MONTI, Costanza

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTI, Costanza

Giuseppe Izzi

MONTI, Costanza. – Nacque a Roma il 7 giugno 1792 da Vincenzo e da Teresa Pikler, ricevendo il nome della madrina di battesimo, Costanza Falconieri Braschi, moglie del nipote di papa Pio VI, don Luigi Braschi, di cui Vincenzo era segretario.

La sua vita fino al matrimonio trascorse tra collegi e famiglia, a partire dal 1797, quando, fuggito il padre da Roma, lo raggiunse con la madre a Bologna, dove restò in collegio fino al 1798, seguendo poi i genitori a Milano. Di qui, nel 1799, prima dell’esilio in Francia del padre, fu mandata presso i suoi parenti a Maiano, vicino a Fusignano, dove venne accolta con ricambiato affetto dagli zii e dai cugini. Nel 1801 Vincenzo, fatto ritorno in Italia, la iscrisse al collegio delle Orsoline di Ferrara, presso il complesso di S. Maria dei Servi, dove Costanza risiedette, con frequenti soggiorni in famiglia, negli anni 1801- 1805. Sul finire del 1805, quando i genitori mossero in viaggio per la Germania, si trasferì nel conservatorio di M.me de Bayan, sorella del cardinale Alphonse-Hubert de Latier de Bayan. In seguito, probabilmente fra il 1807 e il principio del 1811, fu di nuovo a Ferrara, presso il monastero di S. Antonio, nel reclusorio diretto dalla signora Maria Chiara Raspi.

L’educazione della figlia, cui le scuole assicurarono formazione religiosa, pratica di lavori femminili e una buona cultura generale, fu seguita attentamente dal Monti e arricchita, nei soggiorni a casa, dagli stimoli di un ambiente culturalmente elevato. Tante cure, insieme con il prestigio del ruolo acquistato dal padre, imponevano un degno matrimonio, per cui quando nel 1810, sfumati altri disegni, Vincenzo progettò di dare in sposa la figlia all’esule greco Andrea Mustoxidi, povero e socialmente inadeguato, la moglie si oppose con fermezza, vincendo la ribellione della figlia innamorata. Nel 1811, superandone le iniziali resistenze, Costanza fu promessa in sposa al conte Giulio Perticari di Pesaro, nonostante questi intrattenesse una relazione con la popolana Teresa Ranzi, da cui aveva avuto un figlio, Andrea, e avanzasse esose richieste dotali: il contratto nuziale prevedeva, infatti, una dote di 6000 scudi, l’interesse del 5% su altri 8000 scudi, oltre a 200 scudi annui e al dono dei beni futuri con riserva di usufrutto per la moglie.

Le nozze ebbero luogo il 7 giugno 1812 nella cappella della famiglia Monti a Maiano e ricevettero l’omaggio della raccolta Inni a gli dei consenti, coordinata da Bartolomeo Borghesi e offerta in stampa da Giambattista Bodoni (Parma 1812).

Uscita dalla tutela dei genitori per atto di obbedienza a un matrimonio non voluto e proiettata in una dimensione sociale per lei nuova, Costanza fu accolta dalla diffidenza dei fratelli di Giulio, Gordiano e Giuseppe, ma confortata dall’affetto della suocera Anna Cassi Perticari e della cognata Violante Perticari Giacchi. Il marito e il cugino di lui, Francesco Cassi, presto la introdussero nella rinnovata vita culturale di Pesaro, in cui spiccò per bellezza, vivacità e cultura. Alle serate di musica, balli, sciarade e letture, si alternavano, con lei nella veste di regista, le rappresentazioni teatrali a Pesaro, Savignano, San Costanzo, nelle proprietà dei Perticari e dei Cassi, e a Caprile, nella villa del marchese Benedetto Mosca.

Su questa vita in apparenza serena gettarono ombra, più che i primi dissapori coniugali, tanto la morte, dopo soli 18 giorni, dell’unico figlio Andrea, dato alla luce con grave pericolo di vita il 22 febbraio 1814, quanto gli eventi politici: il ritorno dei pontifici, nel 1814, e il fallimento del tentativo di Gioacchino Murat nel 1815, spinsero infatti a comportamenti prudenti i coniugi Perticari, che avevano ospitato Pio VII, ma poi anche lo stesso Murat, accompagnato da Guglielmo Pepe, testimone entusiasta del dantismo politico della coppia e tramite delle sue simpatie carbonare.

