Croce e il fascismo

Croce e Gentile (2016)

Croce e il fascismo

Salvatore Cingari

L’avvento del fascismo e il sostegno di Croce

Dopo una fase giovanile ispirata politicamente anche dalle istanze democratiche e socialiste, con l’acuirsi del conflitto internazionale la molla del patriottismo colloca Benedetto Croce in una posizione sempre più attenta ai temi dell’unità sociale. Pur senza mai identificarsi con le posizioni salandrine e sonniniane, né con quelle dei nazionalisti, nel luglio del 1914, alle elezioni amministrative di Napoli, il filosofo presiede il ‘fascio dell’ordine’, che contrappone liberali e cattolico-moderati al blocco delle sinistre. Dopo la fine della guerra lo ritroviamo a scrivere sul mensile «Politica», fondato da Francesco Coppola e Alfredo Rocco e vicino alle posizioni dei nazionalisti, sebbene aperto anche a interventi di altro segno politico. La collaborazione di Croce al quinto governo Giolitti come ministro della Pubblica Istruzione (1920-21) conferma queste tendenze: il suo operato è caratterizzato dal progetto di una nuova scuola più elitaria e dall’intransigenza antisindacale. L’impegno nelle istituzioni e l’avvicinamento a Giovanni Giolitti non significano quindi, per Croce, una rivalutazione della sua strategia di apertura democratica, ma un’enfatizzazione della necessità di difendere lo Stato da tutte le forze centrifughe. Lo stesso liberalismo, gli sembra, può essere indirizzato verso un modello più votato al disciplinamento di tipo guglielmino e corroborato da tensioni morali che guardino anche alla lezione soreliana.

Questo è il Croce che assiste all’ascesa del fascismo, cui peraltro egli non ha mai la tentazione di concedere qualcosa dal punto di vista ideologico. Del tutto estranei e indigesti sono, per lui, nazionalismo, futurismo, tradizionalismo, sindacalismo rivoluzionario, dannunzianesimo. Egli sostiene però l’utilità di questo movimento politico negli anni cruciali del suo avvento e della presa del potere, appoggiando il governo Mussolini, com’è noto, fino a dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. La posizione di Croce – e di tanti altri eminenti esponenti del liberalismo – ha conseguenze rilevanti sulle fortune del fascismo: le componenti vicine a Giuseppe Bottai e alcuni settori legati alla figura di Gentile guardano proprio a lui, mentre l’ala più intransigente – avanguardistica e squadristica, ‘rivoluzionaria’ alla Camillo Pellizzi oppure antimodernistica alla Curzio Malaparte – lo vede come fumo negli occhi, perché simbolo della possibile riduzione del fascismo a mero difensore dello status quo. Anche l’impossibilità di poter permeare il regime della propria visione idealistica e liberale-patriottica spinge lo studioso, dopo il 1925, a una recisa opposizione.

Ma all’inizio Croce si sente spinto a dare fiducia al regime, anche per il ruolo assunto nel governo da Giovanni Gentile, sebbene fin dagli inizi rifiuti la presidenza del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione che quest’ultimo gli propone. Del resto, il 24 ottobre 1922 (alla vigilia della marcia su Roma) egli, al teatro San Carlo di Napoli, aveva applaudito vivamente il discorso di Benito Mussolini in cui si preannunciava la ‘marcia’ (cfr. la testimonianza di Nicola Abbagnano nei suoi Ricordi di un filosofo, a cura di M. Staglieno, 1990, pp. 9-16). Il 9 novembre 1922, in un articolo (Il problema Mussolini) sul «Giornale d’Italia», organo di una destra liberale cui Croce ormai da tempo è vicino, il suo più fedele collaboratore dell’epoca, Giovanni Castellano, esalta la figura di Mussolini come esempio di azione creatrice. Per Croce la teoria idealistica è ‘liberale’ perché riconosce la necessità della lotta fra uomini e partiti di diverso orientamento. Egli quindi riesce a comprendere il fascismo come soggetto che energicamente vince la gara liberale con gli altri soggetti in competizione, sebbene non sia da lui prevista l’eventualità della soppressione della gara stessa. Nello stesso anno, in una recensione all’appena pubblicata seconda edizione degli Elementi di scienza politica (1896) di Gaetano Mosca («La Critica», 1923, 21, pp. 374-78), Croce critica «la teoria politica democratica» (distinguendola, tuttavia, dalle «tendenze democratiche», considerate come emergenze innegabili della realtà sociale) dal punto di vista della «teoria liberale» (p. 377).

