo indispensabile delle risorse finanziarie e dei porti del Regno di Sicilia, e che la pace tra i principi cristiani e la causa della Terrasanta esigono quella incoronazione. Alla fine di agosto Federico parte per l'Italia e il 22 novembre, quasi ventiseienne, è da Onorio incoronato imperatore insieme a Costanza a Roma in S. Pietro, e qui prende di nuovo la croce dalle mani del cardinale Ugolino di Ostia (che sarà papa Gregorio IX), promettendo di inviare in Egitto un forte contingente nella primavera seguente e di partire egli stesso in agosto (ibid., II, 1, pp. 52 ss., 82 ss.).

Dopo l'incoronazione imperiale Federico mostra un impegno crescente: fa allestire navigli nei porti siciliani, fa predisporre truppe e denaro in Italia settentrionale e da Salerno invia appelli in Germania, Lombardia e Toscana ai suoi sudditi più fedeli (ibid., pp. 122 ss.). Nell'aprile 1221 s'imbarcano per Damietta (forse a Taranto) principi e nobili che hanno ripetuto i loro voti a Roma: al comando di Ludovico I duca di Baviera devono precedere Federico, con la consegna di non prendere iniziative prima del suo arrivo (ibid., p. 221). In giugno Onorio gli ricorda ancora la sua promessa, allarmato dalle voci che l'imperatore ritarda di proposito i preparativi al fine di ottenere un ulteriore rinvio (ibid., p. 190). Ma Federico fa salpare altre quaranta navi al comando del cancelliere Gualtiero di Palearia, dell'ammiraglio Enrico conte di Malta e di Anselmo di Justingen, che dispongono ora del denaro raccolto dalle collette (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 98). Il 20 luglio Onorio ringrazia Federico per questa decisione ma gli fa notare che le navi avrebbero dovuto essere inviate prima (M.G.H., Epistolae saeculi XIII, 1883, p. 124). Si mostra tuttavia più indulgente, sperando forse che i rinforzi inviati possano risolvere la situazione in Egitto anche in assenza dell'imperatore. Ma i problemi che questi deve affrontare nel Mezzogiorno dopo otto anni di assenza spiegano la sua esitazione a partire: le due flotte inviate nel 1221 sono il massimo sforzo possibile in quel momento.

In giugno al-Kāmil torna a offrire vantaggiose condizioni di pace, ancora respinte da Pelagio. Dopo una stasi di un anno e mezzo, nel luglio 1221 questi, dopo aver convinto Ludovico di Baviera, decide di attaccare il Cairo prima dell'arrivo della flotta e di Federico, andando incontro a una sconfitta umiliante. Le truppe tedesche, arrivate in maggio, iniziano la marcia lungo la sponda orientale del Nilo, ma l'acqua alta del fiume in agosto le costringe a ritirarsi e a farsi intrappolare e battere dai musulmani di al-Kāmil. Il 30 agosto i crociati sono costretti ad accettare condizioni assai peggiori di quelle rifiutate più volte da Pelagio: dopo lo scambio dei prigionieri, l'8 settembre lasciano Damietta e l'Egitto senza alcun vantaggio territoriale in Palestina e con una tregua di soli otto anni, sino al 1229 (Powell, 1986, pp. 190-191). Prima della loro partenza, al-Kāmil fornisce viveri ai crociati e riceve onorevolmente Giovanni di Brienne, che torna ad Acri e l'anno dopo si reca presso il papa per lagnarsi del comportamento di Pelagio.

Le responsabilità del disastro diventano immediatamente oggetto di controversia. Federico non ha autorizzato l'attacco al Cairo, voluto da Pelagio e dai capi crociati, convinti che l'imperatore stesse per arrivare insieme ai rinforzi e che con la sua presenza avrebbe conferito unità e maggior vigore all'impresa, ritenuta indispensabile momento strategico per la conquista della Palestina e di Gerusalemme. Onorio attribuisce la responsabilità a Federico e lo rimprovera duramente, poco tempo dopo averlo lodato per il suo zelo: in una lettera del 19 novembre gli ricorda che per cinque anni è venuto meno al suo voto e alle aspettative della cristianità, si rammarica di non essere stato abbastanza fermo con lui ed esige ora il pieno adempimento della promessa (Historia diplomatica, II, 1, pp. 206-207, 220 ss.). Il mondo cristiano è amaramente disilluso dalla sconfitta, dopo l'entusiasmo nato dalla propaganda per i precedenti successi in Egitto, e sono rivolte critiche a Federico anche da voci popolari e poetiche, come quelle dei trovatori Guilhelm Figueira e Peirol, il quale, avendo appena compiuto il pellegrinaggio in Terrasanta, in un sirventese si duole per la caduta di Damietta e lamenta l'inerzia dell'imperatore.

In dicembre Onorio manda presso Federico il cardinale Nicola di Tuscolo; nell'aprile 1222 i due vanno insieme a Veroli, dove Federico parla a lungo con Onorio, convincendolo sulle sue intenzioni e raggiungendo con lui un accordo. Papa e imperatore fissano un altro incontro a Verona in novembre, che ha invece luogo soltanto nel marzo 1223 a Ferentino e al quale sono presenti, oltre a Onorio e Federico, il patriarca Rodolfo di Mérencourt e Giovanni di Brienne. Scomparsa Costanza nel giugno 1222, per suggerimento del Gran Maestro dei Cavalieri teutonici Ermanno di Salza e per sollecitazione del papa, Federico si impegna a contrarre matrimonio con Isabella, erede del titolo regio di Gerusalemme e figlia della scomparsa regina Maria di Monferrato e di Giovanni di Brienne, il quale accetta con riluttanza, a patto di poter conservare il titolo di reggente. Tutti avvertono l'opportunità politica di queste nozze, che daranno a Federico un motivo in più per intervenire, in quanto personalmente interessato alle sorti del Regno (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 107). Ma il re Filippo Augusto non gradisce che la Siria passi dall'influenza francese a quella tedesca (Grousset, 1936, pp. 272-273; Runciman, 1966, p. 835).

A Ferentino Federico rinnova i suoi voti e fissa la nuova data per la partenza al 24 giugno 1225. Predicatori vengono inviati in tutta Europa per incoraggiare la partecipazione a una crociata guidata dallo stesso imperatore (Chronica regia Coloniensis, 1880). Federico accelera i preparativi, sì che nella primavera del 1224 sono pronte cento galee e cinquanta navi capaci di trasportare diecimila fanti e duemila cavalieri, ai quali sono offerti vitto e trasporto, mentre Giovanni di Brienne visita la Francia, l'Inghilterra, la Spagna e la Germania, accolto con grandi onori ma con risultati deludenti. Filippo Augusto (che morirà poco dopo), antico alleato di Federico, assegna una somma cospicua al Regno di Gerusalemme, ai Templari e agli Ospitalieri.

Giovanni si rende conto del sostanziale insuccesso della sua missione in Francia, soprattutto per le difficoltà causate dalla crociata contro gli albigesi, che anche dopo la scomparsa di Innocenzo III, che l'aveva bandita nel 1208, continua dal gennaio 1226 con Luigi VIII re di Francia. In Inghilterra le lotte interne tra il giovane re Enrico III e i baroni e il conflitto con la Francia non favoriscono il progetto di una crociata, mentre la Spagna di Ferdinando III di Castiglia è impegnata nella lotta contro i musulmani iberici.

Federico deve dunque provvedere quasi da solo ai preparativi, e tornerebbe in Germania per sollecitare personalmente i nobili se non fosse preoccupato dai moti musulmani in Sicilia. Appena tornato nel Mezzogiorno, nel 1221, egli ha dovuto affrontare il problema dei saraceni isolani, che conducevano attività di guerriglia partendo dai loro rifugi montani in Val di Mazara. Trattati con durezza dagli ultimi re normanni, hanno opposto una resistenza crescente, e Federico non può non vederli come ribelli da combattere, ma intende servirsene nella tradizione dei primi re normanni suoi antenati. Li affronta dunque nell'isola in una dura campagna di repressione sui monti e in pianura: nel 1222 assedia e prende Iato, cattura il capo della rivolta Ibn ῾Abbād e i suoi due figli, e li fa impiccare. Ma la resistenza continuerà per una ventina d'anni, durante i quali Federico pianifica una progressiva deportazione dei superstiti in Puglia, a Lucera (Riccardo di San Germano, 1936-1938, pp. 102-103, 109, 112), dove la loro sopravvivenza dipenderà dalla buona volontà e dalla protezione dell'imperatore, che li utilizzerà come mercenari.

Federico si rende conto di non poter rispettare la data per la quale si è impegnato a Ferentino e, temendo che Onorio difficilmente possa comprendere le sue difficoltà, invia presso di lui Ermanno di Salza, Giovanni di Brienne e Rodolfo di Mérencourt per ottenere un ulteriore rinvio; convoca i prelati meridionali a un incontro in Puglia e ve li trattiene in attesa dell'esito della missione presso Onorio. Il papa sembra comprendere le lagnanze di Federico relative alla Germania e vi manda come suo legato Corrado di Urach, cardinale di Porto, per sollecitare il clero tedesco a impegnarsi per la crociata. Scrive anche a Luigi VIII perché ordini ai suoi crociati di unirsi a Federico, tenta di appianare i contrasti tra la Chiesa e Raimondo VII conte di Tolosa e di spegnere il conflitto anglo-francese (Chronica regia Coloniensis, 1880). Ma questi tentativi hanno scarsi risultati (Powell, 1986, p. 197).