Continuarono tuttavia i momenti mondani, con il passaggio per Pesaro, nel 1816, di Tommaso Sgricci, che turbò sentimentalmente Costanza, e, nel 1817, di Stendhal (cfr. Rome, Naples, Florence, 2 giugno 1817: «Charmante société de M.me la comtesse Perticari. C’est la fille du célèbre Monti; elle sait le latin mieux que moi»); mentre, sempre nel 1817, Carolina di Brunswick, principessa di Galles, prese dimora prima a villa Caprile, poi a villa Leonori, ribattezzata villa Vittoria, coinvolgendola, per qualche tempo, nelle sue feste. Il marito, inoltre, si impegnò anche nella riedificazione del Teatro del Sole a Pesaro (1816-1818: Teatro Nuovo, poi Teatro Rossini), nel cui sipario, realizzato a Milano da Angelo Monticelli, si vogliono raffigurati, intorno al fonte di Ippocrene, Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Paolo Costa e Giulio Perticari, insieme con Costanza che suona la cetra. L’inaugurazione del teatro ebbe luogo con la Gazza ladra di Rossini il 10 giugno 1818, presente lo stesso musicista, ospite dei Perticari.

Negli anni si intensificarono anche i rapporti dei coniugi con i letterati della cosiddetta scuola classica romagnola, con molti dei quali Costanza strinse relazioni personali; fra queste spicca l’amicizia con Giovanni Antonio Roverella e la sua famiglia, che la accolsero sempre con affetto e stima nella loro Cesena. Crebbe anche la collaborazione fra Perticari e il suocero, con visite reciproche, dalle quali Giulio trasse stimolo per lavorare al Dittamondo, ai saggi che confluirono nella Proposta montiana, all’edizione del Convivio, e infine al progetto di un commento comune al poema dantesco.

Tutti lavori cui Costanza collaborò assiduamente, acquisendo una competenza critica e filologica che le venne generalmente riconosciuta, pur non volendo mai comparire in pubblico come autrice: a tale attività sacrificò le indubbie capacità tecniche nel verseggiare, evidenti nel poemetto in ottave L’origine della rosa (1817; vedi, da ultimo, C. Monti Perticari, L’origine della rosa: con altri versi inediti e rari, a cura di F. Rossetti, Manziana 2010) e nelle non molte poesie pervenuteci, e le potenzialità di una prosa non banale che mostrano le sue lettere.

La dimensione della vita pesarese, pur arricchita dagli studi e da intense amicizie come quelle con don Eduardo Bignardi, maestro di Perticari e Borghesi, e Antaldo Antaldi, cozzava ormai sempre più con la forte considerazione di se stessa maturata sul piano umano e professionale. Insoddisfatta, pertanto, della sua condizione e irritata per le critiche che i suoi comportamenti liberi suscitavano, riluttante ad andare a Milano a causa dei rapporti infelici con la madre, Costanza, attenta agli interessi culturali del marito, lo convinse a trasferirsi per qualche tempo a Roma, dove i coniugi giunsero nel novembre 1818. Fatta socia dell’Accademia Tiberina, di cui Giulio era stato eletto presidente, e dell’Arcadia (5 maggio 1819, col nome di Elisa Tessalica), Costanza lasciò un segno profondo nei letterati amici del marito e cofondatori del Giornale arcadico (1819), Pietro Odescalchi, Salvatore Betti, Giuseppe Tambroni, e in artisti come Antonio Canova e Filippo Agricola, come documentano i successivi scambi epistolari.

Agricola, nel 1820, oltre a chiederle di posare per dipingere il viso della Beatrice dantesca (poi in Dante e Beatrice, 1822), eseguì, ultimandolo nel 1821, quello che viene considerato il più celebrato fra i suoi ritratti, ove Costanza è raffigurata in posa e abbigliamento cinquecenteschi, con i libri di Virgilio (e forse di Orazio) sotto il braccio destro e un codice aperto sull’invettiva del canto VI del Purgatorio. Il quadro fu esaltato nei versi del padre Vincenzo col sonetto «Più la contemplo, più vaneggio…».

