Croce ministro della Pubblica Istruzione

Croce e Gentile (2016)

Croce ministro della Pubblica Istruzione

Giuseppe Tognon

Croce fu ministro della Pubblica Istruzione nel quinto e ultimo dei governi presieduti da Giovanni Giolitti, dal 15 giugno 1920 al 4 luglio 1921. Alle Finanze era ministro il liberale Francesco Tedesco (poi il liberale Luigi Facta, dal 10 agosto 1920), agli Affari esteri l’indipendente Carlo Sforza, alla Guerra il socialista riformista Ivanoe Bonomi (poi il popolare Giulio Rodinò, dal 2 aprile 1921), al Tesoro il popolare Filippo Meda (poi Bonomi, dal 4 aprile 1921), al Lavoro e Previdenza sociale il democratico sociale Arturo Labriola; il presidente del Consiglio era anche ministro degli Interni. Durante i primi sei mesi del governo (fino al 29 dicembre 1920) la città di Fiume rimase occupata da Gabriele D’Annunzio e dai suoi uomini; e per tutta la durata della vita del governo in molte città vi furono tumulti, con azioni violente di opposto segno, mentre il malcontento nell’esercito era crescente, le parole d’ordine rivoluzionarie erano diffuse e molte categorie – in particolare i pubblici dipendenti, gli operai sindacalizzati, gli studenti ex combattenti – incalzavano il governo con continue richieste, scioperi e agitazioni.

Giolitti non conosceva Croce. Sul suo nome si era quindi consultato con varie persone. Tra queste, Luigi Sturzo, il segretario politico del Partito popolare, non si era opposto, a patto che il futuro ministro desse garanzie sul sostegno all’introduzione di un esame di Stato alla fine degli studi; questo era uno dei tre punti essenziali – insieme alla riforma agraria e alla legge proporzionale per le elezioni amministrative – per l’entrata dei cattolici nella maggioranza di governo. Con la nomina di Croce al ministero della Pubblica Istruzione parve finalmente giunto il momento di portare al potere quelle minoranze attive che avevano elaborato una nuova visione dell’Italia. Il filosofo si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica perché incarnava una concezione responsabile delle libertà e chiedeva che venisse finalmente il tempo delle scelte.

Giolitti, come nel suo stile, cercò di non scontentare troppo nessuno, mettendosi al centro del gioco politico e degli interessi contrastanti. Croce nel suo campo fu molto più intransigente, e contro i suoi impiegati arriverà a minacciare addirittura la serrata del ministero. Il governo aveva contro di sé i socialisti (compresi quelli moderati, capeggiati da Filippo Turati e da Giacomo Matteotti), ovviamente i comunisti, e anche i fascisti di Benito Mussolini (non rappresentati in Parlamento fino alle elezioni politiche del 15 maggio 1921). Inoltre, il presidente del Consiglio non godeva più della piena fiducia della Corona.

Il programma generale del governo si riassumeva in pochi punti: la soluzione della ‘questione adriatica’ e il miglioramento dei rapporti con i Paesi rivieraschi di quel mare; il rafforzamento del ruolo del Parlamento e l’abbandono dell’abuso della decretazione d’urgenza; la modifica dell’art. 5 dello Statuto albertino (in cui si affermava, tra l’altro, che il «Re [...] dichiara la guerra»), con l’introduzione di una norma secondo la quale ogni dichiarazione di guerra doveva essere autorizzata dal Parlamento; la lotta all’inflazione galoppante, anche attraverso un aumento della tassazione generale e in particolare delle imposte di successione; la lotta ai profitti illeciti di guerra; l’abolizione di ogni prezzo politico per i beni di prima necessità, per es. il pane.

Il programma scolastico di Croce e della nuova Italia

Il programma per la scuola era lasciato all’intelligenza di Croce, che individuò due priorità: l’introduzione dell’esame di Stato e la riorganizzazione della scuola secondaria, con la fine della piaga delle classi aggiunte (o classi parallele), cioè di quelle classi che nei licei erano state istituite per rispondere a una sempre maggiore domanda di istruzione ed erano per lo più affidate a supplenti. Nel primo caso il tema era quello della selezione in entrata o in uscita dalla scuola, nel secondo quello dell’accesso all’istruzione superiore e della riqualificazione del corpo insegnante, con il riassorbimento di tutto ciò che era sorto in modo disordinato in virtù di un grave vuoto legislativo, che risaliva all’ultima programmazione delle sedi e delle cattedre, nel 1906.