Il 27 ottobre 1923, sempre sul «Giornale d’Italia» (nel numero che commemora il primo anniversario della marcia su Roma), esce un’intervista di Francesco Dell’Erba a Croce, intitolata Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo (poi in Pagine sparse, 2° vol., 1960, pp. 475-78). In questo testo, Croce inizialmente nega le differenze fra i due paradigmi, liberale e fascista, sulla base della constatazione elitistica che le forme politiche sono astrazioni che coprono la costante e concreta realtà delle minoranze governanti, in ragione della maggiore forza che esse riescono a dispiegare. Si giustifica, dunque, il fascismo in quanto forza priva di alternative, unico soggetto capace di mantenere un governo, superando la «paralisi parlamentare del 1922» (p. 477). Incalzato da Dell’Erba, Croce precisa di sentirsi liberale nel senso della «tradizione del Risorgimento», legata alla fase di «rapido accrescimento e ammodernamento della vita italiana»; un’adesione, dunque, non legata a deduzioni teoriche o filosofiche, ma di appartenenza identitaria: «allo stesso modo che mi sento napoletano o borghese meridionale» (pp. 477-78). Il fine di Croce è, da un lato, affermare il carattere ‘passionale’ della politica, il suo dedursi da forza e vitalità e non da teorie o valori privi di determinazione storica e, appunto, vitale; dall’altro, quello di invocare il rinnovamento della fede liberale degli italiani, in modo tale da ripristinare un’autosufficiente capacità di governo, autonoma dal fascismo. Tuttavia la fede liberale va a identificarsi essenzialmente nella «devozione alla patria» (p. 477), nello spirito di un certo Risorgimento dal quale più facilmente può discendere un affiatamento con il fascismo: se i liberali non hanno avuto la forza di «salvare l’Italia dall’anarchia», essi devono solo recitare il mea culpa e «accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l’avvenire»; non è loro dovere, però, «diventare fascisti» (come Gentile), essendo essi di altro «temperamento» ed «esperienza» (p. 478).

Paradossalmente, è proprio sostenendo il fascismo che Croce inizia a tematizzare il suo liberalismo e ad abbandonare l’idea, che l’aveva visitato negli anni precedenti, di un suo possibile superamento in un modello più votato al disciplinamento sociale. E, paradossalmente, è ‘liberale’ anche l’idea di lasciar sprigionare il conflitto, affidando alla borghesia e ai suoi organi istituzionali il ruolo di ripristinare un solido quadro giuridico-statuale, che consenta ai soggetti prevalenti di dirigere la vita pubblica. Il fascismo, dunque, è utile a tal fine, dato che i liberali non hanno avuto la forza di tenere ferme le regole del gioco. Ma l’auspicio è che essi, a loro volta, la ritrovino.

Il 1° febbraio 1924 Croce rilascia un’intervista al «Corriere italiano» (Sulla situazione politica, poi in Pagine sparse, 2° vol., cit., pp. 479-81) sull’imminente prima campagna elettorale sotto il governo Mussolini, vigente la legge elettorale Acerbo. Il filosofo – che per il voto del 6 aprile avrebbe sostenuto il ‘listone’ di appoggio ai fascisti – nega che ci sia qualcosa di «pericoloso» all’orizzonte: l’importante è non compromettere «l’opera intransigente di restaurazione politica», perché il governo Mussolini ha messo in pratica ciò che i precedenti governi hanno soltanto, e lamentosamente, auspicato, e cioè che dalle urne esca sempre una «compatta maggioranza» (p. 479). Quanto al carattere della riforma elettorale, violentemente maggioritario (tanto da apparire contrario allo Statuto albertino), Croce ritiene, all’opposto, che proprio in questo modo si risolva il dualismo fra «rappresentanza legale della nazione» e partiti politici, ripristinando quindi un «buon sistema costituzionale» (p. 480). Nondimeno Croce, ancora una volta, marca chiaramente i confini politici fra sé e il fascismo. Le inquietudini in cui, nell’immediato dopoguerra, erano sfociate le tensioni antigiolittiane, risuonavano ancora nella concessione che qualcosa di «politicamente nuovo possa sorgere dal travaglio presente della vita italiana ed europea», rispondendo alla creatività incessante dello spirito umano: «dunque potrà ben darsi che il fascismo crei un sistema politico affatto diverso dal liberale» (p. 480). E tuttavia egli dichiara di non vedere, al momento, le linee di questo nuovo sistema: quello che vede è un «ritorno [...] alla legalità, cioè alla pratica costituzionale», perché il cuore del fascismo non risiede nella sua natura eversiva, ma nell’«amore della patria italiana», nel «sentimento della sua salvezza», della «salvezza dello Stato», nel «giusto convincimento che lo Stato senza autorità non è uno Stato» (p. 480). Per questa parte il fascismo «produce e produrrà i suoi effetti», accrescendo, per es., il numero di coloro che, contro il tradizionale indifferentismo italiano, «sentono la passione politica e prendono profondo interesse alle cose dello Stato» (p. 481). In tal modo, nello stesso momento in cui lo si sosteneva, si colpiva il fascismo al cuore, facendone uno strumento di normalizzazione e non di cambiamento. Da questo punto di vista Croce stima un grande beneficio la cura «a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia» (p. 481).

