Croce e la critica stilistica

Croce e Gentile (2016)

Croce e la critica stilistica

Alfredo Stussi

Stilistica e linguistica

Tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento la stilistica come educazione al bello stile viene riproposta in forme notevolmente aggiornate soprattutto in Francia: si pensi, per es., al saggio di Antoine Albalat, Le travail du style enseigné par les corrections manuscrites des grands écrivains (1903). Le si oppone un fronte composito di studiosi che vanno da chi la intende come disciplina linguistica priva di implicazioni pedagogiche a chi le nega autonomia e addirittura ragione di esistere. Johan Vising, presentando un utile panorama delle diverse posizioni in Europa e negli Stati Uniti, così commenta il fatto che il governo italiano nel 1902 aveva istituito cattedre universitarie di stilistica per esercitare gli studenti nell’arte dello scrivere, rimediando alle deficienze della scuola:

Pare un’ironia della sorte che questo straordinario provvedimento fosse preso l’anno stesso in cui il Croce, con piena approvazione di parecchi suoi connazionali, dichiarava la stilistica cosa insensata e impossibile (Stile e indagini stilistiche, «Rivista d’Italia», 1909, 12, p. 34).

Sull’istituzione di quelle cattedre aveva scritto Croce stesso, prendendo spunto dal volume La stilistica e l’insegnamento di essa nell’università (1903) di Ciro Trabalza, di cui condivideva certe riserve su tale riforma «introdotta alla chetichella», e aggiungendone altre (Le cattedre di stilistica, «La Critica», 1903, 1, pp. 157-60, poi in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, 1° vol., 1910, pp. 217-20). Occorre tuttavia precisare che la posizione crociana si era manifestata già prima del 1902, l’anno dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cioè dell’opera che fin dal titolo dichiarava un’intenzione egemonica. Croce era, e rimase, privo di concreta esperienza nel campo degli studi linguistici, come fu spesso notato da studiosi di diverse tendenze (si pensi ai vari articoli di Charles Bally, ora raccolti in Sur la stylistique. Articles et conférences, éd. É. Karabétian, 2007, o all’articolo di Karl Jaberg, Idealistische Neuphilologie. Sprachwissenschaftliche Betrachtungen, «Germanisch-romanische Monatsschrift», 1926, 14, pp. 1-25); tuttavia più volte intervenne su temi sia molto specifici (per es., Le leggi fonetiche, titolo ambizioso dato alla rielaborazione di due recensioni comparse su «La Critica», 1903, 1, pp. 134-39, poi in Problemi di estetica, 1° vol., cit., pp. 174-80), sia di carattere generale (come Sulla natura e l’ufficio della linguistica, «Quaderni della “Critica”», 1946, 6, pp. 33-37, poi in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, 1950, pp. 247-53) riuscendo a convincere non pochi glottologi e filologi tra i quali spicca Giulio Bertoni. Altri aderiscono in modo più sorvegliato e dialogico, ma il bilancio finale presenta almeno due vistose passività: da un lato l’accantonamento, con la luminosa eccezione di Clemente Merlo, del fecondo modello descrittivo ascoliano e poi salvioniano, dall’altro l’estraneità dell’Italia, complice l’autarchia culturale durante il Ventennio, rispetto ai più importanti sviluppi della linguistica nella prima metà del Novecento. Di qui, nel secondo dopoguerra, le molte traduzioni volte a recuperare il tempo perduto, impresa non facile se ancora nel 1953 Alfredo Schiaffini scriveva che da noi era «dominante» la concezione della linguistica «come scienza dello spirito», e quindi sottolineava «la preferenza che in questi ultimi decenni si è accordata alla Stilistica» (La stilistica letteraria, in A. Schiaffini, Momenti di storia della lingua italiana, 1953, p. 165).

Il nesso indicato da Schiaffini è indubitabile, come è indubitabile che si debba riconoscere il positivo contributo indiretto di Croce alla nascita e allo sviluppo di quella che poi si sarebbe chiamata critica stilistica o stilistica letteraria. Denominazioni, queste ultime, che presuppongono il divorzio tra la linguistica appannaggio dei linguisti e la stilistica appannaggio dei letterati: per dire le cose in modo sommario, ma utile a ricordare che analoga separazione era ritenuta necessaria, proprio nello stesso primo decennio del Novecento, da Bally, fondatore della «stylistique de la langue», da intendersi in prospettiva sincronica come lingua del vivo uso parlato.