La riforma degli esami era stata il tema principale di dibattito della scuola italiana per molti decenni, almeno da quando la borghesia aveva creduto di trovare nel sistema dell’esame di Stato la chiave di volta per regolare la sempre maggiore domanda di istruzione. Il tema del raccordo e del passaggio tra scuola elementare e scuola secondaria aveva infiammato la politica scolastica fin dalla celebre legge Casati (decreto legge del Regno di Sardegna nr. 3725 del 13 novembre 1859, esteso al resto d’Italia dal 1860). L’esame di Stato era stato abolito dal ministro Ruggiero Bonghi nel 1875, reintrodotto da Michele Coppino nel 1877, tolto ancora da Guido Baccelli nel 1881 e rimesso di nuovo tre anni più tardi dallo stesso Coppino. Nel 1904, con il ministro Vittorio Emanuele Orlando, si era giunti a stabilire per la maturità un esame interno finale, ma non un esame di ammissione. Nel 1906-07 le associazioni degli insegnanti delle scuole secondarie avevano a lungo discusso della separazione tra la funzione di insegnare e quella di valutare. I cattolici vedevano la questione dal punto di vista dell’agognata parità tra scuola pubblica e privata.

Nel novembre del 1920 Croce presentò alla Camera i disegni di legge nr. 978 (Esami nelle scuole medie di istruzione classica, tecnica e magistrale) e nr. 994 (Sistemazione dei corsi paralleli aggiunti e degli istituti d’istruzione media e normale). I due disegni di legge, come scrisse il ministro in una delle due relazioni di accompagnamento, erano collegati:

La stretta connessione tra il presente disegno di legge e quello sugli esami è d’altra parte evidente: per effetto del secondo saranno eliminati gli alunni non atti allo studio, mentre per effetto di questo disegno, là dove il numero dei richiedenti supera il numero dei posti, si opererà la cernita dei migliori: l’uno e l’altro concorreranno a elevare il livello delle scolaresche e a rendere più facile e proficua l’opera degli insegnanti (Camera dei deputati, Atti parlamentari, XXV legislatura (1919-1921), 1° vol., 1919-1920, Verbale d’aula nr. 978, p. 4).

Per la prima volta l’accento non era più posto sull’alfabetizzazione, o sulla scuola elementare e del popolo, ma sulla scuola per i ceti dirigenti, coerentemente con la visione che di essa avevano elaborato intellettuali di diversi fronti, e in particolare gli idealisti e i cattolici; questi ultimi, adottando – sia pure con qualche preoccupazione – l’idea dell’esame di Stato finale, pensavano di sfruttare a proprio favore la competizione tra le scuole pubbliche e quelle private. Croce vide in questa convergenza strategica la possibilità di riqualificare la scuola pubblica, a cui si sentiva legato, e anche di ‘prosciugare l’acqua’ per gli istituti religiosi. Per questo motivo i popolari non lo sostennero fino in fondo, temendo che la riforma fosse congegnata contro di loro. Nel momento della ricostruzione del Paese non era comunque più possibile far valere il peso delle rendite storiche che alla borghesia venivano dall’eredità risorgimentale e massonica. Come il proletariato – anzi, secondo Croce, più del proletariato –, proprio la borghesia doveva farsi avanti, rinnovandosi al di fuori delle formule astratte. Giuseppe Lombardo-Radice, uno dei più attenti uomini di scuola del primo dopoguerra, nello scritto La lezione della guerra («L’Educazione nazionale», 1919, 1, 1-2, pp. 5-6, poi, con il titolo La lezione della guerra per la scuola italiana, in Nuovi saggi di propaganda pedagogica, 1922, pp. 44-45) aveva affermato che

Il rinnovamento dell’educazione nazionale esige che diventi centrale il problema delle classi dirigenti, mentre prima della guerra si dava il primo posto alla lotta contro l’analfabetismo. Non si tratta di alfabeto, ma di educazione del popolo […]. Bisogna ottenere una borghesia capace di sentire il valore del problema educativo, così come la sentivano i comandi dopo Caporetto (in Nuovi saggi, cit., p. 44).