Il 18 luglio 1225 il papa, trovandosi a Rieti, concede il rinvio e dispone un incontro a San Germano per fissarne i dettagli, e qui, il 25 luglio, si stipula un nuovo e più stringente accordo sulla partenza per la crociata. Sono passati dieci anni dall'incoronazione di Aquisgrana e dal primo voto di Federico. Egli promette ora di partire con un esercito di dimensione imperiale e s'impegna a combattere i musulmani per due anni, mantenendo in Siria mille cavalieri a sue spese o a pagare 50 marchi per ogni cavaliere necessario a completare tale cifra. S'impegna ad allestire cinquanta galee e cento navi atte a trasportare duemila armati con tre cavalli ciascuno, insieme ai loro scudieri. A garanzia della sua buona fede accetta di consegnare 100.000 once d'oro, in cinque rate, nelle mani di Ermanno di Salza, di Giovanni di Brienne e del patriarca. La somma gli sarà restituita al suo arrivo ad Acri, per sostenere i costi della guerra. Se per qualsiasi ragione, inclusa la sua morte, non riuscirà a condurre la spedizione, questa somma dovrà essere comunque impiegata per le necessità della Terrasanta.

Appena lette queste condizioni, Federico si avvicina all'altare e con la mano sui Vangeli giura a voce alta di partire il 15 agosto 1227. Rainaldo di Urslingen, duca di Spoleto, giura in nome dell'imperatore che le clausole dell'accordo saranno osservate in buona fede e senza riserve, sotto pena di scomunica. In una lettera al papa, Federico conferma tali clausole e accetta la scomunica se la crociata non avrà luogo (Historia diplomatica, II, 1, pp. 501-503). In dieci anni, ogni rinvio ha comportato per Federico una crescente pressione papale, sino a un impegno al quale non può più sottrarsi. È un impegno in cui deve investire tutte le sue risorse militari e finanziarie, un peso enorme che la cristianità occidentale è stata restia ad addossarsi e che Federico si assume in prima persona nella veste d'imperatore, senza la possibilità di esserne esentato anche in caso di sua malattia o di impossibilità materiale, e che lega anche i suoi successori nel caso di una sua scomparsa.

Federico re di Gerusalemme

Nell'agosto 1225 Federico fa salpare quattordici galee al comando di Enrico di Malta perché scortino dalla Siria la sua promessa sposa Isabella di Brienne. Ad Acri il vescovo Giacomo di Patti consegna alla quattordicenne Isabella l'anello di Federico e celebra le nozze per procura, per ordine del papa. Nella cattedrale di Tiro, per desiderio di suo padre, Isabella è incoronata regina dal patriarca Rodolfo alla presenza di Simone Maugastel, arcivescovo della città, e dei magnati del Regno. Insieme a questi, a Baliano I signore di Sidone e al balivo Oddone di Montbéliard, Isabella salpa dopo due settimane per Brindisi, dove in ottobre incontra il padre e Federico, e il matrimonio viene rinnovato nella cattedrale il 9 novembre (ibid., II, 2, pp. 921 ss.; Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 127). Subito dopo le nozze Federico pretende il titolo e i pieni diritti di re di Gerusalemme, ottiene il giuramento di fedeltà dai nobili siriani che hanno accompagnato Isabella, cambia il suo sigillo imperiale per includere il nuovo titolo e qualche giorno dopo si fa incoronare in una solenne cerimonia a Foggia.

Giovanni di Brienne, che ha prestato fede alla promessa di Ermanno di Salza di fargli conservare la reggenza (Historia diplomatica, II, 2, pp. 922-923), si ritiene ingiustamente esautorato e protesta vivacemente, quindi decide di lasciare il Mezzogiorno e si rifugia a Roma chiedendo solidarietà al papa (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 136). Onorio scrive a Federico biasimandolo severamente (Historia diplomatica, II, 1, pp. 597-598), ma questi va oltre: all'inizio del 1226 Richerio arcivescovo di Melfi, giunto ad Acri insieme ad alcuni cavalieri siciliani, ottiene a favore del nuovo re il giuramento feudale dei baroni che erano rimasti in Siria.

La decisione di Federico ha tuttavia corretto la durezza delle clausole dell'incontro di San Germano, conferendogli nuova autorità: si accinge alla crociata non più soltanto come condottiero di una spedizione sotto giurisdizione papale ma anche come sovrano che vuol riprendere pieno possesso delle sue terre. Il suo primo decreto in qualità di re di Gerusalemme conferma i possessi dei Cavalieri teutonici in Siria, a favore del loro Gran Maestro Ermanno di Salza e dei suoi confratelli, ai quali assegna anche nuovi importanti privilegi (ibid., pp. 531 ss.).

L'Ordine teutonico diviene in Oriente pari ai Templari e agli Ospitalieri; per il momento Federico non toglie autorità a Oddone di Montbéliard ma lo sostituirà presto con Tommaso conte di Acerra, che come suo rappresentante nel Regno (1227-1228) avrà anche il compito di tenere sotto controllo il potere dei Templari.

Il titolo di re di Gerusalemme cambia inoltre la strategia della spedizione. Nel 1224 i piani per la crociata prevedevano un intervento in Egitto, poiché le navi costruite per il trasporto delle truppe erano attrezzate per muoversi nel delta del Nilo (Chronica regia Coloniensis, 1880). Ma dopo l'incoronazione regia Gerusalemme diviene la meta principale, per conseguire la quale Federico conta sulla partecipazione di crociati tedeschi, che soltanto ripetuti appelli e offerte di feudi e denaro riescono a distogliere dalle lotte interne. Per incarico del papa, Corrado vescovo di Hildesheim predica la crociata in Germania e ottiene adesioni all'impresa di Federico, che lo ricompenserà largamente (Historia diplomatica, III, p. 20 n. 1). Ludovico IV langravio di Turingia e Enrico IV duca di Limburgo, sollecitati da una visita di Ermanno di Salza, riescono ad aggregare circa settecento cavalieri turingi e austriaci, oltre a molti prelati e ministeriales, che sono seguiti da uomini di Colonia, Worms e Lubecca. La Germania si sta risvegliando e lascia sperare nel successo della spedizione.

Intorno al 1226 molte voci di trovatori si levano per spingere alla crociata il recalcitrante Federico: insistono dalla Provenza Elias de Barjols e Falquet de Romans, che nel 1220 è stato presente all'incoronazione imperiale a Roma. I predicatori inviati in Inghilterra tra il 1226 e il 1227 riescono a convincere a prendere la croce molti, che lasciano l'isola subito dopo la Pasqua sotto la guida dei vescovi Pietro di Winchester e Guglielmo di Exeter. Le città lombarde, sempre ostili all'autorità imperiale, resistono alla convocazione di una dieta a Cremona nell'estate 1226, che ha lo scopo ufficiale di affrontare il problema della crociata e di dar corso alle leggi antiereticali promulgate in occasione dell'incoronazione imperiale, e ricostituiscono la Lega lombarda. Le città capeggiate da Milano sono dichiarate colpevoli di sedizione e d'impedire la preparazione della crociata; di conseguenza Corrado di Hildesheim, usando i suoi pieni poteri quale predicatore papale, le pone sotto interdetto, mentre Federico annulla i loro privilegi e le clausole del trattato di Costanza (v. Comune italiano). Federico si assicura la protezione papale durante la sua futura assenza in Oriente e i lombardi sono tenuti a obbedire alle leggi imperiali contro l'eresia e a fornire quattrocento uomini per due anni. L'interdetto viene cancellato, si preparano le clausole dell'accordo e si dà inizio alla ratifica formale del documento da parte dei contraenti (ibid., II, 2, pp. 703 ss.).

Onorio III muore il 18 marzo 1227, prima di poter ratificare l'accordo, e i lombardi non danno seguito alle ingiunzioni papali. Il nuovo papa Gregorio IX, di temperamento meno conciliante del suo predecessore, nelle lettere che annunziano la sua elezione ripete energici appelli per la crociata e ammonisce Federico a osservare fedelmente il suo voto, pena la scomunica. Tuttavia anche i suoi appelli rimangono pressoché inascoltati, poiché non risulta che i quattrocento crociati promessi dalle città lombarde abbiano partecipato poi alla spedizione.

Federico è intanto impegnato nei preparativi: nel Mezzogiorno impone collette, specie ai monasteri più ricchi, e assolda come mercenari circa duecentocinquanta cavalieri, che insieme ai settecento giunti dalla Germania e ai cento della sua guardia personale, e ad altri, superano i mille previsti dall'accordo di San Germano. Nell'estate 1227 i crociati si raccolgono in gran numero presso Brindisi, scelta come porto d'imbarco. L'affollamento di armati e di pellegrini e la penuria di vettovaglie causano un'epidemia e svariati decessi, compreso quello di Sigfrido vescovo di Augusta (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 147). Il caldo e la peste spingono molti a tornare in patria, lasciando diverse navi vuote nel porto, ma a metà agosto il grosso dei crociati salpa da Brindisi (Historia diplomatica, III, p. 43).

Federico e il suo seguito, con molti cavalieri siciliani, si attardano mentre si allestiscono le cinquanta navi destinate a trasportarli. L'8 settembre salpano anch'esse verso Otranto, ma sia l'imperatore che Ludovico di Turingia sono stati colpiti dalla peste ancor prima della partenza. Il langravio muore prima di arrivare a Otranto, Federico vi prende terra e per consiglio di Ermanno di Salza decide di attendere la guarigione. Temendo di ritardare la partenza oltre la stagione propizia, assegna venti galee al comando di Ermanno e del nuovo patriarca di Gerusalemme, Geroldo di Losanna abate di Cluny, e nomina Enrico di Limburgo comandante della spedizione sino al suo arrivo. Invia subito gli arcivescovi di Reggio e di Bari, Rainaldo di Spoleto ed Enrico di Malta presso il papa ad Anagni per giustificare la sua mancata partenza per l'Oriente. Gregorio IX si rifiuta di accettare le dichiarazioni di Federico, al quale infligge la scomunica il 29 settembre 1227 (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 148). Della scomunica si dolgono i poeti Walther von der Vogelweide, che vorrebbe partire per la crociata ma non può farlo a causa dell'età avanzata, e Guilhelm Figueira, che compone un violento sirventese antipapale.