Gröber, Vossler, Croce

A Bally, allievo di Ferdinand de Saussure, importava, ovviamente, «la langue»; altrettanto ovviamente a Croce importava l’attività linguistica individuale; quindi gli pareva indispensabile fare subito chiarezza su che cosa si dovesse intendere con stile, «parola alquanto misteriosa, che ha dato luogo alle più bizzarre definizioni e disquisizioni»: così nelle poche pagine dedicate a discutere i fondamenti teorici forniti da Gustav Gröber (Methodik und Aufgaben der sprachwissenschaftlichen Forschung, in Grundriss der romanischen Philologie, hrsg. G. Gröber, 1° vol., 1888, pp. 209-50) al saggio di Karl Vossler sullo stile nella Vita di Benvenuto Cellini (Benvenuto Cellini’s Stil in seiner Vita. Versuch einer psychologischen Stilbetrachtung, in Beiträge zur romanischen Philologie. Festgabe für Gustav Gröber, 1899, pp. 414-51), intitolate Di alcuni principii di sintassi e stilistica psicologiche del Gröber e comparse negli «Atti della Accademia pontaniana», 1899, 29, p. 12 (poi in Problemi di estetica, 1° vol., cit., pp. 141-50). Poche pagine, ma categoriche, queste di Croce, che con ragione Giovanni Gentile ritenne essere «una buona promessa pel trattato di estetica, che il valente pensatore napoletano ci ha da lungo tempo fatto sperare, e che quanto prima sarà pubblicato» (recensione a Di alcuni principî, «Giornale storico della letteratura italiana», 1900, 36, p. 234). Gröber identifica due modi di espressione del pensiero, quello oggettivo ovvero intellettuale caratterizzato dalla syntaxis regularis, e quello soggettivo ovvero affettivo caratterizzato dalla syntaxis figurata ricca di ellissi, pleonasmi, inversioni. Di qui muove Vossler per distinguere su base non solo sintattica uno stile analitico-logico e uno stile sintetico-artistico, categorie che utilizza nel suo saggio celliniano. Immediata e radicale l’obiezione di Croce:

Il vizio insanabile della partizione dei due stili è: che essa introduce in questioni di letteratura un principio non letterario. […] La bipartizione d’intellettuale ed affettivo è fatta in nome della psicologia e secondo categorie psicologiche; ma non in nome della letteratura, che in essa risplende per l’assenza. Farla in nome della psicologia significa, che quel fatto non vien guardato come fatto letterario, ma come fatto psicologico. Ossia, che in letteratura si prescinde proprio dalla letteratura (Problemi di estetica, 1° vol., cit., pp. 145-46).

A «l’amico Vossler» riconosce di aver «radunato nel suo lavoro, tante fini e giuste osservazioni sullo stile del Cellini» (p. 149), ma l’anno dopo proprio alla timida risposta di Vossler (recensione a Di alcuni principî, «Literaturblatt für germanische und romanische Philologie», 1900, 21, coll. 25-29) oppone questo micidiale fuoco di sbarramento:

Stile oggettivo e stile soggettivo, sintassi regolare e sintassi affettiva, son categorie prive di senso in estetica, o in letteratura (ch’è parte dell’estetica). Queste categorie non servono a caratterizzare nulla […] ogni

fatto estetico è sempre un’individualità, ha una fisonomia propria ed inconfondibile. L’individuale non si può se non contemplare per riconoscere così se è vero individuale, cioè se vive, o se è falso individuale, cioè se è morto (Le categorie rettoriche e il prof. Gröber, «Flegrea», 1900, 2, pp. 83-88, poi in Problemi di estetica, 1° vol., cit., p. 153).

E, come se non bastasse, a Gröber e Vossler, convinti «di poter determinare le variazioni della lingua e della sintassi di uno scrittore rispetto all’uso linguistico del suo tempo», viene chiesto provocatoriamente:

Ma che cosa è la lingua se non una serie di espressioni di cui ciascuna appare, in quel modo proprio che appare, una volta sola? Che cosa è la parola se non continua, perpetua trasformazione? Che cosa è il signor Uso Linguistico se non il complesso di parole realmente pronunziate o scritte? Il foggiare un uso linguistico, che serva di pietra di paragone, non è creare un ente immaginario? (p. 154).