Il 15 gennaio 1920, sulla rivista diretta da Lombardo-Radice era apparso lo scritto Appello per un “Fascio di educazione nazionale” («L’Educazione nazionale», 1920, 2, 1, pp. 1-3) e, nel mese successivo, il relativo Programma steso da Ernesto Codignola fu sottoscritto da un vasto numero di intellettuali – tra cui un cattolico come Antonino Anile – ma non da Croce. Questo programma era solo l’ultimo di una lunga serie di appelli e di documenti che circolavano tra insegnanti, professori e giornalisti.

Le idee di un filosofo come Gentile o le analisi di uno storico come Gaetano Salvemini, testimoni di una moltitudine di soggetti accomunati da un’autentica passione per una scuola nazionale, fornivano materia per una partecipazione delle élites politiche alle questioni pedagogiche. La vecchia generazione, compreso Giolitti, tentava di ricondurre le attese di cambiamento nel solco di una tradizione liberale trasformista, ma non vedeva che nel profondo la società italiana covava un forte sentimento d’innovazione, e che in questo sentimento un’anima nazionalista e reazionaria poteva incrociarsi con una profondamente proletaria e rivoluzionaria. Alla coscienza del cambiamento non sempre si accompagnava – come dimostrerà Antonio Gramsci proprio analizzando la questione – un’unità di intenti su come attraverso l’istruzione si potesse guidare il Paese. Se Piero Gobetti sentì precocemente il bisogno di esorcizzare un’eventuale riabilitazione di Giolitti, i socialisti impostavano il problema della scuola secondo la grammatica tradizionale dei rapporti tra sviluppo economico, carattere classista dello Stato ed emancipazione delle masse. La formula che invece agitava le menti della maggior parte dei riformatori liberali – compreso Croce – era piuttosto quella di ‘poche scuole, ma buone’. Gli idealisti difendevano il principio per cui la democrazia trovava la miglior difesa nell’aristocrazia dello spirito, perché solo nell’emanciparsi dalla propria condizione sociale di origine poteva venire all’individuo la capacità di identificare la propria missione con quella dello Stato. La soluzione offerta da un largo schieramento di forze intellettuali era quella di superare l’eterno conflitto tra uguaglianza e libertà per favorire – come scrisse Antonio Renda – la «creazione di un’élite che al di fuori delle classi, traesse origine da essenziali distinzioni di valore, anziché da transitorie disuguaglianze sociali» (in Politica e scuola ed altri saggi, 1921, p. 70). Un illuminato professore di liceo come il torinese Augusto Monti aveva invece una visione più preoccupata, e temeva che in nome della vittoria si sarebbe giunti a un tradimento del Risorgimento, facendo pagare al popolo le illusioni dei borghesi.

