Coscienza

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Coscienza

Paolo Francesco Pieri

(XI, p. 569)

La c. è oggetto di continua chiarificazione terminologica (tra gli altri, Consciousness in contemporary science, 1988; Jervis 1993). La parola non designa in effetti un fenomeno unitario, giacché con essa sono intese almeno sei diverse nozioni: 1) lo stato di vigilanza, che è proprio di un organismo capace di azione; 2) la proprietà di una specie animale di avere consapevolezza; 3) lo stato di consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie percezioni ed emozioni; 4) la capacità degli esseri umani di avere una vita mentale organizzata; 5) l'insieme organizzato degli stati della mente, che struttura e coordina i pensieri e le azioni; 6) l'attitudine che una persona ha nel giudicare i propri atti e quelli altrui in relazione alle norme morali variamente apprese, accettandole come tali e modificandole in diversa misura. Nel senso 1, indica l'essere attivamente presenti al mondo, che è il contrario dello stato di incoscienza, cosicché lo svenire è detto anche 'perdere c.', e l'avere c. è l'opposto di essere addormentato, anestetizzato o in coma. Nel senso 2, permette di dire che un animale dotato di consapevolezza sia anche 'senziente'. Nel senso 3, è sinonimo di 'coscienza di sé' o 'autocoscienza', ovverosia indica quella presenza a se stessi che si traduce nella possibilità di riflettere su di sé: su ciò che in vario modo si sente, e sulle proprie azioni. In questo significato viene riconosciuto alla c. il carattere riflessivo già assegnatole dalla filosofia, dove si parla, per l'appunto, di 'coscienza riflessiva' e dove c. è diventata sinonimo di 'autoconsapevolezza'. Nel senso 4, fa riferimento al fatto che ogni esperienza individuale sia percepita come dotata di una sua specifica qualità. Nel senso 5, è lo stesso che 'conscio', e in quanto tale è il contrario di 'inconscio'. Nel senso 6, fa infine riferimento al fatto che esiste un sistema di regole morali, il quale costituisce un criterio con cui giudicare le azioni proprie e degli altri, sicché c. diviene espressione della responsabilità di ciascuno di riflettere sul sistema di valori.

Molteplici sono i motivi di tali distinzioni. Per es., si suole distinguere il senso 3 dal 5, perché il primo indica la consapevolezza che gli individui hanno dei propri processi psichici, e pertanto fa riferimento alla 'introspezione' attraverso la quale il soggetto ha la possibilità, in certe circostanze, di accedere ai contenuti della propria mente e di darne un resoconto verbale, mentre il secondo indica la funzione di controllo esercitata dagli individui sui processi psichici stessi, e fa invece riferimento a un dispositivo centrale della mente che svolge la funzione di decidere, pianificare e supervisionare l'attività di altri meccanismi a essa subordinati. Oltre le possibili distinzioni, molte sono le connessioni che sono state tentate, seppure nessuna abbia ricevuto un consenso generale. Per es., alcuni ricercatori, partendo dal presupposto secondo cui esiste una capacità di introspezione come essenziale caratteristica della mente umana, hanno correlato il senso 4 con il 3, ma una tale correlazione non è risultata affatto ovvia a chi ha dubitato che esista veramente qualcosa come l'introspezione. Altri ricercatori, partendo dall'idea che tutti gli stati di c. centrali (organizzatori) consistano nella consapevolezza, hanno proposto di collegare il senso 5 al 3, ma un tale collegamento è apparso spesso problematico.

Si è pertanto osservato come le connessioni tra i differenti significati siano pure possibili, ma finiscano con il produrre una sovrapposizione di tematiche, che è fuorviante sul piano dello scambio dei risultati delle ricerche. Un possibile modo per non cadere in simili sovrapposizioni catastrofiche è consistito nell'intendere la c. come un 'flusso', più o meno continuo, di conoscenza dei propri pensieri e sentimenti. E nell'intendere altresì che un tale flusso - il quale si darebbe simultaneamente al darsi degli stessi pensieri e sentimenti - sia da tenere distinto da un lato dal 'sentire' (sentience) in quanto capacità di avere (e percepire) credenze e desideri, e, dall'altro, dall''autoconsapevolezza personale', in quanto capacità di avere credenze e desideri sulle stesse credenze e sugli stessi desideri (Frankfurt 1971). Correlativamente a ciò, si è pensato a una psicologia che prendesse a oggetto, da un lato, il sentire, e, dall'altro, l'autoconsapevolezza, e cioè la conoscenza di sé e l'autoinganno.

In effetti, la maggior parte delle teorie della c. della prima metà del Novecento aveva tentato di descrivere la funzione e il modo di operare di un meccanismo psicologico che dirige l'attenzione selettiva sulle afferenze ed efferenze sensoriali, quasi analogamente ai significati 3, 4 e 5. A partire da alcune tesi generali sulla natura della mente e della psicologia, è stato però sostenuto, per es. da J.B. Watson (1925) e, in certa misura, da G. Ryle (1949), che un tale 'meccanismo' non esiste. Ma le prospettive di studi della seconda metà del Novecento, fra cui le teorie cognitiviste, hanno sostenuto che un qualcosa di simile esiste veramente, e che di esso, attraverso specifici modelli della mente, devono essere fornite opportune spiegazioni.

I differenti significati della parola c. hanno comunque il vantaggio di introdurre alle diverse articolazioni, tematiche e problematiche in cui si è differenziata la ricerca più recente, e precisamente: 1) alle prospettive e ai modelli della mente che determinano l'oggetto c.; 2) alle attribuzioni dei suoi caratteri fondamentali, fornite da quelle stesse prospettive e da quegli stessi modelli; 3) alle più importanti spiegazioni che della c. sono state date, e ai maggiori dibattiti che intorno a essa si sono svolti, e quindi alle attuali contrapposizioni polemiche e agli ultimi programmi di ricerca.