Nell'enciclica del 10 ottobre 1227 (Historia diplomatica, III, pp. 23 ss.) che notifica la scomunica, Gregorio IX ricorda a Federico che egli ha preso la croce ad Aquisgrana di sua iniziativa e senza che la Chiesa lo sollecitasse e ne fosse informata; lo accusa di aver violato i sacri voti rinnovati a Veroli, Ferentino e San Germano; lo ritiene responsabile della morte di molti crociati a Brindisi e dei ritardi nell'allestire i navigli necessari; inoltre sostiene che egli ha finto di essere infermo, preferendo i piaceri dei bagni di Pozzuoli, dove Federico si è trasferito per curarsi. Lo accusa poi di non aver assoldato il numero promesso di truppe e raccolto i mezzi finanziari concordati a San Germano. Le accuse sono deboli: prima di comminare la scomunica il papa non si è accertato se l'imperatore fosse realmente ammalato e la sua lettera di fine ottobre a Federico (ibid., pp. 32 ss.), in cui tratta anche di questioni giurisdizionali riguardanti la Chiesa siciliana (che in questo momento lo preoccupano forse di più), lascia pensare che tenesse più a colpire un avversario politico che a ottenere l'adempimento di un voto (Van Cleve, The Crusade, 1962, pp. 446-447). Sono infatti superiori a quelle concordate le forze militari raccolte da Federico, che si difende con una lettera del 6 dicembre a "tutti i crociati" europei (Historia diplomatica, III, pp. 37 ss.; Matteo Paris, 1888, p. 121), in cui espone le sue ragioni ricordando fatti precisi, e invita i sudditi tedeschi a unirsi a lui nel maggio seguente.

Appena guarito, Federico si prepara a partire malgrado la scomunica. La situazione in Oriente gli è divenuta imprevedibilmente più favorevole. Dopo la sconfitta crociata in Egitto nell'estate del 1221, i tre fratelli ayyubidi, figli del sultano scomparso al-῾Ādil che ha respinto la spedizione della quinta crociata, sono entrati in conflitto tra loro: al-Kāmil sultano d'Egitto contro al-Mu῾aẓẓam che governa Damasco, mentre il fratello più giovane al-Ashraf signore di Khilāṭ in Armenia oscilla tra i due. Al-Kāmil si è reso conto che al-Mu῾aẓẓam mira a impadronirsi dell'intero sultanato alleandosi con il turco Ǧalāl al-Dīn signore di Khwārazm. Nell'autunno 1226 ha dunque mandato l'emiro Fakhr al-Dīn presso Federico chiedendogli di venire ad Acri in suo aiuto e promettendo di cedergli molte città in Palestina se avesse attaccato al Mu῾aẓẓam (Recueil des historiens des Croisades, 1877, pp. 185-186: Badr al-Dīn afferma che al-Kāmil ha promesso a Federico la stessa Gerusalemme). Federico ha mandato in Egitto, presso al-Kāmil, Berardo arcivescovo di Palermo e Tommaso di Acerra con ricchi doni per il sultano, che includono un cavallo con sella d'oro e pietre preziose. Al-Kāmil ha ricambiato con doni dall'India, Yemen, Iraq, Egitto come segni della sua amicizia per l'imperatore. Berardo ha continuato il viaggio recandosi nell'ottobre 1227 a Damasco, dove ha aperto trattative con al-Mu῾aẓẓam, che lo ha congedato bruscamente: "Riferisci al tuo padrone che io non sono come certi altri, e che per lui non ho che la mia spada" (secondo la cronaca di al-Maqrīzī, "Revue de l'Orient Latin", 9, 1902, nrr. 3-4, p. 511).

Al-Mu῾aẓẓam ha tentato senza successo di allearsi al fratello al-Ashraf, mentre nell'ottobre 1227 al-Kāmil ha inviato nuovamente Fakhr al-Dīn presso Federico con altri doni, che comprendono un elefante, dromedari e scimmie con i quali l'imperatore ha arricchito il suo serraglio: è in questa occasione che può aver fatto cavaliere Fakhr al-Dīn (Joinville, 1874, pp. 109-110), che è stato ricevuto nel palazzo imperiale di Foggia e ha potuto visitare la colonia saracena di Lucera constatando la libertà di culto di cui godevano i suoi confratelli.

In patria, Federico non rinunzia a difendersi con fermezza. In novembre il suo legato, il giudice Roffredo di Benevento, legge pubblicamente in Campidoglio a Roma un suo manifesto in cui spiega e giustifica il ritardo. Gregorio manda allora due cardinali a fine dicembre presso Federico, ma questi si rifiuta di riceverli, forse ritenendo di non potersi riconciliare con il papa a condizioni per lui umilianti. In una dieta a Capua in dicembre lo Svevo decreta che ogni feudo siciliano versi 8 once d'oro per la crociata, e ogni gruppo di otto feudi contribuisca con un cavaliere pienamente equipaggiato pronto a partire in maggio (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 149). Con una lettera circolare ha annunziato la sua partenza in tale data e ha reclutato molti ministeriales (Historia diplomatica, III, pp. 36 ss., 57-58). Ma non riesce a tenere la progettata dieta a Ravenna perché i milanesi e i veronesi hanno chiuso ai tedeschi i passi alpini, mentre Gregorio IX ha minacciato l'interdetto a tutti i centri abitati che ospitino l'imperatore (Giovanni Codagnello, 1901, p. 86). Tuttavia, a sentire Riccardo di San Germano, Federico celebra a Barletta la Pasqua 1228 "in omni gaudio et exultatione" (1936-1938, p. 150), ma proprio allora apprende da Tommaso di Acerra la morte improvvisa di al-Mu῾aẓẓam avvenuta il 12 novembre 1227, un evento che migliora la posizione di al-Kāmil e indebolisce il potere contrattuale dello Svevo.

In Sicilia le sue decisioni, che minacciano confische a coloro che obbediranno ai decreti papali, incontrano il favore generale (Historia diplomatica, III, pp. 50 ss.). I nobili capeggiati dai Frangipane, suoi sostenitori a Roma, e molti suoi seguaci nel popolo che ha sfamato durante la carestia del 1227 si sollevano il lunedì santo 1228 contro Gregorio costringendolo a fuggire prima a Viterbo e poi a Rieti. Federico sa bene che in sua assenza il papa cercherà di aggregare tutti i suoi nemici in Germania e in Sicilia, e che intanto sta progettando di invadere il Mezzogiorno e di opporgli un avversario guelfo in Germania. Ma con un atto di audacia decide di rompere gli indugi e di partire ugualmente, rischiando la perdita della Lombardia, l'attacco al suo Regno meridionale e persino di essere deposto da imperatore. In aprile fa dunque partire da Brindisi Riccardo Filangieri con cinquecento cavalieri per la Siria e accelera i preparativi (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 150).

Ai primi di maggio del 1228 a Barletta in un'affollata assemblea pubblica all'aperto Federico legge personalmente i suoi programmi: durante la sua assenza Rinaldo di Spoleto sarà il reggente nel Mezzogiorno; nel caso della sua morte sarà erede suo figlio Enrico re dei Romani e in seconda istanza il piccolo Corrado, nato ad Andria il 25 aprile da Isabella. A causa della morte di questa sei giorni dopo, il titolo di re di Gerusalemme spetterebbe a Corrado, per il quale Federico dovrebbe agire da reggente, ma lo Svevo decide di conservare il titolo di re (che anche il papa accetterà nel 1231), lasciando al bambino quello di heres regni Ierusalem. I nobili presenti giurano di osservare queste decisioni e si impegnano a ottenere lo stesso giuramento dai loro vassalli (ibid., pp. 150-151).

La flotta salpata nell'agosto 1227 ha intanto raggiunto la Siria in ottobre. La seconda flotta, quella del Gran Maestro dell'Ordine teutonico e del patriarca, approda a Limassol a Cipro, dove erano in attesa Oddone di Montbéliard e altri nobili, che appreso il ritardo di Federico si uniscono a loro e li seguono in Siria. Federico è il solo che possa rompere la tregua di Damietta ed Enrico di Limburgo si trova a dover prendere una decisione difficile, con i crociati che premono per attaccare minacciando di tornare in patria, mentre molti (ma non quanti indicati dal papa nella lettera del dicembre 1227) ad Acri decidono di abbandonare l'impresa (Matteo Paris, 1888, p. 128). Per evitare lo scioglimento dell'esercito è necessario muoversi ancor prima dell'arrivo di Federico e con gli altri capi Enrico decide di procedere per Cesarea e Giaffa e di restaurare le fortificazioni costiere (Estoire d'Eracles, 1859, pp. 371-372). Sono azioni in contrasto con il trattato di tregua ma non provocano reazioni da parte musulmana, forse a causa della morte di al-Mu῾aẓẓam.

Federico in Oriente

Il 28 giugno 1228 Federico salpa da Brindisi con quaranta galee al comando di Enrico di Malta; sono con lui gli arcivescovi Berardo di Palermo e Giacomo di Capua. Dopo una sosta a Otranto, la flotta tocca Corfù, Cefalonia, Creta e Rodi e il 21 luglio entra nel porto di Limassol (Breve chronicon, in Historia diplomatica, pp. 898 ss.). Federico, accolto da Riccardo Filangieri, che vi è giunto col grosso della spedizione, e da Boemondo IV principe di Antiochia, deve affrontare il problema dei suoi diritti imperiali su Cipro. Si ferma cinque settimane nell'isola, dove entra in contrasto con Giovanni I di Ibelin, signore di Beirut e reggente per il dodicenne pronipote Enrico I di Lusignano re di Cipro, che sin dalla fondazione è feudo dell'Impero.