Il dopoguerra scolastico italiano

Croce succedette ai ministri dei primissimi anni del dopoguerra (Agostino Berenini, Roberto De Vito, Pietro Chirmenti, Giulio Alessio e Andrea Torre), che avevano cercato di gestire l’emergenza senza avere la forza e le idee per impostare un programma di riforme strutturali. Intanto la spesa pubblica e privata, complice anche l’inflazione, aumentava enormemente. Tuttavia, quando Croce prese in mano le redini della scuola italiana, nel 1920, l’investimento statale per l’istruzione in rapporto al prodotto interno lordo era minore di quell’1,50% che aveva raggiunto nel 1912, e corrispondeva a poco più del 2,35% del bilancio statale (Archivio Benedetto Croce, Ministero, 1921, 378/41-9). Giolitti, nel suo famoso discorso di Dronero del 12 ottobre 1919, aveva denunciato il fatto che dal 1918 la spesa per la pubblica amministrazione era più che triplicata e che alle spese per nuovi investimenti e per il miglioramento della didattica non veniva destinato più del 5% delle risorse complessive. Nel 1921, secondo i dati del censimento nazionale della popolazione effettuato in quell’anno, gli analfabeti erano ancora il 27,4% dei cittadini residenti superiori ai sei anni di età (quindi poco meno del 29,3% del precedente censimento, quello del 1911), mentre gli studenti delle scuole elementari erano 4.627.000 e i maestri 109.000. Le scuole secondarie – comprese le private e le pareggiate – erano circa 1750, per un totale di 335.000 studenti e circa 19.000 insegnanti; a ciò andavano aggiunti i corsi magistrali, vari tipi di scuole superiori (femminili, commerciali, professionali e industriali, di Belle Arti) e i conservatori, per un totale di circa 25.000 allievi. Le università pubbliche contavano 40.000 studenti, quelle private 1200, ma tenendo conto degli istituti speciali e delle scuole universitarie si raggiungeva la cifra di 60.000; i professori ordinari erano circa 700, 115 gli straordinari, 1800 i liberi docenti e 283 gli incaricati.

Se questi sono solo alcuni dati quantitativi, va detto che il problema scolastico del dopoguerra non coincise con il pur drammatico problema economico-sociale della ricostruzione, perché era maturata una coscienza borghese sulla rinascita della scuola, che poneva quest’ultima all’avanguardia del processo di ricostruzione civile e ideale del Paese. Inoltre, come Giuseppe Prezzolini osservò nel 1921 (in La crise scolaire en Italie et l’œuvre de Benedetto Croce, «La revue de Genève», juillet 1921, p. 108), non bisogna credere che alla crisi materiale della scuola corrispondesse una crisi della cultura, perché, anzi, la guerra non aveva fatto che rafforzare l’imprenditoria culturale italiana e aveva aiutato il risorgere di una forte iniziativa editoriale attraverso la nascita di nuove riviste e di nuove collane. La questione scolastica tra il 1919 e il 1922 si prestava pertanto a raccogliere le attese di una palingenesi sociale. A conferma di una costante della politica italiana, la battaglia per il sapere divenne centrale anche per la tenuta dei governi.

Croce al ministero

Nella prima riunione di governo (15 giugno), Croce rifiutò per la carica sottosegretario, per non alimentare polemiche, sia il popolare Anile, che gli si era autoproposto, sia il radicale avellinese Alfonso Rubillie, che volevano attribuirgli. Fu infine trovato un accordo sul nome del liberale torinese Cesare Rossi di Montelera, mentre sottosegretario per le Antichità e Belle Arti rimase il liberale lucchese Giovanni Rosadi, che già dal primo incontro fece però a Croce una pessima impressione. Fin dall’inizio il ministro si rivelò di carattere difficile e accentratore. Una volta insediatosi nel palazzo di piazza della Minerva, dove era allora la sede del ministero della Pubblica Istruzione (che nel 1928 traslocherà nel monumentale edificio di viale Trastevere e nel 1929 verrà ribattezzato ministero dell’Educazione nazionale), nominò capo di gabinetto un onesto funzionario, Cesare Rossi (omonimo, ma non parente del sottosegretario); come segretario particolare scelse Luigi Miranda e come collaboratore tecnico Leonardo Severi.

Gentile fu nominato a capo della Commissione per lo studio dell’autonomia universitaria e dell’esame di Stato. Tra lui e Croce i rapporti furono costanti, composti e leali, e ciò va a onore soprattutto di Gentile, che in precedenza era stato oggetto da parte di Croce di stroncature, nonché di critiche e ironie verso alcuni suoi collaboratori. Consapevoli entrambi della delicatezza del momento e dell’importanza della sfida – anche se ormai era in atto lo scollamento teorico e civile che li avrebbe portati a prendere due strade antitetiche –, seppero tenere a bada i propri discepoli ed evitarono polemiche inutili. Quest’alleanza di fatto pose le basi perché Mussolini due anni dopo potesse ripetere, a parti invertite, l’operazione di captatio benevolentiae della parte più dinamica e visibile della cultura pedagogica italiana, chiamando Gentile come ministro nel primo suo governo, il 31 ottobre 1922, poco dopo la marcia su Roma.