Nel maggio del 1924 – un mese prima del rapimento di Giacomo Matteotti (10 giugno) – sulla «Critica» (22, pp. 189-92) troviamo uno dei più importanti documenti sulle posizioni politiche del Croce di allora. Si tratta dell’articolo Fatti politici e interpretazioni storiche, in cui egli risponde alle polemiche ‘futuriste’ contro la riforma Gentile, da lui largamente condivisa e, anzi, in qualche modo preparata. Ha ragione Filippo Tommaso Marinetti a dire che la riforma è «passatista e antifascista» (p. 190), in contrasto con quanto invece Mussolini ha affermato (e cioè che essa era la più fascista delle riforme). Il fascismo, infatti, secondo Croce, non solo non si può ispirare – come qualcuno ritiene – a Vincenzo Gioberti o a Giuseppe Mazzini, ma nemmeno all’idealismo: «l’origine ideale del “fascismo” si ritrova nel “futurismo”» (p. 191) e sta nella sua capacità di esercitare la violenza politica, parlando ai cuori di chi tiene ai sentimenti dei reduci e al valore della patria e dello Stato. Croce, dunque, ancora una volta, con equilibrismo interiore, salda la storia come pensiero e la storia come azione, sfumando il rifiuto culturale del futurismo nella giustificazione storico-pratica della sua lotta. La sua critica del futurismo non equivale automaticamente a una critica del fascismo: «non è detto [...] che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata» (p. 191).

Si assiste, perciò, a un capovolgimento rispetto all’intervista al «Corriere italiano», di poco precedente. Là la cultura del fascismo – parimenti rifiutata – era un passatismo antimodernistico, mentre qui è l’antipassatismo futuristico. Tali giudizi sarebbero poi stati portati a coerenza in un modello storicistico avverso alle visioni irrazionalistiche, sia antimoderne e reazionarie sia ipermodernistiche, muovendosi in questo senso verso il Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, in cui riverenza alle leggi e sovversivismo, ultramodernismo e passatismo vengono indicati come elementi incoerentemente miscelati nel fascismo.

Ancora il 10 luglio 1924, Croce – dopo il rapimento di Matteotti e dopo il proprio voto (24 giugno) a favore del governo –, in un’intervista al «Giornale d’Italia» (intitolata, come quella al «Corriere italiano», Sulla situazione politica; poi in Pagine sparse, 2° vol., cit., pp. 482-86), tiene fede a questa impostazione, sebbene ora il suo ottimismo sembri essersi significativamente attenuato. Egli nota che il fascismo, anziché accontentarsi di ridar vigore allo Stato liberale, persiste nella prospettiva di fondare un «nuovo tipo di Stato» (p. 483). Lo stesso rapimento di Matteotti è frutto di questo errore:

Poiché il fascismo non è in grado di creare un nuovo assetto costituzionale e giuridico che sostituisca l’assetto del liberalismo, deve reggersi con quegli stessi procedimenti con cui è sorto, perpetuando ciò che doveva essere occasionale e transitorio. E nella serie di questi procedimenti violenti non si può determinare esattamente a qual punto ci si debba fermare (p. 483).

Croce, tuttavia, continua a sperare e a credere che il fascismo possa essere ‘normalizzato’. Esso ha risposto a «seri bisogni» e fatto molto di «buono» (p. 484), e dunque bisogna evitare che i suoi effetti positivi si disperdano, tornando all’inconcludenza passata. Il suo voto di fiducia del 24 giugno è stato dato con il naso turato, per dovere e non per entusiasmo. Nell’edizione 1943 delle Pagine sparse in cui questa intervista sarà ripubblicata dallo stesso Croce, in una nota a margine (p. 379) l’autore ricorda che a quel tempo non erano state ancora emanate le leggi contro la libertà di stampa e che – punto importante – nessuno le prevedeva. Ancora a quel tempo, quindi, Croce prefigurava un ineluttabile ritorno al regime liberale, in cui il fascismo non si sarebbe dissolto se avesse avuto l’intelligenza di accettare di essere una forza fra le altre forze.

Ecco quindi un esempio della dialettica «restauratrice» di cui parla Antonio Gramsci nelle sue pagine su Croce (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, in Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 2° vol., 2007, pp. 129-32); secondo questa dialettica la sintesi sa già in anticipo cosa conservare dell’antitesi. Attraverso l’antitesi della violenza fascista la violenza politica del movimento operaio va eliminata e le istituzioni liberali conservate. Ma senza la sintesi liberale il fascismo rimane soltanto antitesi. Di qui la svolta antifascista di Croce.

In uno scritto del maggio 1924 (Politica “in nuce”, «La Critica», 1924, 22, pp. 129-54) Croce prova a tradurre in filosofemi tali tensioni civili. Questo testo è stato non a torto letto come il tentativo di interpretare la soluzione fascista con gli strumenti di un rinnovato machiavellismo. Il fascismo avrebbe potuto trovare senso soltanto in una direzione politica volta al ripristino di uno Stato liberale che, rispetto al passato, avrebbe saputo far valere i diritti della forza contro le spinte antagonistiche del movimento operaio.

Da una comparazione (cfr. Martina 2005, pp. 306-09) fra la prima redazione di questo testo – di poco antecedente al rapimento di Matteotti – e la versione rivista inserita in Etica e politica (1931), si evince che, nella redazione del 1924, già nel primo paragrafo – intitolato “Senso politico” – Croce sosteneva che non fosse possibile un dualismo, per l’uomo di Stato, fra morale pubblica e privata: per l’«interesse dello Stato si deve all’occorrenza non osservar la fede data o compiere assassinii e altri delitti» (p. 130). In nessun caso, infatti, è lecito «rompere la fede o commettere assassinamenti» (p. 130), ma ciò nel senso che se all’uomo di Stato «è apparso necessario eseguire quelle azioni, esse non possono essere né mancamenti di fede, né assassinamenti, né altra sorta di bricconate e malvagità» (p. 138). Si può immaginare che tipo di risonanza dovette avere nell’autore rileggersi dopo l’omicidio del parlamentare socialista?