Giovanni resiste alle sue pretese di dominio su Beirut e rifiuta come illegali le sue richieste delle rendite del Regno di Cipro negli ultimi dieci anni. In attesa di ridiscutere la questione, deve però consegnare Enrico alla custodia dell'imperatore e lasciargli in ostaggio venti vassalli ciprioti e i suoi figli Baliano e Baldovino. Il contrasto s'inasprisce quando Giovanni si ritira a Nicosia, verso la quale Federico marcia appena ricevuti dalla Siria i rinforzi di Baliano I signore di Sidone. Giovanni si rifugia nella fortezza di Dydimi (Deudamor, Diodamore). Federico, preoccupato per la notizia che Gregorio IX e Giovanni di Brienne, passato nel campo papale, hanno assalito il suo Regno meridionale, scende a patti con Giovanni di Ibelin che afferma di non volersi sottrarre alla liberazione del S. Sepolcro; con lui arriva a un accordo e riceve il giuramento di fedeltà.

Quando Federico salpa per Acri il 2 settembre 1228, lo accompagnano Giovanni di Ibelin con il re Enrico e molti baroni ciprioti, ma non Boemondo, che torna ad Antiochia. Sono con lui pellegrini in gran numero e una corte affollata, della quale fanno parte menestrelli e poeti, tra i quali probabilmente il bavarese Neidhart von Reuenthal, e certamente il Tannhäuser e lo svevo Freidank, un poeta vagante di origine borghese che un paio d'anni dopo lascerà testimonianza di questa esperienza nell'opera Bescheidenheit (ossia 'moderazione, equilibrio, saggezza').

Il 7 settembre Federico entra nel porto di Acri, dove è accolto onorevolmente dai Templari e dagli Ospitalieri come dal clero, anche se gli viene negato il bacio della pace a causa della scomunica. Ma per dare ai suoi sudditi siriani un segno di buona volontà Federico cede alle richieste di un atto di conciliazione col papa, manda a Roma Enrico di Malta e Marino Filangieri arcivescovo di Bari per annunziargli il suo arrivo in Siria e per chiedergli la cancellazione della scomunica, e nomina Rinaldo di Spoleto suo plenipotenziario per i negoziati col papa. Alla partenza di Federico da Brindisi Gregorio ha informato il patriarca di Gerusalemme e i Maestri degli Ordini militari che la scomunica rimane valida anche dopo il suo arrivo e proibisce loro di prender parte alle operazioni dell'imperatore (Historia diplomatica, III, pp. 83 ss.).

Il conflitto col papa genera sconcerto tra i crociati: i cavalieri tedeschi e siciliani si schierano con l'imperatore; le truppe comuni, compresi alcuni tedeschi, sono turbate dalle conseguenze religiose della scomunica e rimangono dalla parte del papa, insieme al patriarca Geroldo, ai vescovi siriani e ai Templari, decisamente ostili a Federico. I pisani e genovesi residenti in Siria, forse ricordando il fallimento di Damietta e i danni commerciali subiti, appoggiano Federico, come i Cavalieri teutonici con il Gran Maestro Ermanno di Salza. Gli inglesi e il loro clero sono più indecisi: dapprima con l'imperatore e poi col papa. Federico decide astutamente di assegnare il comando nominale di diversi contingenti della spedizione ai suoi fedeli che non portano il peso della scomunica: Ermanno, Riccardo Filangieri e Oddone di Montbéliard, rendendo così i crociati formalmente non soggetti agli ordini di un imperatore scomunicato.

Federico, cosciente dei limiti delle sue forze militari, non cerca la vittoria con lo scontro armato. Ha già seguito vie diplomatiche col sultano d'Egitto: dal 1226 è stato regolarmente informato della situazione in Siria dai rapporti diplomatici con al-Kāmil e dalle relazioni amichevoli con l'emiro Fakhr al-Dīn, e i negoziati sono continuati grazie a Tommaso di Acerra dall'autunno 1227 sino all'arrivo di Federico ad Acri.

Non sappiamo che cosa esattamente al-Kāmil abbia promesso e se abbia usato Gerusalemme come moneta di scambio per rendere più sicuro l'Egitto (Riley-Smith, 1994, p. 208), né quanto la morte di al-Mu῾aẓẓam in novembre abbia mutato il suo atteggiamento. Ma Federico spera probabilmente di ottenere le terre conquistate dal Saladino in Siria e di poter ricostituire il Regno com'era prima della disa-strosa battaglia di Ḥaṭṭīn.

Le fonti arabe accennano alla restituzione di Gerusalemme ma sono meno precise sulle altre località. Dopo la morte di al-Mu῾aẓẓam, suo figlio, il ventunenne al-Nāṣir, erede come sultano di Damasco, si adopera invano per riconciliarsi con lo zio al-Kāmil, che s'impadronisce di Gerusalemme e invade la Siria. Al-Nāṣir chiede aiuto all'altro suo zio al-Ashraf, ma i due zii si alleano per spossessare il nipote assediando Damasco con l'intenzione di dividersi il territorio tra loro (Recueil des historiens des Croisades, 1898, pp. 190-191). La posizione di al-Kāmil, che probabilmente intende seguire le orme del Saladino, suo zio, sulla via di una riunificazione del mondo musulmano, è ora meno precaria di un anno prima quando ha chiesto aiuto a Federico, ma non può sapere quanto siano deboli le forze militari crociate e quanto la scomunica incida sulla coesione interna del fronte cristiano.

Federico manda Tommaso di Acerra e Baliano di Sidone per informare al-Kāmil del suo arrivo e per chiedere l'adempimento della promessa di restituire Gerusalemme. Il sultano li riceve onorevolmente nel suo campo a Nablus ma non prende impegni, accetta i doni di Federico (Estoire d'Eracles, 1859, p. 371), tra i quali tessuti di seta e di lana, vasi d'oro e d'argento, e li ricambia con un elefante, dieci cammelli, dieci cavalli, sete e ricchi tessuti. Poco dopo Federico accoglie nel suo campo a Recordane presso Acri gli ambasciatori di al-Kāmil, tra i quali l'amico Fakhr al-Dīn e Shams al-Dīn qāḍī di Nablus. L'imperatore si mostra esperto di consuetudini diplomatiche, e con la sua eloquenza e la sua scienza conquista sia Fakhr al-Dīn che il sultano. Il cronista egiziano al-Maqrīzī ricorda Federico come dotto in molte scienze, e riferisce che egli ha posto difficili problemi di geometria, aritmetica e matematica al sultano, che ne affida la soluzione a uomini eruditi per averne risposte da inviare all'imperatore. Le sue conoscenze insieme alle sue opinioni poco ortodosse in materia di religione stupiscono i musulmani e allarmano i cristiani. Opinioni che, insieme alla segretezza con la quale conduce i negoziati con Fakhr al-Dīn, fanno nascere sospetti. Persino il poeta Freidank, che pure ammira l'imperatore, manifesta dispiacere per la segretezza delle trattative, una segretezza peraltro dettata dal desiderio di evitare dissensi e fughe di notizie in campo cristiano e dalla necessità di conseguire il successo grazie a rapporti personali non condizionati da interventi estranei.

Se al-Kāmil si è impegnato in notevoli concessioni di terre, gli riesce però difficile mantenere ora tali promesse di fronte alle critiche dei suoi sudditi. Quando Tommaso di Acerra e Baliano tornano presso di lui per riprendere i negoziati, il sultano lascia il suo quartier generale a Nablus e si trasferisce nel suo campo di Harbiyāh (La Forbie) a nordest di Gaza, al fine di "tenere a distanza l'imperatore e le sue parole" (ibid., p. 372), cioè di guadagnare tempo. Federico decide allora di dare una dimostrazione di forza, usando come basi delle operazioni contro Gerusalemme le città di Cesarea e Giaffa, che nell'ottobre 1227 Enrico di Limburgo ha ripreso a fortificare. Nel novembre 1228 Federico si mette in marcia da Acri verso Giaffa con i signori siriani e le truppe tedesche e italiane, dopo aver inviato ad al-Kāmil il suo elmo e la sua corazza, come un larvato duplice messaggio di essere pronto ad abbandonare le armi ma anche a usarle, se costretto. Pietro di Montaigu, Gran Maestro dei Templari, e Bertrando di Thessy, Gran Maestro degli Ospitalieri, non volendo marciare insieme all'imperatore scomunicato, lo seguono a una giornata di viaggio. Ma presso Arsūf Federico, avvertendo i pericoli dell'inferiorità numerica delle sue forze e della loro incerta fedeltà, cede alle sollecitazioni di alcuni suoi consiglieri e convince Templari e Ospitalieri a unirsi al grosso delle truppe, con l'intesa che in futuro gli ordini saranno dati non in nome dell'imperatore ma "in nome di Dio e della Cristianità" (ibid.). L'esercito crociato giunge a Giaffa. Malgrado le tempeste abbiano sinora impedito l'arrivo dei rifornimenti, alla fine dell'anno giungono in città abbondanti soccorsi (Historia diplomatica, III, pp. 90-91).