Ciò malgrado Costanza, come attesta la corrispondenza con Antaldi, contrariata anche per non aver avuto accesso, in quanto donna, alla Biblioteca apostolica Vaticana, presso cui avrebbe voluto consultare il codice dantesco di Boccaccio scoperto da Borghesi, fu delusa dalla società romana nel suo complesso. Inoltre, il soggiorno fu amareggiato dalle liti con il marito in seguito ai ritardati pagamenti degli interessi dotali da parte del cugino Giuseppe che aveva preso in affitto anche le terre di Vincenzo e Costanza, nonché dalla casuale scoperta della relazione fra Teresa Ranzi e Giulio, e dalle prime avvisaglie della malattia di questo.

Ritornati nel 1820 a Pesaro dove il marito, sospetto di carboneria, era stato rimandato come giudice del tribunale di prima istanza, Costanza continuò la collaborazione avviata a Roma per una delle edizioni De Romanis del commento di Baldassarre Lombardi alla Commedia (Roma 1820-22), apprestando le varianti contenute in un codice urbinate di proprietà di Antaldi.

Nel frattempo i rapporti con il marito furono maggiormente compromessi dal progredire in lui di una malattia che, più o meno consapevolmente sottovalutata da medici e parenti, produceva anche crisi depressive, aggravate dal timore di essere in sospetto sia del governo sia dei carbonari.

Parziale sollievo recò la presenza di Vincenzo, a Pesaro nel settembre 1820 e nell’inverno 1821-1822, dopo un viaggio con Giulio nel Veneto. Ma, partito il padre, Costanza si recò a Savignano, mentre Giulio andò presso Cassi a San Costanzo, dove lei lo raggiunse solo ai primi di giugno, rendendosi conto tardivamente delle gravi condizioni in cui versava. Alla morte di Perticari (26 giugno 1822), Cassi si impadronì dei suoi manoscritti, restituendone solo parte al fratello di Giulio, Gordiano, che non solo rifiutò di rimetterli nelle mani di Vincenzo, ma si appropriò anche di manoscritti e libri di Costanza imponendo un accordo predatorio sulla restituzione della dote.

La dote sarebbe stata restituita in 5 anni, a partire dal luglio 1825: Vincenzo avrebbe dovuto farsi carico della figlia, che rinunciò all’anno vedovile e a mobilio e stoffe in cambio dell’impegno di Gordiano a mantenere il figlio di Giulio. Inoltre, in risposta a un necrologio apparso nel Corriere delle Dame il 13 luglio 1822, in cui si ricordava Costanza come collaboratrice e compagna di Perticari, partì – per opera di Cassi e Cristoforo Ferri, forse innamorati respinti – una campagna denigratoria in cui la si metteva in cattiva luce, presentandola come traditrice e avvelenatrice del coniuge, diffondendo le accuse con un libello manoscritto in 258 copie. L’altro fratello di Giulio, Giuseppe, estese le accuse contro il padre, ispiratore della trama omicida per gelosia letteraria nella tragedia Cesare Sabiniano (edita dopo la morte di Costanza). In difesa della denigrata Costanza intervenne Giacomo Tommasini che, da lei chiamato a un estremo consulto, pubblicò nel 1823 la Storia della malattia per la quale morì il conte G. Perticari, attestando che la causa della morte era dovuta a un’infiammazione di fegato degenerata in cancro. A sua volta Costanza testimoniò dei suoi comportamenti e di quelli dei suoi accusatori in una serie di lettere (indirizzate soprattutto agli ambienti pesarese e romano: in particolare ad Antaldi e Betti), in cui sottolineava la sua condizione di vittima e la fedeltà al marito, pur senza entrare in particolari che, a suo dire, ne avrebbero danneggiato la memoria.