Nella versione poi inserita in Etica e politica (pp. 213-49) scompare la parola «assassinamenti» e, dopo il termine «necessario», si specifica, con una parentesi introdotta ex novo:

necessario, ben s’intende, non per soddisfare la propria sete di potere o altra privata ambizione e passione, né per abito di rozzezza e delinquenza, ma per la sacra tutela, per l’accrescimento o per risorgimento della patria (p. 215).

In questa versione, comunque, Croce in qualche modo giustifica ancora il fascismo, sostenendo che l’idea illusoria e strumentalizzante che all’eguaglianza seguirebbe la «libertà» e la «fraternità», basti a

spiegare i vituperii scagliati contro quelle nobili parole da uomini di vivo senso storico e politico, divenuti, in odio a esse, appassionati partigiani della ‘‘forza’’, parzialmente e grossolanamente intesa (p. 215).

Non a caso i giornali fascisti, nel 1924, riservarono un’accoglienza benevola allo scritto comparso sulla «Critica», tornando sull’idea di un Croce preconizzatore dello Stato fascista. Ma, ancora una volta, il filosofo riuscì a smarcarsi ribadendo la distinzione fra cultura e politica.

Il passaggio all’antifascismo

La soppressione della libertà di stampa e il discorso del 3 gennaio 1925 di Mussolini, in cui questi si assume la responsabilità del delitto Matteotti, portano definitivamente Croce all’opposizione del fascismo. In Senato vota contro le leggi che sopprimono la libertà di associazione e di stampa, contro la creazione del Tribunale speciale e la reintroduzione della pena di morte, e si astiene sui provvedimenti contro la massoneria. Nel Manifesto degli intellettuali antifascisti – da lui redatto e pubblicato il 1° maggio 1925 sul quotidiano «Il Mondo» – viene distinto il «matematico democratismo» settecentesco (ciò che il fascismo avrebbe dovuto affossare: anche se Croce non lo dice esplicitamente), dal liberalismo ottocentesco basato sulla «libera gara» e l’«avvicendarsi dei partiti al potere» (che invece il fascismo avrebbe dovuto tenere in piedi e anzi consolidare). Ma, soprattutto, viene denunciato l’elitarismo del Manifesto degli intellettuali fascisti, in cui si sostiene che, come il Risorgimento è stato frutto di minoranze eroiche, così il fascismo ha seppellito le istituzioni basate sulla ‘maggioranza’. Nel Manifesto degli intellettuali antifascisti si dice che il limite della «costituzione politica e sociale» dell’Italia è, invece, proprio la ristrettezza della sua base sociale, di cui «i liberali non si compiacquero mai, mentre il fascismo sembrava votato a mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali», riprendendo così lo spirito quietistico e assolutistico dell’antico regime.

Mussolini reagisce dichiarando di non aver mai letto una parola del ‘filosofo dei distinti’. Croce, invece, in una lettera pubblicata sul «Mattino» del 24 giugno fa notare che egli ha letto le pagine di Mussolini e continua a farlo, ben conoscendo il suo pensiero. Pochi giorni dopo Croce, al Consiglio nazionale del Partito liberale, che ha contribuito a ricostituire per reagire al fascismo, parla ormai da oppositore conclamato, anche se, ancora, sente il bisogno di rendere giustizia all’avversario. La situazione italiana è infatti spiegata e giustificata da condizioni di fatto che «a tutti» o a «molti di noi» – dice Croce – «avevano fatto accogliere il nuovo movimento come una crisi benefica passeggera» (in Pagine sparse, 2° vol., cit., p. 494). Una crisi che va, però, inscritta nel quadro europeo. In questo discorso, sostanzialmente, lo studioso enuncia i termini del suo ricollocamento al centro del quadro politico, dopo gli slittamenti a destra degli ultimi anni. La crisi europea è dovuta all’antiliberalismo del movimento socialista e a quello delle «nuove forze e dei nuovi aggruppamenti degli interessi capitalistici» (p. 494). Croce attribuisce, quindi, al fascismo una genesi anche di classe, collegata al grande capitale, differenziandosi dalle posizioni alla Piero Gobetti, che riportavano il fascismo a un carattere specifico della storia italiana, determinato dalla mancata penetrazione della riforma protestante.

Nel noto saggio Liberalismo («La Critica», 1925, 23, pp. 125-28), Croce si lascia alle spalle le oscillazioni di qualche anno prima, quando pensava che tale modello potesse transvalutarsi senza far perdere allo Stato solidi elementi di continuità, e approfondisce la sua critica al marxismo e al sindacalismo soreliano, di cui enfatizza aspetti antimoderni che avvicinano queste tendenze al reazionarismo, in qualche modo alludendo anche al trapasso mussoliniano. Se il socialismo esprime bisogni concreti – e cioè quelli di eliminare i privilegi derivanti dalle condizioni economiche –, l’autoritarismo promuove il disciplinamento e l’ordine: ma solo il liberalismo può comprendere queste esigenze in modo non unilaterale. Tuttavia, è all’autoritarismo che, ancora una volta, il filosofo fa qualche concessione: «interviene in certi momenti a salvare la società mercé le dittature e le restrizioni di libertà» (p. 126). Il nazionalismo stesso è vacua retorica, anche se con l’aiuto del fascismo «ha fatto parecchi progressi sul terreno della realtà» (p. 127).