Le prospettive e i modelli

Il tema della c. è stato oscurato ed esplicitamente espulso dai programmi di ricerca finché è stata dominante la prospettiva del comportamentismo, cioè sino agli anni Sessanta del 20° secolo. Attraverso la diffidenza verso i cosiddetti stati interiori, attraverso la critica al metodo dell'introspezione e i relativi dubbi sollevati sui resoconti 'in prima persona' che derivavano dall'impronta logico-positivistica di una tale prospettiva, l'oggetto della psicologia scientifica non poteva che essere il comportamento degli esseri umani, e ciò in quanto esso risultava l'unica cosa pubblicamente osservabile. In questo senso, la mente era lo stesso che comportamento, o, anche, lo stesso che una serie di disposizioni al comportamento: giacché il fare riferimento alla c. in termini di linguaggio 'interiore' non poteva che essere inteso come un cedere, se non a una metafisica, almeno a quelle forme di superstizione che tendono ad attribuire realtà a ciò che è semmai un modo di dire.

Con l'esaurirsi del paradigma comportamentistico il tema della c. è però tornato, per varie ragioni, di grande interesse per la psicologia scientifica, benché abbia finito con il produrre esiti molto differenti tra loro. Il ritorno della sua centralità si deve innanzitutto al sorgere di nuove prospettive, con altrettanti nuovi modelli o paradigmi, e relativi programmi di ricerca. Due sono i principali approcci che sono seguiti al comportamentismo: quello computazionale, al quale fanno riferimento il cognitivismo e il connessionismo; e quello riduzionistico dell'identità mente-cervello, al quale fanno riferimento le neuroscienze.

I caratteri fondamentali

Le preoccupazioni teoriche intorno ai caratteri fondamentali assegnati alla c. vertono su due grandi problemi, e precisamente: a) il problema della sua natura (relativamente al quale sono state poste varie opzioni); b) il problema del suo funzionamento (in relazione al quale sono stati costruiti differenti modelli). Entrambi i problemi e i rispettivi corollari hanno occupato il pensiero scientifico in tutto il corso del 20° secolo. Complessivamente, è emerso ciò che si suole chiamare 'natura eterogenea del mentale'. Quelli che comunemente designiamo come eventi mentali (credenze, aspettative, speranze, desideri, percezioni, gioie, dolori, ansie, ragionamenti ecc.) hanno infatti dimostrato una natura eterogenea. Raggruppando tali eventi per classi, si è potuta porre una netta differenza tra cognizioni, emozioni e volizioni, e ne è emersa una classificazione articolata in due grandi categorie. Da un lato, sono stati distinti gli 'atteggiamenti proposizionali' della c., cioè quegli atti mentali che hanno un contenuto (come credere, desiderare, sperare) e che sono espressi attraverso enunciati contenenti un che, il quale introduce proprio quel contenuto su cui è espresso un determinato atteggiamento cognitivo. Da un altro lato, sono stati distinti gli 'atteggiamenti relativi alle sensazioni' o gli 'stati qualitativi della mente', cioè quegli atti mentali che hanno un contenuto di tipo fenomenologico e non proposizionale. A quest'ultima categoria appartengono le esperienze mentali a carattere qualitativo: le 'sensazioni grezze', i qualia, cioè le esperienze soggettive (per es., di dolore, solletico, sapore) o di percezione (per es., visiva, olfattiva, uditiva). Da questa duplice categorizzazione del contenuto della c. essenzialmente linguistico-proposizionale o fenomenologico si è giunti inevitabilmente ad assumere, rispetto al mentale, criteri differenti e tendenzialmente alternativi: 1) privilegiare il possesso di un contenuto della c. ('intenzionalità'), e quindi, e più in generale, privilegiare la capacità rappresentativa di costruire modelli interiori del mondo esterno, in grado di guidare l'azione intelligente (v. anche intenzionalità, in questa Appendice); 2) considerare essenziale la c. fenomenologica, e quindi il possesso di stati privati, accessibili soltanto al soggetto (per es., il 'provare qualcosa' a esistere). Sicché, da un lato si è sostenuto che sono stati raggiunti buoni risultati nell'esame del comportamento intenzionale (e questo è vero proprio per quanto si riferisce allo studio dei meccanismi cognitivi e neurologici della c.), mentre dall'altro si è replicato che in tal modo non si è affatto penetrati nel 'santuario' della c. (fenomenologicamente intesa).

Natura della coscienza

Intorno alla natura da attribuire agli aspetti dell'esperienza soggettiva molteplici sono le prospettive che si sono sviluppate. Limitatamente alle ricerche e riflessioni dimostratesi più sensibili al pensiero scientifico, possono essere identificate due prospettive fondamentali, e precisamente: la visione riduzionistica e quella antiriduzionistica. In linea generale, la prima sostiene la tesi della riducibilità della c. a qualcosa d'altro e di più fondamentale con cui la stessa c. è in vario modo in relazione causale; la seconda sostiene invece la tesi della irriducibilità della c., e quindi della sua autonomia.