Nei primi mesi della sua attività come ministro, Croce si dedicò allo studio dei problemi e all’emergenza, cercando di impadronirsi della macchina burocratica e di costruire una solida base politica alla sua azione. Espose compiutamente il suo programma di governo il 21 settembre 1920, quando intervenne all’inaugurazione del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, alla cui testa rimase Luigi Credaro – importante filosofo neokantiano, già ministro tra il 1910 e il 1914 –, che insieme a Edoardo Daneo nel 1911 aveva dato il nome alla legge sull’avocazione allo Stato dell’intero segmento della scuola elementare (lasciata nelle deboli mani di migliaia di comuni dalla citata legge Casati, quando fu estesa, nel 1860, al Regno d’Italia). Croce rivendicò il suo impegno per moralizzare e per riformare la pubblica amministrazione, e la sua cura per i fatti minuti e per gli affari quotidiani, «anche piccoli e prosaici cercando di applicare o restaurare il rispetto delle leggi e dei regolamenti e tenendo sempre davanti agli occhi l’interesse della scuola e dello Stato e la buona economia». Anche in quell’occasione Croce rivelava il suo temperamento insofferente, la sua proverbiale parsimonia e la sua grande capacità di lavoro, che lo porterà a occuparsi personalmente di quasi tutte le materie, dalle celebrazioni dantesche alla sistemazione della Biblioteca nazionale di Napoli, alla politica dei beni culturali. Una certa durezza nei rapporti personali e una buona dose di diffidenza determinarono un suo progressivo isolamento – sia pure condito di ammirazione – all’interno del gabinetto ministeriale, nonché l’inimicizia dei sindacati e degli studenti ex combattenti, che si agitarono soprattutto per vedere riconosciute le benemerenze acquisite in guerra. Gli scontri più duri li ebbe con i dipendenti del ministero, allora poche centinaia di unità, che si vedevano controllati persino nell’uso della luce e della carta e a cui aveva tolto gli straordinari e varie facilitazioni.

La visione crociana della scuola

Sarebbe tuttavia sbagliato ridurre la visione crociana della scuola alla semplice affermazione di un’ideologia meritocratica, come troppo spesso è stato indicato, o a una semplice razionalizzazione organizzativa. La sua concezione della scuola e la sua visione del rapporto tra lo Stato e l’individuo erano molto più complesse e, in alcuni passaggi, originali e ancora oggi attuali. Al contrario di Gentile, Croce vedeva la scuola come una realtà propedeutica ma di passaggio, cioè come un momento e non come un mondo totalizzante, chiuso e denso. Il suo storicismo gli impediva di rifiutare tanto il principio dell’autoeducazione spontanea, quanto quello di un’educazione psicologistica o sociale. La scuola era una disciplina pratica fondata sull’incontro di una volontà adulta, ma libera, e di una volontà incerta, ma altrettanto libera. La scuola come società non gli appariva che come momento pratico, importante ma non totalizzante, e mai come struttura dotata di vita propria. Essa andava ricondotta all’ordine delle realtà strumentali in una società aperta in cui massima doveva essere la trasparenza dei ruoli affinché le idee potessero svilupparsi. Di questa società lo Stato era lo specchio, ma non la sostanza. La scuola immaginata da Croce era dunque una realtà in cui la norma etica della trasmissione e della circolazione del sapere doveva prevalere sul diritto positivo che ne regolava la sostanza materiale e le forme storiche.

La questione politica del ministero Croce

La nomina di Croce a ministro della Pubblica Istruzione suscitò grandi attese, ma anche molti sospetti per un possibile cedimento alle ‘pretese di sagrestia’ dei cattolici. L’Italia era attraversata da potenti correnti anticlericali e massoniche, e la Chiesa era divisa sull’atteggiamento da tenere nei confronti dello Stato. La serie degli attacchi parlamentari a un’alleanza strategica tra liberali e cattolici fu aperta il 2 luglio 1920 dal socialista Emidio Agostinone, un onesto e tenace maestro elementare, e da Salvemini. Lo storico pugliese dichiarò in aula che le sinistre non avrebbero mai accettato controlli religiosi sulle scuole di Stato e accusò i popolari di avere adottato solo per tattica e «in via provvisoria» la teoria della libertà di insegnamento. Croce replicò pronunciando il 6 luglio il suo primo discorso parlamentare, in cui, da filosofo, diede una rilettura in chiave educativa dell’idea hegeliana di religione e in cui pronunciò la frase che resterà a emblema della sua sofferta azione riformatrice.