Crede di averlo convinto, ma qualche anno dopo scopre che Vossler (sulla «Zeitschrift für romanische Philologie», 1903, 37, pp. 363-64) è tornato a sostenere almeno in parte le teorie di Gröber e a muovergli alcune obiezioni. Immediata la replica di Croce sia in una lettera privata ribadendo di non credere «che la letteratura, essendo un fatto estetico, possa studiarsi da altro punto che dal punto di vista estetico» (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rèndina, 1991, p. 43), sia nell’articolo Stile, ritmo, rima ed altre cose («La Critica», 1904, 2, pp. 252-58, poi in Problemi di estetica, 1° vol., cit., pp. 161-68); ma, quando in questa prima edizione dei Problemi di estetica ristampa anche i precedenti articoli sopra ricordati, precisa che

essi non serbano più valore alcuno nei rapporti del Vossler, le cui idee sulla lingua e lo stile hanno preso forma nuova e ben più matura in Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio […] (Problemi di estetica, 1° vol., cit., p. 171).

Aveva già ricevuto in omaggio l’edizione originale del «volumetto» a lui dedicato (Positivismus und Idealismus in der Sprachwissenschaft, 1904) e nel novembre aveva subito ringraziato

perché mentre con la dedica […] ha confermato il vostro affetto per me, col suo contenuto mi ha fatto provare quel sentimento di fraternità intellettuale che manca in molte amicizie ed anche in molte fraternità (Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 59).

Questo giudizio viene poco dopo così confermato: il «bellissimo libretto» mostra ormai superate «alcune lievi incertezze che restavano ancora qua e là nel suo [di Vossler] modo di considerare la grammatica e la scienza generale del linguaggio» (recensione di Positivismo e idealismo, «La Critica», 1905, 3, p. 150, ripubblicata con molti rimaneggiamenti in Conversazioni critiche, serie I, 1918, pp. 87-91). Per parte sua Vossler, nel farsi carico di replicare all’aggressiva polemica anticrociana condotta da Manfredi Porena nel suo Dello stile. Dialogo (1907), difende quello che chiama «il nostro pensiero teoretico» (recensione a Dello stile, «La Cultura», 1907, 26, pp. 94-95). Circa vent’anni dopo, a proposito dell’articolo di Vossler Der Kampf gegen Abstraktismus in der heutigen Sprachwissenschaft («Die neueren Sprachen», 1928, 36, pp. 322-33), Croce parlerà della «nostra battaglia» combattuta al tempo del contrasto «di positivismo e idealismo nello studio dei linguaggi», contrasto che «deve considerarsi ormai superato: superato con la vittoria dell’idealismo, ché nessuno contesta più sul serio la natura ideale del linguaggio» (recensione a Der Kampf gegen Abstraktismus, «La Critica», 1929, 27, p. 217, poi in Conversazioni critiche, serie III, 1932, p. 105). Ma sarebbe bastato varcare le Alpi per accorgersi dei vari esiti e dei limiti, nonché delle ben fondate contestazioni, di tale «vittoria» (Stempel 2001).