Secondo la prospettiva riduzionistica la c. è intesa, per l'appunto, come un'entità senza alcun carattere di autonomia e indipendenza, per cui viene ricondotta a qualcosa che invece è ritenuto equivalente a essa e, insieme, più fondamentale di essa. All'interno di questa teoria generale è possibile individuare una successione di differenti proposte che fanno riferimento alla c. in termini fisicalisti o in termini funzionalisti. Pur ammettendo che si possa continuare a parlare genericamente di c., è inteso che se ne potrà coerentemente parlare soltanto: 1) in termini di comportamento - secondo la proposta del comportamentismo che nella sua forma metodologica o psicologica (Watson 1913) adotta alcuni principi della riflessologia russa degli inizi del 20° sec. (Pavlov 1910; Bechterev 1921; Bechterev 1932); 2) in termini di disposizione al comportamento - secondo la proposta del comportamentismo in quella sua forma filosofica (Ryle 1949) innestatasi sui due rami della filosofia analitica della prima metà del 20° sec., cioè, per un verso, sul neopositivismo del Circolo di Vienna (Schlick 1936), e, per un altro verso, sulla filosofia del linguaggio ordinario sviluppata dal pensiero del 'secondo' Wittgenstein (1953). In questo contesto, viene ulteriormente resa sospetta l'esistenza della c., in quanto le attribuzioni mentali non rinvierebbero a stati privati interni, ma a comportamenti e a tendenze o disposizioni a comportarsi, in specifiche occasioni, in certi modi caratteristici. Nonostante la negazione dell'esistenza di una tale figura della c., con l'introduzione della nozione di 'disposizione', che rende specificamente conto solo di taluni stati privati (quelli univocamente accertabili mediante criteri pubblici 'esterni'), questo approccio finisce con il riconoscere l'esistenza di un 'residuo' (sensazioni, immagini mentali ecc.) che risulta intrattabile da parte di tale modalità di analisi (Place 1956); 3) in termini di sistema nervoso centrale - secondo la proposta di quei ricercatori che sostengono l'idea di una 'identità di tipo' tra mente e cervello, per cui "gli stati mentali - come spiega P. M. Churchland - sono stati fisici del cervello". In altri termini, viene sostenuto che ciascun tipo di stato mentale o processo "sia numericamente identico [ovvero: è una e la medesima cosa] con qualche tipo di stato o processo fisico all'interno del cervello o del sistema nervoso centrale" (Churchland 1984, 1988², p. 26). In una tale prospettiva, come è stato chiarito da U.T. Place alla metà degli anni Cinquanta, si viene a dare una interpretazione della c. in termini di comportamenti. Ma il parlare di stati di c. interni e l'ammettere un'identità tra questi ultimi e i processi cerebrali non è da intendersi come autocontraddittorio. E ciò nella misura in cui si riconosce che una tale identità è sempre ottenuta per 'composizione' e non per 'definizione', cioè attraverso asserzioni empiriche che in quanto tali vanno sottoposte, ogni volta, al controllo dell'esperienza (Place 1956, p. 39); 4) in termini di realizzazione fisica multipla - secondo la tesi, più debole di quella della identità dei tipi, della 'identità delle occorrenze', per la quale ogni evento mentale è identico a un evento fisico, ma con l'avvertenza che tale identità non comporta una riduzione stretta, nomologica, dei tipi (proprietà) mentali ai tipi (proprietà) neurocerebrali, una medesima occorrenza mentale potendo identificarsi, in diverse occasioni, con occorrenze neurocerebrali diverse, o, anche, secondo la prospettiva del funzionalismo, con stati fisico-chimici di tipo diverso da quelli neurocerebrali (v. mente: Il problema mente-corpo e la filosofia della mente, App. V).

Secondo la visione antiriduzionistica, i concetti mentali, e quindi la c., sono intesi come entità che possiedono, per principio, un carattere di autonomia e indipendenza; la c. perciò è considerata come irriducibile sia in termini fisicalisti che funzionali. In questo senso una tale visione solleva il problema delle sensazioni grezze o degli stati qualitativi contenuti nella mente, e quindi quel problema della c. fenomenologica che il riduzionismo non avrebbe mai adeguatamente chiarito, e che anzi avrebbe messo troppo frettolosamente da parte. In questa prospettiva, viene in effetti considerato che nella mente esistono due grandi categorie di eventi: la categoria degli atteggiamenti proposizionali (credere che P, dove P sta per qualsivoglia proposizione) e la categoria degli stati qualitativi della mente (per es., avere un dolore). Se è vero, come sostiene per es. J. Fodor (1981), che la prospettiva funzionalista possa rendere conto efficacemente di una 'credenza' in termini fisicalisti o funzionali, non è altrettanto vero che la stessa possa rendere conto di un contenuto intrinsecamente qualitativo qual è l''avere un dolore', in quanto esso è uno stato di coscienza. Sebbene un tale problema sia posto chiaramente, viene però affermato che la costruzione scientifica delle attività cognitive debba effettivamente posporre una simile questione perché la psicologia si dovrà innanzitutto occupare della categoria degli atteggiamenti proposizionali.

Funzionamento della coscienza

A partire dal fatto che sino alla fine della prima metà del Novecento la c. era ritenuta fondamentalmente accessibile attraverso l'introspezione, le prospettive psicologiche che allora criticavano un tale metodo osservativo (prima fra tutte, il comportamentismo) avevano ritenuto che la c. non potesse essere più considerata un oggetto della psicologia sperimentale. Con le nuove conoscenze sulle funzioni cerebrali e con il costituirsi di altre teorie psicologiche che considerano in modo originale i tradizionali resoconti introspettivi (in particolare, il cognitivismo), la c. è invece ritornata come questione fondamentale della psicologia almeno per quanto attiene al suo funzionamento.

Proprio tale questione ha diretto l'indagine scientifica da un lato sulle capacità della mente e sui suoi meccanismi cognitivi, emotivi e affettivi, e dall'altro sui diversi modelli dell'architettura della mente, che la stessa scienza cognitiva di volta in volta propone. Poiché sono stati riconosciuti i seri rischi di interpretazione presentati dal metodo psicologico dell'introspezione, le attuali ricerche di indirizzo cognitivista richiedono che i soggetti impegnati nell'esecuzione di differenti compiti (percezione, memoria, attenzione e soluzione di problemi) descrivano non soltanto i risultati delle loro auto-osservazioni ma anche le strategie che hanno impiegato, le soluzioni che hanno scelto e gli ostacoli cui, via via, sono andati incontro. I resoconti soggettivi, sia dell'introspezione cosciente che dei modi attraverso cui quest'ultima è venuta a darsi e articolarsi, sono tra l'altro confrontati con il livello oggettivo delle prestazioni, e ciò per rilevare le possibili discrepanze tra loro. In queste ricerche, per c. s'intende la consapevolezza e, specificamente, quella consapevolezza che ciascuno ha del funzionamento dei propri processi cognitivi, e quindi delle caratteristiche strutturali di questi ultimi, del loro impiego e della loro maggiore o minore efficacia sul piano pratico. Sicché, in questa accezione, il termine finisce con il diventare sinonimo di 'metacognizione', indicando l'insieme complesso delle rappresentazioni mentali di cui l'individuo dispone circa le potenzialità e i limiti dei propri processi cognitivi.