Nel gennaio 1229, mentre stanno per essere completate le fortificazioni costiere, dall'Italia giungono notizie preoccupanti: Giovanni di Brienne ha preso San Germano e minaccia Capua (Riccardo di San Germano, 1936-1938, pp. 154-157). Federico ordina al suo ammiraglio Enrico di Malta di mandare venti galee ad Acri e di tenere la flotta pronta a salpare per la Pasqua (Estoire d'Eracles, 1859, pp. 373-374). Lo Svevo è in grande difficoltà: se si trattiene ancora in Oriente rischia di perdere il Regno di Sicilia e la stessa corona imperiale, ma se lascia la Palestina senza aver liberato Gerusalemme condanna al completo insuccesso la crociata, con grave danno del suo onore e della sua credibilità come imperatore. Anche al-Kāmil è in imbarazzo: impegnato col fratello al-Ashraf nell'assedio di Damasco (che è iniziato in marzo e avrà successo il 12 luglio), non può respingere le richieste di Federico, ma sa bene che se le accoglie andrà incontro alle reazioni dei suoi correligionari. In questo momento più che di difendere Gerusalemme sembra preoccupato di entrare in possesso di Damasco, come baluardo contro l'avanzata minacciosa di Ǧalāl al-Dīn, capo dei turchi corasmi (v.). In caso di scontro armato con Federico corre il rischio dunque di trovarsi tra due fuochi.

Si riprendono i negoziati, favoriti dalle opposte difficoltà, e il 18 febbraio, presenti Ermanno e i vescovi inglesi Pietro di Winchester e Guglielmo di Exeter, Federico e Fakhr al-Dīn firmano un trattato, di cui non abbiamo il testo completo ma solo frammenti (Historia diplomatica, III, pp. 86-87).

Al-Kāmil cede Gerusalemme (Ruggero di Wendover, 1888, pp. 61-65), Betlemme e Nazareth con i villaggi lungo la via per Gerusalemme, parte del distretto di Sidone e Toron sulla costa, col diritto di fortificarle, mentre il sultano non può riparare o ricostruire fortezze o castelli sino alla fine della tregua di dieci anni. Il recinto sacro che include la moschea al-Aqsā e la Cupola della Roccia (Qubbat al-Ṣakhra) rimane in mano musulmana con piena libertà di movimento e di culto, mentre i cristiani possono entrarvi a pregare (secondo la cronaca di al-Maqrīzī, "Revue de l'Orient Latin", 9, 1902, nrr. 3-4, p. 525). I musulmani che dal 1187 si sono stabiliti a Gerusalemme conservano i loro usi giuridici e la loro libertà religiosa, con un qāḍī che difende i loro interessi e con piena protezione per i pellegrini musulmani che si recano alle moschee (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 159). Per la durata della tregua Tripoli e Antiochia non riceveranno aiuti da Federico in caso di guerra con i musulmani e sarà conservata la situazione presente, senza aiuti esterni, nelle fortezze degli Ospitalieri (come Krak des Chevaliers, al-Marqab e Burǧ Safīthā o Castello Bianco) e dei Templari (come Tortosa). I prigionieri di guerra catturati negli scontri di Damietta o dopo saranno rilasciati (Historia diplomatica, III, pp. 89-95, 102). Le clausole riguardanti le fortezze degli Ospitalieri e dei Templari sembrano implicare una ritorsione di Federico per la loro tenace opposizione e forse anche quelle riguardanti Antiochia e Tripoli, possessi di Boemondo IV, che si è mostrato avverso a prestare il giuramento di fedeltà all'imperatore (Van Cleve, The Crusade, 1962, p. 456).

I sudditi tedeschi e siciliani di Federico sono felici per l'intesa raggiunta, ed Ermanno di Salza in una lettera al papa cerca abilmente di convincerlo che la presenza musulmana a Gerusalemme è disarmata e di carattere unicamente religioso, illustrandogli i vantaggi per la causa cristiana, ma invano. Federico desidera riconciliarsi con il patriarca, perché spera di essere incoronato a Gerusalemme e di poter tornare al più presto in Italia, ed è pronto a fare importanti concessioni se il patriarca accetta di accompagnarlo con l'esercito a Gerusalemme. Ermanno è incaricato anche di questa missione, ma Geroldo si rifiuta di dare una risposta prima di aver letto una copia del trattato, che gli viene fornito in riassunto. Il contenuto lo fa reagire irosamente: la sua lettera al papa indica che è avverso a ogni accordo o pace col sultano, perché a suo giudizio il primo compito di una crociata è quello di versare sangue infedele, non quello di condurre negoziati che riconoscono i diritti dei musulmani nella città sacra al nome di Cristo.

I Templari sono d'accordo con lui, perché il loro Ordine ha come scopo istituzionale quello di combattere senza tregua contro gli infedeli e accettare il trattato di Federico imporrà loro relazioni pacifiche con i musulmani per almeno dieci anni, impedendo ulteriori conquiste. Dunque patriarca e Templari si sentono feriti in quelli che ritengono interessi legittimi e considerano le concessioni ottenute da Federico, specie a Gerusalemme, assai precarie; intollerabile che i cristiani debbano ascoltare nella Città Santa le preghiere musulmane senza potersi opporre e che i musulmani siano giudicati da magistrati della loro fede. Patriarca e Templari vedono perciò in Federico un traditore e un nemico della Chiesa, e quando Ermanno va in missione presso Geroldo, questi vede il tentativo di conciliazione come un inganno e ritiene suo dovere colpire Federico in ogni modo. Tenta d'impedirne l'ingresso trionfale in Gerusalemme proibendo all'esercito cristiano di seguirlo pena la scomunica e pone la città sotto interdetto. A tal fine manda urgentemente l'arcivescovo Pietro di Cesarea presso l'esercito crociato, ma l'imperatore si è già mosso.

Federico si è messo in marcia con l'esercito seguito da un gran numero di pellegrini e il 17 marzo 1229 entra in Gerusalemme, dove per ordine di al-Kāmil lo attende il qāḍī Shams al-Dīn per espletare la consegna delle chiavi della città, che appare quasi deserta. Sono con lui truppe tedesche e siciliane, pochi nobili d'Oltremare e degli Ordini militari soltanto i fedeli Cavalieri teutonici; per il clero soltanto i vescovi siciliani e gli inglesi Pietro di Winchester e Guglielmo di Exeter. I pellegrini tedeschi sono esultanti, anche perché assistono al compimento dell'antica profezia che presentava un signore dell'Occidente come liberatore della Città Santa. Federico fissa la sua residenza nell'antica sede degli Ospitalieri.

La mattina di domenica 18 marzo i crociati e i pellegrini si recano alla chiesa del S. Sepolcro; Federico entra, si avvicina all'altare, prende la corona regia e se la pone sul capo in assenza del clero, quasi affermando che la sua autorità dipende direttamente da Dio, senza alcuna intermediazione della Chiesa e senza aver consultato i magnati del Regno e averne ottenuto il consenso. Ermanno legge in sua presenza, prima in tedesco e poi in francese, le sue dichiarazioni che passano in rassegna gli eventi da quando ha preso la croce ad Aquisgrana, elencando i duri provvedimenti presi dal papa contro di lui e attribuendone la colpa a coloro che lo hanno informato falsamente. Agli occhi di Federico i veri colpevoli sono il patriarca e quelli che lo hanno seguito, indicati come falsi cristiani che hanno calunniato l'imperatore e impedito la pace (Historia diplomatica, III, pp. 100, 109).

Geroldo ha vietato ai fedeli di accompagnarlo, ritenendo scandaloso che l'imperatore non abbia voluto combattere contro i musulmani ma, anzi, sia venuto a patti con essi. Il cronista inglese Matteo Paris (1888, p. 124) ricorderà con quale sdegno il patriarca si è rivolto ai fedeli, e anche nella parte imperiale quell'incoronazione anomala desta qualche stupore, se Ruggero di Wendover si preoccuperà di annotare l'indignazione del papa perché Federico "propria manu sese coronavit et ita coronatus resedit in cathedra patriarchatus et ibi predicavit populo" (1888, p. 66). Ma è opinione diffusa, specie tra i pellegrini, che l'aver adempiuto il suo voto di crociato con la liberazione di Gerusalemme abbia cancellato la scomunica. Freidank affermerà che "davanti a Dio la scomunica non va oltre la colpa degli uomini" e che "giusta è l'obbedienza sino a quando il maestro fa il bene, ma quando vuol costringere Dio all'ingiustizia, allora dobbiamo abbandonarlo e metterci al fianco di chi è nel giusto", dimenticando il potere di legare e di sciogliere rivendicato dal papa e quasi sfiorando l'eresia (Kantorowicz, 1976, pp. 182-183). Ben diverso sarà il giudizio del francescano Salimbene da Parma, per il quale "pacem cum Saracenis fecit sine Christianorum utilitatem. Insuper et nomen Machometti fecit in templo Domini publice decantari" (Salimbene de Adam, 1966, p. 502).

Federico esce dalla chiesa del S. Sepolcro con la corona sul capo e si reca nella sede degli Ospitalieri, dove inizia a discutere con i vescovi inglesi, i Gran Maestri dei Cavalieri teutonici e degli Ospitalieri, il precettore dei Templari e altri, sull'argomento della difesa della città. Argomento delicato, perché se da una parte al-Kāmil ha interesse a lasciar credere ai suoi che l'accordo lascia Gerusalemme sostanzialmente una città aperta, Federico intende dare a vedere di volerla fortificare, ma senza impegnarsi a fondo: ordina per ora la riparazione della Torre di Davide e della Porta di S. Stefano, che affida ai Teutonici. Non trova molta collaborazione negli altri e rimanda l'incontro al giorno seguente. Pietro di Cesarea arriva la mattina del 19 per proclamare l'interdetto (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 159), ma troppo tardi per bloccare i piani di Federico, poiché ora l'interdetto rischia di causare le reazioni sdegnate dei numerosi pellegrini. Quando Gregorio IX si riconcilierà con Federico, sarà costretto a prendere provvedimenti contro il patriarca Geroldo, che pure è rimasto sempre in sintonia con la volontà papale.