Leo Spitzer da Rabelais alla Idealistische Neuphilologie

Come ben lascia intendere fin dal titolo il suo libro più famoso, Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Sprachentwicklung. Geschichte der französischen Schriftsprache von den Anfängen bis zur klassischen Neuzeit (1913), l’interesse di Vossler è rivolto meno alla creatività individuale che al rapporto storico tra lingua e civiltà di un popolo. Comunque sia, quale fiduciario di Croce nel mondo tedesco, Vossler esercita sul piano teorico una notevole influenza, che però non comporta necessariamente condivisione totale di metodo e meno che mai di tematica; il caso di Leo Spitzer mostra per l’appunto l’inadeguatezza della vulgata genealogia Croce-Vossler-Spitzer, a meno che non la si corredi di alcune precisazioni. Per es., se Spitzer da un certo punto in avanti manifesta per il «Maestro dell’Estetica» non solo sincera ammirazione, ma anche profonda gratitudine, questa somma di sentimenti conta certamente quando egli arriva ad affermare (con palese forzatura) che già la sua tesi di laurea «rivela nel titolo come nel contenuto, una impostazione di stampo nettamente crociano o vossleriano» (La mia stilistica, «Cultura moderna. Rassegna delle edizioni Laterza», 1954, 17, p. 17). Quella tesi di centocinquantasette fitte pagine, pubblicata a ventitré anni, riguarda Die Wortbildung als stilistisches Mittel exemplifiziert an Rabelais (1910), e in che senso si parlerà di ‘stile’ viene chiarito immediatamente nelle prime tre righe: «Con stile intendiamo il metodico utilizzo dei materiali forniti dalla lingua». Si indica inoltre che l’originalità della ricerca consiste nel prendere in considerazione quella parte del lessico che è costituita dai neologismi, esaminandoli tuttavia non dal tradizionale punto di vista grammaticale, ma come terreno privilegiato dove «si manifesta un impegno stilistico da parte dello scrittore»: il tutto è costruito sui solidi fondamenti forniti dalla linguistica storica appresa alla scuola viennese dello svizzero Wilhelm Meyer-Lübke, oggetto allora «d’un amour sans bornes» (L. Spitzer, Mes souvenirs de Meyer-Lübke, «Le Français moderne», 1938, 3, p. 213). All’insegnamento «sobrio e positivo» di questo «grande linguista», in una conferenza del maggio 1960, cioè pochi mesi prima di morire, Spitzer attribuirà il merito di avergli resi

familiari i fatti del parlare ordinario, fenomeni ben limitati e ben definiti, ed una tecnica esatta che mi rese capace di distinguere il vero dall’ipotesi con un rigore e una precisione che possono servire da requisito generale per qualsiasi lavoro anche letterario (Sviluppo di un metodo, «Cultura neolatina», 1960, 20, p. 110).

Se si deve escludere, come pare certo, la monografia dedicata a François Rabelais, quale altro scritto attirò per la prima volta l’attenzione di Croce sul giovane, brillante e, come si vedrà, battagliero studioso viennese? Secondo un’ipotesi di Davide Colussi (Lettere di Leo Spitzer, 2010, p. 11, nota 10) probabilmente si tratta degli Aufsätze zur romanischen Syntax und Stilistik (1918), ma indirettamente, cioè grazie alla recensione di Vossler («Literaturblatt für germanische und romanische Philologie», 1919, 40, coll. 242-46). Quest’ultima è immediatamente preceduta sulle colonne 234-42 dello stesso periodico, da quella di Eugen Lerch all’articolo di Spitzer Über syntaktische Methoden auf romanischem Gebiet («Die neueren Sprachen», 1918, 26, pp. 323-38), ritenuto inconsistente e dettato da presunzione: «Il suo contenuto si lascia così brevemente riassumere: Tobler non era nulla, Haas non è nulla – però adesso arrivo Io» (col. 234). Caso mai Croce l’avesse letta, nemmeno la recensione di Vossler invogliava ad approfondire la conoscenza del recensito, dato che, tra tutti gli Aufsätze, un parco apprezzamento riservava soltanto a Die syntaktischen Errungenschaften der Symbolisten, apprezzamento per altro limitato da questa significativa riserva proprio di stampo crociano: «L’autore avrebbe dovuto soltanto evitare giudizi di valore su queste o quelle figure linguistiche. Infatti l’opera d’arte consiste nell’unità non nei particolari della poesia» (col. 46). In queste parole c’è la presa d’atto di una differenza nel modo di intendere lo studio dello stile (e più in generale della lingua), divergenza radicale che già Spitzer aveva indicato nella sua recensione a Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Sprachentwicklung, dove veniva mostrato

da un lato che fra storia della cultura ed evoluzione linguistica è difficile constatare rapporti di carattere generale che siano ancora da dimostrare storicamente, dall’altro inoltre che alcune delle spiegazioni psicologiche sembrano costruite ad-hoc («Zeitschrift für französische Sprache und Literatur», 1914, 42, p. 142).