Pur di riavere i manoscritti di Giulio, che il fratello Gordiano avrebbe voluto vendere, padre e figlia si impegnarono affinché questi potesse usufruire degli eventuali proventi di pubblicazione. Allo stesso fine Costanza acconsentì, sia pur con dolore, alla ripresa dei rapporti del padre con Cassi: ma il Saggio di Monti sul Convivio (Milano 1823), l’edizione del Dittamondo (ibid. 1826) e quella del Convivio (ibid. 1826; Padova 1827) fugarono ogni speranza e aspettativa. Costanza considerò sminuiti ingiustamente i meriti del marito rispetto a quelli del padre, con cui giunse a un violento contrasto. A parziale risarcimento valse il contributo dantesco che poté offrire, utilizzando anche gli appunti del marito, al commento dell’edizione Bettoni della Commedia (Milano 1825), dedicata a G. Perticari.

Le vicende seguite alla scomparsa del marito e le reticenze della protagonista avevano intanto consegnato la vita di Costanza alla denigrazione o all’apologia e, nel medesimo tempo, alimentato la sua bellezza di un fascino ambiguo che dette adito a voci e pettegolezzi sulle sue relazioni: da Felice Bellotti a Carlo Cattaneo ad Antonio Papadopoli a Paride Zajotti a Ferdinando Màlvica a Giovanni Battista Niccolini.

Ancora desiderosa di contatti intellettuali e tuttavia tentata di rinchiudersi in convento o di ritirarsi in campagna, Costanza continuò a opporre a tali voci l’immagine di vedova preoccupata solo della memoria e della gloria del marito e gli oggettivi problemi di salute ed economici. A dispetto dell’impegno assunto dal padre dovette, infatti, far fronte al proprio mantenimento sin dal principio del soggiorno a Milano nelle due stanzette sopra l’alloggio dei genitori e quindi nei successivi alloggi in via dei Chiovi e in via Borgo Spesso, ricorrendo anche a un prestito senza interessi del banchiere Laudadio della Ripa.

Nel 1823 Vincenzo, con scrittura testamentaria, assegnò alla figlia l’amministrazione delle terre conferitele in dote e nella primavera del 1824 la inviò in Romagna a seguire gli ormai compromessi affari di famiglia. Fatto ritorno a Milano nel novembre del 1825, Costanza fece da segretaria al padre, menomato nella vista e colpito il 9 aprile 1826 da emiplegia al lato sinistro. Il diffondersi, però, di nuove voci circa una supposta relazione con Zajotti, divenuto prezioso collaboratore del padre, portò al suo allontanamento in Romagna e al divieto paterno di rientrare a Milano, comunicatole dalla madre e non piegato dalle sue lettere al confessore del padre, don Ambrogio Ambrosoli.

Costanza ritornò solo alla fine di maggio del 1828 per poter stare vicino al padre, le cui condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate, e per assicurarsi che la sua morte, avvenuta il 13 ottobre 1828, fosse accompagnata dai conforti religiosi. Dal padre ricevette soltanto il ritratto fattogli da Andrea Appiani, e guardò con preoccupata rassegnazione ai tentativi della madre di lucrare dai manoscritti del marito, come nel caso della fallita edizione della Feroniade. Malgrado i loro difficili rapporti, la madre finì per affidarle la gestione anche delle sue terre, cosa di cui si occupò nei lunghi soggiorni in Romagna, tra l’inverno 1829 e il settembre 1830, quando tornò a Milano per dedicarsi all’edizione Lampato delle Opere inedite e rare del padre (Milano 1832-34).

Subentrata alla madre nei rapporti con l’editore e coadiuvata da Zajotti, Costanza inviò in tipografia testi esemplati su copie di sua mano o di copisti da lei controllati, intervenendo su elementi di stile e censurando quanto, a suo avviso, sarebbe potuto risultare compromettente sul piano politico o religioso. Con questo discusso intervento sulle opere del padre, per il quale realizzò quel che non era riuscita a fare per il marito, si chiuse definitivamente la sua attività letteraria.

Dal giugno 1832 Costanza fu di nuovo in Romagna, in particolare a Lugo, da dove tornò a Milano per assistere negli ultimi mesi la madre, che morì il 19 maggio 1834. Sistemati gli affari milanesi, dal 1836 si stabilì a Ferrara, luogo della sua prima educazione, insegnando per un breve periodo italiano e storia alle educande del collegio delle Orsoline. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dalla vana lotta contro un tumore al seno, malamente operato nel 1837 dal dottor Giuseppe Bonomi, con lunghi strascichi di dolori e cure eterogenee.