Del breve soggiorno di Federico a Gerusalemme parlano i cronisti arabi Ibn Wāṣil e Sibṭ Ibn al-Ǧawzī, che riferiscono, in una narrazione forse edulcorata dalla simpatia, le trattative con al-Kāmil, le condizioni dell'accordo, oltre ad alcuni episodi della presenza dell'imperatore nella città. Ibn Wāṣil narra che quando Federico, accompagnato dal qāḍī Shams al-Dīn, entrò nel recinto delle moschee, avrebbe incontrato all'ingresso della moschea al-Aqṣā un prete che voleva entrarvi col Vangelo in mano e lo avrebbe redarguito aspramente, costringendolo ad allontanarsi tremante. Passata la notte nell'alloggio assegnatogli, si sarebbe sorpreso per non aver udito l'appello alla preghiera del muezzin, e al detto dignitario che gli spiegava di averlo proibito per riguardo all'ospite illustre replicò: "Hai sbagliato nell'agire così: il mio maggiore scopo nel pernottare a Gerusalemme era di sentire l'appello alla preghiera dei muezzin e la loro lode a Dio durante la notte" (Storici arabi, 1963, pp. 263-269, 271-276).

Sibṭ al-Ǧawzī, che descrive l'imperatore come "di pel rosso, calvo, miope: se fosse stato uno schiavo, non sarebbe valso duecento dirham", dà questa versione della replica di Federico: "Avete fatto male, o qadī: volete voi alterare il vostro rito e la vostra Legge a causa mia? Se foste voi presso di me nel mio paese, sospenderei forse il suono delle campane per cagion vostra?". Sibṭ al-Ǧawzī aggiunge che Federico "distribuì una somma di denaro fra gli addetti e i muezzin e i devoti del Santuario, dando a ognuno dieci dinàr: si fermò a Gerusalemme soltanto due notti, e fece ritorno a Giaffa, temendo dei Templari che volevano ucciderlo" (ibid., pp. 269-271).

Questo incidente è ampiamente ricordato anche da Matteo Paris, secondo il quale Templari e Ospitalieri, spinti da "superbia" e "invidia", avevano proditoriamente informato al-Kāmil che l'imperatore intendeva recarsi da umile pellegrino al fiume Giordano, nel luogo dove Cristo fu battezzato, e dove lo Svevo poteva essere facilmente catturato o ucciso. Al-Kāmil, indignato per il tradimento di coloro che portavano il segno della croce, avrebbe chiamato due fidatissimi consiglieri e mostrando loro la lettera ricevuta avrebbe esclamato: "È questa la fedeltà dei cristiani!", ricevendone il consiglio di mandarla a Federico, che sapevano essergli "amicissimus". Questi, già messo in sospetto da informazioni ricevute e non volendo credere a "tanta malicia", aveva ascoltato il messo del sultano e letto la lettera incriminata, decidendo di dissimulare, rimandando il "tempus retribucionis" per i traditori e rinunciando al suo pellegrinaggio al Giordano. "Et hoc fuit seminarium odii inter imperatorem et Templarios ac Hospitalarios", afferma il cronista (Matteo Paris, 1888, pp. 123-124). I Templari avrebbero allora coinvolto nella loro cospirazione il patriarca, che scrisse una lettera ai fedeli per diffamare Federico.

Irritato per la minaccia d'interdetto, la mattina del 9 marzo Federico esce da Gerusalemme col suo seguito, quasi preparandosi alla partenza. Agli esponenti degli Ordini militari, con i quali ha iniziato a discutere sulle fortificazioni e che lo raggiungono in fretta per definirne il progetto, Federico dichiara che tratterà il problema più oltre, quindi monta a cavallo e procede a briglia sciolta verso Giaffa, sì che stentano a tenergli dietro. Non è la scomunica a sollecitarlo ma il bisogno di tornare al più presto in Italia per difendere il suo Regno, e forse il timore di un attentato. Lascia molti cavalieri a Gerusalemme per difendere la città e iniziare a fortificarla; i Templari si offrono ora di collaborare ai lavori, per cogliere l'opportunità di difendere i loro interessi, perché insieme al patriarca sono loro malgrado costretti a riconoscere che il successo ottenuto da Federico può essere volto a loro vantaggio.

Federico procede da Giaffa ad Acri, dove arriva il 23 e apprende che il patriarca sta usando il denaro assegnato dal re francese Filippo Augusto al Regno di Gerusalemme, e a lui affidato, per finanziare truppe con le quali spera d'impadronirsi della Città Santa e di esautorare l'imperatore, un piano nel quale i Templari sono implicati. Federico chiede spiegazioni e Geroldo risponde che il trattato è stato concluso col sultano di Egitto ma non con quello di Damasco, che potrebbe assalire Gerusalemme. Federico gli ordina di desistere e il patriarca gli risponde di non dovere obbedienza a uno scomunicato. Federico convoca per mezzo di araldi i crociati e gli abitanti e in un'affollata assemblea dinanzi alle porte della città accusa di tradimento il patriarca e i Templari, ordina a tutti i cavalieri che sono stati armati contro di lui di lasciare la regione e autorizza Tommaso di Acerra a punire severamente chi non obbedisca ai suoi ordini (Historia diplomatica, III, p. 137).

Gli avversari però non cedono e Federico è indotto a ricorrere alla forza: fa chiudere le porte di Acri e ne proibisce l'ingresso ai suoi oppositori. Nella città le sue truppe occupano posizioni dalle quali possono attaccare il palazzo del patriarca (ibid., p. 138) e le case dei Templari. Geroldo lamenta che persino le chiese sono state occupate dagli imperiali, mentre i due monaci mendicanti da lui autorizzati a pregare la domenica delle Palme (8 aprile) contro l'imperatore sono catturati e frustati. Geroldo manda con diversi messaggeri lettere al papa, ma Federico le fa intercettare. Non riesce tuttavia a mettere a tacere l'opposizione di Giovanni di Ibelin e dei Templari, mentre Geroldo è tanto adirato da rifiutare qualsiasi accordo e da voler accettare soltanto una piena sottomissione dell'imperatore alla volontà sua e del papa.

La sovranità di Gerusalemme è apparsa ai contemporanei il punto centrale e più controverso del trattato, e il meno accettabile per molti cristiani e molti musulmani. Federico ha raggiunto questo obiettivo con un compromesso, dettato dal buon senso e da un accorto sfruttamento delle circostanze, ma che rivela l'imbarazzo dei contraenti e la preoccupazione per le reazioni prevedibili. Il trattato è giudicato da una fonte musulmana come "uno degli eventi più disastrosi per l'Islam" (Recueil des historiens des Croisades, 1877, p. 187). Al-Kāmil ha dovuto fronteggiare la furia dei suoi parenti e della classe religiosa. Ibn-Wāṣil narra che quando giunge a Damasco ancora assediata la notizia della consegna di Gerusalemme ai "Franchi", al-Nāṣir ordina il lutto pubblico indirizzando ingiurie allo zio e ordina al predicatore Shams al-Dīn Yūsuf, ossia Sibṭ Ibn al-Ǧawzī, di tenere una predica nella moschea maggiore della città: lo ha fatto, dice il cronista, allo scopo di alienare i sentimenti della popolazione dallo zio per meglio difendersi da lui. L'assemblea è affollatissima, e da essa si levano grida e pianti.

Anche lo stesso Sibṭ Ibn al-Ǧawzī narra che quella notizia ha turbato i musulmani, che tengono pubbliche cerimonie di lutto. Al-Nāṣir gli ha dato incarico di presiedere nella stessa moschea un'assemblea che risulta memorabile, e la sua allocuzione si fa eco dell'angoscia e della vergogna generali. Ma ci sono proteste nel campo stesso di al-Kāmil: i muezzin incaricati di chiamare i fedeli alla preghiera lo fanno fuori dell'ora canonica dinanzi alla tenda del sultano, che si limita a farli allontanare (secondo la cronaca di al-Maqrīzī, "Revue de l'Orient Latin", 9, 1902, nrr. 3-4, pp. 525-526). È un'eco che non si spegne, se anche lo storico Ibn al-Athīr lamenta sdegnato la cessione di Gerusalemme ai crociati. Si comprende quale opposizione il sultano abbia dovuto fronteggiare per cedere alle pressioni dell'amico cristiano, e perché abbia cercato di giustificarsi minimizzando l'entità delle concessioni fatte, presentandole quasi come se fossero un condominio più che una cessione di sovranità (Grousset, 1936, p. 310).

Federico deve fronteggiare invece la reazione di Gregorio IX, che ha fatto invadere il suo Regno meridionale. Dall'Italia giunge notizia che è stata messa in giro la voce della sua morte e che il papa ha sciolto i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, mentre Giovanni di Brienne è entrato con le truppe papali in Puglia e sta per occuparne i porti al fine di prendere prigioniero l'imperatore al suo arrivo. Federico ordina che tutte le armi in eccesso, macchine d'assedio e altri strumenti bellici siano caricati sulle navi o distrutti per impedire che se ne impadronisca Geroldo. Nomina Baliano di Sidone e Guarnerio di Egisheim suoi rappresentanti nel Regno di Gerusalemme e lascia una forte guarnigione per proteggere gli interessi imperiali ad Acri, che rimane la vera capitale del Regno, e per contrapporli ai Templari aiuta i Cavalieri teutonici a consolidare il territorio intorno alla fortezza di Montfort che domina la città.