La sua difesa del liberalismo, scrive sul «Giornale d’Italia» il 30 luglio 1925 (Massoneria e liberalismo, poi in Pagine sparse, 2° vol., cit., pp. 496-97), non deve essere vista in contraddizione con le sue polemiche antidemocratiche e antigiacobine, essendo, a suo avviso, il Partito liberale, «superamento e correzione» (p. 497) di tali posizioni e a esse opposto dal punto di vista della storia dei partiti politici.

Nell’ottobre dello stesso anno torna sulla spiegazione in termini di classe: il fascismo «è stato un moto in difesa dell’ordine sociale, patrocinato in prima linea dagli industriali ed agrari» (in Pagine sparse, 2° vol., cit., p. 500). Proprio per questo non può che essere indifferente alla cultura. Gli sforzi di Gentile sono vani, come quelli di contrapporre uno Stato etico a uno Stato liberale: in realtà i politici fascisti si fanno beffe della cultura e gli intellettuali che si mettono al loro servizio perdono ogni autonomia.

Il liberalismo di Croce nasce dunque nel fuoco della ‘crisi’ della libertà, invocando l’intervento del fascismo e, insieme, distinguendosi da esso: ma, in qualche misura, tale vicenda è anche emblematica di un destino del Novecento, in cui i liberali e anche i democratici, nel momento in cui i princìpi costitutivi della cosiddetta società aperta vengono messi in discussione dall’antagonismo di classe, si trovano spesso a dover negare le proprie convinzioni. Gentile fa i conti con questa contraddizione, risolvendola con l’identificazione fra liberalismo, Risorgimento e fascismo. In Croce questa chiusura del cerchio non avviene, anche perché altri sono i suoi antecedenti politici. Se in Gentile il problema di contrastare il movimento operaio è originario, serpeggiante già nelle prime opere a stampa, gli interessi politici iniziali di Croce collocano il filosofo vicino al socialismo e al radicalismo democratico, prima della torsione conservatrice del secondo decennio del secolo.

La vicenda di Croce non è peraltro isolata in Europa. La figura di Gentile può in qualche misura avvicinarsi a quella di Martin Heidegger e di Carl Schmitt, ma nel caso di Croce è a Thomas Mann che bisogna pensare, al quale egli dedicò infatti la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). Come Mann, Croce passa da una sia pur moderata critica della Zivilisation europea occidentale al dissenso antifascista e alla rivalutazione della civiltà dei ‘mercanti’. Dell’antifascismo il filosofo diviene così la figura più unanimemente e trasversalmente riconosciuta.

Un antifascismo, però, che tende sempre ad arginare le eccedenze politicamente radicali del dissenso, che possano mettere in discussione la continuità dello Stato prefascista e dell’ordine sociale. In questo senso, in Croce la fase di appoggio al fascismo non è senza nessi con l’antifascismo successivo. Benché fondamentale riserva di valori umanistici per chi resisteva alla dittatura e punto di riferimento internazionale di una cultura italiana autonoma da quella fascista, l’antifascismo crociano – non senza, naturalmente, punti di refrattarietà e contrasti – ha fornito stimoli anticonflittuali a tutto l’arco delle forze politiche, perfino a quelle comuniste. L’apertura del paradigma liberale alla democrazia e anche al socialismo, che si svilupperà negli anni Trenta, avverrà in qualche modo in funzione della difesa di un mondo passato piuttosto che della spinta a un rinnovamento futuro: una grande rideclinazione della conservazione sociale in termini di liberal-democrazia, a maggior ragione sollecitata dall’accelerazione totalitaria e corporativista del regime.

Gli anni del consolidamento del regime

È noto che – al di là dell’innocua irruzione di una squadraccia fascista a palazzo Filomarino, la residenza napoletana del filosofo, pochi giorni dopo il fallito attentato a Mussolini effettuato da Tito Zaniboni il 4 novembre 1925 – il regime non limita eccessivamente le libertà di Croce, grazie alla sua notorietà internazionale, di cui Mussolini è sempre stato ben consapevole. Per comprendere come Croce viva questo stato di libertà vigilata, può essere utile leggere lo studio Torquato Accetto e il suo trattatello “Della dissimulazione onesta” («La Critica», 1928, 26, pp. 221-26): come sotto i governi assolutistici è stato possibile mantenere una propria autonomia interiore senza incorrere nelle sanzioni del potere, così, sotto la dittatura, bisogna cercare di continuare a lavorare e a vivere, preparando il ritorno alla libertà.