Lo provano copiose obiezioni precise le quali, basate come sono sulla sicura padronanza della grammatica storica francese, consentono a Spitzer di concludere «che Vossler confonde spesso la lingua con la letteratura» (p. 147). Se si tiene conto del fatto che, qualche anno dopo, parole non meno ruvide sono riservate a uno scritto giornalistico di Vossler comparso sul supplemento del «Berliner Tageblatt» del 10 dicembre 1916 (recensione a Form und Bedeutung. Die Grundfragen der Sprachwissenschaft, «Literaturblatt für germanische und romanische Philologie», 1917, 38, coll. 145-49), sembra evidente che i due studiosi erano separati da non lievi divergenze sul piano scientifico e che il più anziano non doveva gradire d’essere attaccato da chi aveva circa quindici anni meno di lui: infatti, come si è visto, due anni dopo Vossler lo ripaga d’uguale moneta. Ciascuno andava per la sua strada, ma non ancora per molto, essendo imminente l’istaurarsi di una pacifica convivenza all’insegna della Idealistische Neuphilologie, come si intitola la Festschrift für Karl Vossler (hrsg. V. Klemperer, E. Lerch, 1922) cui Spitzer collabora: un libro di quasi trecento pagine che esce in una collana diretta da Meyer-Lübke e presenta in apertura il saggio di Croce Per una poetica moderna (poi nella 2a ed. accresciuta di Nuovi saggi di estetica, 19262, pp. 287-99). A distanza di pochi anni, Spitzer pubblica altri due saggi (Wortkunst und Sprachwissenschaft, «Germanisch-romanische Monatsschrift», 1925, 13, pp. 169-86, e Sprachwissenschaft und Wortkunst, «Faust. Eine Monatsschrift für Kunst, Literatur und Musik», 1925-1926, 6, pp. 22-33) che confermano un cambiamento la cui portata risulta evidente da quanto si legge poco dopo l’inizio del primo dei due:

Da molto più tempo si combatte l’attuale battaglia contro il separatismo fra la scienza naturale dei linguisti e la scienza dello spirito degli studiosi di letteratura; da questo punto di vista il più efficace dei romanisti tedeschi è Vossler, il quale, intendendo con Croce il linguaggio più come espressione che come comunicazione e riconducendolo all’estetica, ha sempre propugnato la spiegazione di un poeta attraverso il suo ambiente linguistico (Wortkunst und Sprachwissenschaft, cit., p. 170),

fornendo – prosegue Spitzer – la «esemplare» interpretazione stilistica di una favola di Jean de La Fontaine (K. Vossler, La Fontaine und sein Fabelwerk, 1919). Tanto «esemplare» che verrà inclusa tra i Meisterwerke der romanischen Sprachwissenschaft (hrsg. L. Spitzer, 2° vol., 1930, pp. 151-61), in una posizione di assoluto rilievo dato che nella sezione Stilforschung Vossler è affiancato soltanto da Bally e Marius Roustan, ma quali rappresentanti di altri modi di intendere la stilistica.

Nel frattempo i due saggi sopra ricordati vengono ristampati tra le Stilstudien (1928) in ordine inverso all’inizio del 1° e del 2° vol. (intitolati rispettivamente Sprachstile e Stilsprachen). Senza attendere questa ristampa, Croce li aveva recensiti esordendo non senza motivo con la ben nota metafora:

Innanzi a scritti come questi dello Spitzer provo (e mi pare d’aver ciò detto altra volta) l’onesta gioia di chi, tanti anni fa, inserì nel terreno una pianticella e la vede ora cresciuta in albero robusto e frondeggiante («La Critica», 1926, 24, p. 293, rist. con il titolo Storia della lingua e storia della poesia, in Conversazioni critiche, serie III, cit., p. 101).

Nel 1927 proprio Spitzer, professore di filologia romanza a Marburgo, propone che a Croce sia conferita la laurea honoris causa dando inizio, grazie anche alla conoscenza personale, a un’amicizia durevole. Come scriverà Spitzer una trentina d’anni dopo,

argomento principale delle nostre osservazioni era meno la stilistica (sulla quale ci trovavamo d’accordo) che la situazione morale, immediatamente avvertita dal perspicace ospite, d’un professore austriaco ed ebreo come me in mezzo all’ambiente universitario tedesco (La mia stilistica, cit., p. 19).