Il 1o maggio Federico salpa da Acri, con qualche dimostrazione ostile della plebe sobillata dai suoi avversari. Una fonte cipriota riferisce che, sebbene egli abbia deciso di partire all'alba e di nascosto, è seguito sino alla sua nave, per la via dei macellai, e bersagliato con pezzi di trippa e altre frattaglie. Giovanni di Ibelin e Oddone di Montbéliard devono intervenire con la forza per impedire il peggio e ristabilire l'ordine (Filippo da Novara, 1994, p. 105). Le sette galee procedono verso Cipro, dove Federico si trattiene per un mese ed è presente al matrimonio del re Enrico con Alice, figlia del marchese di Monferrato, mentre cerca di sottomettere il patriarca che vi risiede e gli ostili Templari. Vende, per 10.000 marchi d'argento, la reggenza del Regno di Cipro per tre anni a cinque baroni ciprioti avversari degli Ibelin. Quindi dopo un viaggio veloce approda segretamente il 10 giugno a Brindisi, giungendo in Puglia un mese prima che Gregorio IX apprenda la sua partenza da Acri (Historia diplomatica, III, p. 146; Breve chronicon, ibid., I, 2, pp. 902-903) e sorprendendo quanti lo credevano morto.

Dopo la crociata

Da Brindisi Federico passa a Barletta, dove emana un proclama che annunzia il suo ritorno, e invia a Capua Tommaso di Acerra. Presso di lui accorrono Rainaldo di Spoleto, insieme ai siciliani rimastigli fedeli e ai pisani, che hanno ricevuto da lui molti benefici (Historia diplomatica, III, pp. 131-135). Forte delle truppe rapidamente messe insieme, in agosto raggiunge Capua. Il suo ritorno rincuora i sudditi del Regno di Sicilia, e i suoi appelli, sostenuti dai cavalieri tedeschi spinti a Brindisi da una tempesta (Riccardo di San Germano, 1936-1938, pp. 158-161), ottengono senza combattere rapidi successi contro le truppe papali, che si ritirano. Nell'autunno 1229 Federico, riconquistato il suo Regno, fa confiscare nel Mezzogiorno tutti i beni e le terre dei Templari, per i quali è arrivato il "tempus retribucionis".

Ma ora è necessario riconciliarsi col papa sconfitto, che pur trovandosi in difficoltà si rifiuta di dare ascolto ai tentativi di mediazione del paziente e abile Ermanno di Salza. Federico si mostra prudente, ferma le sue truppe ai confini delle terre pontificie e chiede aiuto ai principi tedeschi, che intervengono a garantire la sua buona fede. Dopo lunghe trattative Ermanno ottiene una tregua, a condizioni dure per Federico, che deve garantire l'impunità ai partigiani del papa nel Regno di Sicilia, restituire i beni ecclesiastici confiscati, rinunziare alla giurisdizione laica sul clero siciliano ed esentarlo dalle imposte, e rinunziare ai tradizionali diritti regi nell'elezione dei vescovi. Nel maggio 1230 si mettono per iscritto le condizioni della pace, che il 23 luglio è conclusa a Ceprano; il 28 agosto la scomunica è cancellata (ibid., p. 171) e il 1o settembre ad Anagni Federico è accolto, alla presenza del solo Ermanno di Salza, da Gregorio IX come "diletto figlio della Chiesa" (Chronica regia Coloniensis, 1880; Breve chronicon, in Historia diplomatica, I, 2, pp. 903-904).

Sembrano tornati buoni i rapporti tra Federico e Gregorio, che giunge a sospendere temporaneamente il patriarca Geroldo dal suo ruolo di legato pontificio nel Regno di Gerusalemme sostituendolo con Alberto patriarca di Antiochia, a richiamarlo a Roma, a redarguirlo severamente come responsabile di discordia nel campo cristiano per aver lanciato l'interdetto sulla città senza sanzione papale, reintegrandolo nel suo ruolo di legato soltanto nel giugno 1233, quando si sarà adeguato alla mutata politica papale. Ma Federico, pur vincitore sul campo, ha dovuto pagare il prezzo più alto per porre fine a un conflitto che metteva in forse la sua autorità d'imperatore cristiano.

Federico sembra non aver rinunciato all'idea d'intervenire di nuovo in Palestina, se nell'autunno 1231 ordina ai suoi vassalli laici ed ecclesiastici del Regno di Sicilia di fornire cavalieri in difesa di Gerusalemme e nell'estate dell'anno seguente manda in Oriente una flotta di trentadue galee con migliaia di fanti e cavalieri al comando di Riccardo Filangieri col titolo di legato imperiale, che giunto a Cipro non vi può sbarcare perché impedito dalle navi di Giovanni di Ibelin e del re Enrico che sono riusciti a scacciare dall'isola il consiglio imperiale di reggenza.

Federico diviene più cauto nell'impegnarsi militarmente contro i suoi oppositori in Oriente e compie dei tentativi per arrivare a una pace onorevole e a far riconoscere la sua autorità come re di Gerusalemme e signore di Cipro nella veste di imperatore. Alla fine del 1235 l'accordo sta per essere ratificato nella cattedrale di Acri, quando Giovanni di Cesarea, nipote del signore di Beirut, vi irrompe con truppe armate minacciando Oddone di Montbéliard, Baliano e lo stesso vescovo di Sidone. Quindi Giovanni di Ibelin rifiuta la pace proposta da Federico e caldeggiata dal vescovo di Sidone. Anche Gregorio IX compie tra 1234 e 1235 diversi tentativi per convincere Giovanni a riconoscere l'autorità di Federico, ma senza successo. Giovanni (da tutti chiamato il 'vecchio signore di Beirut') muore nel 1236, lasciando erede il figlio maggiore Baliano, che soltanto il 7 giugno 1241 firmerà, insieme a una richiesta di perdono, un atto di sottomissione a Federico, dichiarando di sciogliere la lega baronale antimperiale in cambio della nomina di Simone di Montfort conte di Leicester a reggente del Regno di Gerusalemme, una nomina che Federico non accetta.

Dopo la battaglia di Cortenuova nel novembre 1237 (alla quale hanno preso parte anche saraceni di Lucera) e la vittoria di Federico contro la Lega lombarda, che tuttavia continua la resistenza antimperiale, si sono aggravati i rapporti tra papa e imperatore, soprattutto a causa delle intese del primo con le città lombarde e dell'assegnazione del titolo di re di Sardegna, feudo papale, da parte del secondo al figlio naturale Enzo. Il 20 marzo 1239 Gregorio IX scomunica Federico per la seconda volta accusandolo di crimini contro la Chiesa in Sicilia e di non voler partire per una nuova crociata in difesa della Terrasanta, e scioglie i suoi sudditi dal vincolo di fedeltà (Matteo Paris, 1888, pp. 148-150). Ma Federico, ancora impegnato contro i lombardi, vorrebbe raggiungere la pace in Italia settentrionale e la piena affermazione dei suoi diritti imperiali prima di lasciare nuovamente il Mezzogiorno. A sentire Matteo Paris, è in questo momento che la fama di Federico è "nimis obfuscata": sull'eco delle parole papali, lo si accusa non tanto di fede vacillante quanto di eresia e di bestemmia e di essere più vicino alla fede di Maometto che a quella di Cristo, oltre ad aver fatto sue concubine alcune meretrici saracene. E si diffonde una voce popolare che da tempo egli è alleato e amico dei musulmani più che dei cristiani, una voce che i diffamatori di Federico "indiciis multis probare conabantur" (ibid., p. 147).

Malgrado le ingiunzioni di Gregorio IX per un nuovo intervento armato, Federico è fermo nel proibire che un esercito sbarchi in Palestina con propositi aggressivi prima della scadenza della tregua da lui concordata con al-Kāmil, fissata al luglio 1239. Al-Kāmil, statista abile e illuminato (Grousset, 1936, p. 370), è scomparso a Damasco l'8 marzo 1238, e in Oriente la situazione è sotto il segno dell'anarchia perché i suoi figli sono entrati in conflitto per la successione.

Nell'estate 1239, al comando di Teobaldo IV conte di Champagne e re di Navarra dal 1234, partono contingenti di crociati francesi (una parte dei quali soccorrerà Costantinopoli nel 1240) che raggiungono Acri nel settembre 1239 e vanno incontro presso Ascalona a una sconfitta disastrosa, che pone fine a una crociata inconcludente. Nel giugno 1240 Riccardo conte di Cornovaglia, fratello del re Enrico III, con l'approvazione di Federico interviene con i suoi cavalieri inglesi ma, turbato per l'anarchia incontrata, s'imbarca per il ritorno il 3 maggio 1241. Nelle terre crociate gli avversari di Federico rimangono turbolenti: nell'ottobre 1241 scoppia ad Acri una sommossa antimperiale e nel 1242 gli Ibelin e i loro alleati giungono ad assediare Tiro tenuta da Riccardo Filangieri, che è costretto a capitolare e a lasciare il Regno nel luglio 1243. Tornato presso Federico, è da questo accusato di fallimento e imprigionato, e sarà liberato soltanto nel 1244 per intercessione di Raimondo di Tolosa, presso il quale andrà a rifugiarsi in veste di esule.

Nell'agosto 1241 scompare Gregorio IX; dopo il brevissimo pontificato di Celestino IV (morto nel novembre 1241) e un periodo di diciotto mesi di sede vacante, nel giugno 1243 è eletto Innocenzo IV. Nel maggio dello stesso anno Corrado, figlio di Federico, raggiunge la maggiore età ed eredita il titolo di re di Gerusalemme. Il partito degli Ibelin proclama allora decaduti tutti i suoi obblighi verso Federico e verso il suo nuovo luogotenente a Tiro Tommaso di Acerra, e dichiara di riconoscere come reggente a Cipro, se Corrado non si presenta di persona, soltanto il parente più prossimo e presente nell'isola, cioè la regina madre Alice di Monferrato.

Tra 1243 e 1244 l'intransigenza dei Templari e l'aggressività dei turchi corasmi, sospinti dai mongoli e divenuti alleati del sultano d'Egitto al-Ṣāliḥ Ibn Ayyūb, portano alla caduta di Gerusalemme il 23 agosto 1244 e alla sconfitta dei crociati a Harbiyāh presso Gaza il 17 ottobre (Runciman, 1966, pp. 877-880): la Città Santa, pacificamente acquisita da Federico II, torna sotto pieno dominio musulmano.