Rispetto alla raccolta precedente Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), negli studi sul barocco di questi anni, raccolti nella Storia dell’età barocca in Italia (1929), la tensione a comprendere in positivo quell’epoca cede il passo alla ricerca degli aspetti di decadenza, soprattutto individuati nella Controriforma. La grande storiografia di Croce, inaugurata nel 1925 con la Storia del Regno di Napoli e proseguita, poi, con la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e la citata Storia d’Europa nel secolo decimonono, è fortemente segnata dalle vicende storiche legate al fascismo. Il modello multifattoriale cui Croce approdava in Teoria e storia della storiografia (pubblicato in Germania nel 1915 e in Italia nel 1917) si risolve nella storia etico-politica: l’intento è di dare nuovo risalto al momento ‘morale’ – accanto a quello machiavelliano della ‘forza’, fino ad allora centrale nella sua riflessione sulla politica – e anche di esaltare il ruolo delle classi che dirigono la base sociale (cfr. Galasso 1969).

I disordini sociali e la prospettiva di un nuovo ordine costituente sono tuttora considerati da Croce un fantasma reale degli anni a cavallo della guerra: egli cita, in una nota della Storia d’Italia (1985, p. 319), con evidente adesione, il libro del conservatore Giuseppe Avarna, duca di Gualtieri – ambasciatore italiano a Vienna all’inizio della Prima guerra mondiale –, D’un nuovo concetto dello Stato (1914), di netta impronta antipopolare e antisocialista. I socialisti, rifiutando di appoggiare la guerra, si erano messi fuori sintonia rispetto ai sentimenti della nazione. L’irresolutezza dei riformisti, impossibilitati a governare, ma, anche, senza ormai propositi rivoluzionari, fu surclassata dall’ascesa di Mussolini, rappresentato come «schietto temperamento rivoluzionario», il quale rideclinò l’«intransigenza del rigido marxismo» al di fuori della prospettiva socialista, ormai antiquata, miscelandola con l’irrazionalismo soreliano, bergsoniano, volontaristico e pragmatistico, che i socialisti non sapevano combattere, essendo fermi al positivismo. Solo un liberalismo idealistico – sembra dire Croce – avrebbe potuto rappresentare una sintesi politica più alta. L’irrazionalismo contrapposto al liberalismo incombe come un’ombra sul rigoglio culturale di inizio secolo e pare rappresentare il rischio cui invece il fascismo si stava consegnando.

La Storia d’Italia diviene in breve un punto di riferimento del dissenso, sia negli interni privati degli ‘onesti’ dissimulatori sia nei luoghi di prigionia e di confino, di esilio e di lotta.

Un momento ulteriore di frattura fra Croce e il regime si apre con il Concordato del 1929. La costituzione materiale dello Stato gli appare infatti, in tal modo, incisa nella carne viva. Il 24 maggio pronuncia in Senato un vibrante discorso (poi pubblicato in Discorsi parlamentari, 2002, pp. 173-77), annunciando il suo voto contrario, ricordando l’ideale cavouriano della separazione fra Stato e Chiesa e la tradizione laico-giurisdizionalista, da Pietro Giannone in poi.

Gli anni del totalitarismo

Nella Storia d’Europa (1932) Croce approfondisce (pp. 199-208) il discorso sull’origine del male europeo, cui, a suo avviso, va riportata la «crisi della libertà»: in controluce parla anche del fascismo. Per es., l’impero autoritario di Napoleone III è stato il frutto di quattro anni di «democrazia e di antidemocrazia» (p. 201). Esso ha sviluppato

metodi e costumi che sono i medesimi di tutti i regimi autoritari, quali che ne siano l’origine e l’occasione, e che si riducono alla semplice operazione di legare le mani e tappare le bocche per imporre la propria unilaterale volontà (p. 201).

I benefici portati al proletariato con alcuni istituti di protezione sociale non gli valsero consenso, dato che gli operai sospiravano la libertà perduta. Luigi Napoleone fu ‘uomo della Provvidenza’ per Pio IX; lo Stato riformato dall’imperatore «non poteva considerarsi creazione originale e non comprendeva, superandolo, lo stato liberale, ma portava in ogni sua parte l’impronta del provvisorio e del transitorio» (p. 201).

Anche la Storia d’Europa diventa una sorta di breviario dell’opposizione spirituale al fascismo. Croce stesso si reca periodicamente nei vari focolari di quella che egli chiamava «la famiglia italiana» – e cioè gli intellettuali dissenzienti delle varie regioni, in Piemonte, a Firenze, a Milano –, a tenere viva una rete di rapporti cresciuta nella quotidiana resistenza, anche a compensare l’isolamento della ‘sentinella sperduta’ in un fronte seminato di paura e conformismo, ben più compatto intorno al regime di quanto egli stesso in seguito non avrebbe voluto ricordare. All’estero diviene il simbolo dell’Italia antifascista, come – soltanto per fare qualche esempio – testimoniano pagine di Arthur Koestler e di Stefan Zweig.

Il quadro europeo, in cui invita a inserire il problema del fascismo, si va del resto incendiando. Pochi mesi dopo la presa del potere da parte dei nazisti, in una interessante lettera a Karl Vossler (10 ag. 1933, Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949, 1951, a cura di E. Cutinelli Rèndina, 1991, p. 358), Croce stigmatizza il ruolo di Martin Heidegger, paragonandolo a quello di Gentile; tre anni dopo scrive La Germania che abbiamo amata («La Critica», 1936, 32, pp. 461-66) , in cui denuncia il dilagare della barbarie. Verso il regime di Adolf Hitler e le leggi razziali, Croce non ha mai nessun cedimento, rifiutando un paradigma che mescolava rozzo positivismo e irrazionalismo e sfociava nell’antisemitismo: l’alleanza con i nazisti costituisce per Croce un motivo particolare di dolore civile e di indignazione, e contribuisce a spostare definitivamente il regime fascista dalla categoria di avversario politico a quella di nemico dell’umanità, come parte del male incombente nella storia.