Al riguardo, è stata osservata una relazione tra il livello di consapevolezza delle proprie capacità cognitive e quello delle proprie prestazioni. Attraverso lo sviluppo di questo tipo di ricerche è stato inoltre distinto un carattere implicito o inconscio e un carattere esplicito o conscio delle operazioni cognitive, sicché la c. ha finito con l'essere intesa come un sistema di controllo delle stesse operazioni cognitive. Nel riconoscimento di oggetti visivi e negli esercizi di attività mnemonica si è infatti rilevato che un oggetto può essere riconosciuto o ricordato mettendo in atto una serie di strategie controllate in modo attivo e cosciente, ma anche in modo del tutto inconsapevole. Nelle operazioni motorie complesse (quale può essere, per es., il suonare uno strumento) è stato inoltre rilevato che a una fase di esecuzione controllata, e quindi esplicita o cosciente, può seguire una fase di esecuzione automatica, e quindi implicita o inconscia. Quest'ultimo concetto di c. corre parallelo a quello di c. come focalizzazione dell'attenzione, in quanto spostamento dell'attenzione verso informazioni del mondo (interno o esterno), che è dovuto alle necessità e finalità fisiologiche e psicologiche dell'individuo.

Nel complesso, sono state distinte e classificate quelle che sono le molteplici operazioni e funzioni cognitive della c., ma permane tuttora aperto un vivace dibattito sul come intendere la c. dal punto di vista strutturale. Le teorie cognitiviste sostengono che la c. sia formata da processi che sono dello stesso tipo dei processi di pensiero non cosciente. Tra le teorie cognitiviste della seconda metà del 20° sec. sono da includere quelle sorte nell'ambito delle neuroscienze, della psicologia cognitivista e dello studio dell'intelligenza artificiale. In questi differenti ambiti, e sulla base dei dibattiti che sono conseguiti, le teorie dell'attenzione, della memoria e della coordinazione possono essere adattate e combinate in modo tale che si possano iniziare a spiegare alcuni fenomeni che altrimenti dovrebbero essere spiegati da una teoria generale della coscienza. In questo senso, K. Pribram (1980) esamina la connessione dei meccanismi neurali omeostatici che regolano l'attenzione come meccanismi feedforward, che possono avere alcune delle caratteristiche dell'attenzione cosciente. D.C. Dennett (1978), a partire dal lavoro di U. Neisser (1967), ipotizza una struttura complessa di processi necessari per la percezione (la memoria e il linguaggio), la quale comprenderebbe molte caratteristiche della coscienza. Nessuna di queste teorie può comunque essere considerata adeguatamente rappresentativa della c. umana. Da questi dibattiti deriva, comunque, un chiarimento e un approfondimento sul significato e sull'applicazione del concetto di c. (Sayre 1969), e quindi sul fatto che la c. sia qualcosa che va spiegato. In questa prospettiva, la c. è concepita come un luogo distinto dalla mente dove le differenti attività della stessa mente sono soggette a un insieme complesso di operazioni ('visione', 'controllo' e 'correzione'). Ma a questa concezione sono state rivolte differenti critiche nell'ambito della filosofia della mente (Ryle 1949; Dennett 1991).

Il problema della 'sede' della c. e quello della sua correlazione con il cervello sono stati al centro delle ricerche della neurofisiologia e della neuropsicologia. In seguito agli studi sulle funzioni della formazione reticolare nel ciclo veglia-sonno, differenti psicologi hanno proposto di intendere la stessa formazione reticolare come il fondamento fisiologico dello stato di vigilanza necessario al comportamento cosciente, per cui la c. sarebbe lo stesso che il comportamento vigile. In seguito alle ricerche sulla funzione del linguaggio nella verbalizzazione dei processi cognitivi e di quelli motori in atto, alcuni neuropsicologi hanno invece proposto di localizzare la c. nello stesso lobo temporale dell'emisfero sinistro deputato al linguaggio. Altri neuropsicologi, in modo particolare A.R. Lurija (1973), hanno tuttavia sostenuto che lo sviluppo del comportamento cosciente sia da localizzare nei lobi frontali, in quanto deputati all'organizzazione, integrazione, pianificazione e controllo di tutti i processi cerebrali.

Dagli anni Sessanta in poi si è manifestato un impulso a questo genere di studi sperimentali attraverso le ricerche che R.W. Sperry ha condotto sulle attività mentali in conseguenza alla sezione dei fasci di connessione tra gli emisferi cerebrali. Nelle osservazioni dei casi di cervello diviso - verificatisi inizialmente per l'occasionale sezione del corpo calloso nei trattamenti dell'epilessia - si è infatti rilevato che il paziente si veniva a ritrovare con due menti o con due sé, e ciò proprio a causa del fatto che i due emisferi cerebrali restavano separati sul piano funzionale e che le specifiche operazioni compiute da ciascuno degli emisferi non erano mai conosciute dall'altro. A tali ricerche sperimentali, che insieme alle discussioni tra filosofi e psicologi hanno posto in questione l'idea di una unità della c., si sono affiancate più di recente quelle teorie psicologiche che fanno nuovamente riferimento a fenomeni definiti come 'personalità multipla'. A parte i casi patologici di tale natura - già descritti all'inizio del Novecento dalla letteratura psichiatrica come disturbi dissociativi della c. (Bleuler 1911) - c'è infatti da ricordare che una vera e propria teoria della multidimensionalità della c., a partire dalla quale l'unità della mente non è che il frutto dell'integrazione di differenti strutture, era stata formulata nell'ambito della psicologia del profondo (Jung 1910). R.W. Sperry (1969) ha comunque sottolineato che la c. è da intendere come una proprietà superiore del cervello che si realizza attraverso l'integrazione delle funzioni delle differenti aree, per cui essa non è localizzabile in nessuna di queste ultime. A tale proposito, un atteggiamento radicale è stato assunto da J.C. Eccles (1989), il quale ammette che la c., non essendo riconducibile ad alcun substrato neurofisiologico, sia da considerare una nozione superflua nell'ambito delle neuroscienze. Recenti ricerche in questo settore tendono tuttavia a riproporre con maggiore forza il fatto che le operazioni coscienti (se non proprio la c.) possano essere localizzate in specifiche aree cerebrali: per es., alcuni pazienti con lesioni in determinate aree evidenzierebbero deficit nelle operazioni di memoria sia consce che inconsce. A questo riguardo, la psicologia e le neuroscienze, che ormai utilizzano nell'ambito dei processi cognitivi l'espressione 'inconscio cognitivo' (e ciò a partire dalla modellizzazione vigente nell'ambito della psicodinamica, ma certamente non seguendola), ampliano il concetto di c.: quest'ultima è ormai fondamentalmente intesa come un sistema complesso di operazioni sia consce che inconsce. In effetti, la scoperta della scienza della mente, secondo cui una gran parte dei comportamenti intenzionali dei sistemi cognitivi non è cosciente e quindi è affidata a sottosistemi inconsci, sembra condurre alla paradossale conclusione che la scienza della mente potrebbe negare la nozione di c. come qualità del mentale. D'altra parte esistono teorie che deflazionano la c., secondo le quali la cognizione potrebbe essere compresa come un fenomeno emergente a partire dall'attività di agenti subpersonali o di reti di elementi di vario tipo che, operando in parallelo, si auto-organizzano. In questo senso l''io' sarebbe o nient'altro che il nome della "società della mente" (Minsky 1986), o una vera e propria 'illusione', e cioè "una astrazione definita dalle miriadi di attribuzioni [...] che hanno composto la biografia del corpo vivente di cui è il Centro di Gravità Narrativa" (Dennett 1991; trad. it. 1993, p. 474).