Nel giugno 1243 Federico ha aperto negoziati con Innocenzo IV per ottenere la cancellazione della scomunica. Ma il nuovo papa, suo tenace avversario, non ha accettato le sue richieste e non sentendosi sicuro a Roma si è rifugiato a Lione, sotto la protezione di Luigi IX re di Francia. A Lione, nel giugno 1245, il pontefice apre un concilio ecumenico che affronta il problema della liberazione di Gerusalemme e della difesa della cristianità dall'avanzata dei mongoli. È questo un momento di aspro conflitto tra papato e Impero e di gravi difficoltà per lo stesso Federico che, accusato d'ingratitudine dalla Chiesa (Salimbene de Adam, 1966, pp. 276-277), è condannato come eretico e deposto da imperatore (17 luglio).

Innocenzo rivolge un appello per la settima crociata (1248-1250), che sarà condotta invece da Luigi IX, il quale dopo un'effimera conquista di Damietta nel 1249 e la sconfitta di al-Manṣūra nell'aprile 1250 finirà prigioniero del nuovo sultano d'Egitto Tūrānshāh, figlio di al-Ṣāliḥ, e otterrà la libertà dopo un mese pagando un pesante riscatto. Lo stesso Luigi IX rimarrà ucciso dalla peste a Tunisi, lontano da Gerusalemme, appena messa in moto l'ottava crociata (1270).

Nel 1247 Innocenzo IV prende il Regno di Cipro sotto la protezione della Chiesa e ne scioglie i sovrani da ogni obbligo nei confronti dell'Impero. Nel 1250, poco prima di morire, Federico, che non ha mai rinunciato al suo titolo regio su Gerusalemme, dispone nel suo testamento che siano assegnate 100.000 once d'oro "in subsidium Terre Sancte" (Hiestand, 1996, p. 149), confermando così la sincerità del suo impegno. Alla sua morte, il 13 dicembre, Corrado gli succede come imperatore e re di Sicilia, ma non prende la corona del Regno di Gerusalemme, che pure gli è stata destinata quale figlio di Federico e di Isabella di Brienne, né mette mai piede in Palestina.

Dopo la sua crociata, Federico ha conservato relazioni amichevoli con i suoi interlocutori arabi in Oriente. Tornato in Italia nella primavera del 1229, ha indirizzato a Fakhr-al-Dīn due lettere in arabo piene di fiorite espressioni di amicizia. Poi ha mantenuto rapporti cordiali con al-Kāmil sino alla morte di questi, e successivamente con i figli al-῾Ādil II e al-Ṣāliḥ Ibn Ayyūb. Il secondo ha mandato presso Federico il dotto sceicco al-Urmawī, che è rimasto ospite dell'imperatore per qualche tempo e ha composto per lui un trattato di logica, ricevendone molti benefici, come testimonia Ibn Wāṣil.

In Sicilia gli abitanti di fede musulmana, già notevolmente ridotti nel 1226, hanno continuato la loro resistenza, mentre Lucera ha fornito truppe sempre più numerose a Federico, che le ha utilizzate anche nella crociata. In quella occasione i loro riti, liberamente praticati, hanno destato scandalo tra i crociati, e probabilmente anche tra i musulmani della Palestina. La colonia di Lucera è divenuta causa di conflitto con il papato e con il clero locale, per il quale era intollerabile che i riti islamici fossero praticati in terra cristiana da saraceni che le cronache latine presentano come selvaggi e crudeli e ai quali sono rivolte accuse infamanti. Nel 1233 Gregorio IX ha scritto a Federico per ammonirlo affinché si adoperi a far accogliere dai saraceni lucerini i Domenicani mandati a convertirli. Federico ha risposto diplomaticamente assicurando il suo impegno, ma scoraggiando i missionari e intervenendo più volte per assicurare ai suoi sudditi musulmani le loro consuetudini religiose e civili (compreso l'allevamento di cammelli), e continuando a servirsi di artigiani e arcieri arabi. Ma ancora nel 1239 Federico ha ordinato ai suoi funzionari siciliani di deportare dalla Sicilia a Lucera gli ultimi sconfitti. Soltanto nel 1245 (Annales siculi, 1925-1928) il conte Riccardo di Caserta ha potuto dichiarare di aver espulso tutti i musulmani dall'isola e di averli trasferiti in Puglia.

Salimbene, scrivendo della morte di Federico nel 1250, sente il bisogno di ricordare che Ferentino dista da Lucera Saracenorum soltanto 10 miglia, quasi alludendo a un nesso tra l'imperatore e i musulmani da lui protetti (Salimbene de Adam, 1966, p. 505). E tuttavia anch'egli, severissimo giudice di un persecutore della Chiesa, è indotto a confessare: "Vidi enim eum et aliquando dilexi" e a riconoscere che Federico ebbe pochi "in imperio pares in mundo".

Conclusione

La tradizione storiografica ha classificato come due diverse imprese la quinta e la sesta crociata, che vanno tuttavia viste come strettamente connesse. L'una fu condotta con le armi e terminò con l'insuccesso, l'altra con gli strumenti della diplomazia e si concluse con un successo che, per quanto parziale, è tuttavia il migliore che si potesse conseguire in quel momento storico. Federico fu implicato in ambedue le crociate, nella quinta in veste d'imperatore impegnato dal suo voto e dal mandato papale, che inviò truppe in Egitto ma rimandando più volte la sua partenza; nella sesta più direttamente con la sua partecipazione personale e con un mutamento di strategia: non più verso l'Egitto ma, con tappa a Cipro, verso la Palestina. Si mosse nella veste, assolutamente anomala per un crociato, di scomunicato che conduce l'impresa contro la volontà papale e dovendosi difendere dall'ostilità di Gregorio IX in Italia, da quella degli Ibelin e dei loro alleati a Cipro e in Siria, da quella del patriarca Geroldo e dei Templari in Palestina. Le circostanze, con tutte le difficoltà che incontrò sul suo itinerario di crociato, lo spinsero all'autoincoronazione di Gerusalemme e dunque verso una secolarizzazione della gestione di una crociata.

La sua crociata, che pure aveva conosciuto tanti rinvii, fu condotta sotto il segno della fretta: dopo poco più di un mese a Cipro (tra luglio e agosto 1228) Federico si fermò in Palestina meno di otto mesi (tra l'arrivo ad Acri il 7 settembre 1228 e la partenza dallo stesso porto il 1o maggio 1229), e soltanto due giorni a Gerusalemme (dal 17 al 19 marzo). Dopo un altro mese a Cipro, speso nello sforzo di risolvere i conflitti locali, il 10 giugno era a Brindisi. Era rimasto lontano dall'Italia meno di un anno, un tempo assai breve per un condottiero crociato che era anche imperatore e re di Sicilia, oltre che re di Gerusalemme che doveva riconquistare e difendere la sua capitale: una fretta che lasciò la Città Santa precariamente difesa e il Regno, insieme a Cipro, in preda all'anarchia.

I due protagonisti della pace e della tregua decennale furono Federico e al-Kāmil, legati da simpatia intellettuale, stima reciproca e probabilmente sincera amicizia. Nei loro negoziati entrò indubbiamente il calcolo politico e dalla situazione politica furono condizionati, poiché ambedue dovettero fronteggiare le pressioni e le reazioni degli 'integralisti' delle due parti e tenerne conto: il primo utilizzando strumenti diplomatici e militari ma senza giungere a un'aperta rottura, il secondo temporeggiando ma senza mettere in forse i rapporti amichevoli del passato e senza venir meno alle promesse fatte in un momento di difficoltà. Mettendo da parte un'improbabile 'islamofilia' di Federico (Grousset, 1936, pp. 278-282), l'imperatore cristiano e il sultano musulmano avevano tuttavia molto in comune. Ambedue erano poeti e amanti della cultura letteraria e giuridica, fondatori di scuole, amministratori oculati e sovrani sorprendentemente partecipi di ideali cavallereschi ispirati a lealtà e cortesia, che mettevano in secondo piano le diverse fedi; soprattutto erano avversi all'impiego delle armi e allo spargimento di sangue quando non fosse inevitabile, preferendo usarle come deterrente, privilegiando i rapporti personali accompagnati dallo scambio di doni ed evitando espressioni e comportamenti che potessero suonare offensivi (Kantorowicz, 1976, p. 173).

Se sul piano dei comportamenti Federico fu certamente un "crociato riluttante" (Powell, 1986, p. 203); egli fu l'unico condottiero cristiano, dopo la prima crociata e un quarantennio dopo la disfatta di Ḥaṭṭīn, a conseguire la sovranità di Gerusalemme, una sovranità che rimase in mani cristiane soltanto per un quindicennio e che, dopo lo Svevo, nessuno riuscì a recuperare malgrado i ripetuti tentativi armati per difendere le terre ancora in possesso dei cristiani, ridotte a una striscia di costa da Atlit a Marqab. Sotto gli assalti dei mamelucchi del sultano Baybars, che nel settembre 1260 fermò in Palestina l'invasione mongola e prese Antiochia nel maggio 1268, caddero nel 1265 Cesarea e Arsuf; nel 1266 il castello di Safad; nel 1268 Giaffa e il castello di Beaufort; nel 1271 i castelli di Safīthā (Templari), Krak des Chevaliers (Ospitalieri) e Montfort (Teutonici). Nel 1289 cadde Tripoli per mano del sultano Qalāwūn; il 18 maggio 1291, per mano di suo figlio al-Ashraf, l'ultimo caposaldo di Acri, e subito dopo anche Sidone e Beirut. Con la perdita totale e definitiva della Terrasanta si concluse la storia degli stati cristiani in Medio Oriente nati dalle crociate.

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