L’intransigente rifiuto di collaborare con il governo e con gli intellettuali a lui vicini permane per tutti i suoi diciassette anni di opposizione, con la parziale eccezione, forse, della medaglia da senatore donata al Paese per contribuire allo sforzo bellico della guerra d’Etiopia. Non si era consumata, infatti, la scissione fra patria e guerra, e Croce, ancora, tende a non separare il valore della patria da quello dello Stato e del governo. Solo la Seconda guerra mondiale avrebbe lacerato la tessitura risorgimentale, come lumeggia il 4° volume (1937-1943, 1987) dei Taccuini di lavoro: e Croce opporrà un rifiuto, infatti, alla richiesta di Mussolini di rivolgere un discorso patriottico al popolo italiano per incoraggiarlo a resistere all’avanzata degli Alleati. Ai giovani nell’esercito che gli chiedevano consiglio, però, diceva di salvare l’onore militare dell’Italia.

Il fascismo dopo il fascismo

Il 25 luglio 1943 Croce annota nei Taccuini di non aver potuto dormire fino a oltre le quattro per l’emozione procurata dal senso di liberazione da un male che gli «gravava al centro dell’anima» e che non sarebbe tornato più (p. 480). Ma non riesce ad assaporare il senso della vendetta, tanto dolorose sono le condizioni dell’Italia (p. 481). Nei Taccuini, sul governo di Salò esprime giudizi sprezzanti. Il 2 dicembre un ennesimo sfogo, questa volta specificamente contro il duce. Mussolini non può essere visto se non nei suoi difetti di ignorante, incapace di scrupoli e autocritica, privo di gusto. Il problema è capire come in Italia e in Europa si sia potuta imporre questa tipologia di leader. Non riesce a scrivere su di lui, proprio per queste passioni che l’agitano, ma sconsiglia di farlo anche agli storici futuri, diffidandoli dal riabilitarlo ed esaltarlo, con tesi paradossali, ingegnose e brillanti. Sembrerebbe una scomunica anticipata del revisionismo storiografico.

Eppure, in quello stesso anno, in una lezione agli alunni dell’Istituto storico di Napoli (poi pubblicata, con il titolo L’obiezione contro le “storie dei proprî tempi”, nel 1950 sul «Mondo» e nel 1955 in Terze pagine sparse, 1° vol., pp. 108-16), forte di una maggiore serenità, ancora una volta muta atteggiamento. La sua opzione è stata, negli anni del fascismo e dopo, di non studiarlo scientificamente, ma di combatterlo passionalmente. Se tuttavia avesse deciso per la prima opzione, avrebbe dovuto cercare di far emergere, sebbene per accenni, gli aspetti positivi: le realizzazioni pratiche e le buone intenzioni, ma anche la «terribile e salutare scossa» (p. 116) data a tutti perché non dimenticassero la tragicità della storia. A Croce stesso il fascismo ha regalato una «nuova giovinezza» (p. 116) civile e scientifica, maturata nell’opposizione al regime.

Dopo l’8 settembre Croce può riprendere a esprimersi anche pubblicamente sulla natura e le origini del fascismo. Il 28 novembre, in un articolo pubblicato in italiano sul «New York Times» (Il fascismo come pericolo mondiale, poi in Scritti e discorsi politici, 1° vol., 1993, pp. 15-23), ribadisce che esso non era stato un morbus italicus, ma un problema contemporaneo, che egli identifica, da un lato, con il superomismo, il ducismo e in genere l’irrazionalismo e, dall’altro, con gli effetti della Prima guerra mondiale, che ha disabituato alla libertà e al vivere civile, soprattutto la piccola borghesia. I disordini sociali sono ancora chiamati in causa da Croce, che, però, ora sottolinea come la paura del comunismo fosse stata immotivata, data la debolezza del movimento in Italia. Tale paura ha contribuito però a diffondere una richiesta di ordine cui il fascismo rispose, abbandonando l’originario programma ‘ultrademocratico’ e acquisendo dal nazionalismo la prospettiva politica. Se la libertà e l’autorità sono connessi, il fascismo ha interpretato in modo unilaterale l’elemento dell’autorità.

Quello che manca, in queste righe, è una tematizzazione del ruolo avuto da lui e dagli altri liberali, che avevano allora visto il fascismo come possibile componente autoritaria di un sistema liberale teso al suo riconsolidamento contro l’autonomia sociale e politica del proletariato, minacciosa per i ceti proprietari.

In un lungo resoconto del settembre 1944, Relazioni o non relazioni col Mussolini (poi in Nuove pagine sparse, 1° vol., 1948, pp. 60-72), Croce nega di aver simpatizzato con il duce al tempo del già citato discorso dell’ottobre 1922 al teatro San Carlo, e scarica la responsabilità della propria fiducia in lui sul credito democratico di cui godeva il re Vittorio Emanuele III e su chi gli aveva parlato di Mussolini come di un «popolano impetuoso e anche violento, ma generoso ed amante della patria» (p. 61), convincendolo, riguardo al delitto Matteotti, che il duce non sapesse nulla di quanto era stato fatto. Ma, soprattutto, ricorda – con semplificazione duramente classistica – di esser rimasto lontano dal capo del fascismo già allora, perché loro due erano «per ambiente sociale e di famiglia e per formazione culturale, di provenienza affatto eterogenea» (p. 63).