Le spiegazioni della coscienza e i dibattiti sulla coscienza

Per gli sviluppi delle ricerche tanto nel campo dell'intelligenza artificiale quanto in quello della neurofisiologia, si è avuto, negli ultimi anni del 20° sec., un vero e proprio rifiorire di studi sia sul piano della pratica scientifica sia su quello della teoria della scienza: nel primo, sono attualmente in corso molteplici indagini empiriche determinate dalle nuove metodologie; nel secondo, sono invece in corso intense e approfondite indagini e discussioni di taglio filosofico. Nell'ambito delle varie discipline, ciò ha dato luogo a molteplici posizioni, che si intendono mantenere all'interno di una possibile spiegazione della c., ma che vogliono altresì riflettere sul nesso che quest'ultima intrattiene con il 'naturalismo'. E ciò perché si ritiene che si possa dare spiegazione della c. non soltanto attraverso la strategia della sua 'naturalizzazione', e perché si ritiene inoltre che la stessa naturalizzazione abbia caratteri ambigui che, in quanto tali, necessitano di un approfondimento epistemologico.

In quest'ambito, tre sono i fondamentali paradigmi che, in vario modo, sono emersi tra i diversi ricercatori e studiosi, e le loro reciproche contestazioni: 1) il naturalismo, secondo cui della c. si può (o si potrà) parlare nella misura in cui essa si lascia (o si lascerà) 'naturalizzare'; 2) l'eliminativismo, secondo cui la c. è un'ipotesi intorno a ciò che, insieme all'intenzionalità, è considerato come la più specifica qualità della mente ma che, nel suo avere un carattere fondamentalmente privato, è da considerare inverificabile, e quindi (rispetto alla prospettiva verificazionista) inesistente; 3) l'antiriduzionismo, secondo cui le scienze cognitive e le neuroscienze (presenti e future) non sono in grado di analizzare la componente qualitativa della c., perché la c. è propriamente il punto di vista attraverso cui appare la realtà. Nel panorama contemporaneo la prima posizione è maggioritaria, mentre l'ultima è minoritaria.

Paradigma naturalistico

Attraverso tale paradigma viene in generale postulata l'esistenza degli stati qualitativi della mente. Ciò che semmai è in questione riguarda la modalità con cui il riduzionismo naturalistico possa essere assunto. I vari programmi di esplorazione del mentale sono pertanto distinguibili a seconda delle forme tipiche con cui tali modalità vengono sostenute. Nella forma più 'dura', la spiegazione della c., così come tutte le altre spiegazioni del mentale, può esistere soltanto in sintonia con quella che è l'attuale visione del mondo della fisica, della chimica e della biologia. Nella forma più 'morbida', la soluzione intorno alla spiegazione della c. deve attendere il futuro sviluppo delle scienze suddette. Nella forma più, genericamente, autolimitativa, al rapporto coscienza-cervello viene assegnato un carattere 'non miracoloso', per cui tale rapporto va ricercato in un mediatore che abbia una qualche proprietà naturale. In tutte e tre le forme non è, ovviamente, mai discussa una vera limitazione dello stesso approccio naturalistico, il quale, peraltro, ha programmi di ricerca che dimostrano buone potenzialità di raggiungere un qualche risultato.

All'interno di questa prospettiva, che comunque afferma l'esistenza della c., si possono distinguere due precise prese di posizione a seconda che esse, pur postulandoli, non rendano o rendano conto degli stati qualitativi della mente.