Spitzer e il «Maestro dell’Estetica»

Tra il 1920 e il 1930 c’è dunque un intreccio di pubblici riconoscimenti e di rapporti personali che determina l’estensione a Spitzer del rapporto privilegiato da tempo esistente tra Croce e Vossler. In tal modo il nuovo venuto riceveva un riconoscimento non scontato perché la stilistica intesa come «il lavoro analitico sui dettagli della lingua personale dello scrittore, e il riferimento dei dettagli a tutto il “cosmo stilistico” di tale lingua», almeno qualche perplessità avrebbe dovuto suscitare nel «Maestro dell’Estetica» (La mia stilistica, cit., pp. 17-18). Tuttavia, anche una volta ottenuta la ‛vittoria’ sul positivismo, importava valorizzare idee condivise e quindi ampliare il fronte del consenso, praticando una strategia inclusiva nei confronti di Spitzer (che tuttavia nei suoi ultimi anni avanzerà qualche distinguo). Per altro, dai tempi degli Aufsätze il terreno del dialogo era diventato sempre più ben accetto a Croce in virtù di una rapida evoluzione che Spitzer così descrive, parlando di sé in terza persona:

Dalla assolutizzazione della linguistica nei suoi anni giovanili è passato alla stilistica intesa come territorio di confine tra scienza della lingua e scienza della letteratura; arrivato ora a subordinare anche la stilistica alla scienza della letteratura (L. Spitzer, Romanische Stil-und Literaturstudien, 1° vol., 1931, p. 1),

rinvia al saggio di apertura per la giustificazione teorica della sua «Abkehr von der “Stilistik”» (p. 1, «allontanamento dalla “stilistica”»). Ottimo esempio di questo sviluppo è il saggio sulla Dorotea di Félix Lope de Vega (L. Spitzer, Die Literarisierung des Lebens in Lope’s Dorotea, 1932), cui Croce dedica una recensione nella quale inserisce una discussione generale sulla natura del barocco («La Critica», 1934, 30, pp. 58-61, poi in Conversazioni critiche, serie V, 1939, pp. 128-34). In questo clima quanto meno dialogico spicca Lavori di stilistica, significativa postilla a La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura (1936), dove si legge che

un indirizzo assai più serio è quello preso colà [nelle università tedesche] dalla “stilistica” mercé del Vossler, dello Spitzer e di altri, che formano una nuova scuola filologica, nella quale la cosiddetta considerazione stilistica ha l’ufficio di un semplice punto di partenza didascalico per la comprensione del singolo poeta e della singola poesia (Lavori di stilistica, in La poesia, cit., pp. 300-01).

Frattanto, nell’ottobre del 1933, Spitzer, vittima delle discriminazioni razziali, aveva lasciato la Germania per andare a insegnare a Istanbul (e poi a Baltimora), un fatto che molto aveva addolorato Croce dettandogli nel 1934 la bellissima dedica al «compagno negli studî di filosofia del linguaggio e di letteratura [...] in questa triste ora in cui avete dovuto cercare altre vie» (Nuovi saggi sul Goethe, 1934, p. V).

Il ‘terzo’ Croce

L’immediata testimonianza di solidarietà consolida il rapporto di amicizia e di stima reciproca e probabilmente conferma la tendenza già in atto a privilegiare il consenso su principi generali rispetto a eventuali dissensi sulla misura in cui tenerne conto. Sintomatico il caso dell’articolo su La Fontaine che Spitzer dedica a Croce, Die Kunst des Übergangs bei La Fontaine («Publications of the modern language association of America», 1938, 53, pp. 393-433). A quest’ultimo Vossler scrive non a torto:

Ho letto il saggio che lo Spitzer ti ha dedicato; e mi meraviglio che a te che combattevi sempre la critica tecnicistica della poesia capiti ritardato in dono natalizio un lavoro tecnologico. Così ti s’intreccian corone della zizzania che hai strappato (Carteggio Croce-Vossler, cit., p. 379).

