Critica della ragion pura (Kritik der reinen Vernunft)

Dizionario di filosofia (2009)

Critica della ragion pura (Kritik der reinen Vernunft)


Critica della ragion pura

(Kritik der reinen Vernunft) Opera (1781; 2a ed., con importanti modifiche, 1787) di I. Kant con la quale si inaugura la serie delle tre «Critiche» (seguono quella della «ragion pratica» e quella del «giudizio»), dove critica è l’«esame della nostra facoltà di conoscere a priori», che renda ragione dei limiti della prospettiva empiristica e di quella razionalistica, ovviando alle critiche scettiche. L’opera è divisa in: (1) Dottrina trascendentale degli elementi, che comprende due parti: Estetica (=sensibilità) e Logica, a sua volta suddivisa in Analitica (=intelletto) e Dialettica (=ragione); (2) Dottrina trascendentale del metodo. Per trascendentale si intende lo studio di tali facoltà non dal punto di vista del «contenuto», ossia del dato di conoscenza, ma della «forma», in quanto possibilità a priori della conoscenza. Nell’Introduzione, Kant individua una forma di giudizio, sintetico a priori, che sussume la possibilità di ampliamento della conoscenza (giudizio sintetico) e l’universalità e la necessità (giudizio analitico) ovviando sia alla dipendenza dall’esperienza (a posteriori) sia alla non estensione della conoscenza (tautologia), sull’esempio dei giudizi matematici del tipo 7+5=12. Spazio e tempo, forme pure a priori della sensibilità mediante le quali vengono organizzati tutti i dati di esperienza, sono individuate, nell’Estetica, come trascendentali; esse non dipendono dall’esperienza, ma la fondano, rovesciando quindi il consueto rapporto fra soggetto e oggetto (è la cosiddetta «rivoluzione copernicana»). I concetti, di cui tratta l’Analitica, sono ricavati formulando «giudizi» a partire dall’intuizione sensibile, elaborata mediante le «categorie», funzioni logiche che rendono possibile unificare la molteplicità delle intuizioni sensibili secondo quantità, qualità, relazione e modalità; gli atti unificatori dell’intelletto rinviano all’«unità sintetica dell’appercezione o Io penso». Ciò che permette di applicare legittimamente concetti «puri» (a priori) a «fenomeni» (➔) è la «deduzione trascendentale» resa possibile dal tempo, omogeneo a entrambi, che determina gli «schemi trascendentali» mediante i quali opera l’«immaginazione produttiva», intermedia fra intelletto e sensibilità. L’intelletto conosce gli oggetti in quanto «fenomeni», non i «noumeni», ossia le «cose in sé», intuizioni del puro intelletto, cui non possono applicarsi le categorie. La metafisica, non potendo cogliere mediante l’esperienza i suoi oggetti (Dio, anima, mondo), non può emettere giudizi, dunque non è scienza, né in senso positivo né in senso negativo. Nella Dialettica, Kant esamina la ragione, intesa come «facoltà delle idee»; queste sono concetti puri, come le categorie, ma non potendo essere applicate all’esperienza hanno soltanto una funzione «regolativa»; rinviano a noumeni, non a fenomeni. Esse tendono a ricondurre all’«unità incondizionata» la conoscenza riguardo al soggetto pensante (idea di anima), riguardo alla serie delle condizioni del fenomeno (mondo), riguardo alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero (Dio). La dialettica della ragione consiste nel suo oscillare, senza mai risolversi, fra due polarità. I ragionamenti intorno all’anima producono infatti paralogismi, quelli intorno alla cosmologia antinomie, mentre le pretese prove dell’esistenza di Dio cosmologica e fisico-teologica si riconducono all’argomento di Anselmo, da Kant definito «ontologico», che impropriamente predica l’esistenza (giudizio sintetico) a partire dal concetto (giudizio analitico) e non dall’esperienza.

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