Non rendono conto degli stati qualitativi della c. le teorie riduzionistiche, perché esse considerano che il problema dei qualia, dal punto di vista scientifico, sia un 'mistero'. In particolare, G. Edelman conclude con grande chiarezza che gli stati qualitativi rappresentano soltanto un presunto problema della scienza; quest'ultima, pertanto, non può che giungere a relegarli nell'ambito dei misteri, sebbene ciò non implichi affatto che la biologia del cervello esaurisca tutta la realtà: "La scienza - egli scrive - anche se riuscisse a reintegrare la mente nella natura, non sarebbe mai in grado di descrivere in modo adeguato l'esperienza storica o individuale"; e la stessa vita cosciente descritta da una scienza futura sarà sempre meno ricca di quella effettiva (Edelman 1992; trad. it. 1993, p. 252). Nella sua teoria neurobiologica c'è in effetti l'idea dell'esistenza di due livelli o tipi di c. (in cui l'elemento comune è la memoria): una coscienza primaria, ovvero la consapevolezza degli eventi che, nel loro essere significativi rispetto all'esperienza precedente, agiscono - in modo non mediato - sul cervello; una coscienza di ordine superiore, ovvero la consapevolezza di essere coscienti che è mediata dal linguaggio, e cioè dalla categorizzazione dei processi della stessa c. primaria. Ma rispetto a questo secondo livello della c. che viene pure ammesso e che, tra l'altro, viene inteso come ciò che dà origine al significato profondo del sé individuale (talché a un suo non funzionamento sarebbero imputabili i casi di 'dissociazione' della c.), è espressamente dichiarato che, relativamente al discorso scientifico, esso appartiene al campo delle 'fantasie', alla stessa stregua del sogno cartesiano del sé incorporeo cui finirebbero per cedere le descrizioni funzionaliste del pensiero come calcolo simbolico. Nell'ambito della biologia non mancano comunque programmi di ricerca che affrontano il problema della c. partendo dall'idea che di quest'ultima si può studiare semplicemente un singolo aspetto. Per es., si ritiene che il problema della c. possa essere finalmente affrontato da un punto di vista sperimentale attraverso lo studio del sistema visivo, da condursi in una stretta collaborazione tra neurobiologi, psicologi e filosofi (Crick, Koch 1992).

Rendono invece conto degli stati qualitativi della c. quelle teorie che fanno riferimento alla tesi del funzionalismo, e quelle teorie che in vario modo fanno riferimento all'identità tra mente e cervello. I rappresentanti delle teorie funzionaliste sono concordi nell'affermare che quel nostro 'io' fenomenologicamente evidente corrisponde non tanto a qualcosa di reale quanto piuttosto a una 'astrazione'. I rappresentanti della teoria dell'identità mostrano invece differenti posizioni. C'è chi - combinando le teorie neurobiologiche di Edelman con l'interpretazione materialistica di P. Churchland (1989), per cui la teoria dell'identità sarebbe vera solo in parte per il fatto della plasticità del cervello e quindi per il mutamento continuo delle mappe neuronali (Flanagan 1984, 1991²) - ipotizza che gli stati qualitativi sensoriali siano gli effetti di configurazioni relative alla trasmissione dell'attività neuronale, e che le stesse configurazioni (che riguardano la vista, l'olfatto ecc.) producano correlative modalità di trasmissione dell'impulso nervoso (Flanagan 1992). C'è invece chi - partendo da un fisicalismo minimale che torce la tesi dell'identità nel senso di una 'identità dell'occorrenza' - ipotizza che gli stati qualitativi siano costitutivamente "sopravvenienti" sugli stati fisici, vale a dire che si possa parlare del carattere causale degli stati mentali non soltanto se accompagnano i correlativi stati psichici ma anche se li costituiscono (alla maniera in cui la massa di un corpo sopravviene dalle proprietà dei suoi componenti costitutivi; Seager 1991). C'è infine chi - indebolendo ulteriormente il fisicalismo - torce la tesi dell'identità sino ad affermare che gli stati qualitativi non sono che correlativamente sopravvenienti sugli stati fisici, e quindi si pone in un 'epifenomenismo', dove la mente è intesa come ciò che emerge dallo stato fisico, ma che su quest'ultimo non esercita alcuna azione causale (Jackson 1982; Jackendoff 1987; Robinson 1988).

Paradigma eliminativista

Attraverso tale paradigma, che parte da una posizione materialistica, è postulata la non esistenza della coscienza. Esso è soprattutto interessante per la modalità indiretta o diretta con cui tale tesi è sostenuta. In entrambe le modalità si afferma quanto sia fondamentalmente sbagliato sostenere che gli stati mentali esistono. Nella seconda si individua però la necessità di analizzare quali siano i contesti che ci obbligano ad attribuire degli stati mentali.

Nella prima modalità, la non esistenza degli stati qualitativi della mente viene affermata in forma indiretta, ma in modo radicale: attraverso un'opera di costante svuotamento del concetto a scopi scientifici, la c. risulta fondamentalmente delegittimata in quanto 'genere naturale'. Ricostituendo l'idea comportamentistica di un 'materialismo eliminativo', P.S. Churchland (1986) e K. Wilkes (1988) parlano, infatti, dell'eterogeneità, vaghezza e inutilizzabilità dei contesti in cui vengono impiegati il concetto di c. e i sottoconcetti cui esso fa riferimento. All'interno della prospettiva materialistica, Wilkes sostiene come, trattandosi di un termine astratto del linguaggio psicologico di uso quotidiano, la c. non spieghi niente e tenda a confondere più che a chiarire le idee: "la coscienza - ella scrive - è un termine che raggruppa un insieme decisamente eterogeneo di fenomeni psicologici", e "questo ci suggerisce che si tratti di uno di quei termini del linguaggio corrente, che sono di per sé inappropriati a qualsiasi fine scientifico o teorico" (Wilkes 1988, p. 196).