In fatto di scuola noi vogliamo, a preferenza di sterminati eserciti di Serse, piccoli eserciti ateniesi e spartani, di quelli che vinsero l’Asia e fondarono la civiltà europea. Quando con la garanzia degli esami di Stato, con la selezione degli scolari, con la scelta rigorosa degli insegnanti, con la restituzione della disciplina, avremo un’eccellente scuola di stato, educheremo con essa non solo coloro che la frequentano, ma anche quelli che frequentano altre scuole ed opereremo sull’intera cultura ed educazione nazionale (Discorsi parlamentari, 1983, p. 31).

Croce non riuscì mai a scalfire l’opposizione delle sinistre, tra cui aveva comunque non pochi estimatori e che erano, come sempre, divise. Di fronte aveva il muro di una concezione antitetica alla sua, cioè dell’allargamento della base scolastica come fattore di democrazia. Egli allora usò la polemica proveniente da sinistra come diga contro le critiche della rivista dei gesuiti, «La civiltà cattolica», e della parte più intransigente del mondo cattolico. Il suo atteggiamento nei confronti delle opposizioni fu chiarito in una lunga intervista a Piero Pancrazi su «Il Resto del carlino», il 29 agosto 1920, in cui oggetti di polemica incrociata furono il socialista Claudio Treves e i gesuiti. Al primo, Croce contrappose la forte carica innovativa e democratica della pedagogia gentiliana, ai rigidi gesuiti la sua stima per i più flessibili cattolici popolari.

L’obiettivo politico di Croce fu quello di ‘tagliare’ le posizioni estreme e di operare all’interno di quella ‘concordia-discordia’ che teneva unito un blocco storico borghese in ascesa, composto delle più diverse minoranze attive. Questa strategia non fu efficace, e si rivelò impari davanti agli interessi in gioco e alla sostanziale deriva della politica italiana. I suoi due disegni di legge sull’esame e sulla ‘bonifica’ dei corsi paralleli giunsero in discussione nella commissione parlamentare competente solo nel febbraio del 1921, e si capì allora che non avrebbero avuto vita facile. Troppo tempo era stato sprecato e troppe polemiche minute Croce aveva suscitato per credere che un’operazione politica così esemplare come quella della riforma della scuola secondaria potesse andare in porto. Una maggioranza parlamentare giolittiana sulla scuola non era di fatto mai esistita. L’opposizione di alcuni ex presidenti del Consiglio – come il senatore liberale Paolo Boselli, capo del governo nel 1916-17, che pure faceva parte della maggioranza –, la presenza di nuove suscettibilità, di vecchi rancori, della diffusa paura di venire scavalcati dalla base degli insegnanti e degli studenti, ebbero il sopravvento sulla logica politica. Sturzo e gli altri capi del Partito polare non colsero i rischi che l’Italia correva con il fallimento del tentativo rappresentato dal governo Giolitti, il quale si avviava a un onesto tramontare, ignaro del nuovo che avanzava e che si materializzò alle elezioni politiche del 15 maggio 1921, quando Mussolini riuscì finalmente a entrare in Parlamento con 35 deputati, offrendo nello stesso tempo esplicito sostegno al ministro della Pubblica Istruzione, dunque irritando ancor di più la fragile maggioranza di governo e incendiando le aule parlamentari.