Non è improbabile che già l’accettazione tacita di questa «corona» dipenda dal fatto che con La poesia del 1936 Croce era diventato meno intransigente nei confronti della «critica tecnicistica», cioè, in sostanza, della critica stilistica, purché estranea, beniteso, alla crisi dei valori intrinseca al decadentismo e alle sue propaggini nella «cosiddetta poesia nuova, poesia moderna, poesia pura o ermetica» (Ragione della disistima verso la «poesia pura» e suoi sinonimi, «Quaderni della “Critica”», 1947, 9, pp. 1-10, poi in Letture di poeti, cit., pp. 259-72). Ovvia dunque la stroncatura di L’Alcyone nella storia della poesia dannunziana (1945) di Adelia Noferi, contenuta in Intorno alla cosiddetta «critica stilistica» («Quaderni della “Critica”», 1946, 4, pp. 52-59, poi in Letture di poeti, cit., pp. 284-94), la cui critica stilistica è bollata quale frutto della decadenza spirituale ed estetica che, fatto salvo Charles Baudelaire, inizia con Stéphane Mallarmé, Paul Valéry e Arthur Rimbaud e ha come protagonista in Italia Gabriele d’Annunzio. Esplicitamente dichiarato è il disprezzo intellettuale e morale per teorie della poesia e della critica professate

da meri letterati, a capo dei quali sta, rivelatore e maestro, quel Mallarmé che lascia sempre in dubbio chi lo consideri se egli fosse un illuso e fissato o un “poseur”, non esente da consapevole o inconsapevole cerretanesimo; né maggior vigore mentale aveva l’onesto Paul Valéry, discepolo di lui e maestro della nuova generazione, del quale la banalità della moda parigina, o internazionalmente snobistica, ha imposto di ascoltare a bocca aperta le poverissime, e spesso stortissime e spropositatissime, sentenze pseudofilosofiche (Intorno alla cosiddetta «critica stilistica», in Letture di poeti, cit., p. 285).

Questo peccato originale comporta automaticamente la condanna dello strumento ritenuto «il solo purissimo, il solo adeguato alla natura della poesia: la cosiddetta “critica stilistica”» (p. 284) in quanto essa «fa tutt’uno col contemporaneo decadentismo poetico ed artistico» (p. 288). Riguardo poi all’Alcyone, oggetto del saggio di Noferi, Croce aggiunge

che nel D’Annunzio, la cui opera porge materia preferita alla critica stilistica, quel che è da revocare in dubbio è appunto la natura dell’arte sua, cioè se mai, nel corso della sua abbondante vita letteraria, egli abbia, nei momenti felici, cantato con l’accento eterno e inconfondibile della poesia. A me sembra di no (p. 291).

La critica stilistica di Noferi era prima di tutto inconsistente dal punto di vista linguistico, per cui Croce in fondo le fa troppo onore inserendola come «falsa critica» nella più generale condanna degli «untorelli, nati dal Mallarmé» (La poesia e la vita degli affetti, «Quaderni della “Critica”», 1948, 11, pp. 127-28, poi in Letture di poeti, cit., pp. 302-05). Contemporaneamente, con chi non fosse contaminato dal morbo del decadentismo, il dialogo era possibile e in tal senso è significativo l’esplicito apprezzamento riservato a Mario Fubini nel corso dell’importante recensione al volume di Spitzer Essays in historical semantics (1948) nella quale, andando oltre il tema specifico (Stilsprachen) viene ribadito che la stilistica dei singoli scrittori (Sprachstile) è «in sostanza, critica estetica, con certo rilievo dato alla considerazione particolare delle parole e delle loro giunture (simile agli studi dei quali in Italia ha dato saggi eccellenti il Fubini)» (recensione a Essays in historical semantics, «Quaderni della “Critica”», 1948, 12, p. 95, poi in Terze pagine sparse, 2° vol., 1955, p. 15). Due anni prima, nel fascicolo che «La rassegna d’Italia» aveva dedicato a Croce per l’ottantesimo compleanno, era stato pubblicato il saggio di Fubini Critica dello stile (seconda delle Note in margine all’estetica e alla critica del Croce, «La rassegna d’Italia», 1946, 1/2-3, pp. 161-73). Il dedicatario aveva poi avanzato alcune obiezioni in una lettera di cui ampi stralci sono riportati nella Nota che segue la ristampa di quel saggio in Critica e poesia (1956, pp. 118-21). Per giustificare la critica della lingua e dello stile Croce scriveva:

vi basti considerarla, com’è, un semplice particolareggiamento o risalto dato ad alcune parti dell’unica critica del sentimento che si fa bellezza. La critica stilistica, separatamente stilistica, non è la vostra, perché si lega al decadentismo estetico (p. 118).