Ho sempre pensato che gli uomini si intendono tra loro per similarità della loro educazione e non per le astratte idee. Se il Mussolini e io conversassimo, è quasi certo che egli si dichiarerebbe affatto d’accordo con me in ogni punto: e tuttavia io resterei col sentimento che non ci siamo punto intesi (p. 63).

Le pagine sulle relazioni con Mussolini appaiono, però, particolarmente coinvolgenti quando rievocano il «ricorrente dolore di carattere pubblico» e l’«incubo di distruzione e rovina» con cui il filosofo ha attraversato il deserto del ventennio, perdendo «quel fiducioso risveglio all’alba, quel volger l’occhio al mondo e cercarvi le cose dilette, quel rientrare tra esse con gioia» (p. 71).

Nelle note di Croce in questi anni di liberazione sembra quasi di assistere, in effetti, a una inesplicita palinodia nella sua interpretazione del fascismo. Se negli anni del suo sostegno al regime esso è stato visto come una ‘cura’ da somministrare a un’Italia malata e alla sua classe dirigente liberale per tornare a un regime liberale sano, ora è una ‘malattia’ che invade il corpo sano dell’Italia prebellica. Croce tende sempre più a identificare il fascismo con la malattia europea diffusasi con la guerra, contrapponendogli l’immagine di un Paese, all’inverso, culla dell’humanitas e dell’equilibrio. Consapevole di come gli italiani avessero partecipato alla degenerazione nazista, per es. in Iugoslavia, tende però a separare nettamente questi episodi da una più vasta salute della nostra storia nazionale. In tal modo, mentre il nazismo si configura come una crisi che covava nel seno secolare della storia tedesca, il fascismo era, per l’Italia, una ‘superfetazione’ estranea. Tanto che gli italiani ‘facevano’ i fascisti, mentre per i tedeschi non c’era distacco fra il ruolo pubblico e personalità privata. Per questo, a differenza del fascismo, il nazismo poteva essere un pericolo capace di rimanere attivo ben oltre la fine della guerra, minacciando il capitalismo, la «libera intrapresa» e il «modo democratico di vita» delle classi medie (La Germania prepara la terza guerra mondiale, «Il Giornale», 23 novembre 1943, poi in Scritti e discorsi politici, 2° vol., cit., p. 25).

A questi aspetti si lega la notissima interpretazione secondo cui il fascismo sarebbe stato una ‘parentesi’ nella storia d’Italia. Per molti versi, nel tempo, il significato di questa tesi è stato banalizzato. Nello stesso discorso del 28 gennaio 1944 a Bari, in apertura del I Congresso dei Comitati di liberazione nazionale (poi, con il titolo La libertà italiana nella libertà del mondo, in Scritti e discorsi politici, 1° vol., cit., pp. 54-62), Croce parla di una parentesi anche nella storia europea e mondiale. D’altra parte, l’enfasi sulla ‘salute’ della storia e cultura italiana, invasa dagli ‘Hyksos’, fu anche dettata dall’esigenza di meglio presentare il Paese agli alleati in funzione del futuro trattato di pace.

Un altro eclatante capovolgimento dell’interpretazione crociana rispetto ai primi anni Venti va registrato a proposito dell’esplicita negazione di un’origine ‘ proprietaria’ del fascismo (che invece, come si è visto, egli stesso aveva sostenuto nelle sue prime analisi del fenomeno). Il fascismo e il nazismo, per Croce, erano stati infatti un morbo intellettuale e morale. Tale morbo, tuttavia, era scaturito non solo dalla crisi della fede liberale, ma anche di quella marxista, collocata al di sopra dell’irrazionalismo nazifascista, in quanto «razionale», sebbene materialistica (Chi è fascista?, «Risorgimento liberale», 28 ottobre 1944, poi in Scritti e discorsi politici, 2° vol., cit., p. 51). Ciò peraltro non toglieva, a suo avviso, che fosse necessario enucleare l’affinità fra i regimi totalitari. Nel 1949, infatti – in un articolo in memoria dell’esponente liberale piemontese Vincenzo Galizzi –, Croce ricordava come Mussolini si fosse ispirato all’Unione Sovietica e come la sua politica avesse integrato «due atteggiamenti, il primo di destra e autoritario e il secondo di sinistra e di ultrademocrazia» (Memorie di un non lontano passato: Vincenzo Galizzi, «Quaderni della “Critica”», 1949, 13, p. 116). Il nazionalismo, a suo avviso, aveva fatto breccia anche a causa di un ventennio di egemonia socialista, che aveva lasciati frustrati i sentimenti patriottici dei giovani: ma qui, ovviamente, egli continuava a pensare ai giovani delle classi medie e alte. Gli eventi successivi si sarebbero incaricati di mostrare come fosse problematico conservare lo Stato liberale smantellando lo Stato democratico.

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