Assistita dai medici Samuel Medoro e Mosè Leone Finzi cercò sollievo nei bagni di mare a Livorno e in soggiorni a Firenze e Pisa: proprio mentre era a Livorno, tra il 10 luglio e il 27 agosto 1838, avvenne il commovente incontro con il figlio di Giulio, Andrea Ranzi, divenuto medico chirurgo. Alla tranquillità economica, conseguita grazie all’affitto delle sue terre al cugino Giacomo Manzoni, si aggiunse il conforto dell’assidua presenza del giovane Cesare, figlio del cugino Fedele. Il giovane mantenne anche, durante la malattia, i contatti con Zajotti, al quale, dopo la morte della zia, restituì le sue lettere a Costanza, che andarono probabilmente distrutte.

Il progredire del male frattanto divenne inesorabile: Costanza morì a Ferrara il 7 settembre 1840.

Dopo le esequie, celebrate il 9 settembre successivo, la salma fu traslata nella chiesa delle Orsoline, S. Maria Addolorata (prima S. Maria dei Servi), e tumulata dinanzi all’altare della Madre Addolorata. La volontà di lasciare erede di gran parte del suo patrimonio il convento delle Orsoline non poté essere rispettata, essendo morta intestata. Contro l’unica erede Caterina Pikler Gibellini, sorella di Teresa, la famiglia Monti aprì un lungo contenzioso che si concluse con la mediazione di Giacomo Manzoni, cui andarono i ritratti di Agricola e Appiani.

Fonti e Bibl.: Fra le fonti è imprescindibile V. Monti, Epistolario, raccolto, ordinato e annotato da A. Bertoldi, I-VI, Firenze 1828-1831. Per i rapporti con P. Zajotti e sugli ultimi anni di vita di Costanza: V. M. e P. Zajotti. 108 lettere… ed altri documenti inediti, pubblicati ed illustrati da N. Vidacovich, Milano 1928. Più in generale si vedano: M. Romano, C. M. Perticari. Studio su documenti inediti, Rocca San Casciano 1903; M. Borgese, C. Perticari nei tempi di V. Monti, Firenze 1941; F. Garavini, I taccuini di Costanza, in Operosa parva per G. Antonini, a cura di D. De Robertis - F. Gavazzeni, Verona 1996 (l’autrice è pronipote del sacerdote A. Garavini, appassionato agiografo di Costanza, di cui raccolse lettere, fra cui molte inedite, e sulla quale riunì testimonianze, il tutto raccolto in un manoscritto: Ritratto storico della Contessa C. M. Perticari, conservato a Forlì, Biblioteca comunale Aurelio Saffi, Fondo Piancastelli); Id., Diletta Costanza, Venezia 1996; C. Agostinelli, «Per me sola». Biografia intellettuale e scrittura privata di C. M. Perticari, Roma 2006 (cui ricorrere, oltre che per l’estesa e aggiornata bibliografia, anche per le fonti archivistiche e per l’ampia analisi degli inediti Taccuini); S. Cecchi, Le tredici vite di C. M. Perticari, Ancona 2008. Per alcuni aspetti particolari, si vedano ancora: M. Feo, Appendice a Id., La traduzione leopardiana di Petrarca Epyst. II, 14, 1-60, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati 13-16 settembre 1976, Firenze 1978, pp. 596-601; R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Padova 1993, pp. 88-96, 120-131; A. Colombo, À propos de quelques oeuvres de C. M.: les irruptions d’une femme dans les domaines masculins, in Id., Les anciens au miroir de la modernité. Traductions et adaptations littéraires en Italie au début du XIXe siècle, Besançon 2005, pp. 101-136; G. Polizzi, «Io scrivo le mie lettere dove ha regno Mercurio». Antonio Papadopoli: un uomo di lettere nell’Italia del primo Ottocento, in Quaderni veneti, 2008, n. 45, pp. 105-144 (in partic. pp. 113-130).