La fine dell’esperienza ministeriale

Il governo cadde, come detto, il 4 luglio 1921: Giolitti preferì passare la mano a Bonomi, illudendosi di poter governare dall’esterno. Il divieto dei popolari a una riconferma di Giolitti indebolì enormemente la possibilità di Croce di rimanere al suo posto. Negli ultimi mesi egli si era speso in nome e per conto di Giolitti in maniera quasi spudorata, addirittura trasferendosi all’occorrenza a Palazzo Braschi, allora sede della presidenza del Consiglio, per prendere di fatto in mano le redini del governo al posto del vecchio statista, ritiratosi per settimane a Dronero, colpito dalla perdita della moglie. In realtà Croce si andava convincendo della necessità che, per venire a capo della resistenza della piazza e della pubblica amministrazione, si dovesse procedere con poteri eccezionali: quando in un colloquio con il nuovo presidente del Consiglio incaricato si accorse che non era previsto di chiedere al re i pieni poteri e che contro di lui era scattato il veto dei democratici e dei socialisti, si ritirò amaramente a Napoli, non senza aver personalmente steso il caloroso comunicato finale dei ministri del governo, che ringraziavano il loro presidente. La riverenza nei confronti di Giolitti, che in quel testo Croce attribuiva al popolo, non era certo la stessa che la stampa attribuiva al ministro della Pubblica Istruzione.

Conclusione

L’esperienza di governo marcò intensamente Croce, anche se, come sua consuetudine, egli ne parlò poco, minimizzandone la rilevanza. Non fu in definitiva un’esperienza felice, sebbene istruttiva. Il filosofo ebbe bisogno di molto tempo per contestualizzarla e ricollocarla all’interno della propria visione politica neoliberale. Croce non era un uomo di governo e, anche se Giolitti pare avesse esclamato una volta che «quel filosofo aveva del buon senso», non amava la ritualità e la complessità burocratica e parlamentare. L’unico ambito di governo che riteneva alla sua portata era quello della propria vita di studioso, alla quale, soprattutto dopo questa esperienza, egli dedicò ogni sforzo, nel tentativo di «invigilare» se stesso e di ricostruire il proprio personaggio attraverso le opere. Per lo storicista Croce, l’uomo non era mai di colpo quello che era, ma diventava ciò che faceva, e come costruiva il proprio percorso non era una questione secondaria. Ogni forma di antropologia doveva tradursi in un’etica la quale, per altro, non era sufficiente se restava avulsa dalla circolarità delle forme dello spirito.

Croce decise di mettersi alla prova, sia pure con un certo disagio, soprattutto per rispondere al travaglio interiore di cui era stato protagonista negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della guerra – il periodo della crisi personale, affettiva e cognitiva, che aveva trovato il suo epitaffio in quello straordinario documento che è il Contributo alla critica di me stesso (scritto nell’aprile del 1915, ma pubblicato nel 1918) – e durante gli eventi bellici, quando aveva vissuto la crisi di Caporetto e il rischio della sconfitta dell’Italia come uno spartiacque tra un’ideologia neutralista e una interventista, in senso più ampio però di quello militare, più etico-politico.

Nessuna delle pagine di teoria politica e di filosofia morale che il filosofo stese negli anni tra il 1921 e il 1928, quando uscì la sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, avrebbe potuto vedere la luce senza quell’esperienza. Come avvertì lo stesso autore, quelle pagine avevano «ispirazione personale», anche se è difficile distinguere nell’opera del filosofo il personale dall’impersonale. La sua tardiva, ma audace critica del fascismo non fu il frutto di una disillusione politica, ma la messa a fuoco di una crisi più profonda dell’epopea risorgimentale e della società liberale. Quando prese le distanze dall’autoritarismo mussoliniano, Croce si presentò come l’alfiere di una resistenza liberale di lungo periodo e di ampio spettro, fino a ricomprendere l’esame di tutta la storia moderna e di tutta la civiltà europea. La breve, ma intensa esperienza di ministro rappresentò una verifica della sua personale aspirazione a una filosofia non dogmatica, e insieme la conversione a una lettura nuova della storia moderna e delle sue Riforme e Controriforme, dove il liberalismo si dilatò fino a ricomprendere anche la dimensione religiosa e spirituale dell’Occidente, con tutto ciò che comportava nei confronti delle idee moderne e delle confessioni antiche.

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