Esplicito è dunque il riconoscimento dato a uno studioso il quale, richiamandosi «ad alcune formulazioni del Croce, specialmente del “terzo” Croce, quello per intenderci della Poesia (1936) e dintorni», tendeva «a valorizzare al massimo quegli spunti e concessioni del Croce, trovandovi l’autorizzazione a una particolare forma di critica fondata sulla considerazione degli elementi espressivi» (Blasucci 1963, p. 74). Senza dubbio la ricerca dell’«autorizzazione» molto importa nel procurare a Fubini una manifestazione di stima, tanto più volentieri elargita in quanto consentiva a Croce di contrapporre la critica stilistica ‘sana’ a quella inquinata dal «decadentismo estetico». Un’altra battaglia aveva combattuto molti anni prima per la vittoria dell’idealismo contro il positivismo negli studi linguistici, stilistica compresa, quando era intervenuto «allo scopo di neutralizzare qualsiasi tentativo di mettere in discussione il suo modello di monografia critica, annettendo la Stilkritik alla propria estetica» (Lucchini 2005, p. 176); tuttavia in entrambi i casi anche la ricerca del massimo consenso, ovvero di un serrate le file davanti al nemico, avrà influito positivamente sulla disponibilità crociana a rendere più ricettivo l’impianto generale del suo pensiero, per altro senza mai intaccarne la coerenza, e lo conferma da ultimo proprio la recensione agli Essays in historical semantics, già ricordata per l’elogio riservato a Fubini.

Più in generale, essa fornisce (insieme al progetto coevo di un’antologia di saggi spitzeriani tradotti in italiano) memorabile esempio conclusivo della stima riservata senza soluzione di continuità prima al protagonista della Stilkritik, ora all’autore degli Essays, lodati quale frutto di un’idea della «linguistica come storia, ossia parte della storia della vita spirituale dell’umanità». Alla calorosa condivisione intellettuale, non priva di una componente affettiva, che caratterizza queste pagine, altrove, quando a scrivere è il polemista, corrispondono spesso manifestazioni di insofferenza, se non di mal repressa irritazione: ne sono spia eloquente già alcune scelte lessicali (disistima, diffidenza) presenti nei titoli, dal sopra ricordato Ragione della disistima verso la «poesia pura» e suoi sinonimi a Il perché della diffidenza verso «la critica stilistica» – beninteso quella «che ha la sua origine nei poeti decadenti o ermetici» – («Quaderni della “Critica”», 1946, 6, p. 103, poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., Vita, pensiero, letteratura, 1948, pp. 219-20). Analoga intonazione ha, nello stesso fascicolo della rivista, Illusioni sulla genesi delle opere d’arte, documentata dagli scartafacci degli scrittori (poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., cit., pp. 190-91), articolo dove non si fa parola del Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943) di Gianfranco Contini, nonostante il taglio prevalentemente stilistico del commento e subito all’inizio la citazione di Mallarmé e Valéry quali ispiratori. Questa volta, però, a chiamarli in causa non era un «untorello nato dal Mallarmé», ma uno studioso di eccezionale caratura intellettuale, nel quale il critico militante conviveva, come mai prima era successo, con l’agguerrito linguista e filologo.

Bibliografia

L. Blasucci, Metrica e poesia, «Belfagor», 1963, 18, pp. 74-88.

W.-D. Stempel, Idealistische Sprachwissenschaft, in Lexikon der romanistischen Linguistik, hrsg. G. Holtus, M. Metzeltin, Ch. Schmitt, 1° vol., t. 1, Geschichte des Faches Romanistik. Methodologie, Tübingen 2001, pp. 189-207.

G. Lucchini, Spitzer e la critica stilistica in Italia (1924-1954), «Quaderni di critica e filologia italiana», 2005, 2, pp. 127-77.

Lettere di Leo Spitzer a Benedetto Croce e ad Elena Croce, a cura di D. Colussi, Napoli 2010.

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