Nella seconda modalità, la tesi della non esistenza degli stati qualitativi della mente è formulata direttamente ma in modo articolato. Dennett, sostenendo non tanto un eliminativismo quanto piuttosto un 'riduzionismo eliminativo', ritiene inesatto il tentativo di analizzare che cosa siano i processi della mente postulati da T. Nagel, e dichiara esplicitamente: "nego che tali proprietà esistano. Ma [...] concedo di tutto cuore che sembra che i 'qualia' esistano" (Dennett 1991; trad. it. 1993, p. 414). Secondo quest'autore va fondamentalmente respinta la convinzione che esista un 'luogo centrale' della mente dove convergono tutte le informazioni dal mondo esterno, perché questa convinzione non è altro che una delle tante spiegazioni ingenue che noi diamo a noi stessi: non esiste, cioè, un unico flusso di c., bensì molti, così come non sussistono tanto degli istanti precisi della vita cosciente di un individuo, quanto piuttosto delle sovrapposizioni e ricostruzioni la cui reale temporalità può non corrispondere a quella che ci 'raccontiamo' nella coscienza. La c. è innanzitutto l'emergere di un racconto vincitore su molti altri che sono (e che restano) in competizione con esso. Ovverosia, la c. è l'emergere di un'interpretazione che si afferma in un complesso e intricato mondo di idee, ipotesi e suggestioni che si agitano, fermentano e interagiscono nel livello subcosciente della nostra mente e del nostro cervello. Pertanto, ciò che chiamiamo c. è ben lontano dall'essere un discorso unilineare, rigoroso e consequenziale; esso è piuttosto un sistema complesso, polivalente e articolato, in cui predominano l'eterogeneità e l'ambivalenza. Soltanto i racconti che mettono d'accordo la maggioranza delle aree del cervello e della mente arrivano alla c., ed è soltanto attraverso questa selezione e scelta che emerge un percorso di sviluppo ben definito (Dennett 1991). Rispetto agli stati qualitativi della c. e alle esperienze che, fenomenologicamente, si danno in prima persona, non vanno pertanto cercate spiegazioni, bensì deve essere posta una negazione del loro essere entità reali. In questo senso e in analogia all'approccio funzionalista che considera l''io' fenomenologico come una astrazione, i qualia e la c. di sé non corrispondono a qualcosa di reale né sono riconducibili a qualcos'altro, ma debbono essere trattati come vere e proprie illusioni della mente. Peraltro sarebbe assolutamente ingiustificata l'analisi di che cosa siano gli stati mentali, mentre sarebbe del tutto giustificata l'analisi delle condizioni in cui attribuiamo stati mentali a noi e agli altri : "Io - egli chiarisce - considero il sé [Self] unitario come qualcosa che si potrebbe chiamare una illusione benigna, non c'è nessun sottosistema neurale, e nessuna collezione di sottosistemi, che possano essere identificati con quel sé o con nient'altro di simile al sé, che noi tendiamo a immaginare di avere. Ma la tattica di trattarci reciprocamente (e di trattare noi stessi!) come se avessimo tutti un sé [...] è un principio organizzativo così prezioso che sembra corrispondere a verità. Da questo punto di vista un sé è molto simile a quello che è un centro di gravità per un fisico o per un ingegnere: non è "reale" (non è un atomo, o una sottoparte di un oggetto fisico), ma il trattare un oggetto come se avesse un centro di gravità è una tattica troppo utile per essere abbandonata. Che tipo di realtà ha un sé? Esattamente lo stesso tipo di realtà che hanno i centri di gravità. Ma che tipo di realtà è questa? [...] Se la comunità dei filosofi può decidere qual è lo status ontologico dei centri di gravità (che non sono per nulla misteriosi), allora io posso osservare che quello status - qualunque decidano che sia - è esattamente lo stesso del Sé" (Dennett, Pieri 1994, pp. 194-95).

Paradigma antiriduzionista

Attraverso tale paradigma si viene infine a sostenere che la c. sia in effetti il punto di vista mediante il quale la realtà si dà all'individuo. Esso risulta soprattutto interessante per la critica che i suoi esponenti rivolgono ai concetti che consentono la naturalizzazione ed eliminazione della c. stessa. In fondo viene sostenuto che in quella descrizione meramente oggettiva del reale - richiesta da una certa interpretazione della moderna scienza postgalileiana - è espulsa l'apparenza soggettiva del reale stesso, cioè viene espulsa quella esperienza soggettiva che Nagel chiamava "il luogo della mia coscienza", ovverosia "il punto di vista dal quale io osservo il mondo e agisco in esso" (Nagel 1986; trad. it. 1988, p. 70). E tale esclusione della c., che talora dà luogo a una sua vera e propria scomparsa nell'ordine naturale del mondo, sarebbe un effetto da imputare non tanto alla sua assoluta fragilità sul piano ontologico (e quindi al suo carattere illusorio), quanto alla sua 'opacità epistemologica' relativa alle stesse interpretazioni, e quindi ai concetti che sono diventati acriticamente dominanti nella pratica naturalistica (Nagel 1991). In questo ambito, dove vige il paradigma dell'irriducibilità della c. in quanto essa è intesa come il luogo in cui il mondo si dà al soggetto, viene persino proposto di rigettare la tesi secondo cui è reale ciò che è accessibile a ogni possibile osservatore e quindi ciò che sussiste soltanto attraverso osservazioni 'in terza persona': e ciò perché quest'ultimo sguardo, che si caratterizza per il fatto che si origina "da nessun luogo", non permette di vedere, da un lato, la distinzione che intercorre tra i fenomeni mentali e quelli non mentali, e dall'altro, "in che condizioni noi attribuiamo stati mentali" (Searle 1992; trad. it. 1994, p. 19).

Gli sviluppi teorici di un tale paradigma, che ha fondamentalmente a che fare con la posizione ancora tutta da assegnare alla mente nell'ordine naturale (Nagel 1991, p. 31), hanno dato luogo a due prese di posizione diverse, e precisamente: l'agnosticismo motivato e il non spiegazionismo. Quest'ultima espressione tenta di chiarire (Di Francesco 1996, p. 173) quel che c'è di fuorviante nella precedente espressione neomisterianismo di Flanagan (1992).

Con la presa di posizione che mette capo alla tesi dell'agnosticismo motivato si sostiene che una spiegazione del rapporto che intercorre tra c. e cervello si potrà anche dare, ma che tale eventualità è strettamente correlata alla possibilità di modificare la nostra visione del mondo, e cioè che la cognizione di cosa sia la c. "non potrà essere generata dall'applicazione dei metodi esplicativi già esistenti in fisica, chimica o biologia" (Nagel 1991, p. 33).

Con la presa di posizione che invece mette capo alla tesi del non spiegazionismo si viene a sostenere che non è (e non sarà) possibile una spiegazione del rapporto coscienza-cervello, e ciò in quanto non è ipotizzabile alcuna modificazione della nostra visione del mondo. In questa tesi, che rappresenta fondamentalmente una sfida posta, sul piano analitico, ai sostenitori della visione naturalistica della mente, sono incluse due sottotesi che permettono di meglio chiarificare la tesi stessa, e precisamente: quella del 'naturalismo non costruttivo'; e quella che risulta come un tentativo di conciliazione tra la 'natura' e il 'mistero' cui mettono capo le differenti posizioni. Con la prima sottotesi viene indicato il carattere non costruttivo (la chiusura o limitazione cognitiva) che il naturalismo assume rispetto a quelle componenti qualitative della c. che, epifenomenicamente, vengono chiamate 'escrescenze'. In particolare, viene constatato che una tale visione da un lato è incompleta (essa non è in grado di rendere conto, fisicalisticamente, attraverso quali modalità si diano tali 'escrescenze') e, dall'altro, non può che essere tale, perché esistono aspetti del mondo che non siamo in grado di conoscere adeguatamente (Jackson 1982). Con la seconda sottotesi viene invece asserito il carattere fondamentale (e quindi né contingente, né teoretico) dell'impossibilità di pervenire a una spiegazione della c. nel suo rapporto con il cervello. Rispetto al mistero in cui talora è collocata la c., occorre dire che esso non è assoluto ma è relativo a noi osservatori e quindi alle nostre forme di sapere, e che tale non conoscibilità della c. è ritenuta dimostrabile, sia per i limiti mostrati dall'introspezione nel pervenire alla c., sia perché il cervello è composto di parti non sovrapponibili a quelle dell'io cosciente (McGinn 1991).

Si è comunque mantenuta viva la discussione sulla c., e ciò è avvenuto attraverso chi ritiene che soltanto così si possa ancora difendere l'autonomia del mentale dall'attacco che quest'ultimo riceve dalla strategia dei riduzionisti. Nell'ambito di tali discussioni si ritrovano i medesimi paradigmi, sia che si consideri la relazione che il concetto di c. intrattiene con le spiegazioni in termini naturalistici (Flanagan 1992), sia che si consideri invece la relazione che l'esperienza soggettiva intrattiene con le spiegazioni in termini fisico-biologici o computazionali (Consciousness, 1993).

Comunque, le differenti posizioni risultano classificate in un arco di oscillazione che va da un non naturalismo a un naturalismo costruttivo, potendosi distinguere schematicamente: a) la tesi del non naturalismo, secondo cui i fenomeni coscienti non hanno un carattere naturale in quanto la loro origine è attribuita o a proprietà non fisiche (Popper, Eccles 1977), o a proprietà soprannaturali (Swinburne 1984); b) la tesi dell'agnosticismo motivato, secondo cui il rapporto della c. con il cervello non può trovare una spiegazione in termini naturalistici (Nagel 1986); c) la tesi del naturalismo anticostruttivo, detta anche neomisterianismo, secondo cui la relazione tra c. e cervello è perfettamente 'naturale', ma oltrepassa la spiegazione 'naturalistica' (McGinn 1991); d) la tesi del naturalismo eliminativo, secondo cui la c. non può che avere una spiegazione nei termini naturalistici delle neuroscienze; e) la tesi del naturalismo costruttivo, secondo cui la c. può avere una spiegazione naturalistica, a patto che se ne possa dare una visione scientifica (Flanagan 1992).

Sulla c. sono attualmente in corso dibattiti e ricerche che, tra l'altro, hanno fatto nascere molte riviste specializzate (come il Journal of consciousness studies). Perché della c. possa costituirsi una vera e propria scienza unitaria si sono svolti a Tucson (Arizona) due congressi internazionali nel 1994 e nel 1996 (Toward a science of consciousness, 1996; Toward a science of consciousness ii, 1998). Al congresso annuale del 1996 (Vitiello 1997) hanno partecipato i rappresentanti dei differenti ambiti disciplinari (medicina, psicologia, fisica, biologia, neuroscienze), ed è stata rivolta una specifica attenzione all'uso di modelli fondati sulle teorie della fisica quantistica. Perché si possano porre delle basi per un discorso scientifico comune sulla c., è stata innanzitutto proposta una distinzione tra questioni facili (easy problems) e questioni difficili (hard problems). Le prime sono quelle composte da domande del tipo: 'come vengono elaborati dal nostro cervello le informazioni e gli stimoli del mondo esterno?'; 'quali sono i processi neuronali che ci permettono di riconoscere le parole e le forme, di calcolare le distanze e quindi di orientarci nello spazio?'; 'in quale modo si traduce in parole ciò che sentiamo e ciò che viviamo attraverso le nostre emozioni?'. Le seconde sono invece espresse da domande di quest'unico tipo: 'qual è la natura dell'esperienza soggettiva del mondo?'; ovverosia, 'in che modo le esperienze e gli stimoli esterni diventano esperienze soggettive (qualia)?'. Mentre sussisterebbe un accordo sulla c. del primo tipo, per cui si è ammesso che i suoi problemi sono affrontabili nei laboratori delle neuroscienze e nelle ricerche delle scienze cognitive, non altrettanto potrebbe dirsi per la c. del secondo tipo. Rispetto a quest'ultima (e cioè rispetto alla c. come soggettività), c'è ancora una volta chi nega la sua esistenza; chi afferma che prima o poi essa sarà spiegata dall'indagine scientifica con la stessa metodologia adoperata per la c. del primo tipo; chi, invece, dispera che possa mai essere spiegata; chi, ancora più radicalmente, nega che possa esistere, perché non è che una manifestazione epifenomenica dell'elaborazione dell'informazione, che in quanto tale è già oggetto delle ricerche in atto nelle scienze cognitive (Dennett 1998); chi, come R. Penrose (cfr. Vitiello 1997, ma anche Trautteur 1995), conta di affrontarla utilizzando la fisica quantistica. Quest'ultima ipotesi è contrastata, emblematicamente, da P.S. Churchland, la quale sostiene che non si debba scomodare la fisica quantistica e che si debba, invece, ricercare una risposta nell'ambito delle neuroscienze, e specificamente in direzione di quel fenomeno cooperativo di milioni di cellule cerebrali da cui emergerebbe come soggettività.

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